Responsabilità del Presidente di una cooperativa per omicidio colposo in danno di L.E., socio - lavoratore della stessa, poichè - come assegnatario dell'appalto dei lavori di manutenzione e pulizia dei capannoni della società "V. sud" stipulato con il suo amministratore B.G. - per colpa ed in violazione degli obblighi che in tema di sicurezza nell'ambiente di lavoro incombono al datore di lavoro, aveva omesso di fornire le informazioni necessarie circa i rischi specifici del lavoro e di esigere che il lavoratore osservasse le norme di sicurezza, in tal modo provocando la morte di detto socio - dipendente il quale, operando al di fuori della passerella di camminamento e sprovvisto di imbracatura, precipitava al suolo - Sussiste.

In primo grado veniva inoltre assolto il committente dei lavori dati in appalto, B.G., ritenendo che costui, avendo adempiuto al dovere di informativa sui rischi specifici nell'ambiente di lavoro, avesse esaurito i suoi compiti, non potendosi estendere anche al committente la vigilanza sul rispetto delle prescrizioni antinfortunistiche".

La Corte d'Appello confermava tale sentenza.

Ricorrono in Cassazione il datore di lavoro e la parte civile - Entrambi i ricorsi non sono meritevoli di accoglimento.

Per quanto riguarda l'imputato, la Corte afferma che:

"...la prospettazione di una causa di esenzione da colpa che si richiami alla condotta imprudente del lavoratore, non rileva allorchè chi la invoca versa in re illicita, per non avere negligentemente impedito l'evento lesivo, che è conseguito, nella specie, dall'avere la vittima operato nella zona di lavoro, senza essere specificamente informata delle condizioni di pericolo esistenti nella zona circostante e, soprattutto, controllata nella stretta osservanza delle misure di sicurezza approntate."

"In altri termini, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori non è invocabile, non solo per la illiceità della propria condotta omissiva, ma anche per la mancata attività diretta ad evitare l'evento, imputabile a colpa altrui, quando si è, come nel caso "de quo", nella possibilità in concreto di impedirlo.
E' il cosiddetto "doppio aspetto della colpa", secondo cui si risponde sia per colpa diretta sia per colpa indiretta, una volta che l'incidente dipende dal comportamento dell'agente, che invoca a sua discriminante la responsabilità altrui."

"...è affermato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte il principio giuridico che, in caso di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale esclusiva può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento".

Per quanto riguarda il ricorso della parte civile che sostiene un'estensione dei poteri-doveri del committente, la Corte afferma che:

"Il rapporto tra committente e appaltatore va regolato, allora, tenendo conto di quanto precisa il D.Lgs. n. 626 del 1994, art.7, comma 2, lett. a) , , laddove dice che "i datori di lavoro cooperano all'attuazione delle misura di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto", formula che va intesa nel senso che l'obbligo della cooperazione tra committente ed appaltatore è limitato all'attuazione delle misure prevenzionali rivolte ad eliminare i pericoli che, per effetto dell'esecuzione delle opere appaltate, vanno ad incidere sia sui dipendenti dell'appaltante sia su quelli dell'appaltatore."


"La cooperazione, in altri termini, deve ritenersi doverosa per eliminare o ridurre la fascia, spesso molto ampia, dei rischi comuni ai lavoratori delle due parti, mentre, per il resto, ciascun datore di lavoro deve provvedere autonomamente alla tutela dei propri prestatori d'opera subordinati, assumendosene la relativa responsabilità."


 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RIZZO Aldo Sebastian - Presidente -
Dott. CAMPANATO Graziana - Consigliere -
Dott. MARZANO Francesco - Consigliere -
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere -
Dott. LICARI Carlo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) V.G. (parte civile, ricorrente) n. il (OMISSIS);
2) C.C. (imputato, ricorrente) n. il (OMISSIS);
B.G. (imputato assolto non ricorrente) n. il (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 18/03/2005 della CORTE APPELLO di SALERNO;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. LICARI Carlo;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GERACI Vincenzo, che ha concluso per l'inammissibilità dei ricorsi;
Udito il difensore Avv. PASTORE Gaetano, nell'interesse di B. G., ha chiesto l'inammissibilità del ricorso della parte civile. L'avv. TEDESCO Orazio, nell'interesse di C.C., ha chiesto l'accoglimento dei motivi del ricorso proposta dal suo assistito.

FattoDiritto

Con sentenza del 21/11/2002, il Tribunale di Salerno, Sez. distaccata di Montecorvino Rovella, affermava la responsabilità di C. C. in ordine al delitto di omicidio colposo in danno di L.E., socio - lavoratore della cooperativa "Stefin", di cui il C. era Presidente, ritenendo che quest'ultimo - assegnatario dell'appalto dei lavori di manutenzione e pulizia dei capannoni della società "Valpadana sud" stipulato con il suo amministratore B.G. - per colpa ed in violazione degli obblighi che in tema di sicurezza nell'ambiente di lavoro incombono al datore di lavoro, avesse omesso di fornire le informazioni necessarie circa i rischi specifici del lavoro e di esigere che il lavoratore osservasse le norme di sicurezza, in tal modo provocando la morte di detto socio - dipendente, il quale, incaricato di pulire la parte esterna della canna fumaria sul tetto di un capannone, operando al di fuori della passerella di camminamento e senza l'imbracatura con relativa fune di trattenuta, precipitava dall'alto al suolo nel momento in cui metteva i piedi su un instabile pannello in vetroresina.
Con la medesima sentenza, il primo giudice assolveva il committente dei lavori dati in appalto, B.G., ritenendo che costui, avendo adempiuto al dovere di informativa sui rischi specifici nell'ambiente di lavoro, avesse esaurito i suoi compiti, non potendosi estendere anche al committente la vigilanza sul rispetto delle prescrizioni antinfortunistiche relative ai rischi specifici e propri dell'attività dell'impresa appaltatrice, imposta dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 esclusivamente a carico di quest'ultima.
Decidendo sull'appello proposto dal C. e dalla parte civile limitatamente alla parte della sentenza che pronunciava l'assoluzione del B., la Corte di Appello di Salerno, con sentenza del 18/3/2005, riteneva di confermare integralmente la decisione appellata.
Avverso tale ultima sentenza, per mezzo dei rispettivi difensori, presentano separatamente ricorso per cassazione, il C. e la parte civile V.G., sostanzialmente riproponendo le stesse argomentazioni difensive dedotte in sede di appello ma disattese dai giudici di secondo grado, sicchè è d'uopo qui richiamarne il contenuto essenziale, al fine di dare ad esse una risposta pertinente, ovviamente contenuta entro i limiti del sindacato di legittimità.
Le deduzioni difensive, addotte in ricorso nell'interesse dell'imputato C., si incentrano, dapprima, nella censura al diniego opposto dai giudici del gravame alla richiesta di rinnovare l'istruzione dibattimentale, al fine di accertare il contenuto del colloquio informativo avuto con il datore di lavoro dalla vittima; inoltre, nella censura alla ritenuta sussistenza del nesso di causalità tra il difetto di informazione rimproverato al datore di lavoro e l'evento - morte, questo dovendosi, per coerenza alle risultanze processuali, ricollegare, piuttosto all'autonoma ed imprevedibile iniziativa del socio - lavoratore, il quale, al fine di eseguire la pulizia della canna fumaria posta sul tetto del capannone, non si sarebbe servito dei camminamenti di cui era dotato l'impalcato di protezione ivi esistente, ma avrebbe inopinatamente optato, disattendendo così le informazioni sui rischi avute dal datore di lavoro, per la soluzione di operare sul tetto, libero nei movimenti e con una scopa, senza imbracatura e al di fuori dell'impalcatura.
La parte civile, dal canto suo, si duole del ruolo attribuito dai giudici di merito al committente, nel caso di lavori dati in appalto da eseguirsi all'interno della sua azienda, in quanto quello configurato nei confronti del B. (che è stato assolto) risentirebbe dell'errore giuridico di averlo ridotto al compito, minimale, di informare l'appaltatore dei rischi presenti in ambiente di lavoro, mentre, per volontà del legislatore, il predetto avrebbe dovuto anche vigilare sulla concreta attuazione delle misure di sicurezza adottate dall'impresa appaltatrice, sempre che avesse voluto conformare la sua condotta al nuovo ruolo che il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 assegna al committente, quello cioè, aggiuntivo rispetto al dovere di informativa, di promuovere la cooperazione e il coordinamento degli interventi di prevenzione e protezione.
Entrambi i ricorsi non sono meritevoli di accoglimento.
In particolare, quello proposto nell'interesse del C. si rivela aspecifico, oltre che manifestamente infondato.
Ciò, sia perchè la consistenza del colloquio informativo avuto dall'imputato con la vittima, non può più ricevere una verifica attuale nella versione di quest'ultima, sicchè il richiesto sondaggio esplorativo sul tema dell'informazione è stato ritenuto correttamente superfluo dai giudici di appello, derivandone che del tenore, ritenuto generico e superficiale, di tale colloquio non resta che prendere atto; sia perchè in riferimento alla tesi che si richiama alla condotta imprudente del lavoratore, vittima dell'incidente, al fine di sostenere l'interruzione del nesso eziologico tra colpa del datore di lavoro ed evento infortunistico, sembra al Collegio che, nel confutarla, sia stata fatta dai giudici di merito corretta applicazione del principio generale secondo cui la colpa altrui non elide la propria.
E' evidente, infatti, che la prospettazione di una causa di esenzione da colpa che si richiami alla condotta imprudente del lavoratore, non rileva allorchè chi la invoca versa in re illicita, per non avere negligentemente impedito l'evento lesivo, che è conseguito, nella specie, dall'avere la vittima operato nella zona di lavoro, senza essere specificamente informata delle condizioni di pericolo esistenti nella zona circostante e, soprattutto, controllata nella stretta osservanza delle misure di sicurezza approntate.
Tanto meno la causa esimente è invocabile, se la si pone, come nel caso di specie, alla base del proprio errore di valutazione, assumendo che il sinistro si è verificato non perchè si sia tenuto un comportamento antigiuridico, ma sol perchè vi sarebbe stata, dalla parte della vittima, l'anomala ed inopinata iniziativa di fare a meno dell'impalcatura.
Sta di fatto che il rilievo difensivo, comunque, non serve a scagionarlo, in quanto chi è responsabile della sicurezza del lavoro deve avere sensibilità tale da rendersi interprete, in via di prevedibilità, del comportamento altrui.
In altri termini, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori non è invocabile, non solo per la illiceità della propria condotta omissiva, ma anche per la mancata attività diretta ad evitare l'evento, imputabile a colpa altrui, quando si è, come nel caso "de quo", nella possibilità in concreto di impedirlo.
E' il cosiddetto "doppio aspetto della colpa", secondo cui si risponde sia per colpa diretta sia per colpa indiretta, una volta che l'incidente dipende dal comportamento dell'agente, che invoca a sua discriminante la responsabilità altrui.
A tali principi la Corte territoriale si è attenuta nel definire il ruolo avuto dall'imputato nella vicenda, ritenendolo non esente da colpa.
E' da osservare, peraltro, che la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purchè connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa.
Sussistendo questa ipotesi, è affermato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte il principio giuridico che, in caso di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale esclusiva può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento.
Alla stregua di tale principio, la doglianza difensiva non ha ragion d'essere, non potendosi l'eventuale imprudenza, profilabile nella condotta della vittima, considerarsi imprevedibile e tale da interrompere il rapporto di causalità con l'evento infortunistico, essendo questo nella specie riconducibile, anche e comunque, all'omissione, da parte dell'imputato, della condotta doverosa di impedire, per mezzo di informazione specifica e di controllo attento sull'uso delle cautele idonee ad evitare il rischio di cadute dall'alto, che il lavoratore, peraltro privo di esperienza, eseguisse sul tetto del capannone il lavoro di pulizia in condizione di pericolo, senza imbracatura e fune di trattenuta.

Per rispondere, poi, al quesito giuridico, proposto in ricorso dalla parte civile al fine di sostenere l'estensione dei poteri - doveri del committente dei lavori dati in appalto e da eseguirsi all'interno dell'azienda, se cioè essi comprendano, oltre il dovere di fornire dettagliate informazioni sui rischi specifici ogni qual volta affidi un determinato lavoro all'appaltatore, anche quello di cooperare con l'appaltatore nell'apprestamento delle misure di sicurezza a favore di tutti i lavoratori, a qualunque impresa essi appartengano, sembra al Collegio preliminare stabilire la portata ed i limiti delle disposizioni del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 .
L'ordinamento giuridico attribuisce all'appaltatore un'autonoma sfera organizzativa e pieni poteri decisionali, con la conseguenza che egli, al pari di qualsiasi altro datore di lavoro, diventa destinatario principale del dovere di provvedere alla tutela della salute e dell'integrità fisica dei propri dipendenti.
Ebbene, la norma del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 - dopo avere previsto per il committente (nel comma 1, lett. a)) "l'obbligo preliminare di verifica della idoneità tecnico - professionale dell'impresa appaltatrice a cui affidare l'incarico", dal che potrebbe scaturire la culpa in eligendo - richiama (nel comma 1, lett. b)) il dovere di fornire all'appaltatore e ai lavoratori autonomi, chiamati ad operare all'interno dell'azienda, "dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate per combatterli".
Gli aspetti più innovativi della norma - non correttamente valutati dalla odierna parte civile ricorrente - sono, però, quelli contenuti nel comma 2, dove si prevede che i datori di lavoro (cioè sia i committenti, sia gli appaltatori) cooperino all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto e coordinino gli interventi prevenzionali, "informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessivà".
Mentre coordinare significa "collegare razionalmente le varie fasi dell'attività in corso, in modo da evitare disaccordi, sovrapposizioni, intralci che possono accrescere notevolmente i pericoli per tutti coloro che operano nel medesimo ambiente;
cooperare è qualcosa di più, perchè vuoi dire contribuire attivamente, dall'una e dall'altra parte, a predisporre ed applicare le misure di prevenzione e protezione necessarie".
Questa cooperazione, però, non può intendersi come obbligo del committente di intervenire in supplenza dell'appaltatore tutte le volte in cui costui ometta, per qualsiasi ragione, di adottare le misure di prevenzione prescritte a tutela soltanto dei suoi lavoratori, poichè la cooperazione, se così si intendesse, si risolverebbe in un'inammissibile ingerenza del committente nell'attività propria dell'appaltatore al punto di stravolgere completamente la figura dell'appalto.
Il rapporto tra committente e appaltatore va regolato, allora, tenendo conto di quanto precisa il D.Lgs. n. 626 del 1994, art.7, comma 2, lett. a) , , laddove dice che "i datori di lavoro cooperano all'attuazione delle misura di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto", formula che va intesa nel senso che l'obbligo della cooperazione tra committente ed appaltatore è limitato all'attuazione delle misure prevenzionali rivolte ad eliminare i pericoli che, per effetto dell'esecuzione delle opere appaltate, vanno ad incidere sia sui dipendenti dell'appaltante sia su quelli dell'appaltatore.
Ne consegue che, qualora per la natura e le caratteristiche dell'attività commissionata, questa si possa svolgere in una zona o in un settore separato, senza che i rischi si estendano fino a coinvolgere i dipendenti del committente, quest'ultimo non ha alcun motivo di intervenire sull'appaltatore per esigere da lui il rispetto della normativa di sicurezza, surrogandosi allo stesso, qualora non vi provveda, o revocando l'incarico e interrompendo il rapporto.
La cooperazione, in altri termini, deve ritenersi doverosa per eliminare o ridurre la fascia, spesso molto ampia, dei rischi comuni ai lavoratori delle due parti, mentre, per il resto, ciascun datore di lavoro deve provvedere autonomamente alla tutela dei propri prestatori d'opera subordinati, assumendosene la relativa responsabilità.
Applicando questi principi al caso di specie, non v'è alcun dubbio che, in un ambiente, come quello descritto nelle due sentenze di merito, il lavoro di pulizia del tetto del capannone avrebbe potuto porre in pericolo - come in effetti è tragicamente avvenuto - l'integrità fisica solo dei lavoratori dell'appaltatore, derivandone per logica che non si imponeva, come correttamente è stato affermato nella sentenza impugnata, la cooperazione tra il committente e l'appaltatore, a quest'ultimo incombendo il dovere di provvedere autonomamente alla tutela dei propri prestatori d'opera subordinati, assumendosi la relativa responsabilità in caso di colpevole trasgressione, etiologicamente collegata all'evento infortunistico che ne sia derivato.
In conclusione, il ricorso della parte civile, che propugna un'interpretazione che si discosta alquanto dai principi sopra affermati, è destinato ad essere rigettato.
Ai sensi dell'art. 619 c.p.p. entrambi i ricorrenti, V. e C., vanno condannati in solido al pagamento delle spese processuali ed, inoltre, il solo C. anche al versamento della sanzione di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, tenuto conto dei profili di colpa nella condotta processuale da quest'ultimo adottata, inosservante dei limiti del sindacato di legittimità.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso di V.G.. Dichiara inammissibile il ricorso di C.C. e condanna entrambi i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali ed il C., inoltre, al versamento di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2009.
Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2009