Cassazione, Sez. Lav., 30 ottobre 2019, n. 27916 - Incidente stradale mortale e responsabilità aquiliana. Istruttoria penale e civile a confronto



 

 

Presidente Di Cerbo – Relatore Raimondi

 

 

Fatto
 

 


Con sentenza 12 gennaio 2015, la Corte d’appello di Bologna rigettava l’appello proposto da A.R. , in proprio e nella qualità di legale rappresentante del figlio minore A. , avverso la sentenza di primo grado, quale erede del padre A.E. (deceduto in (omissis) in un sinistro stradale occorsogli alla guida di un autoarticolato di proprietà della datrice Autotrasporti A.G. s.n.c. di D. e G.A. ), che pure ne aveva rigettato la domanda risarcitoria.
In esito ad argomentato scrutinio delle risultanze istruttorie (in particolare: perizia e s.i.t. rese da teste oculare nelle indagini preliminari del procedimento penale archiviato; C.t.u. esperita in primo grado), la Corte territoriale, anche negata la ricorrenza dei presupposti per un obbligo di astensione del C.t.u. nominato (professionista con studio in Cesena, ove pure era ubicata la sede della società datrice, il cui legale rappresentante era nipote di un importante imprenditore) in assenza di una situazione di incompatibilità del predetto ad assumere l’incarico, escludeva (come il Tribunale) la responsabilità datoriale.
Con atto notificato il 5 (11) marzo 2015, A.R. , in proprio e nella qualità, ricorreva per cassazione con otto motivi, cui resisteva la società con controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

 

Diritto

 



1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 6 CEDU, in relazione agli artt. 3, 24, 111 Cost., per lesione della garanzia di imparzialità e terzietà del C.t.u. comportante uno svantaggio sostanziale per il ricorrente in termini di perdita di chance in ordine ad un processo iniquo e pertanto irragionevole, dovendosi presumere l’esistenza di gravi ragioni di convenienza, nella scelta di un professionista con studio nella stessa cittadina, di appena 85.000/90.000 abitanti, in favore della società datrice (importante multinazionale con migliaia di dipendenti a Cesena e hinterland): ragioni che avrebbero reso più opportuna la scelta di un consulente con studio altrove.
2. Con il secondo, egli deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 41 Cost. in riferimento all’art. 2087 c.c., per esclusione della responsabilità datoriale, e del relativo obbligo di tutela delle condizioni del lavoro, in ordine al sinistro stradale mortale del dipendente, nonostante il sovraccarico di merce trasportata e la velocità di crociera dell’autoarticolato (secondo gli accertamenti di C.t.u., di poco superiore ai 70 km/h).
3. Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme e principi di diritto, in ordine alla corretta regola di giudizio del nesso di causalità nel giudizio civile, sulla base del principio di "più probabile che non", diversa da quella del giudizio penale, invece ispirata a quello di "oltre ogni ragionevole dubbio", con la conseguente ininfluenza dell’archiviazione del procedimento penale a carico del datore di lavoro sull’accertamento della sua responsabilità nel giudizio civile.
4. Con il quarto, egli deduce nullità della sentenza per la violazione del principio di cd. "vicinanza della prova" quale error in procedendo per aver deciso in difetto di alcuna attività di offerta datoriale di prova a smentire l’esclusiva responsabilità dell’autista, per la condotta di guida imprudente osservata, erroneamente ritenuta dai giudici di merito.
5. Con il quinto, il ricorrente deduce violazione dell’art. 2043 c.c., per esclusione della responsabilità aquiliana datoriale, nonostante la chiara inosservanza del generale principio di neminem laedere sulla base del pieno adempimento da parte del ricorrente al proprio dovere di allegazione ed essendo risultati: una mancata revisione dell’autoarticolato, benché affetto da usura straordinaria (con particolare riferimento ai pneumatici); un carico del mezzo superiore di 20 quintali al limite di legge; l’imposizione di ritmi lavorativi di circa 12/13 ore giornaliere; l’assenza di un secondo autista; ed avendo la Corte territoriale acriticamente recepito le censurate conclusioni del C.t.u.
6. Con il sesto, egli deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 63, 192 c.p.c., 22, 23 disp. att. c.p.c. per adesione, parimenti acritica, della Corte territoriale alle conclusioni del C.t.u., nominato in persona di un ingegnere meccanico anziché cinematico, che avrebbe disposto di più adeguate competenze in materia di sinistro stradale; pure ribadito il suo dovere di astensione per ragionevoli motivi di incompatibilità ambientale e ricusato con istanza sulla quale il Tribunale aveva omesso la pronuncia.
7. Con il settimo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., per erronea ed illogica adesione della Corte d’appello alle conclusioni del C.t.u., senza valorizzazione di elementi di grave responsabilità datoriale quali le rilevanti avarie del mezzo in riferimento agli elementi di stabilità (sterzi, balestre, ammortizzatori) e l’usura dei pneumatici dal lato destro, di cui aveva escluso l’efficienza causale nella determinazione del sinistro (per ribaltamento e non per derapata verso destra), contrariamente dalle risultanze invece con esito positivo di una revisione dell’automezzo del 25 luglio 2000 (precedente di sei mesi il sinistro).
8. Con l’ottavo egli deduce nullità del procedimento, in relazione alle norme denunciate al terzo e quarto motivo.
9. Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione di norme per lesione della garanzia di imparzialità e terzietà del C.t.u., è infondato.
9.1. Non sussistono, infatti, i presupposti per la denunciata violazione, posto che la terzietà del consulente tecnico d’ufficio è analoga a quella costituzionalmente imposta al giudice ed è garantita proprio dall’imparzialità di quest’ultimo che lo nomina, oltre che dall’applicabilità al consulente tecnico d’ufficio, degli istituti dell’astensione e della ricusazione (Cass. 22 luglio 2004, n. 13667), a norma degli artt. 192, 63 e 52 c.p.c.
Nè per essi ricorrono certamente gli spazi di attivazione stabiliti dalle norme richiamate, in assenza pure di gravi ragioni di convenienza: tali evidentemente non essendo quelle prospettate dal ricorrente, per giunta presunte.
10. Tutti gli altri motivi, relativi alla violazione delle norme relative all’applicazione della responsabilità contrattuale datoriale in ordine al sinistro mortale del dipendente sotto i profili illustrati, sono congiuntamente esaminabili per la loro stretta connessione.
10.1. Essi sono in parte inammissibili e in parte infondati.
10.2. In linea di diritto è noto che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro sia responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, pure qualora sia ascrivibile non soltanto ad una sua disattenzione, ma anche ad imperizia, negligenza e imprudenza (Cass. 10 settembre 2009, n. 19494); sicché, egli è totalmente esonerato da ogni responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore assuma caratteri di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, in modo da porsi quale causa esclusiva dell’evento (Cass. 17 febbraio 2009, n. 3786; Cass. 13 gennaio 2017, n. 798).
Qualora invece non ricorrano detti caratteri nel comportamento del lavoratore, l’imprenditore è integralmente responsabile dell’infortunio dipendente dall’inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché la violazione dell’obbligo di sicurezza integra l’unico fattore causale dell’evento: non rilevando in alcun grado il concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l’incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza (Cass. 25 febbraio 2011, n. 4656; Cass. 4 dicembre 2013, n. 27127). E l’obbligo di prevenzione posto dall’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoro in base all’esperienza ed alla tecnica; non potendo peraltro da detta norma desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l’evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati (Cass. 12 luglio 2004, n. 12863; Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742; Cass. 19 ottobre 2018, n. 26495).
10.3. Ma gli enunciati principi di diritto, assolutamente consolidati, presuppongono che il lavoratore, il quale lamenti di avere subito un danno alla salute a causa dell’attività lavorativa svolta, offra la prova, oltre che dell’esistenza di tale danno, della nocività dell’ambiente di lavoro (con tale espressione intesa la mancata adozione delle suddette misure protettive) e del nesso di causalità tra l’una e l’altra: soltanto se il lavoratore abbia fornito una tale prova, sussistendo per il datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (Cass. 4 febbraio 2016, n. 2209; Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742; Cass. 27 febbraio 2019, n. 5749).
10.4. E la prova del nesso di causalità incombe non meno al lavoratore, in riferimento specifico al quinto motivo, qualora si percorra la via, più impegnativa sotto il profilo probatorio, della responsabilità aquiliana, per cui vige il principio posto dagli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché del criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano ad una valutazione ex ante del tutto inverosimili; ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile nell’accertamento del nesso causale: vigendo nel processo penale la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio", mentre in materia civile la regola della preponderanza dell’evidenza o del "più probabile che non" (Cass. s.u. 11 gennaio 2008, n. 576). Nè potendo peraltro lo standard di cd. certezza probabilistica in materia civile essere ancorato esclusivamente alla cd. probabilità quantitativa della frequenza di un evento, che potrebbe anche mancare o essere inconferente, dovendo piuttosto essere verificato, secondo la cd. probabilità logica, nell’ambito degli elementi di conferma e nell’esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto (Cass. 3 gennaio 2017, n. 47; Cass. 27 settembre 2018, n. 23197).
10.5. Ebbene, la Corte territoriale ha escluso una responsabilità datoriale "ai sensi dell’art. 2087 c.c." così come "dell’art. 2043 c.c." (al penultimo capoverso di pg. 15 della sentenza) proprio avendo accertato l’inesistenza di alcuna incidenza causale, nella determinazione del sinistro, del comportamento della società di mancato rispetto di norme protettive nella specifica incombenza affidata al lavoratore purtroppo deceduto. E ciò avendo reputato ininfluenti, in particolare, tanto l’eccessiva usura dei pneumatici dal lato destro del mezzo condotto dal predetto (primo capoverso di pg. 10 della sentenza), tanto il sovraccarico dello stesso automezzo (ai primi due capoversi di pg. 13 della sentenza). Sicché, la Corte felsinea ha individuato, come già il Tribunale, la responsabilità esclusiva del sinistro nella condotta imprudente di guida del lavoratore, a velocità non moderata, calcolata sui 70 km/h prossima a quella di ribaltamento, su strada curvilinea (così al penultimo capoverso di pg. 4 e al penultimo di pg. 9 della sentenza).
A tale conclusione essa è pervenuta in esito ad un attento esame delle risultanze istruttorie, in parte acquisite nel procedimento penale archiviato, in parte direttamente nel giudizio civile, rigorosamente scrutinate, sull’essenziale fondamento della C.t.u. esperita in primo grado: fornendone una più che adeguata argomentazione giustificativa (per le ragioni esposte dal primo capoverso di pg. 8 all’ultimo di pg. 10 e dall’ultimo capoverso di pg. 12 al penultimo di pg. 15 della sentenza); neppure infine essendo state ritenute ammissibili nè rilevanti, per sostanziale genericità, le istanze istruttorie dedotte in primo grado dalla società (all’ultimo capoverso di pg. 15 della sentenza).
10.6. Non ricorre pertanto alcuna violazione, infondatamente denunciata, dell’art. 116 c.p.c. (che è norma che sancisce il principio di libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale), integrante il vizio di nullità stabilito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero valuti, all’opposto, secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892). Qualora invece si deduca che il giudice abbia solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: con la conseguente inammissibilità della doglianza prospettata sotto il profilo della violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 19 giugno 2014, n. 13960).
Sicché, le doglianze oggetto dei motivi congiuntamente scrutinati si risolvono in una contestazione della valutazione probatoria e dell’accertamento in fatto del giudice di merito, con una sottesa sollecitazione alla rivisitazione del merito, indeferibile in sede di legittimità (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197), tanto più in considerazione del ristretto ambito devolutivo individuato dal novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940).
In riferimento ad esso, sostanzialmente denunciato sotto la formale schermatura del vizio, come detto insussistente, di violazione di legge, si porrebbe infine l’ipotesi di cd. "doppia conforme" prevista dall’art. 348ter c.p.c., comma 5 e quindi di inammissibilità, in difetto di indicazione dalla parte ricorrente, per evitarla, delle ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrandone la diversità (Cass. 10 marzo 2014, n. 5528; Cass.22 dicembre 2016, n. 26774).
11. Dalle superiori argomentazioni discende allora il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

 

 

P.Q.M.

 



LA CORTE rigetta il ricorso e condanna A.R. , in proprio e nella qualità, alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.