Cassazione Penale, Sez. 3, 17 dicembre 2019, n. 50919 - Installazione di telecamere in violazione della normativa sulla privacy: il consenso prestato dai singoli lavoratori non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro


 

Presidente: ROSI ELISABETTA Relatore: GENTILI ANDREA Data Udienza: 15/07/2019

 

Fatto

 

Il Tribunale di Milano, con sentenza del 14 gennaio 2019, ha condannato B.R., previa concessione in suo favore delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di euro 1.000,00 di ammenda, avendolo riconosciuto responsabile della violazione degli artt. 114 e 171 del dlgs n. 196 del 2006 (recte: 2003) e degli artt. 4, comma 2 (recte: comma 1), e 38 della legge n. 300 del 1970, per avere installato all'interno della propria azienda n. 16 telecamere di un impianto di videosorveglianza - al dichiarato scopo di controllare l'accesso al locale e fungere da deterrente per eventi criminosi, ma - in grado di controllare i lavoratori nell'atto di espletare le loro mansioni, in assenza di un preventivo accordo sindacale ovvero della autorizzazione della sede locale dell'Ispettorato nazionale del lavoro.
Il Tribunale, nell'affermare la responsabilità del prevenuto ha rilevato che questi, sebbene avesse rimosso l'impianto in questione una volta che la sua istallazione gli era stata contestata, non aveva provveduto al pagamento della somma determinata a titolo di oblazione amministrativa, ritenendo che il fatto da lui compiuto non fosse penalmente rilevante.
Ha, altresì, considerato che il B.R. aveva chiesto agli organi periferici dell'Ispettorato competente il rilascio della autorizzazione ma, prima del suo conseguimento, aveva installato i predetti apparecchi.
A nulla, ad avviso del Tribunale, poteva valere la circostanza che l'imputato avesse depositato una liberatoria sottoscritta da tutti i propri dipendenti, e precedentemente inviata al detto Ispettorato, posto che il documento in questione non solo era stato formato successivamente alla materiale realizzazione della condotta a lui ascritta ed alla constatazione della sua esistenza, ma, in ogni caso, alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali di questa Corte, esso non poteva fungere da sostituto o della esistenza dell'accordo sindacale ovvero della autorizzazione rilasciata dall'organo pubblico.
Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso in appello il B.R., lamentando la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, non avendo considerato il Tribunale il tipo di attività svolta dall'imputato, gestione di un locale pubblico, tale da giustificare, nell'interesse stesso delle maestranze, una forma di controllo volto ad evitare il verificarsi di possibili eventi avversi all'interno del locale in questione; peraltro, la circostanza che le eventuali parti offese del reato contestato avessero
prestato il loro assenso, doveva intendersi come elemento atto ad escludere la rilevanza penale della condotta contestata.
 

 

Diritto

 


Deve preliminarmente rilevarsi che la sentenza impugnata, con la quale è stata irrogata la sola pena dell'ammenda, non era suscettibile di essere appellata; il ricorso presentato dal prevenuto come gravame, pertanto, deve essere convertito, in ossequio al principio del favor impugnationis, in ricorso per cassazione.
Il ricorso stesso, essendo risultato manifestamente infondato il motivo di impugnazione proposto, deve essere dichiarato inammissibile.
Deve, sia pur brevemente, essere contestualizzata la fattispecie contestata rispetto al quadro normativo di riferimento evidenziando il dato secondo il quale il fatto attribuito al B.R. - originariamente inquadrato, sotto il profilo precettivo, nell'ambito dell'art. 4 della legge n. 300 del 1970 (comunemente denominata Statuto dei lavoratori), il quale, appunto, prevedeva, che la installazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori può essere giustificata esclusivamente per esigenze, fra l'altro, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale, ma deve, in ogni caso, essere eseguita previo accordo collettivo stipulato con la rappresentanza sindacale unitaria o con le rappresentanze sindacali aziendali o, ove non sia stato possibile raggiungere tale accordo, solo in quanto preceduta dal rilascio di apposita autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, e, sotto quello sanzionatorio in caso di violazione della predetta prescrizione, nell'ambito di operatività dell'art. 38 della citata legge - risulta ora disciplinato dall'art. 114 del dlgs n. 196 del 2003 (e non 2006 come erroneamente indicato nel capo di imputazione contestato al prevenuto), il quale - in tal modo essendo evidenziata la palese continuità legislativa fra le due norme contenenti il precetto - prevede che "resta fermo quanto disposto dall'art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300" e, con riferimento alla sanzione in caso di inottemperanza al precedente precetto, dall'art. 171 del citato dlgs n. 196 del 2003, il quale, a sua volta, nel testo introdotto a seguito della entrata in vigore dell'art. 15 del dlgs n. 101 del 2018 (che non ha tuttavia apportato modifiche sostanziali alla precedente versione legislativa), applicabile al caso che interessa stante la chiara continuità normativa fra le varie versioni della disposizione, prevede che "la violazione delle disposizioni di cui all'art. 4, comma 1, (...) della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all'art. 38 della medesima legge".
Ciò posto, osserva il Collegio come, alla luce delle predette disposizioni, non abbia alcun rilievo la circostanza, dedotta dal ricorrente, secondo la quale l'impianto di registrazione visiva era stato installato onde garantire la sicurezza degli stessi dipendenti, posto che la finalità di garantire la sicurezza sul lavoro è uno dei fattori che, in linea astratta, rendono possibile l'attivazione di tale tipo di impianti, salva, tuttavia, la realizzazione anche delle successive forme di garanzia a tutela dei lavoratori previste dalle norme precettive dianzi ricordate.
Così come irrilevante è, ai fini della possibile integrazione della contravvenzione contestata, la circostanza che il B.R. non abbia avuto personalmente accesso al contenuto delle videoriprese essendo l'impianto attraverso il quale esse vengono effettuate gestito da un soggetto terzo rispetto al datore di lavoro.
Il più volte ricordato precetto contenuto nell'art. 4, comma 1, dello Statuto dei lavoratori inibisce, in assenza dello svolgimento delle preordinate intese con le rappresentanze dei lavoratori ovvero in assenza della autorizzazione rilasciata dall'Ispettorato del lavoro, la installazione degli strumenti di videosorveglianza a distanza; il fatto che poi le immagini riprese con tali strumenti siano nella disponibilità del datore di lavoro ovvero di un terzo, peraltro da quello incaricato, è circostanza del tutto irrilevante ai fini della integrazione del reato.
Rimane da esaminare il secondo aspetto della censura formulata dal ricorrente, cioè la insussistenza del fatto per essere stato il B.R. autorizzato alla predetta installazione dai propri dipendenti.
Si rileva che al riguardo che la questione appare suscettibile di essere valutata sotto un duplice profilo; di essi, il primo é riferito esattamente al caso di specie, avendo il prevenuto inviato all'Ispettorato del lavoro in data 24 luglio 2014, cioè il giorno successivo a quello in cui fu costatata la presenza dell'impianto di videosorveglianza, una dichiarazione sottoscritta da tutti i propri dipendenti, poi prodotta in giudizio, con la quale costoro dichiaravano di liberare il B.R. dagli obblighi previsti a suo carico dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori; il profilo in questione attiene alla efficacia scriminante di tale dichiarazione; ritiene, infatti, il ricorrente che tale dichiarazione valga, ai sensi dell'art. 50 cod. pen., quale causa di giustificazione della condotta, avendo i soggetti che potevano disporre del diritto leso, autorizzato il prevenuto a porre in essere la condotta a lui contestata, l'altro, invece, coinvolgente la struttura stessa del reato in questione.
Quanto al profilo ora in esame si rileva che il B.R. ha dimostrato che i propri dipendenti avevano dato il proprio assenso alla installazione dell'impianto in questione in data successiva alla constatazione della sussistenza della condotta materialmente riconducibile alla contravvenzione a lui contestata.
Deve, al proposito rilevarsi che, onde attribuire alla indicata manifestazione di volontà efficacia scriminante, trattandosi di un elemento negativo della fattispecie (nel senso che si ha reato in quanto la condotta criminosa sia stata posta in essere senza il consenso di chi poteva validamente disporre del diritto in tal modo leso), il consenso dell'avente diritto non solo deve perdurare sino al termine della consumazione dell'illecito, ma deve essere stato espresso in un momento anteriore a detta consumazione, non potendo valere la postuma dichiarazione liberatoria dell'avente diritto ad escludere la rilevanza penale ad un fatto che già si sia perfezionato come illecito penale in tutti i suoi elementi; l'eventuale suffragio attribuito alla tesi opposta equivarrebbe ad attribuire al soggetto disponente non la sola possibilità di sacrificare o meno una propria posizione soggettiva (ovviamente nei limiti in cui questa sia disponibile), ma anche la facoltà di condizionare, sulla base della propria volontà, la rilevanza penale di una fattispecie che, invece, si è già integralmente perfezionata in tutti i suoi requisiti onde assurgere al grado di illecito, il che appare inconciliabile con una visione di carattere oggettivo del diritto penale e con il tendenziale interesse di carattere generale, e non meramente soggettivo riscontrabile in capo alla sola persona offesa, alla repressione dei reati.
Tale rilievo di per sé apparirebbe, quanto al caso in esame, già sufficiente per escludere la fondatezza del ricorso proposto dal B.R., essendo la sua doglianza sviluppata in relazione alla mancata valorizzazione in sede di merito della postuma autorizzazione fornita dai suoi dipendenti alla istallazione del sistema di videosorveglianza sul posto di lavoro, rendendo, altresì, non pertinente al caso di specie il richiamo, peraltro già esaminato dal Tribunale meneghino, al precedente di questa stessa Corte costituito dalla sentenza n. 22611 del 2012; in tale occasione, infatti, la Corte escluse la rilevanza penale di una condotta del tipo di quella contestata all'attuale ricorrente, osservando che non integra il reato previsto dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori l'installazione di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di controllare a distanza l'attività dei lavoratori, la cui attivazione, anche in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti (Corte di cassazione, Sezione III penale, 11 giugno 2012, n. 22611).
In tale pronunzia, infatti, la (peraltro, come vedremo infra, assai problematica) irrilevanza penale della condotta posta in essere dall'allora imputato fu ritenuta condizionata dalla esistenza di un documento scritto, recante la sottoscrizione di tutti i dipendenti del prevenuto, redatto, a differenza di quanto risulta essersi verificato nella presente fattispecie, anteriormente alla installazione degli strumenti di videosorveglianza.
Ritiene, peraltro, il Collegio, chiarendo il precedente inciso, che non sarebbe stato possibile ritenere scriminata la condotta del B.R. neppure laddove la stessa, in assenza della intesa in sede sindacale ovvero della autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, fosse stata preceduta dalla dichiarazione liberatoria rilasciata dai dipendenti.
Infatti, ancora di recente (cfr., infatti: Corte di cassazione, Sezione III penale, 8 maggio 2017, n. 22148) questa Corte ha osservato che non può aderirsi alla tesi, che è sostanzialmente quella sviluppata anche in questa circostanza dal ricorrente, secondo la quale, avendo la giurisprudenza di legittimità affermato il principio in forza del quale non integra il reato previsto dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori l'installazione di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di controllare a distanza l'attività dei lavoratori, la cui attivazione, anche in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali o di autorizzazione pubblica, sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti (si tratta della già ricordata sentenza della Corte di cassazione, Sezione III penale, 11 giugno 2012, n. 22611), sulla base dell'eadem ratio, lo stesso principio debba valere anche nell'ipotesi in cui il consenso sia stato prestato da tutti i lavoratori, quantunque oralmente ovvero in forma postuma.
Il Collegio non condivide tale impostazione e ritiene che il consenso in qualsiasi forma (scritta od orale, preventiva o successiva) prestato dai singoli lavoratori non valga a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice. 
Come è stato convincentemente osservato, nella citata sentenza n. 22611 del 2012, al fine di sostenere la portata esimente del consenso scritto prestato da tutti i lavoratori, si è ritenuto illogico negare validità ad un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza; ciò è stato fondamentalmente ritenuto sulla base del rilievo che la disposizione di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori intende tutelare i lavoratori contro forme subdole di controllo della loro attività da parte del datore di lavoro e che tale rischio viene escluso, a meno di non voler dare una interpretazione eccessivamente formale e meccanicistica della disposizione, in presenza del consenso espresso dagli organismi di categoria rappresentativi, cosicché, a fortiori, tale consenso deve essere considerato validamente prestato quando esso promani, non da soggetti meramente rappresentativi della volontà dei lavoratori, ma direttamente proprio da tutti i dipendenti, posto che l'esistenza di un consenso validamente prestato da parte di chi sia titolare del bene protetto, esclude la integrazione dell'illecito.
Sennonché, è stato rilevato ed il Collegio intende dare con la presente decisione diretta continuità alle condivise considerazioni che seguono, è proprio quest'ultima affermazione, relativa alla individuazione del soggetto portatore dell'interesse che la norma intende tutelare, che non appare suscettibile di essere accolto il ragionamento svolto dalla Corte.
La norma penale in discorso, al pari di quelle che richiedono l’intervento delle rappresentanze sindacali dei lavoratori per la disciplina degli assetti nei luoghi di lavoro, tutela, infatti, non l'interesse personale del singolo lavoratore né la sommatoria aritmetica di ciascuno di essi, ma presidia degli interessi di carattere collettivo e superindividuale, sebbene non si possa escludere una possibile interferenza tra la lesione delle posizioni giuridiche facenti capo, sia pure in prima battuta, alle rappresentanze sindacali e quelle facenti occasionalmente capo ai singoli lavoratori.
La condotta datoriale, che pretermette l’interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o aziendali procedendo all'installazione degli impianti dai quali possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori, produce l'oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici, in quanto deputate a riscontrare, essendo titolari ex lege del relativo diritto, se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore di lavoro intende avvalersi, abbiano o meno, da un lato, l'idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per la loro potenziale finalizzazione al controllo a distanza dello svolgimento dell'attività lavorativa, e di verificare, dall'altro, l'effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza in modo da disciplinarne, attraverso l'accordo collettivo, le modalità e le condizioni d'uso e così liberare l'imprenditore dall'impedimento alla loro installazione.
Peraltro, come è stato correttamente sottolineato da questa stessa Corte nella citata precedente decisione cui la presente dichiaratamente si rifà, sia l'accordo con le rappresentanze sindacali che l'eventuale provvedimento autorizzativo di fonte pubblica devono rispettare i principi e le regole stabiliti dall'interpretazione prevalente della normativa lavoristica in tema di controllo nonché dalla disciplina sul trattamento dei dati personali (si tratta del decreto legislativo n. 196 del 2003 e successive modificazioni). A questo proposito, non è fuor di luogo ricordare l'orientamento, da ritenersi tuttora valido in quanto mai successivamente smentito, espresso dalla giurisprudenza di legittimità nella sede giurisdizionale specificamente deputata alla composizione del contenzioso fra parte datoriale e lavoratore, secondo il quale l'installazione in azienda, da parte del datore di lavoro, di impianti audiovisivi - che è, appunto, assoggettata ai limiti previsti dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori anche se da essi derivi solo una mera potenzialità di controllo a distanza sull'attività lavorativa dei dipendenti - deve essere preceduta dall'accordo con le rappresentanze sindacali; con l'ulteriore conseguenza che è identificabile in tale fattispecie, ove il datore di lavoro provveda senza rispettare l'obbligo del preventivo accordo, un comportamento antisindacale del datore di lavoro, reprimibile con la speciale tutela approntata dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori (Corte di cassazione, Sezione lavoro, 16 settembre 1997, n. 9211).
Con questa pronuncia è stato, pertanto, chiarito che l'assenso delle rappresentanze sindacali è previsto per legge come uno dei momenti essenziali della procedura sottesa all'installazione degli impianti, derivando da ciò l'inderogabilità di detto assenso e la infungibile tassatività sia dei soggetti legittimati a prestarlo sia del necessario esperimento della procedura autorizzativa di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori.
A ben vedere, la ragione per la quale l'assetto della regolamentazione di tali interessi è affidato alle rappresentanze sindacali o, in ultima analisi, ad un imparziale organo pubblico, con esclusione della possibilità che i lavoratori, uti singuli, possano autonomamente provvedere al riguardo, risiede, ancora una volta, nella considerazione della configurabilità dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro, questione che viene in rilievo essenzialmente con riferimento all'affermazione costituzionale del diritto al lavoro e con riferimento alla disciplina dei rapporti esistenti tra il datore di lavoro ed il lavoratore, sia nella fase genetica della sua instaurazione sia in quella funzionale della gestione del rapporto di lavoro.
La diseguaglianza di fatto e quindi l'indiscutibile e maggiore forza economico-sociale del datore di lavoro, rispetto a quella del lavoratore, dà conto della ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile, potendo alternativamente essere sostituita dall'autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, nel solo caso di mancato accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali, ma non invece anche dal consenso dei singoli lavoratori, poiché, a conferma della sproporzione esistente tra le rispettive posizioni, in caso contrario basterebbe al datore di lavoro, onde eludere la procedimentalizzazione imposta dalla legge, fare firmare a ciascun lavoratore, all'atto dell'assunzione, una dichiarazione con cui egli accetta l'introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere un consenso, la cui libera determinazione appare viziata dal timore, in caso di rifiuto alla sottoscrizione della dichiarazione in questione, della mancata assunzione.
Del resto, anche la previsione della sanzione penale, e in generale l'esigenza di una tutela in forma punitiva dei diritti riconosciuti al lavoratore, trova compiuta spiegazione in questa sproporzione, allo stesso modo con il quale il progressivo ridimensionamento del ruolo dell'autonomia privata nel rapporto fra lavoratore e datore di lavoro ha sopperito alla sperequazione sociale nei fatti esistente nelle posizioni dei due soggetti coinvolti dal rapporto in questione.
Da tutto ciò deriva come non abbia alcuna rilevanza il consenso scritto o orale concesso dai singoli lavoratori, in quanto la tutela penale è apprestata dalla disposizione ora violata per la salvaguardia di interessi collettivi di cui, nel caso di specie, le rappresentanze sindacali, per espressa disposizione di legge, sono esclusive portatrici, in luogo dei lavoratori che, a causa della posizione di svantaggio nella quale versano rispetto al datore di lavoro, potrebbero rendere un consenso viziato.
La protezione di siffatti interessi collettivi, riconducibili nel caso di specie alla tutela della dignità dei lavoratori sul luogo di lavoro in costanza di adempimento della prestazione lavorativa, non viene meno in caso di mancato accordo tra rappresentanze sindacali e datore di lavoro né determina uno sbilanciamento eccessivo dei rapporti di forza in favore dell'organismo sindacale, potendo il datore di lavoro comunque adoperarsi per rimuovere l'impedimento alla installazione degli impianti attraverso il rilascio di un'autorizzazione che rientra nelle competenze di un organo pubblico, cui, in regime di imparzialità ed indipendenza, spetta di controllare la meritevolezza dell'interesse datoriale alla collocazione degli impianti nei luoghi di lavoro per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale.
Da quanto sopra deve farsi discendere che il consenso o l'acquiescenza che il lavoratore potrebbe, in ipotesi, prestare o avere prestato, non svolge alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso, l'interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporne, rimane fuori della teoria del consenso dell'avente diritto, non essendo nel caso descritto la condotta del lavoratore riconducibile al paradigma generale dell'esercizio di un diritto, trattandosi della disposizione di una posizione soggettiva a lui non spettante in termini di esclusività (sostanzialmente nel condiviso senso, qui ampiamente e spesso testualmente riportato, oltre alla citata sentenza n. 22148 del 2017, anche, ancora più recentemente, Corte di cassazione, Sezione III penale, 24 agosto 2018, n. 38882).
Alle riportate e confermate considerazione, tenuto conto della manifesta infondatezza degli argomenti svolti dal ricorrente, il quale nello sviluppare la sua impugnazione non ha assolutamente tenuto conto degli approdi giurisprudenziali cui questa Corte regolatrice è già nel recente passato giunta, consegue la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e la condanna di quello, visto l'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 15 luglio 2019