Cassazione Civile, Sez. Lav., 16 dicembre 2019, n. 33133 - Lavaggio e di manutenzione degli indumenti indossati durante l'attività di lavoro


Presidente: TRIA LUCIA Relatore: DE GREGORIO FEDERICO Data pubblicazione: 16/12/2019

 

 

 

LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore.
Rilevato che con sentenza n. 419 in data 9 novembre 2016 - 4 gennaio 2017, la Corte d'Appello di Cagliari, in accoglimento dell'impugnazione proposta da DE VIZIA TRANSFER S.p.a. e in riforma della sentenza di primo grado (in data 9 luglio 2015, che aveva accolto per quanto di ragione le domande degli attori S.A. e L.E., loro riconoscendo a titolo di risarcimento danni per il lavaggio degli abiti da lavoro la somma di euro 4872,318 in relazione al periodo settembre 2000/agosto 2007) rigettava le domande di cui ai ricorsi introduttivi dei giudizi, poi riuniti, depositati il 5 e 10 dicembre 2008, per i suddetti sigg. S.A. e L.E., operatori ecologici addetti alla raccolta dei rifiuti ed inquadrati rispettivamente nel II e IV livello del c.c.n.I. di settore, volte ad ottenere la condanna di parte datoriale al risarcimento dei danni da inadempimento dell'obbligo di lavaggio e manutenzione dei dispositivi di protezione individuale (D.P.I.), con specifico riferimento all'attività di lavaggio e di manutenzione degli indumenti indossati durante l'attività di lavoro (forniti dalla stessa parte datoriale), il cui onere era stato interamente sostenuto dai medesimi dipendenti, laddove tra l'altro parte attrice aveva rappresentato che soltanto a seguito di disposizione datoriale in data primo ottobre 2006, la società convenuta aveva iniziato ad effettuare il lavaggio e la disinfezione di alcuni capi del suddetto abbigliamento da lavoro, però con insufficiente frequenza settimanale;
la Corte territoriale, richiamata la definizione di D.P.I. dettata dall'art. 40 D.lgs. n. 626 del 1994 ("qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo. 2. Non sono dispositivi di protezione individuale ... gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore... " unitamente alle ulteriori precisazioni dettate dal successivo art. 42 dello stesso decreto n. 626), nonché le previsioni di cui al D. Lgs. n. 475 del 1992, riteneva come per dispositivi di protezione individuale dovessero intendersi soltanto quelli aventi, secondo valutazioni tecnico-scientifiche, la funzionalità tipica di protezione dai rischi per la salute e la sicurezza e che rispondessero ai requisiti normativamente dettati per la relativa realizzazione e commercializzazione; la Corte cagliaritana, quindi, escludeva che i normali indumenti da lavoro forniti dalla società datoriale potessero qualificarsi D.P.I., in quanto non destinati a fornire una adeguata protezione dai rischi di contatto con sostanze nocive o agenti patogeni; come peraltro desumibile dal c.c.n.I. 30 aprile 2003, secondo cui rientravano nei D.P.I. unicamente gli indumenti, tali espressamente ivi qualificati, con relativa manutenzione a carico dell'azienda, finalizzati ad evitare il contatto con sostanze nocive, tossiche e corrosive. Infatti, il documento di valutazione dei rischi (D.V.R.), redatto dalla medesima società, contemplava uno specifico corredo antinfortunistico per le mansioni di raccoglitore (protezione delle mani: guanti contro le aggressioni meccaniche e chimiche; protezione dei piedi: calzature di sicurezza con dotazione di lamina and foro e suola antisdrucciolo; protezione della persona: dispositivi di alta visibilità applicati sugli indumenti; protezione contro gli agenti atmosferici: impermeabile con dispositivi ad alta visibilità), che non includeva altri capi di abbigliamento. Pertanto, non risultava inadeguata la contestata scelta datoriale, anche alla luce del verbale ispettivo dell'A.S.L. n. 8 in data 12 maggio 2006, che aveva ritenuto di difficile quantificazione il livello di pericolosità del servizio di raccolta rifiuti. Il rischio di infezione o di malattia evidenziato dagli ispettori sanitari riguardava, tuttavia soltanto alcune categorie di lavoratori, mentre nel caso di specie i due lavoratori erano adibiti aH'incarico di "aggancini", occupandosi prevalentemente della movimentazione dei cassonetti e della pulizia delle relative piazzole, sicché doveva escludersi che rientrassero nel mansionario degli appellati le attività che secondo il verbale ispettivo potevano comportare un rischio di esposizione ad agenti patogeni; 
avverso la sentenza di appello i suddetti lavoratori proponevano ricorso per cassazione, affidato a otto motivi, cui resisteva DE VIZIA TRANSFER S.p.a. con controricorso;
entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative con riferimento all'adunanza in camera di consiglio fissata per il 3 aprile 2019;
 

 

CONSIDERATO che
con il primo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360 n. 4 c.p.c., è stata denunciata la nullità dell'impugnata sentenza, per violazione degli artt. 132 dello stesso codice di rito e 36 del di. vo n. 546/1992, atteso il difetto di motivazione, risultando l'impugnata pronuncia caratterizzata da motivazione apparente, laddove erano state recepite pedissequamente, senza alcuna autonoma valutazione, le argomentazioni addotte da parte appellante e comunque in difetto di una benché minima esplicitazione delle ragioni della totale adesione alle tesi della società, senza peraltro prendere in considerazione quelle contrapposte degli appellati;
col secondo motivo i ricorrenti hanno censurato la sentenza de qua, per violazione e falsa applicazione del D.L.gs. n. 626 del 1994 e dell'art. 216, T.U. n. 1265 del 1934, per aver escluso che la De Vizia Transfer S.p.a. fosse classificabile come impresa insalubre di prima classe;
col terzo motivo i lavoratori istanti hanno dedotto (ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.), violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 c.c., 40, D. Lgs. n. 626 del 1994, 1 co. 2 D. Lgs. n. 475 del 1992, 379 del D.P.R. n. 547 del 1955 e 43, comma 4, D.lgs. n. 626 del 1994, per avere la sentenza impugnata affermato che gli indumenti forniti ai lavoratori per lo svolgimento della prestazione non avessero alcuna funzione protettiva e quindi non fossero classificabili come D.P.I.;
col quarto motivo di ricorso è stata denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c., 4 e 43 co. 4° dl.vo n. 696/1994 nonché 67 co. II lett. A del c.c.n.I. 30-04-2003. Inoltre, con la medesima censura è stato lamentato l'omesso esame di un punto decisivo della controversia ex art. 360 n. 5 c.p.c., per avere la Corte territoriale erroneamente escluso il rischio alla salute, avuto riguardo ai rilievi della ASL in data 12 maggio 2006 e dell'ISPESL, richiamando altresì l'analisi e lo studio eseguito dalla ASL di Milano (non si precisa se risalente al 2008 ovvero al periodo 1986 / 1990);
col quinto motivo è stata dedotta l'erronea valutazione degli artt. 4, comma 2, e 42 del D.lgs. n. 626 del 1994, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la sentenza impugnata considerato attendibile il piano di valutazione dei rischi elaborato da parte datoriale;
col sesto motivo di ricorso l'impugnata decisione è stata censurata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 c.c., 4 D.lgs. n. 626 del 1994, 67, comma 2, lett. a) c.c.n.I. 30.4.2003, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la Corte d'appello escluso che gli indumenti da lavoro forniti ai dipendenti costituissero D.P.I., in quanto non menzionati nel piano di valutazione rischi aziendale; col settimo motivo i ricorrenti hanno denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., avendo la Corte d'Appello erroneamente disatteso che tra gli indumenti forniti dall'azienda ai lavoratori fossero ricompresi i guanti, le scarpe e la pettina alta visibilità, classificati D.P.I. dal D.V.R. aziendale;
infine, con l'ottavo motivo è stata denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché 2697 c.c., in relazione all'art. 360 co. I n. 5 c.p.c., avendo la Corte d'Appello erroneamente disatteso le prove assunte e ritenuto che non era stato dimostrato sufficientemente lo svolgimento delle mansioni di essi lavoratori istanti;
tanto premesso, il terzo, il quarto ed il sesto motivo di ricorso, che possono esaminarsi congiuntamente, attesa la loro connessione, ed in via prioritaria per ragioni di ordine logico, sono fondati nei limiti di seguito esposti;
ancor prima, tuttavia, va disattesa la prima doglianza, non ravvisandosi gli estremi dell'error in procedendo ivi denunciato, atteso che le argomentazioni poste a sostegno della sentenza impugnata non integrano la violazione del c.d. minimo costituzionale richiesto a norma degli artt. Ili Cost., 132 n. 4 c.p.c. e 118 disp. att. dello stesso codice di rito, in quanto dalle anzidette motivazioni risulta sufficientemente esplicitata la ratio decidendi in base alla quale la Corte di merito, nell'ambito delle sue autonome valutazioni (ancorché opinabili, comunque errate in diritto nei limiti di cui alle seguenti considerazioni consentite in questa sede di legittimità) ha ritenuto infondate le azionate pretese risarcitone (cfr. Cass. III civ. n. 23940 del 12/10/2017: in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. III, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi - che si convertono in violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza - di "mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale", di "motivazione apparente", di "manifesta ed irriducibile contraddittorietà" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un "fatto storico", che abbia formato oggetto di discussione e che appaia "decisivo" ai fini di una diversa soluzione della controversia. V. parimenti, tra le altre, Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014. Cfr., altresì, Cass. sez. 6 - 3, n. 22598 del 25/09/2018, secondo cui in seguito alla suddetta riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all'obbligo di motivazione previsto in via generale dall'art. III, sesto comma, Cost. e, nel processo civile, dall'art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c.. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione -per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile- e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.. Cfr. pure Cass. lav. n. 12096 del 17/05/2018: in seguito alla riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., è denunciabile in cassazione l'anomalia motivazionale che si concretizza nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili", quale ipotesi che non rende percepibile l'iter logico seguito per la formazione del convincimento e, di conseguenza, non consente alcun effettivo controllo sull'esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice); d'altro canto, non è di ostacolo all'accoglimento del terzo motivo l'impropria invocazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., posto che, secondo il costante indirizzo di questa Corte, ove si possa identificare il contenuto delle censure attraverso le ragioni prospettate da parte ricorrente, il profilo sostanziale dell'atto deve prevalere su quello formale, sicché l'omessa o l'erronea indicazione degli articoli di legge viene a perdere ogni rilevanza (Cass. n. 4923 del 1995; n. 302 del 1996; n. 1430 del 1999; n. 15713 del 2002);
nella specie, invero, dalle argomentazioni poste a base delle censure risulta evidente la denuncia di violazione dell'art. 2087 c.c., con riguardo all'affermata esclusione del rischio alla salute per il lavoratore di cui si tratta, in contrasto con quanto affermato nelle relazioni dell'Asl in sede di ispezione;
il profilo di censura riferito all'art. 360, n. 5, c.p.c. (formulato nel quarto) è da considerare inammissibile, perché il vizio prospettato attiene alla qualificazione e valutazione giuridica di fatti, quindi concernente parti della motivazione in diritto e non l'omesso esame di fatti veri e propri, principali o secondari, come richiesto dal vigente testo del medesimo articolo, laddove peraltro appropriata e pertinente valutazione andrà all'uopo rinnovata in sede di rinvio alla stregua dei principi di diritto qui affermati in relazione alle riconosciute violazioni di legge;
ciò posto, deve essere, in primo luogo, ricordato che, ai sensi dell'art. 40, D.lgs. n. 626 del 1994, recante attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE, 90/679/CEE, riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro, "1. Si intende per dispositivo di protezione individuale qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dai lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo. 2. Non sono dispositivi di protezione individuale: a) gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore;...") tale previsione si pone in continuità con quelle di cui al D.P.R. n. 547 del 1955 (ai sensi dell'art. 377, relativo a "Mezzi personali di protezione", "il datore di lavoro, fermo restando quanto specificatamente previsto in altri articoli del presente decreto, deve mettere a disposizione dei lavoratori mezzi personali di protezione appropriati ai rischi inerenti alle lavorazioni ed operazioni effettuate, qualora manchino o siano insufficienti i mezzi tecnici di protezione. - I detti mezzi personali di protezione devono possedere i necessari requisiti di resistenza e di idoneità nonché essere mantenuti in buono stato di conservazione". Secondo l'art. 379, relativo agli "Indumenti di protezione", " Il datore di lavoro deve, quando si è in presenza di lavorazioni, o di operazioni o di condizioni ambientali che presentano pericoli particolari non previsti dalle disposizioni del Capo 3^ del presente Titolo - art. 366 ss.-, mettere a disposizione dei lavoratori idonei indumenti di protezione"); 
l'art. 40 cit. è stato poi sostituito dall'art. 74, D.lgs. n. 81 del 2008, che ne ricalca interamente il testo;
il D.lgs. n. 626 del 1994, all'art. 4, comma 5, prevede che "il datore di lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori e, in particolare...lett. d) fornisce ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione";
l'interpretazione nella specie fornita dalla Corte di merito al citato art. 40, volta a far coincidere i D.P.I. con le attrezzature formalmente qualificate come tali in ragione della conformità a specifiche caratteristiche tecniche di realizzazione e commercializzazione, non tiene adeguatamente conto del tenore letterale delle disposizioni richiamate e, soprattutto, della finalità delle stesse, di tutela della salute quale diritto fondamentale (art. 32 Cost.);
l'espressione adoperata dall'art. 40 cit., che fa riferimento a "qualsiasi attrezzatura" nonché ad "ogni complemento o accessorio" destinati al fine di proteggere il lavoratore "contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza e la salute durante il lavoro", deve essere intesa nella più ampia accezione proprio in funzione della connessione teleologica a tutela del bene primario della salute e dell'ampiezza della protezione garantita dall'ordinamento attraverso non solo disposizioni che pongono specifici obblighi di prevenzione e protezione a carico del datore di lavoro, ma anche tramite la norma di chiusura di cui all'art. 2087 c.c.;
lo stesso D.lgs. 81 del 2008 (seppure non applicabile ratione temporìs) prevede nell'allegato VIII un "Elenco", espressamente definito "indicativo e non esauriente delle attrezzature di protezione individuale", che costituisce la conferma del contenuto necessariamente aperto della categoria dei mezzi di protezione e, quindi, della correttezza della sola interpretazione in grado di salvaguardare l'ampiezza dell'obbligo di tutela posto anche dalle disposizioni in esame; 
da tali premesse discende come la previsione dell'art. 43, commi 3 e 4, D.lgs. n. 626 del 1994 ["3. Il datore di lavoro fornisce ai lavoratori i DPI (dispositivi di protezione individuale) conformi ai requisiti previsti dall'art. 42 e dal decreto di cui all'art. 45, comma 2"; 4. Il datore di lavoro: - a) mantiene in efficienza i DPI (dispositivi di protezione individuale) e ne assicura le condizioni d'igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie (...)"], non possa essere letta in senso limitativo del contenuto e del novero dei suddetti dispositivi o presidii, secondo quanto invece diversamente opinato dalla Corte territoriale, bensì quale previsione di un ulteriore obbligo di carattere generale, posto a carico del datore di lavoro, di adeguatezza dei D.P.I. e di manutenzione dei medesimi;
parimenti non rilevante è la circostanza della previsione o meno degli specifici D.P.I. nell'ambito del documento di valutazione dei rischi, atteso che l'obbligo posto dall'art. 4, comma 5, del D.L.gs. n. 626 del 1994, di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è tenuto a conformarsi a prescindere dal fatto che il loro utilizzo sia specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi, redatto dal medesimo datore di lavoro (in tal senso, con riferimento alla omologa previsione di cui all'art. 18, lett. d), D.lgs. n. 81 del 2008, cfr. Cass. pen. n. 13096 del 2017); 
la categoria dei D.P.I. deve essere, quindi, definita in ragione della concreta finalizzazione delle attrezzature, degli indumenti e dei complementi o accessori alla protezione del lavoratore dai rischi per la salute e la sicurezza esistenti nelle lavorazioni svolte, a prescindere dalla espressa qualificazione in tal senso da parte del documento di valutazione dei rischi e dagli obblighi di fornitura e manutenzione contemplati nel contratto collettivo;
da questo punto di vista appare coerente la distinzione che l'art. 40 cit. pone tra ciò che integra un D.P.I. e ciò che non è tale. In particolare, la lett. a) del comma 2 esclude che costituiscano D.P.I. "gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore", vale a dire gli indumenti che in nessun modo risultino correlati alla finalità di protezione da un rischio per la salute, e che assolvano unicamente alla funzione di uniforme aziendale o di preservare gli abiti civili;
in tal senso si è espressa la circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del 1999 (che non costituisce fonte del diritto, ma presupposto chiarificatore della posizione espressa dall'Amministrazione su un determinato oggetto - cfr. Cass. n. 7889 del 2011, n. 23042 del 2012, n. 1577 del 2014 e n. 280 del 2016), la quale ha elencato le diverse funzioni a cui possono assolvere gli indumenti di lavoro, in particolare: a) elemento distintivo di appartenenza aziendale, ad esempio uniformi o divise; b) mera preservazione degli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa; c) protezione da rischi per la salute e la sicurezza. La circolare ha specificato che "in quest'ultimo caso gli indumenti rientrano nei dispositivi di sicurezza che assolvono alla funzione di protezione dai rischi, ai sensi dell'art. 40 del Decreto Legislativo 19 settembre 1994 n. 626. Rientrano, ad esempio, tra i D.P.I. ... gli indumenti per evitare il contatto con sostanze nocive, tossiche, corrosive o con agenti biologici ecc.";
questa Corte ha più volte affermato, anche sotto il vigore del D.lgs. n. 626 del 1994, come in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, ed in particolare di fornitura ai lavoratori di indumenti, alla stregua della finalità della disciplina normativa apprestata dal legislatore, per "indumenti di lavoro specifici" si debbono intendere le divise o gli abiti aventi la funzione di tutelare l'integrità fisica del lavoratore nonché quegli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari funzioni, volti ad eliminare o quanto meno a ridurre i rischi ad esse connessi (come la tuta ignifuga del vigile del fuoco), oppure a migliorare le condizioni igieniche in cui viene a trovarsi il lavoratore nello svolgimento delle sue incombenze, onde scongiurare il rischio potenziale di contrarre malattie, come appunto deve reputarsi
per la divisa dell'operatore ecologico (cfr. Cass. n. 11071 del 2008; nello stesso senso Cass. n. 23314 del 2010);
con particolare riferimento agli operatori ecologici, comunque addetti alla raccolta dei rifiuti, questa Corte ha sempre affermato l'obbligo datoriale di manutenzione e lavaggio degli indumenti da lavoro sul presupposto, fattuale e logico, della qualificazione degli indumenti medesimi come dispositivi di protezione individuale. In particolare, è stato precisato che "l'idoneità degli indumenti di protezione -che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori a norma del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 379 fino alla data di entrata in vigore del D.lgs. n. 626 del 1994, e ai sensi dell'art. 40, art. 43, commi 3 e 4, di tale decreto, per il periodo successivo- deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l'intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti, finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario assoluto (ex art. 32 Cost.), solo nel suddetto modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è quello di prevenire l'insorgenza e il diffondersi d'infezioni. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario dell'obbligo previsto dalle citate disposizioni (cfr. Cass. n. 11139 del 1998, n. 22929 del 2005, n. 14712 e n. 22049 del 2006, n. 18573 del 2007, n. 11729 del 2009, n. 16495 del 2014, n. 8585 del 2015); con la sentenza n. 18674 del 2015, questa Corte, nel confermare la pronuncia di appello che aveva qualificato come D.P.I. gli indumenti usati da una lavoratrice addetta alla pulizia delle carrozze dei treni, attività comportante la raccolta di rifiuti, lo svuotamento di cestini e portacenere e l'inevitabile contatto con sostanze nocive o patogene, come la polvere, la sporcizia, residui organici, ha affermato che "per i lavori di pulizia di ambienti, treni, ecc. la semplice tuta di cotone può considerarsi un (seppur minimo) mezzo o dispositivo di protezione individuale, e non solo strumento identificativo dell'azienda per cui si lavora, e come tale essa deve essere fornita dal datore di lavoro e tenuta in stato idoneo". La medesima pronuncia ha ritenuto come l'inclusione degli indumenti tra i D.P.I. in ragione della funzione protettiva svolta dovesse prescindere dalla loro qualificazione o meno in tal senso da parte delle fonti contrattuali collettive e, deve aggiungersi, anche da parte del documento di valutazione dei rischi;
sulla base del quadro normativo in materia di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di rilievo costituzionale nonché attuativo delle direttive europee (a partire dalla direttiva quadro 89/391/CE) e delle convenzioni internazionali, incentrato sull'obbligo di prevenzione quale insieme di "disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell'attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno" (art. 2, lett. g), D.lgs. n. 626 del 1994), la giurisprudenza di legittimità ha collegato l'obbligo di fornitura e manutenzione dei D.P.I. alla idoneità, seppur minima, dei medesimi di ridurre i rischi legati allo svolgimento dell'attività lavorativa, costituendo specifico obbligo datoriale quello di porre in essere tutte le misure necessarie per garantire la salute e sicurezza dei lavoratori e quindi per prevenire, con specifico riferimento agli operatori ecologici, l'insorgere e la diffusione di infezioni in danno dei medesimi e dei loro familiari, a cui il rischio si estenderebbe in caso di lavaggio degli indumenti da lavoro in ambito domestico;
nessun rilievo può attribuirsi alle pronunce di legittimità (Cass. nn. 2625, 5176, 13745 del 2014), in quanto relative a lavoratori non addetti alla raccolta dei rifiuti, bensì a mansioni di giardiniere;
neppure paiono significativi i precedenti di questa Corte (sentenze Sez. 6, nn. 13931 - 13936, 13707, 14033 - 14035, tutte pronunciate all'udienza del 15.4.2014), laddove veniva precisato come fosse estraneo al giudizio trattato il thema decidendum "della tutela della salute, della conformità degli indumenti forniti alla normativa vigente e, 
quindi, della violazione dell'art. 2087 c.c., dell'art. 35, punti 1 e 3 (b e c), art. 4 (c) e D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 40..." (peraltro, nelle fattispecie decise con le anzidette pronunce del 2014 non risulta che l'azienda avesse accettato di farsi carico del lavaggio settimanale degli indumenti da lavoro, come invece avvenuto da parte della società attuale controricorrente, a seguito delle prescrizioni contenute nel verbale ispettivo dell'Asl);
la sentenza impugnata ha dato atto dell'esito del sopralluogo effettuato dall'Asl, che aveva individuato l'esistenza, nel settore della raccolta dei rifiuti svolta dalla società, del maggior pericolo di infortuni a rischio infettivo, più esattamente di un rischio da contatto con sostanze tossiche, nocive ed agenti biologici;
la Corte di merito, nonostante l'accertamento sulla esistenza di rischi, specie di natura infettiva, per la salute dei lavoratori impegnati nell'attività di raccolta dei rifiuti, rischi legati al possibile contatto con sostanze nocive, tossiche o corrosive, ha escluso la qualificazione degli indumenti forniti dalla società come D.P.I. sul rilievo che gli stessi non possedessero una specifica funzionalità protettiva desumibile da caratteristiche tecniche dettate per la loro realizzazione e commercializzazione, e ciò nonostante non risultassero adottati altri strumenti in grado di fronteggiare il rischio pacificamente accertato, cosicché le tute rappresentavano per gli operatori ecologici l'unico schermo di protezione in concreto utilizzabile contro il possibile contatto con sostanze nocive per la salute;
in tal modo la sentenza impugnata è incorsa nel denunciato vizio di violazione di legge avendo interpretato l'art. 40, comma 1, D.lgs. n. 626 del 1994, e la nozione legale di D.P.I. come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate; per contro la disposizione suddetta, atteso l'ampio tenore letterale della previsione ed avuto riguardo alla precipua finalità di tutela di beni fondamentali del lavoratore, deve essere letta, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, nel senso di includere nella categoria dei D.P.I. qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, ai fini dell'adempimento datoriale all'obbligo, posto dall'art. 4, comma 5, D.lgs. n. 626 del 1994; l'accoglimento del terzo, quarto e sesto motivo di ricorso, porta a ritenere assorbiti il secondo e il settimo motivo;
risulta, invece, inammissibile il quinto motivo di ricorso, siccome contenente censure di incompletezza ed inattendibilità del D.V.R. che non è stato, tuttavia, prodotto né trascritto nelle parti rilevanti, in violazione quindi degli oneri di allegazione imposti dall'art. 366 co. I (specialmente sub n. 6) c.p.c.;
parimenti appare inammissibile l'ottava doglianza, laddove invero non risulta individuata alcuna precisa e decisiva circostanza fattuale il cui esame sia stato pretermesso dalla Corte di merito, mentre in effetti la doglianza si riduce alla critica delle valutazioni espresse dai giudici d'appello riguardo alle riportate testimonianze, laddove peraltro anche con riferimento all'effettivo coinvolgimento degli aggancimi nelle operazioni di raccolta e smaltimento rifiuti le risultanze istruttorie acquisite andranno debitamente rivalutate per effetto della cassazione con rinvio in ordine ai rilevati errori in diritto;
la sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d'Appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà ad un riesame della fattispecie attenendosi a tutti i principi sopra enunciati e quindi anche al seguente: "la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma, in conformità alla giurisprudenza di legittimità, va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 cod. civ., norma di chiusura del sistema di prevenzione degli infortuni e malattie professionali, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute, sia dei principi di correttezza e buona fede, cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro. Nella medesima ottica il datore di lavoro è tenuto a fornire i suddetti indumenti ai dipendenti e a garantirne l'idoneità a prevenire l'insorgenza e il diffondersi di infezioni, provvedendo al relativo lavaggio, che è indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza e che, pertanto, rientra tra le misure necessarie "per la sicurezza e la salute dei lavoratori", che il datore di lavoro è tenuto ad adottare ai sensi del l'art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 626 del 1994 e s.m.i.";
visto che l'impugnazione risulta accolta, ancorché in parte, non ricorrono i presupposti processuali di cui all'art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte accoglie, nei sensi di cui alla motivazione che precede, il terzo, il quarto ed il sesto motivo di ricorso, assorbiti il secondo ed il settimo; rigetta il primo motivo e dichiara inammissibili il quinto nonché l'ottavo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d'Appello di Cagliari, in diversa composizione, cui demanda anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
Dichiara insussistenti i presupposti processuali di cui all'art. 13, co. 1 quater, D.P.R. n. 115/02 per il versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato da parte ricorrente.