Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 13 luglio 2020, n. 14879 - Asseriti comportamenti mobbizzanti nei confronti del Comandante di Polizia. Nessuna responsabilità del Comune


 


Presidente Napoletano – Relatore Bellé

Rilevato che

la Corte d'Appello di Venezia ha rigettato, per quanto qui ancora interessa, il gravame avverso la sentenza del Tribunale di Bassano del Grappa che aveva a propria volta disatteso la domanda con cui Al. Sc. aveva chiesto il risarcimento del danno nei confronti del Comune di Rosà, di cui era dipendente quale Comandante del Corpo di Polizia Municipale, per asseriti comportamenti mobbizzanti tenuti nei suoi confronti dai primi mesi del 2003 fino al tutto il 2005;
la Corte territoriale riteneva, nell'ordine, che:
- l'episodio relativo al divieto impartito dal Sindaco di consentire agli agenti di Polizia Municipale di fare uso dei segni distintivi di grado non era stato caratterizzato da espressioni minacciose o lesive della dignità del dipendente, ma solo da toni propri della dialettica conflittuale esistente e comunque l'assenza di intenti ostili era confermata dall'essersi chiusa la vicenda con il pieno riconoscimento da parte del Sindaco dei poteri del Comandante in merito all'utilizzo dei distintivi;
- l'episodio (maggio 2003) relativo al divieto di uso delle motociclette storiche Guzzi, non era probante di un intento lesivo da parte del Sindaco, in quanto, pur avendo la questione avuto eco sulla stampa, il ricorrente non aveva neppure spiegato per quale ragione tale decisione dovesse intendersi come espressione di volontà persecutoria e di emarginazione nei suoi confronti e cioè perché quella scelta, che egli non contestava spettasse all'Amministrazione Comunale, dovesse intendersi assunta contro di lui;
- rispetto al procedimento disciplinare dal servizio disposta dal Comune, essa seguiva ad un comportamento tenuto con toni perentori dallo stesso Comandante, in occasione dell'incontro destinato a discutere sull'ipotesi di soppressione del servizio di Polizia Municipale, che non rientrava nei suoi compiti e non costituiva condotta propria per un dipendente, sicché la decisione datoriale di dare corso all'iter sanzionatorio era la conseguenza di una situazione di contrapposizione venutasi a creare, ma non indicava che lo Sc. fosse vittima di forme di prevaricazione;
- quanto alla successiva sospensione disciplinare per i giorni 25 e 26 settembre 2003, l'esecuzione di essa era stata sospesa con comunicazione orale allo Sc. lo stesso giorno (23 settembre 2003) del deposito da parte sua del ricorso ex art. 700 c.p.c. quale effetto automatico, secondo il regolamento comunale, della richiesta di convocazione del collegio di conciliazione formulata dallo stesso ricorrente, sicché non vi era ragione per cui egli rinunciasse al viaggio di nozze (previsto dal 30.9.2003 al 15.10.2003, mentre il matrimonio era da celebrarsi il 27.9.2003) per difendersi, né vi erano argomenti a suffragio della tesi secondo cui la successiva archiviazione disposta dal Comune fosse dovuta alla condanna alle spese subita con l'ordinanza che aveva chiuso il procedimento cautelare giudiziale, perché tale provvedimento non conteneva alcuna valutazione sull'illegittimità del provvedimento sanzionatorio;
- la revoca, proposta dal Sindaco e deliberata dalla Giunta, della posizione organizzativa in capo allo Sc., diffusa con vasta eco da un'emittente locale e nella stampa, trovava fondamento nel venire meno del rapporto fiduciario tra il Comandante e gli organi di vertice del Comune, a causa delle interferenze avutesi da parte dello Sc. nella sfera politica in occasione del menzionato incontro relativo al servizio di Polizia Municipale ed in questo senso la notizia era stata diffusa, senza contare come l'avere poi la P.A. desistito dalla propria intenzione, in quanto la posizione organizzativa non era stata in concreto revocata, non si conciliava con gli intenti mobbizzanti lamentati dal ricorrente;
- rispetto all' "odissea giudiziaria" presso il Tribunale di Bassano del Grappa e poi presso la Corte d'Appello, cui lo Sc. sarebbe stato sottoposto per contestare le valutazioni negative espresse nei suoi confronti dal datore di lavoro, oltre a non esservi stata deduzione rispetto a quale danno non fosse stato eliminato dalle sentenze favorevoli poi ottenute, neppure erano stati addotti elementi per superare il dato evidenziato nella sentenza di primo grado del presente giudizio, secondo il quale i componenti del Nucleo di Vigilanza, cui risalivano le valutazioni negative, erano estranei all'Amministrazione comunale, sicché non sussistevano elementi per ritenerne da questo punto di vista il coinvolgimento in disegni di natura mobbizzante;
- analoghe considerazioni valevano altresì per la fissazione della retribuzione di risultato sulla base della valutazione del medesimo Nucleo di Vigilanza;
- le modifiche unilaterali sugli obiettivi di settore per l'anno 2005 lungi dal consentire di individuare condotte di natura vessatoria, erano da riportare all'ambito delle divergenze sui contenuti e sulle modalità di svolgimento dei servizi, senza contare che la modifica del Piano Esecutivo di Gestione aveva riguardato vari settori e non soltanto quello cui era addetto il ricorrente, il che indicava come le scelte erano state assunte in una prospettiva di riorganizzazione complessiva e non per ragioni di ostilità nei suoi confronti; la riduzione della retribuzione a partire dal 2003 era stata dovuta al fatto che lo Sc., ricoprendo una posizione organizzativa, non aveva potuto, ai sensi dell'art. 10 del C.C.N.L., partecipare ai progetti obiettivo;
sulla base di quanto sopra la Corte distrettuale affermava che il giudice di prime cure aveva correttamente apprezzato l'assenza degli estremi del mobbing lamentato;
lo Sc. ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza con quattro motivi, resistiti da controricorso del Comune di Rosà;
entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative;
Assitalia è rimasta intimata;

Considerato che

con il primo motivo il ricorrente adduce, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2087 c.c., nonché, in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c. l’ «omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e omesso esame di punti decisivi della controversia, omessa valutazione complessive delle prove»;
il motivo consiste di due parti, di cui la prima, da pag. 16 a pag. 26, riguardante le asserite carenze ed erroneità nelle valutazioni dei fatti di causa e quindi da riferire alle deduzioni rubricate nel ricorso sub art. 360 n. 5 c.p.c. e la seconda, da pag. 26 a pag. 28, in cui, richiamandosi l'art. 2087 c.c. si riepilogano alcuni profili giurisprudenziali del mobbing sostenendosi che gli episodi elencati nelle difese integrerebbero la fattispecie in questione, con motivo in parte qua da riportare a quanto rubricato nel ricorso sub art. 360 n. 3 c.p.c.;
la parte di motivo riferibile all'art. 360 n. 5 c.p.c. è inammissibile;
al ricorso trova applicazione il nuovo testo della disposizione citata, in quanto esso è relativo a sentenza pubblicata il 13.8.2013 e dunque dopo il trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore (12.8.2012) della legge di conversione del decreto legge modificativo della norma (art. 54, co. 3, D.L. 83/2012, conv. con mod. in L. 134/2012, in relazione all'art. 54, co. 1, lett. B dello stesso D.L.);
il riferimento del motivo all'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nonché all'omesso esame di "punti" decisivi e ad un'omessa valutazione "complessiva" delle prove, fa dunque riferimento ad un'ipotesi non più prevista come tale dalla legge processuale applicabile;
parimenti il reiterato riferimento, nel corpo del motivo, al fatto che la Corte territoriale non avrebbe «adeguatamente considerato e congruamente motivato» su vari punti decisivi, esprime profili valutativi (adeguatezza e congruità), che non fanno più parte della censura di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c.;
la norma riguarda infatti ora solo l'omesso - e dunque del tutto assente e non solo inadeguato o incongruo - esame di specifici fatti decisivi;
come chiarito da Cass., S.U., 7 aprile 2014, n. 8053, la nuova formulazione, oltre a imporre di ritenere «esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione» introduce «nell'ordinamento un vizio specifico (...) relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo» che «se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia», sicché il ricorso va formulato «nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ.», indicandosi il «"fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie»;
la modifica normativa esclude altresì che l'omesso esame di "punti", cui fanno riferimento la rubrica del motivo e la pregressa formulazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c, ovverosia di nuclei giuridico-fattuali in ipotesi decisivi della controversia, possa avere ulteriore rilievo a fronte di una norma che concentra il motivo di critica esclusivamente nell'omesso esame di un "fatto" decisivo, individuato precisamente nei termini di cui sopra;
tale condivisa impostazione impone di escludere che possa avere ingresso la complessiva proposizione di critiche rispetto al valore ed al significato attribuiti dal giudice del merito agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest'ultimo tesa all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (tra le molte, Cass. 2 dicembre 2019, n. 31400; Cass. 7 agosto 2019, n. 21163, fino a Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148).
nel caso di specie, il motivo in parte qua contiene una serie di censure su vari aspetti (mancata spiegazione da parte della sentenza di appello di taluni profili emersi dall'istruttoria, proposizione di diverse letture rispetto alle valutazioni di merito svolte, critiche alla logicità di altri passaggi) che non si caratterizzano per la necessaria individuazione selettiva, imposta dalla nuova formulazione della norma, dei fatti specifici di cui sia stato del tutto omesso l'esame;
né può in alcun modo ammettersi che una tale stringente impostazione sia surrogata dalla cernita giudiziale, tra i più fatti contestualmente richiamati nell'ambito del motivo, di singole circostanze ipoteticamente rilevanti nel senso richiesto dalla norma (v. Cass. 21 ottobre 2019, n. 26764);
il motivo, nella seconda parte, contiene invece richiami giurisprudenziali e la ripetuta affermazione che i fatti esposti in causa ne integrerebbero la fattispecie, senza però porsi in relazione critica con le articolate valutazioni della sentenza impugnata con cui si è denegata la fondatezza della domanda, sicché il ricorso in parte qua risulta in sostanza privo di caratura impugnatoria; il secondo motivo è rubricato ancora ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c, con richiamo sempre all'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nonché all'omesso esame di "punti" decisivi;
da un primo punto di vista si afferma che il protrarsi «per lungo tempo ma in un arco temporale ristretto» delle condotte denunciate renderebbe palese l'intento persecutorio, ma si tratta ancora della sottolineatura di una diversa interpretazione degli elementi da cui desumere l'asserita volontà lesiva di cui la Corte d'Appello ha escluso la ricorrenza, sicché il profilo si riporta sempre al tentativo di ottenere una inammissibile rivisitazione del convincimento di merito;
da altro punto di vista, si sostiene che l'attribuzione delle condotte ai singoli componenti di organi collegiali o ad organi diversi dal Sindaco e dalla Giunta non avrebbe potuto comportare l'esclusione di responsabilità del Comune, cui comunque si imputavano i comportamenti posti in essere da chi aveva agito per l'ente nell'esercizio di funzioni istituzionali;
in proposito si osserva come la Corte d'Appello, tra le diverse rationes decidendi comunque spese per quegli episodi che coinvolgevano il Nucleo di Valutazione, non abbia argomentato nel senso che gli atti del medesimo non fossero imputabili al Comune, quanto piuttosto nel ben diverso senso che, stante la terzietà di esso rispetto agli organi (Sindaco e Giunta) cui si riferivano nel loro complesso le imputazioni del lavoratore, non vi erano elementi per ritenerne il coinvolgimento in disegni di natura mobbizzante;
la formulazione della censura non è dunque coerente con l'effettiva sostanza della decisione ed è dunque inammissibile;
il terzo motivo adduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 32 e 41, co. 2, della Costituzione, nonché dell'art. 2087 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.) ed ancora omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi per il giudizio, sottolineando come lo Corte di merito non abbia «fornito alcuna motivazione logica e congrua sul perché i singoli episodi», pur se non unificati in un intento persecutorio riportabile al mobbing, se «esaminati in relazione agli altri, non sarebbero vessatori e mortificanti per il ricorrente»;
il motivo è inammissibile in quanto non è indicato quali sarebbero tali specifici comportamenti o singoli episodi che rivestirebbero in sé soli la denunciata efficacia lesiva, sicché la formulazione resta del tutto generica e non meglio argomentata;
il quarto motivo afferma la violazione e falsa applicazione dell'art. 441 c.p.c. e 41 c.p. (art. 360 n. 3 c.p.c.) e la sussistenza di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia;
con esso il ricorrente rimarca di avere denunciato in appello come il Tribunale avesse omesso di prendere in considerazione la prostatite cronica con iniziale diverticolosi del sigma, di cui era affetto e ciò pur avendo la c.t.u., nell'escludere il nesso con lo stress lavorativo, riconosciuto la possibilità che esso avesse accentuato o slatentizzato i disturbi di pertinenza gastroenterologica;
l'inammissibilità e infondatezza dei motivi attinenti alla responsabilità datoriale esclude che, seppure in ipotesi lo stress lavorativo possa avere avuto effetti sfavorevoli su situazioni patologiche latenti, siffatto nesso causale assuma rilevanza, atteso che del pregiudizio (ancora in ipotesi) ad esso correlato non può essere chiamato a rispondere il datore che non abbia tenuto comportamenti illegittimi;
è noto infatti che la responsabilità ai sensi dell'art. 2087 c.c., non è oggettiva, bensì fondata sulla violazione di obblighi di comportamento, a protezione della salute del lavoratore, imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, purché concretamente individuati (da ultimo, v. Cass. 23 maggio 2019, n. 14066), sicché essa non può sussistere ove non risultino comportamenti concretamente in contrasto con i doveri datoriali;
il ricorso va dunque complessivamente rigettato, con regolazione secondo soccombenza delle spese di giudizio nei riguardi della parte che, resistendo, ha svolto difese in questa sede;

 

P.Q.M.
 


La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore del Comune di Rosa delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.