Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 3, 11 maggio 2020, n. 14214 - Violazioni del datore di lavoro cinese: bagni non puliti, assenza di impianto di aspirazione e preparazione di pasti in una pelletteria. Ispezione con interprete e prescrizione di regolarizzazione


Presidente: IZZO FAUSTO Relatore: ACETO ALDO Data Udienza: 13/11/2019

 

Fatto

 


1. Il sig. H.W. ricorre per l'annullamento della sentenza del 21/05/2019 del Tribunale di Firenze che lo ha dichiarato colpevole dei reati di cui agli artt. 64, comma 1, e 68, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 81 del 2008, accertati in Scandicci il 19/11/2014, e l'ha condannato alla pena complessiva di 14.400,00 euro di ammenda. Il ricorrente, in particolare, è stato ritenuto responsabile dei reati a lui ascritti perché, quale datore di lavoro, titolare di impresa esercente attività di pelletteria, non aveva provveduto che nei luoghi di lavoro fosse vietata la preparazione e la consumazione dei pasti (capo A), che i servizi igienici fossero mantenuti puliti (capo B), che nelle postazioni ove venivano effettuate operazioni di masticiatura con collanti policloroprenici fossero adottate misure per la captazione dei vapori di solventi che si sviluppavano durante la lavorazione (capo C). A sostegno della pronuncia di colpevolezza, il Tribunale ha indicato le dichiarazioni degli ispettori del lavoro e le fotografie riproducenti lo stato dei luoghi, argomentando, anche alla luce delle testimonianze addotte dalla difesa, sulla riscontrata presenza di cibo nei medesimi locali nei quali i lavoratori disimpegnavano le loro mansioni, sull'uso del bagno trovato in carenti condizioni igieniche (qualificando come irrilevante la deduzione difensiva secondo cui di trattava di un "bagno di servizio"), sulla mancanza di un adeguato impianto di aspirazione di solventi e sostanze nocive utilizzare durante le lavorazioni.
1.1. Con il primo motivo deduce la mancanza della condizione di procedibilità e l'inosservanza o l'erronea applicazione degli artt. 15, d.lgs. n. 124 del 2004, 20 e 21, d.lgs. n. 758 del 1994, e 529 cod. proc. pen.
Sulla premessa che l'atto di prescrizione costituisce atto tipico di polizia giudiziaria, in quanto tale soggetto alle regole sulla traduzione degli atti del processo stabilite dall'art. 143 e seg. cod. proc. pen., deduce che non v'è prova della notifica del foglio di prescrizione redatto dai tecnici della prevenzione e dall'ufficiale di polizia giudiziaria a seguito del sopralluogo del 19/11/2014, né che l'atto fu tradotto in lingua cinese, prova ne sia che in sede di successivo sopralluogo fu accertata la mancata ottemperanza alla prescrizioni.
1.2. Con il secondo motivo deduce l'erronea applicazione delle norme incriminatrici e il vizio di motivazione contraddittoria e manifestamente illogica sotto i seguenti profili: a) carenza dell'elemento soggettivo del reato e, quindi, della condizione di punibilità derivante dalla mancata conoscenza delle prescrizioni in quanto non tradotte nella lingua a lui nota la cui violazione a lui non è imputabile; b) carenza dell'elemento oggettivo in quanto: nessun lavoratore è stato trovato intento a preparare o consumare pasti nei locali di lavoro ma solo un frigorifero nel quale i dipendenti ricoveravano la spesa e un tavolo dedicato esclusivamente al riposo e allo svago; i servizi igienici venivano regolarmente puliti; le mascherine fornite ai lavoratori erano più che sufficienti attesa la mancanza di prova sulla tossicità dei prodotti utilizzati durante i lavori.
1.3. Con il terzo motivo deduce la mancanza di motivazione sulla omessa qualificazione del fatto in termini di particolare tenuità ai sensi 131-bis cod. pen. la cui applicazione era stata invocata in sede di discussione.
1.4. Con il quarto motivo deduce l'erronea applicazione art. 68, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2008. Le plurime violazioni dell'allegato IV, afferma, dovevano essere considerate un'unica violazione mentre il Tribunale ha applicato tante sanzioni quante sono le singole infrazioni.
1.5. Con il quinto motivo deduce la violazione art. 133 cod. pen. e vizio di motivazione manifestamente illogica perché il Tribunale ha applicato la stessa sanzione per ciascuna infrazione senza distinguere, per ciascuna di esse, grado della colpa e/o intensità del dolo e gravità oggettiva.
 

 

Diritto

 


2. Il ricorso è infondato.
3. Il primo motivo è infondato.
3.1. Le prescrizioni di cui all'art. 20 del d.lgs. n. 758 del 1994, richiamato espressamente dall'art. 15, d.lgs. n. 124 del 2004, sono impartite dall'organo di vigilanza «nell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria di cui all'art. 55 del codice di procedura penale».
3.2. Costituisce di conseguenza principio autorevolmente e condivisibilmente affermato dalle sezioni civili della Corte di cassazione quello secondo il quale «la prescrizione di regolarizzazione impartita dall’organo di vigilanza ex art. 20 del d.lgs. n. 758 del 1994, richiamato dall'art. 15 del d.lgs. n. 124 del 2004, non è un provvedimento amministrativo, ma un atto tipico di polizia giudiziaria, non connotato da alcuna discrezionalità, neppure tecnica, ed emesso sotto la direzione funzionale dell'autorità giudiziaria ex art. 55 cod. proc. pen.» (Cass.civ., Sez. U, n. 3694 del 09/03/2012, Rv. 621896 - 01; Cass. civ., Sez. U, n. 19707 del 13/11/2012, Rv. 623888 - 01; nello stesso senso, Cass. pen., Sez. 1, n. 1037 del 14/02/2000, Rv. 215391 - 01, secondo cui l'atto con il quale l'organo di vigilanza, ai sensi dell'art. 20 del D.L.G. 19 dicembre 1994 n.758, avendo accertato una contravvenzione alla normativa in materia di prevenzione degli infortuni e di igiene del lavoro, impartisca le opportune prescrizioni fissando un termine per l'eliminazione delle irregolarità, non è annoverabile fra i provvedimenti amministrativi - dovendosi ad esso attribuire, invece, natura di atto di polizia giudiziaria - ed è quindi sottratto alle impugnazioni previste per i suddetti provvedimenti, tanto in sede amministrativa quanto in sede giurisdizionale).
3.3.Il ricorrente ne trae argomento di doglianza affermando che, in quanto atto di polizia giudiziaria, la prescrizione impartita ai sensi dell'art. 20, d.lgs. n. 758 del 1994, avrebbe dovuto essere tradotta nella lingua a lui nota, secondo quanto prescrive l'art. 143 cod. proc. pen.. Con ogni evidenza, afferma, «non poteva avere avuto piena contezza degli addebiti contestatigli e dei rimedi difensivi offertigli dall'ordinamento (...) la mancanza di una concreta conoscibilità del contenuto della prescrizione ne vanifica il valore sia sotto l'aspetto del contenuto obbligatorio sia sotto quello della conoscibilità dei rimedi per l'estinzione del reato, con conseguente violazione del diritto di difesa».
3.4. L'eccezione non ha fondamento alcuno.
3.5.In fatto, risulta che il contenuto delle prescrizioni fu portato a conoscenza e tradotto all'imputato, secondo quanto afferma in maniera esplicita la sentenza impugnata la cui motivazione non è contrastata sul punto (pag. 3, primo e secondo paragrafo: «Il teste R. ha ricordato che vennero date prescrizioni per la rimozione delle irregolarità e che, in data successiva allo scadere del termine previsto per la regolarizzazione, veniva effettuato un nuovo accesso in ditta. Nel corso di tale accesso veniva accertato il mancato rispetto di tutte le prescrizioni impartite. Il teste, a precisa richiesta di precisazioni sul punto, ha dichiarato di ricordare che quando vennero impartite le prescrizioni il contenuto delle prescrizioni stesse venne tradotto all'imputato»). Peraltro, sempre secondo quanto afferma la sentenza impugnata, «con riferimento alle prescrizioni impartite deve osservarsi come la presenza di un interprete al momento dell'accesso renda evidente che l'imputato è stato messo pienamente in condizione di comprendere il senso e il contenuto delle violazioni contestate e delle prescrizioni impartite». In effetti, l'ufficiale di polizia giudiziaria che effettuò l'accesso ispettivo in data 19/11/2014 provvide a nominare un interprete affinché fornisse assistenza all'odierno ricorrente in sede di ispezione, ai fini della redazione del verbale di identificazione, elezione di domicilio e nomina del difensore di fiducia e della richiesta di documenti compilata e consegnata lo stesso giorno dell'accesso. E' certo, dunque, che il ricorrente fu pienamente informato e reso edotto delle ragioni dell'ispezione, dei suoi risultati, delle contravvenzioni riscontrate e delle prescrizioni (oralmente) impartite per eliminarle. La prescrizioni scritte furono recapitate successivamente.
3.6.In diritto, osserva il Collegio che se è vero che la prescrizione impartita dall'organo di vigilanza ai sensi dell'art. 20, comma 1, d.lgs. n. 758 del 1994, è emessa nell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria di cui all'art. 55, cod. proc. pen., è altrettanto vero che non tutti gli atti posti in essere dalla polizia giudiziaria nell'esercizio delle proprie funzioni devono essere tradotti nella lingua nota alla persona alloglotta sottoposta alle indagini. Escluso che la prescrizione di cui all'art. 20, cit., rientri nel novero degli atti tipici per i quali l'art. 143, comma 2, dispone l'obbligo della traduzione scritta, non si può nemmeno sostenere che si tratti di atto contenente l'accusa, cristallizzata all'evidenza nell'atto con il quale il pubblico ministero ha esercitato l'azione penale.
3.7.Si deve piuttosto precisare che: a) l'emissione della prescrizione è naturalmente successiva alla (e presuppone la) violazione della norma in materia di sicurezza e igiene del lavoro penalmente sanzionata; b) l'obbligo di eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero di farne cessare la permanente sussistenza non ha titolo nella prescrizione di cui all'art. 20, cit., bensì nel dovere immanente del datore di lavoro di garantire sempre e comunque le condizioni di igiene e sicurezza di tutti i luoghi di lavoro, a prescindere dalla ricezione della prescrizione (che, in ipotesi, potrebbe anche mancare); c) l'adempimento della prescrizione in un termine superiore a quello concesso ovvero l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione con modalità diverse da quelle indicate dall'organo di vigilanza sono valutate ai fini dell'art. 162-bis cod. pen., e la somma da versare è sempre pari al quarto del massimo dell'ammenda stabilita per la contravvenzione commessa (art. 24, comma 3, d.lgs. n. 758 del 1994).
3.8.Ne deriva, in primo luogo, che la deduzione secondo la quale l'inottemperanza della prescrizione costituisce prova della sua incomprensibilità perché redatta nella lingua non nota al ricorrente, è palesemente infondata e frutto di un ragionamento circolare. In realtà non risulta nemmeno, né il ricorrente lo deduce, che la situazione di illegalità accertata dall'organo di vigilanza sia stata eliminata dopo l'esercizio dell'azione penale (il che osta, come si vedrà, alla applicazione della causa di non punibilità di speciale tenuità del fatto).
3.9.In secondo luogo (e non per ordine di importanza), la mancata traduzione delle prescrizioni in lingua nota al datore di lavoro alloglotta non determina l'improcedibilità dell'azione penale, non potendosi certamente equiparare la mancata traduzione dell'atto (e dunque la dedotta «mancanza di concreta conoscibilità del [suo] contenuto») alla sua inesistenza.
3.10. Peraltro, il meccanismo procedurale per consentire al contravventore di fruire della causa di estinzione del reato previsto dall'art. 24, comma 1, d.lgs. n. 758 cit., è stabilito per legge e si deve ritenere conosciuto in special modo ai destinatari dei precetti stabiliti in materia di igiene e sicurezza sul lavoro. L'imprenditore/datore di lavoro, indipendentemente dal fatto di essere alloglotta, è tenuto a conoscere non solo le norme che disciplinano la propria attività e gli impongono di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma anche - a maggior ragione - le conseguenze penali che derivano dalla violazione di tale obbligo e le scansioni procedurali previste dalla legge italiana per fruire della causa di estinzione del reato accertato, dell'obbligo di regolarizzazione e delle conseguenze che derivano dall'inadempimento delle relative prescrizioni.
3.11. Poiché, come nel caso di specie, l'emissione delle prescrizioni è stata fisiologicamente preceduta dall'ispezione del luogo del lavoro nel corso della quale il ricorrente era stato assistito da un interprete e reso edotto delle violazioni riscontrate, era suo onere farsi parte diligente e chiederne, semmai, la traduzione in una lingua a lui nota e l'eventuale proroga del termine ai sensi dell'art. 20, comma 1, d.lgs. n. 758 del 1994, fermo restando il dovere immanente di restituire ai luoghi di lavoro le condizioni di igiene e sicurezza imposte dalla legge e la possibilità di fruire comunque della cd. oblazione amministrativa di cui all'art. 24, comma 3, d.lgs. n. 758 del 1994.
3.12. Di certo nulla giustificava l'inadempimento tout court.
4. Il secondo motivo è inammissibile perché manifestamente infondato e proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità.
4.1. Quanto alla dedotta carenza dell'elemento soggettivo è sufficiente rimandare alle considerazioni svolte in sede di esame del primo motivo. La "conoscibilità del contenuto della prescrizione" non ha alcuna rilevanza ai fini della sussistenza oggettiva e soggettiva del reato perché la condotta incriminata preesiste, come detto, alla emanazione della prescrizione ed è anzi presupposta da quest'ultima. Quel che rileva, a fini sanzionatori, è la conoscenza del precetto penalmente sanzionato che non deriva da un evento successivo ed accidentale (la prescrizione, appunto) ma dalla conoscenza stessa della fattispecie incriminatrice la quale, come noto, non tollera ignoranza.
4.2. Quanto alla dedotta carenza dell'elemento oggettivo, ricorda il Collegio che: a) l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali (Sez. U., n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074). L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794); b) la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205621), sicché una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità (Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, Mannino, Rv. 202903); c) è possibile estendere l'indagine di legittimità solo in caso di travisamento di specifici atti del processo, vizio configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499); d) in tal caso è onere del ricorrente, in virtù del principio di "autosufficienza del ricorso" suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in sede di appello), dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, a meno che il "fumus" del vizio dedotto non emerga all'evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (Sez. 2, n. 20677 dell'l 1/04/2017, Schioppo, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053; Sez. F. n. 37368 del 13/09/2007, Torino, Rv. 237302); e) non è sufficiente riportare meri stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell’atto processuale al fine di trarre rafforzamento dall'indebita frantumazione dei contenuti probatori, o, invece, procedere ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte (Sez. 1, n. 23308 del 18/11/2014, Savasta, Rv. 263601; Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, Sisti, Rv. 260994, secondo cui la condizione della specifica indicazione degli "altri atti del processo", con riferimento ai quali, l'art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità, può essere soddisfatta nei modi più diversi (quali, ad esempio, l'integrale riproduzione dell'atto nel testo del ricorso, l'allegazione in copia, l'individuazione precisa dell'atto nel fascicolo processuale di merito), purché detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di cassazione ad una lettura totale degli atti, dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma primo, lett. c), e 591 cod. proc. pen.); f) è necessario, pertanto: i) identificare l'atto processuale omesso o travisato; ii) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; iii) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda; iv) indicare le ragioni per cui l'atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Damiano, Rv. 249035).
4.3. Ne consegue che: a) il vizio di motivazione non può essere utilizzato per spingere l'indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici del ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata; b) l'esame può avere ad oggetto direttamente la prova quando se ne denunci il travisamento, purché l'atto processuale che la incorpora sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimento creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali; c) la natura manifesta della illogicità della motivazione del provvedimento impugnato costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di cassazione di sostituire la propria logica a quella del giudice di merito e di avallare, dunque, ricostruzioni alternative del medesimo fatto, ancorché altrettanto ragionevoli.
4.4. Il ricorrente deduce la carenza dell'elemento oggettivo proponendo una versione dei fatti diversa da (o comunque alternativa rispetto a) quella che risulta dalla lettura della sentenza impugnata; a tal fine attinge a piene mani al contenuto delle prove (dichiarative e documentali) assunte nel corso del dibattimento delle quali però non denuncia il travisamento ed i cui verbali non allega. Ne consegue l'inidoneità del motivo ad essere scrutinato.
4.5. Anche il dedotto malgoverno della norme incriminatrici (sotto il profilo della idoneità delle misure adottate) presuppone una ricostruzione dei fatti diversa da quella che è stata effettuata dal Tribunale e che in aggiunta si alimenta del contenuto delle prove dichiarative.
5.Il terzo motivo è infondato.
5.1. E' vero che il tribunale ha omesso di pronunciare sulla richiesta di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ma la deduzione non è decisiva. 
5.2.Secondo la costante giurisprudenza della Corte, la permanenza del reato osta alla applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen. (Sez. 2, n. 16363 del 13/02/2019, Rv. 276096 - 01; Sez. 3, n. 30383 del 30/03/2016, Rv. 267589 - 01; Sez. 3, n. 50215 del 08/10/2015, Rv. 265435 - 01; cfr. altresì Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Rv. 265448 - 01, secondo cui il reato permanente, in quanto caratterizzato dalla persistenza, ma non dalla reiterazione, della condotta, non è riconducibile nell'alveo del comportamento abituale che preclude l'applicazione di cui all'art. 131-bis cod. pen., anche se importa una attenta valutazione con riferimento alla configurabilità della particolare tenuità dell'offesa, la cui sussistenza è tanto più difficilmente rilevabile quanto più a lungo si sia protratta la permanenza).
5.3. Nel caso di specie, come visto, le plurime violazioni accertate non sono state eliminate (né il ricorrente deduce di averlo mai fatto) residuando conseguenze dannose e/o pericolose dei reati ostative ad una valutazione di speciale tenuità dell'offesa.
6.Anche il quarto motivo è infondato.
6.1. L'art. 68, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2008, recita: «La violazione di più precetti riconducibili alla categoria omogenea di requisiti di sicurezza relativi ai luoghi di lavoro di cui all'allegato IV, punti 1.1, 1.2, 1.3, 1.4, 1.5, 1.6, 1.7, 1.8, 1.9, 1.10, 1.11, 1.12, 1.13, 1.14, 2.1, 2.2, 3, 4, 6.1, 6.2, 6.3, 6.4, 6.5, e 6.6, è considerata una unica violazione ed è punita con la pena prevista dal comma 1, lettera b). L'organo di vigilanza è tenuto a precisare in ogni caso, in sede di contestazione, i diversi precetti violati».
6.2.Secondo l'insegnamento di Sez. 3, n. 50440 del 27/10/2015, Rv. 265625 - 01, ai quale il Collegio intende dare continuità, i precetti contenuti nell'allegato IV del D.Lgs. n. 81 del 2008, e, ove specificato, nei singoli sottopunti, sono riconducibili alla nozione di "categoria omogenea", in quanto accomunati dal fine di tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, con la conseguenza che l'inosservanza di più, tra essi, non integra un concorso materiale di reati, bensì un'unica violazione. Come spiegato in motivazione, «siccome ogni punto dell'allegato IV (per punto si intende ogni singolo contrassegno numerico ossia 1.1, 1.2, 1.3, 1.4, 1.5, 1.6, 1.7, 1.8, 1.9, 1.10, 1.11, 1.12, 1.13, 1.14, 2.1, 2.2, 3, 4, 6.1, 6.2, 6.3, 6.4, 6.5, e 6.6 perché così tipizzato nell'art. 68) disciplina i requisiti di sicurezza con riferimento ad una classe di interessi riguardanti l'ambiente di lavoro (Stabilità e solidità = punto 1.1; Altezza, cubatura e superficie = punto 1.2; Pavimenti, muri, soffitti, finestre e lucernari dei locali scale e marciapiedi mobili, banchina e rampe di carico = punto 1.3 ecc), tutti i precetti che sono ricompresi in ogni singola classe di riferimento, in quanto raggruppati sulla base di un criterio selettivo finalizzato alla tutela di un comune interesse specifico o requisito di sicurezza (la stabilità e la solidità oppure le vie di uscita e di emergenza oppure le porte e portoni ecc), rientrano nella stessa categoria omogenea. Ne consegue che sono riconducibili alla nozione di "categoria omogenea" i precetti contenuti in singoli punti dell'allegato 4A oppure, ove specificati, nei singoli sottopunti».
6.3. Nel caso di specie vi sono più classi di violazioni essendo state violate le prescrizioni relative ai locali di riposo e refezione (punto 1.11.2.4; capo A della rubrica), quelle relative ai servizi igienico-assistenziali (punto 1.13.4.1; capo B della rubrica), quelle relative alla difesa dagli agenti nocivi nei luoghi di lavoro (punto 2.1.4-bis; capo C della rubrica).
7.L'ultimo motivo è inammissibile perché manifestamente infondato e proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità.
7.1. Le contravvenzioni contestate sono punite con la pena dell'arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.096 a 5.260,80 euro (art. 64, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 81 del 2008).
7.2.Il Tribunale, richiamati i criteri di cui all'art. 133 cod. pen., ha ritenuto congrua la pena dell'ammenda di 4.800,00 euro per ciascuna infrazione.
7.3.Secondo il costante insegnamento della Corte è consentito far ricorso a espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa", "congruo aumento", quando il giudice non si discosti molto dai minimi edittali (Sez. 3, n. 28852 del 08/05/2013, Taurasi, Rv. 256464; Sez. 1, n. 1059 del 14/02/1997, Gagliano; Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007, Ruggieri) oppure quando, in caso di pene alternative, applichi la sanzione pecuniaria, ancorché nel suo massimo edittale (Sez. 3, n. 37867 del 18/06/2015, Rv. 264726 - 01, secondo cui quando per la violazione ascritta all'imputato sia prevista alternativamente la pena dell'arresto e quella dell'ammenda, il giudice non è tenuto ad esporre diffusamente le ragioni in base alle quali ha applicato la misura massima della sanzione pecuniaria, perché, avendo l'imputato beneficiato di un trattamento obiettivamente più favorevole rispetto all'altra più rigorosa indicazione della norma, è sufficiente che dalla motivazione sul punto risulti la considerazione conclusiva e determinante in base a cui è stata adottata la decisione, ben potendo esaurirsi tale motivazione nell'accenno alla equità quale criterio di sintesi adeguato e sufficiente; nello stesso senso, Sez. 1, n. 40176 del 01/10/2009, Russo, Rv. 245353 - 01; Sez. 1, n. 3632 del 17/01/1995, Capelluio, Rv. 201495 - 01).
7.4. Nel caso di specie il Tribunale ha applicato la pena pecuniaria, nemmeno nel suo massimo edittale, con conseguente insindacabilità della decisione assunta.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 13/11/2019.