Cassazione Penale, Sez. 4, 16 marzo 2020, n. 10123 - Omessa vigilanza sul rispetto del divieto di avvicinarsi all'escavatore in azione. Responsabilità del datore di lavoro


Presidente: DOVERE SALVATORE Relatore: PICARDI FRANCESCA Data Udienza: 15/01/2020

 

Fatto

 

1. La Corte di appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto F.C. dal reato ex art. 113 e 589 cod.pen. (per aver cagionato la morte del proprio dipendente F.S., colpito da improprio movimento della benna condotta da M.S., permettendo la presenza dei propri dipendenti nel campo di azione dell'escavatore durante i lavori di scavo, in violazione dell'art. 12 del d.P.R. n. 164 del 1956, in data 12 gennaio 2007), revocando nei suoi confronti le statuizioni civili, mentre ha confermato la condanna di M.S. e di P.DS. per tale omicidio colposo, a cui il primo ha contribuito, in qualità di conducente del mezzo, con la condotta gravemente imprudente costituita dall'abbandonare il mezzo acceso e senza freno, ed il secondo, in qualità di proprietario, con la negligente manutenzione.
Il giudice di primo grado aveva condannato il datore di lavoro per il decesso del proprio dipendente, ritenendolo responsabile della sola condotta di cui al capo A1b e, cioè, dell'omessa vigilanza sul rispetto, da parte dei propri dipendenti, del divieto legale di avvicinarsi all'escavatore in azione durante i lavori di scavo. Nella sentenza di primo grado si era, peraltro, escluso che F.S., nonostante fosse operaio anziano ed esperto, avesse una posizione sovraordinata rispetto ai figli dello stesso datore di lavoro e potesse, quindi, avere in quell'occasione impartito ordini - conclusione fondata sull'id quod plerumque accidit e sulla scarsa attendibilità delle deposizioni dei testi F.G., F.Gi. e D.Q.M. sia per la loro posizione (di figli e dipendente del datore di lavoro) sia per la loro condotta subito dopo l'infortunio (gli stessi non chiamarono il 118, non impedirono a M.S. di allontanarsi con la benna e, come ritenuto probabile dal Tribunale, uno di loro riferì al Pronto Soccorso che F.S. era precipitato nello scavo, circostanza, poi, rivelatasi non vera).
La Corte di Appello ha, invece, riconosciuto a F.S. il ruolo di preposto in base alle deposizioni testimoniali di F.G., F.Gi. e D.Q.M. ed ha, pertanto, ritenuto che sia stato proprio F.S. ad impartire l'ordine di scendere nello scavo nonostante la presenza della macchina in azione, in modo imprevedibile per il datore di lavoro, che non solo aveva informato i suoi dipendenti dei relativi pericoli, ma aveva lasciato il cantiere ritenendo ormai terminati i lavori di scavo e in corso di esecuzione solo quelli di recinzione.
Inoltre, ad avviso del giudice di appello, "pretendere di attribuire al F.C. la responsabilità in contestazione al termine dei lavori, mentre la scavatrice era impegnata negli ultimi lavori di pulizia manuale, è un controsenso, posto che la normativa in tema di infortuni sul lavoro contempla l'obbligo di impedire un'attività viceversa costantemente ammessa dalla prassi..., così come non avrebbe senso il ruolo delle ulteriori figure pure deputate al controllo della sicurezza sui luoghi di lavoro. D'altra parte, quand'anche fosse presente un tale obbligo, la sua efficacia causale sarebbe annullata in presenza di un comportamento abnorme ed imprevedibile, quale quello posto in essere dallo M.S. nell'occasione dell'evento in esame, ovvero di lasciare acceso il motore della macchina escavatrice nell'atto di scendere dal mezzo per controllare lo scavo".
2. Avverso tale sentenza hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione la Procura Generale presso la Corte di appello di Bari e le parti civili.
3. La Procura Generale ha dedotto: 1) la mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione per travisamento della prova, atteso che il pieno inserimento dell'intervento dell'escavatore nel ciclo dei lavori dell'impresa di F.C. si desume chiaramente dalla comunicazione di sospensione lavori del 15 settembre 2006 (documento non valutato dalla Corte di appello) e dalla deposizione testimoniale di F.Gi., che ha confermato che M.S. ha chiesto indicazioni a F.C.; 2) l'erronea applicazione di legge ed il vizio di motivazione, avendo il giudice dell'impugnazione ritenuto che le direttive per la pulizia dello scavo furono date dalla stessa vittima, a cui, tuttavia, non può attribuirsi il ruolo di preposto, trattandosi solo di un operaio anziano, privo di delega e competenze.
4. Le parti civili - OMISSIS - hanno dedotto: 1) la violazione dell'art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 164 del 1956 ed il vizio di motivazione in ordine alla omessa valutazione della comunicazione di sospensione dei lavori ed alla deposizione di F.LG., tenuto conto che l'interruzione dei lavori comporta l'assenza sul cantiere del coordinatore e del responsabile della sicurezza, ed in ordine alla parziale valutazione della deposizione di F.Gi., che ha confermato la conoscenza, da parte di F.C., dell'esecuzione, da parte dei suoi dipendenti, delle loro prestazioni in concomitanza con l'operatività dell'escavatore; 2) la violazione di legge, in particolare dei criteri di cui all'art. 192 cod.proc.pen., ed il vizio di motivazione relativamente alla posizione di F.C., rispetto al quale non sono stati esaminati tutti gli elementi istruttori ed è stata fornita una interpretazione distonica dei parziali elementi esaminati, essendo stata fondata la decisione sulle sole dichiarazioni di F.G., F.Gi. e D.Q.M., senza alcun approfondimento della loro attendibilità e senza alcuna spiegazione della mancata valutazione delle altre prove (quali la consulenza Ludovico e Clary), con conclusioni, peraltro, erronee nella parte in cui si è attribuito ad un operario anziano la qualifica di preposto, in assenza di un adeguato accertamento di idonea delega.
 

 

Diritto

 


1. I ricorsi meritano accoglimento.
2. Le parti civili hanno lamentato la violazione dell'art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 164 del 1956, ai sensi del quale, nei lavori di escavazione con mezzi meccanici, deve essere vietata la presenza degli operai nel campo di azione dell'escavatore e sul ciglio del fronte di attacco.
Nella sentenza impugnata si legge, difatti, che "pretendere di attribuire al F.C. la responsabilità in contestazione al termine dei lavori, mentre la scavatrice era impegnata negli ultimi lavori di pulizia manuale, è un controsenso, posto che la normativa in tema di infortuni sul lavoro contempla l'obbligo di impedire un'attività viceversa costantemente ammessa dalla prassi..., così come non avrebbe senso il ruolo delle ulteriori figure pure deputate al controllo della sicurezza sui luoghi di lavoro. D'altra parte, quand'anche fosse presente un tale obbligo, la sua efficacia causale sarebbe annullata in presenza di un comportamento abnorme ed imprevedibile, quale quello posto in essere dallo M.S. nell'occasione dell'evento in esame, ovvero di lasciare acceso il motore della macchina escavatrice nell'atto di scendere dal mezzo per controllare lo scavo".
Già questa censura - pregiudiziale rispetto alle altre - risulta fondata, atteso che, secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, il datore di lavoro deve vigilare al fine di impedire che si instaurino prassi contra legem, foriere di pericolo per i lavoratori. Difatti, le prassi diffuse in un'impresa o anche in un determinato ambito imprenditoriale non possono superare le prescrizioni legali, in quanto non hanno natura normativa e, seppure assurgessero a vere e proprie consuetudini, resterebbero norme di rango inferiore (v., da ultimo, Sez. 4, n. 26294 del 14/03/2018 ud.- dep. 08/06/2018, Rv. 272960 - 01, secondo cui, in tema di prevenzione infortuni sul lavoro il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi " contra legem", foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche).
La decisione impugnata non risulta, pertanto, conforme a legge laddove esclude l'obbligo giuridico del datore di lavoro di impedire un'attività comunemente ammessa nella prassi contraria alla legge e fonte di pericolo per i suoi dipendenti.
3. Va, inoltre, osservato che se fosse stata rispettata la prescrizione dell'art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 164 del 1956, il comportamento di M.S. non avrebbe avuto le nefaste conseguenze verificatesi, in quanto nessun operaio sarebbe stato presente nel campo di azione dell'escavatrice in azione, e che, quindi, sotto tale profilo, la motivazione della sentenza di secondo grado è manifestamente illogica.
4. A ciò si aggiunga che sussistono anche gli ulteriori profili di manifesta illogicità e di contraddittorietà della motivazione della decisione impugnata rispetto alla sentenza di primo grado, lamentati in entrambi i ricorsi.
In primo luogo nella sentenza di primo grado risulta chiaramente individuato un modo di operare la pulizia dello scavo rispettoso della prescrizione legale ed idoneo a salvaguardare l'incolumità dei lavoratori - v. a p. 13 della sentenza di primo grado, in cui viene riportata la deposizione del consulente del p.m., geometra Francesco Pierpaolo Claxy, ha riferito che: "in ogni fosso eseguito con mezzo meccanico dei detriti rimangono per forza sul fondo, chiamato letto dello scavo. Questi detriti devono essere ... tolti con operazioni manuali, perché non c’è nessuna macchina, nessun mezzo meccanico che li possa togliere e possa pulire il fondo dello scavo, tutto questo perché è propedeutico poi alla gettata del calcestruzzo armato per la futura realizzazione della vasca o fondazione non ci deve essere presente per normativa una macchina operatrice, quale una benna escavatrice cingolata, all'Interno di uno scavo unitamente alla presenza di operai, proprio per evitare problemi di investimento Allora si opera nel portare a livello più basso del fondo dello scavo la benna, spegnere la macchina, riempire la benna attraverso gli operai, gli operai risalgono, la benna è libera, non ha problemi di operai e l'operatore della benna fa risalire la benna come un carrello elevatore, o sennò usare dei carrelli elevatori atti all'uopo".
Del resto, tenuto conto della necessità di pulire il letto dello scavo dai detriti al fine di realizzare correttamente la fondazione o vasca, il giudice di primo grado ha logicamente affermato, a p. 37, che F.C. ben avrebbe potuto prevedere la discesa dei propri dipendenti nello scavo ("Il F.C., pertanto, pur potendo prevedere che i suoi dipendenti in quella giornata si sarebbero avvalsi dell'ausilio della benna per pulire il fondo del fosso dai detriti dell'escavazione ha colposamente omesso di vigilare, risultando assente dal cantiere, che gli stessi prima di scendervi avessero verificato che il motore dell'escavatore fosse stato preventivamente spento dallo M.S."), mentre il giudice di secondo grado, senza confrontarsi affatto con tale accertamento, ha ritenuto che "i lavori di scavo erano terminati già dalla mattina....F.C. non poteva prevedere che i propri dipendenti, diversamente da quanto a lui noto, avrebbero effettuato lavori mediante l'uso della macchina escavatrice, né tantomeno che la stessa venisse lasciata in funzione all'interno del fosso ed in presenza di operai nel proprio raggio di azione". In proposito va osservato che la pulizia è un'operazione accessoria e consequenziale alla stessa esecuzione dello scavo, utilizzabile come fondazione, che deve, dunque, essere oggetto di necessaria valutazione nella ricostruzione dei fatti. Coglie, perciò, nel segno la doglianza dei ricorrenti di arbitraria cesura, da parte del giudice di secondo grado, tra la realizzazione e la pulizia dello scavo.
Infine, il giudice di secondo grado ha qualificato la vittima come preposto in base alle deposizioni di F.G., F.Gi. e D.Q.M., senza soffermarsi sulle valutazioni espresse nella sentenza di primo grado in ordine alla scarsa attendibilità di tali testi sia in considerazione della loro posizione (di figli e dipendente del datore di lavoro) sia in considerazione della loro condotta subito dopo l'infortunio (gli stessi non chiamarono il 118, non impedirono a M.S. di allontanarsi con la benna e probabilmente uno di loro riferì al Pronto Soccorso che F.S. era precipitato nello scavo circostanza, poi, rivelatasi non vera) ed in ordine all'inverosimiglianza della posizione sovraordinata di un dipendente rispetto ai figli del datore di lavoro. Né si è tenuto conto che tale qualifica non esonererebbe completamente il datore di lavoro da responsabilità, soprattutto nei confronti dello stesso preposto.
Deve, difatti, ribadirsi che "il giudice di appello, nel riformare la condanna pronunciata in primo grado con una sentenza di assoluzione, dovrà confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, giustificandone l'integrale riforma senza limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della riformata pronuncia delle generiche notazioni critiche di dissenso, ma riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito, per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia adeguata ragione delle difformi conclusioni assunte" (così in motivazione Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 ud. - dep. 03/04/2018, Rv. 272430 - 01).
5. In conclusione, la sentenza deve essere annullata limitatamente alla posizione di F.C. con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Bari per nuovo giudizio sul punto.
 

 

P.Q.M.

 


Annulla la sentenza impugnata nei confronti di F.C. con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di Appello di Bari, cui demanda anche la regolamentazione fra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.