Corte di Appello Bari, Sez. Lav., 27 gennaio 2020, n. 155 - Mobbing: l'elemento qualificante che deve essere provato va ricercato nell'intento persecutorio


 

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l'elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti, bensì nell'intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata.


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI BARI
SEZIONE LAVORO
composta dai signori Magistrati:
Dott. Vito Francesco Nettis Presidente
Dott. Manuela Saracino Consigliere
Dott. Pietro Mastrorilli Consigliere relatore
alla pubblica udienza del 21/01/2020 ha pronunciato la seguente

 


SENTENZA
 

 

nella causa iscritta al n. 2058/2017 R.G. promossa da:
RB e proseguita dagli eredi MGS, TDBI e AABI rappresentati e difesi dall’Avv. CORDELLA VALERIO
APPELLANTI
contro:
POSTE ITALIANE S.P.A. rappresentata e difesa dall’Avv. FIORILLO LUIGI APPELLATA
 

 

FattoDiritto

 


Con sentenza del 30.3.2017 il Giudice del lavoro di Foggia, all’esito dell’espletata istruttoria orale, rigettava la domanda proposta da RB, avente ad oggetto la condanna della convenuta Poste Italiane SpA al risarcimento del danno biologico ed esistenziale patiti per essere stato vittima di “azioni illecite di mobbing”; compensava tra le parti le spese di lite.
Avverso tale sentenza il lavoratore interponeva appello in data 30.9.2017 chiedendo l’accoglimento della propria domanda.
Si costituiva Poste Italiane SpA instando per il rigetto del gravame e la conferma dell’impugnata sentenza.
A seguito del decesso dell’appellante, si costituivano in giudizio i suoi eredi MGS, TDBi e AABi.
Va premesso che l'appello è sufficientemente specifico, contrariamente a quanto opina Poste nelle sue difese, in quanto evidenzia adeguatamente (v. infra) sia le statuizioni censurate sia le ragioni del dissenso.
Il Tribunale di Foggia ha rigettato la domanda risarcitoria di cui sopra, osservando che “il ricorrente pone a sostegno della domanda una serie di fatti posti in essere nei suoi confronti dopo la reintegrazione nel posto di lavoro a seguito della sentenza di primo grado richiamata in premessa” (il RB era stato licenziato per riduzione del personale con decorrenza 1.1.2002 e poi reintegrato nel posto di lavoro giusta sentenza del Tribunale di Foggia n. 1090/2003), concludendo, in sintesi, per l’insussistenza di un comportamento lesivo da parte della Società in ragione del fatto che il rapporto di lavoro non avrebbe dovuto essere ricostituito per la legittimità (dichiarata dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 4653 del 2009) del licenziamento irrogato in data 1.1.2002.
Le censure avverso tale ragionamento del primo giudice sono fondate, anche se, come si vedrà meglio in seguito, non conducono ad un esito diverso del giudizio, ma solo ad una doverosa correzione della motivazione.
E’ pacifico che il demansionamento del lavoratore, temporaneamente riammesso in servizio a seguito di pronuncia dichiarativa dell'illegittimità del licenziamento, costituisce fatto illecito suscettibile di tutela risarcitoria anche quando la pronuncia venga successivamente riformata in sede di gravame, atteso che la "fictio iuris", per la quale la declaratoria di legittimità del licenziamento a seguito della riforma della sentenza resa in prime cure determina l'effetto della risoluzione "ex tunc" del rapporto di lavoro, non può valere a porre nel nulla la condotta illecita tenuta dal datore di lavoro nell'arco temporale coincidente con il periodo in cui il rapporto di lavoro era stato riattivato (Cass. n. 14637/2016).
Ciò impone, dunque, l’esame del merito della domanda.
A tale riguardo l’appellante lamenta, appunto, l’omesso esame delle risultanze delle prove testimoniali raccolte in primo grado, prospettando che “gli episodi rilevanti risalgono già dal gennaio 1998 evidentemente come reazione alla denuncia sporta per non essere stato messo a parte della selezione per il posto di Direttore, profilo A1 ”.
A tale riguardo occorre tuttavia precisare che non risulta mai specificamente allegato in cosa si sia effettivamente sostanziato l’eventuale contegno illecito della società, tanto più che, stando al contenuto della denuncia del 28.1.1998 in atti, si contesta semplicemente all’azienda di non aver valorizzato il periodo di presunto svolgimento di fatto delle mansioni superiori dal 27.4 al 30.11.1995, ritenuto inidoneo allo scopo anche dalla sentenza del Tribunale di Foggia del 6.11.2000, citata da Poste nelle sue difese e non contestata.
Nessun particolare cenno viene svolto poi dal RB quanto all’ulteriore contenzioso pendente tra le odierne parti, sfociato nella sentenza n. 2933/2009 del Tribunale di Foggia, prodotta da Poste e ricognitiva del superiore livello A, ma a decorrere dall’ 1.3.2009 (sentenza di recente confermata da questa Corte d’Appello).
Aggiunge poi l’appellante che “da questo momento” (ovvero dalla suddetta denuncia) “il RB è divenuto bersaglio dell’Azienda subendo ripetuti, inspiegabili ed illegittimi trasferimenti: ben 8 in soli undici mesi dal gennaio al novembre 1999”, cui si “aggiungono una serie di episodi discriminatori e vessatori, tutti analiticamente indicati in ricorso....”.
V’è di fatto però che nel ricorso introduttivo (v. in particolare pag. 18) l’istante ha ritenuto espressamente di prendere le mosse “quale evento cardine del mobbing” - e volendo “glissare sui ricordati, ripetuti trasferimenti” (per il vero ne risultano allegati a pag. 5 del ricorso sì otto, ma tutti nell’ambito del medesimo circondario e di nessuno risulta prospettata né tanto meno comprovata l’illegittimità) - dalla “consegna del badge identificativo in data 22.3.2004”, atteso che da quel momento egli è stato costretto a “marcare il cartellino in entrata ed in uscita, come il personale esecutivo, senza che ciò fosse previsto per l’Area Quadri i quali hanno solo l’obbligo di timbrare il badge all’inizio del turno di lavoro ”.
Il RB pertanto ha ritenuto in questa sede di dolersi solo delle vicende post licenziamento, peraltro le uniche oggetto dei capitoli di prova ex adverso formulati (v. pagg. 34 e ss. del ricorso introduttivo).
Sintomatica al riguardo è anche la circostanza che in sede di “primo certificato medico di malattia professionale” datato 17.10.2007 ed inoltrato all’INAIL, lo stesso RB ha dichiarato di avvertire i primi sintomi della patologia ansiogena ivi indicata, “dopo il licenziamento avvenuto a gennaio 2002”.
Anche le note conclusive di primo grado del 30.4.2015 non a caso, sono interamente sviluppate su vicende “post licenziamento”.
Operata tale premessa in punto di fatto, va rilevato che l’istruttoria espletata in prime cure ha evidenziato, quanto alle doglianze del lavoratore, che, dopo la reintegra (3.10.2003) il RB (Quadro di 2° livello) fu assegnato all’Ufficio di Foggia succursale 8 all’epoca diretto da MG (escusso come teste in primo grado e particolarmente attendibile, avendo dato atto di aver cessato il rapporto di lavoro con Poste sin dal giugno 2006) il quale ha dato atto di aver lavorato insieme all’istante sino all’ottobre del 2005 e che il RB collaborava con il direttore (ovvero con lo stesso teste) “stabilendo insieme alcune scelte aziendali relative all’ufficio e se il direttore era impossibilitato a svolgere alcune funzioni, queste venivamo delegate al ricorrente”, che mai è stato assegnato a turni pomeridiani (che non poteva svolgere per ragioni di salute).
Ha confermato che i quadri marcavano il badge “solo in entrata” anche se “era stato consigliato dai sindacati di marcare anche in uscita per avere la certezza della fine del lavoro” e che, effettivamente, incaricò il RB nel 2004 “della regolarizzazione del dossier titoli” (mansioni contestate dall’istante), precisando che di tali mansioni “in precedenza si sono sempre occupati i Direttori dell’Ufficio” (compreso lo stesso MG).
Il teste G. (che, quale successivo direttore dell’Ufficio di cui sopra, ha deposto per il periodo successivo “sino alla prima decade del luglio 2006”) ha sostanzialmente confermato quanto sopra prospettato dal MG, precisando che “qualche quadro timbrava due volte sia in entrata che in uscita, senza che io l’obbligassi, era infatti una scelta personale....”.
Anch’egli ha confermato che i direttori d’Ufficio (lui compreso) si occupavano della regolarizzazione del dossier titoli e di predisporre “il versamento di fine giornata dell’intero d’ufficio”.
In ogni caso, osserva la Corte, la circostanza che, all’epoca, la regolarità ed effettività della posizione lavorativa del RB fosse ancora sub judice (era ancora pendente il giudizio circa la legittimità del suo licenziamento, poi, come detto, conclusosi sfavorevolmente per il lavoratore), non rende “anomala” e /o particolarmente mortificante la circostanza (isolatamente considerata, posto che, per il resto, come visto, l’istante svolgeva compiti del tutto confacenti alla sua qualifica) della marcatura del badge anche in uscita.
La situazione muta, in effetti, in seguito alla sostituzione del G. con il collega CA a far data da fine luglio 2006 (v. punto 13 del ricorso introduttivo di primo grado), anch’egli Quadro A2 come il RB (“ma meno qualificato, più giovane e con minore anzianità di servizio”, v. punto 11 del ricorso), nomina qui genericamente contestata dall’istante limitandosi, appunto, a provare soltanto la sua maggiore anzianità di servizio, senza il conforto di altri elementi di prova, fattuali o normativi, a supporto della pretesa illegittimità della scelta.
I testi C. e P. hanno evidenziato che tale nomina, sebbene solo “in applicazione” (v. punto 11 cit.) non fu mai accettata dal RB e “causò nel ricorrente comportamenti polemici” (teste P.) e rimostranze (tra l’altro ampiamente documentate in atti dallo stesso Bi).
In particolare, il teste F. - il quale ha appunto dato atto che inizialmente il RB “quando c’era il direttore MG” (ed anche dopo), “aveva un compito dirigenziale e si è occupato della organizzazione dell’ufficio... .sostituendo il direttore quando questi non c’era”, confermando che i lavoro relativo al dossier titoli “era piuttosto complesso e che il ricorrente individuò anche tutte le anomalie dei vari titoli” (laddove il prosieguo del lavoro, ovvero “la convocazione in ufficio della persona titolare del titolo per la sua regolarizzazione materiale” veniva espletata da altri addetti) - ha confermato che il CA “esautorò il ricorrente dalle sue funzioni.. in pratica non poteva entrare nel caveau, usare il fax o la fotocopiatrice, in pratica non poteva fare niente ..; stava seduto alla sedia per tutto il tempo. Ciò è accaduto sino a quando il ricorrente si è messo in malattia, questo periodo di inattività del ricorrente è durato per due o tre mesi, se non ricordo male... .preciso che quasi quotidianamente il ricorrente ed il CA litigavano e ciò avveniva ad alta voce da parte di entrambi e pertanto sentiva anche il pubblico .”.
La situazione veniva denunciata dal RB con nota del 2.11.2006 indirizzata al CA ed al Direttore di Filiale; seguiva un provvedimento con il quale il RB veniva collocato in ferie dall’8.11.2006, ferie che si sono poi protratte in modo sostanzialmente continuativo fino al 16.12.2006 (v. docc. 29/32 fascicolo di primo grado del Bi).
Da tener presente inoltre che in tale contesto il RB risulta altresì assente per malattia (v. documentazione prodotta dallo stesso in primo grado) dall’1.9.2006 al 18.10.2006 (e poi dal 4.12.2006 fino a tutto il 24.12.2006, v. documentazione medica prodotta dal RB sub doc. 22 del fascicolo di primo grado).
Al rientro delle ferie seguono altre note di protesta inoltrate al Direttore di Filiale C. nel gennaio 2007 (doc. 34) ed un colloquio con lo stesso C. (punto 17 del ricorso)- investito anche da “numerose comunicazione del direttore” (CA) “relative ai rapporti che intercorrevano all’interno dell’ufficio” (teste P.) - che, escusso come teste, ha evidenziato che il Bi, durante i colloqui si lamentava essenzialmente del fatto che la direzione dell’ufficio non fosse stata assegnata a lui e che pertanto fu proposto al RB “un apposito percorso formativo che avrebbe potuto dargli la possibilità di dirigere un ufficio postale confacente al suo grado, e successivamente l’opportunità di assegnarlo ad un ufficio di grado superiore”, ma l’istante rifiutò sempre tale prospettiva.
V’è di fatto che la Direzione prese atto tempestivamente di tale situazione e con nota del 25.1.2007 trasferì il Bi, con decorrenza 1.2.2007, presso l’Ufficio di Foggia Succursale 6 (si tenga conto tuttavia - v. punto 19 del ricorso - che dal 28.1.2007 al 19.7.2008 il ricorrente è stato assente dal lavoro per malattia, cui segue - v. punto 21 del ricorso - senza soluzione di continuità, un periodo di aspettativa che si protrae fino alla cessazione definitiva del rapporto di lavoro per effetto del dictum della Cassazione, fase caratterizzata dalla “contestazione” delle “sette visite di controllo in ventidue giorni” disposte dalla datrice di lavoro tra il settembre e l’ottobre 2007, in modo invero del tutto legittimo, trattandosi di un assenza che perdurava continuativamente dalla fine del mese di gennaio del 2007), mai impugnato dall’istante e del quale non risultano evidenziati particolari profili di illegittimità.
Per cui, in sintesi, si intravedono potenziali profili di illiceità nella condotta posta in essere dal Direttore CA durante il limitato lasso temporale (circa quattro mesi complessivi) agosto 2006 - ottobre 2006 e 27.12.2006 -31.1.2007, intervallati come visto da numerosi periodi (dall’1.9 al 18.10.2006) di malattia e di ferie dall’8.11.2006 fino al 16.12.2006 (sintomaticamente il teste F. circoscrive il periodo di “forzata” inattività del RB “per due o tre mesi”), situazione evidenziata al Direttore di Filiale per la prima volta il 2.11.2006 e gestita dalla società datrice dapprima collocando in ferie il RB e poi, preso atto della prosecuzione della vicenda anche al rientro dalle ferie, trasferendolo ad altro Ufficio.
Ma in siffatto contesto, in cui il contegno illecito come visto si è protratto, contrariamente a quanto rappresentato dall’istante, soli due o tre mesi al massimo, è, tra l’altro, specie a seguito del decesso dell’istante, davvero arduo individuare un danno biologico e/o esistenziale conseguito dall’istante per effetto di tale contegno, specie ove si consideri che già dalla fine del novembre 2001 (v. docc. 13 e ss. del fascicolo di primo grado) il RB risultava affetto da patologie di carattere ansioso che, per tutto quanto sopra esposto, non risultano però collegabili ad alcuna specifica situazione illecita a carico di Poste (tale epoca si correla infatti agli episodi “ante licenziamento” di cui al punto 4 del ricorso introduttivo, non prospettati come costitutivi del danno lamentato e comunque non dimostrati a mezzo di prova per testi - v. sopra - risultando, tra l’altro, coeva, piuttosto, ai due contenziosi giudiziari instaurato dal Bi, per il riconoscimento di una superiore qualifica, dall’esisto “alterno”, di cui s’è detto sopra).
In ogni caso, il Bi, sul quale incombeva l’onere di provare i fatti costitutivi della sua pretesa, non ha affatto allegato né tanto meno adeguatamente documentato di aver subito un concreto aggravamento delle proprie (già come visto compromesse) condizioni psico - fisiche in occasione e per effetto delle circoscritte (e limitate nel tempo) condotte tenute dal CA, sopra rappresentate.
Si rammenta al riguardo (Cass. n. 26684/2017) che, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l'elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti, bensì nell'intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all'interno dell'ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore, il che si presta a giustificare sia il collocamento forzoso in ferie del novembre 2006 sia il successivo trasferimento a far data dal febbraio 2007, adottati da Poste al chiaro fine di arginare la conflittualità emersa tra il RB ed il CA, verosimilmente esasperata anche dal malcontento del primo per la scelta aziendale ricaduta su un collega di pari grado, ma più giovane.
Senza poi trascurare il dato, sopra evidenziato, che dall’istruttoria espletata in primo grado (v. sopra), sembra emergere (v. in particolare la deposizione del teste C.) che, all’epoca, abbia inciso negativamente sulla sfera morale e psichica dell’istante non tanto il cennato (e breve) periodo di forzata inattività di cui sopra, quanto la circostanza della nomina del predetto CA che, appunto, non fu mai accettata dal RB e causò i comportamenti polemici (di cui ha riferito il teste P.) e le rimostranze (documentate in atti dallo stesso Bi), oltre che il rifiuto (teste C.) di un “apposito percorso formativo che avrebbe potuto dargli la possibilità di dirigere un ufficio postale confacente al suo grado”; il tutto, inserito in un articolato contesto di accesa conflittualità (anche) tra le parti in causa, ma nell’ambito del quale, come sopra evidenziato, non si intravedono contegni datoriali caratterizzati da profili di illiceità.
La domanda deve dunque essere rigettata in considerazione delle evidenziate carenze istruttorie.
L’obiettiva complessità della vicenda - che ha imposto, tra l’altro, l’ampia correzione motivazionale di cui sopra ed una disamina delle risultanze istruttorie dalle quali emergono, in sostanza, comportamenti illeciti datoriali per i quali, tuttavia, difetta la prova di un apprezzabile danno non patrimoniale - giustifica, a parere delle Corte, la compensazione tra le parti delle spese processuali del presente grado.
Le spese seguono la soccombenza dell’appellata e vengono liquidate nella misura indicata in dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte di Appello di Bari - Sezione lavoro, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da RB, cui sono subentrati gli eredi MGS, TDBi e AABi, con ricorso del 30.9.2017, avverso la sentenza del Tribunale di Foggia, giudice del lavoro, resa in data 30.3.2017 nei confronti di Poste Italiane SpA, così provvede; rigetta l’appello, e per l’effetto, conferma l’impugnata sentenza;
compensa tra le parti spese del presente grado del giudizio.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte degli appellanti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Bari il 21/01/2020 Il Presidente