Cassazione Civile, Sez. Lav., 22 luglio 2020, n. 15635 - Risarcimento dei danni per illegittimità del trasferimento



Presidente Nobile – Relatore Ciriello

Rilevato

che il Tribunale di Busto Arsizio con sentenza n. 186/2015 ha accolto parzialmente il ricorso promosso dal Pi. An. diretto ad ottenere l'accertamento dell'illegittimità del trasferimento adottato da Illva Saranno Spa nei suoi confronti (trasferimento avvenuto a seguito dell' ordine di reintegra pronunciata in via d'urgenza dal Giudice) con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro ricoperto prima del licenziamento e condanna della società convenuta al risarcimento dei danni subiti per effetto del trasferimento;
che la Corte di appello di con la sentenza n. 2127/2018, ha respinto entrambi gli appelli proposti contro la sentenza di primo grado; che a fondamento del decisum, sul rilievo che la ILLVA SARANNO non avesse adempiuto all'onere di provare le ragioni di cui all'art. 2103 c.c. non dimostrando in giudizio la effettiva sussistenza di un processo di riorganizzazione interna comportante il venir meno delle mansioni in precedenza demandate al ricorrente, la corte ha considerato illegittimo il trasferimento, concordemente con il giudice di primo grado, evidenziando che "l'attività di commercializzazione in Sicilia continua ad essere svolta ancora attualmente" che dopo il licenziamento furono assunti altri lavoratori, e che la dedotta soppressione delle funzioni "intermedie", posta dalla società alla base del trasferimento, fosse smentita dalla documentazione prodotta (v. pag. 6) e peraltro non provata dalla società;
che avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la ILLVA SARANNO, affidato a 4 motivi;
che Pi. An. ha resistito con controricorso;
che il P.G. non ha formulato richieste scritte
che sono state depositate memorie illustrative.

Considerato

che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura:
1) ai sensi dell'art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. in cui sarebbero incorsi i giudici di merito (la corte di appello conformemente a quello di primo grado) non ammettendo i mezzi istruttori dedotti dalla resistente.
In particolare si duole la ricorrente che all'udienza del 25.3.2015 avesse senza esito insistito nelle proprie istanze di prova, avendo il giudice deciso sulla base della prova documentale, poi imputando alla IILVA l'omesso adempimento della prova;
2) ai sensi dell'art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c. , la violazione e falsa applicazione di norme di legge e l'omesso esame e valutazione documentazione allegata, in cui sarebbe incorsa la corte non tenendo conto del fatto che, da tutta la documentazione prodotta dalla società doveva desumersi che non corrispondeva a verità l'assunto del Pi. secondo il quale altri lavoratori avrebbero rivestito la posizione organizzativa da lui coperta prima del licenziamento e mai soppressa, poiché anzi emergeva che la posizione organizzativa ricoperta dal Pi. non fu stata assegnata a nessun altro lavoratore dopo il suo licenziamento;
3) ai sensi dell'art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. in cui sarebbe incorsa la corte estendendo il proprio giudizio anche ai profili di illegittimità della procedura di cui alla legge 223/91, a seguito della quale il Pi. è stato licenziato, nonostante oggetto del giudizio di primo grado, nonché del successivo appello fosse solo la legittimità o meno del trasferimento. Osserva sul punto la ricorrente come "già il Giudice di primo grado, errando, aveva esteso il proprio sindacato in ordine alla pretesa genericità delle comunicazioni di cui alla procedura eli mobilità, nonché in ordine alla pretesa violazione dei criteri di scelta da parte di Illva", tanto che la società aveva formulato specifico motivo di appello per violazione dell'art. 112 c.p.c.
Tuttavia, la Corte, " non tenendo in alcun conto il motivo di appello, ha integralmente fatto proprio quanto affermato dal Giudice di primo grado, sul punto".
4) ai sensi dell'art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c. , la violazione e falsa applicazione di norme e l’ erroneità nell'interpretazione della prova documentale, in cui sarebbe incorsa la Corte quanto alla comunicazione di servizio 26/01/2012 da cui avrebbe desunto, concordemente al primo giudice, elementi di prova a favore del Pi., senza prendere in considerazione "la numerosa documentazione prodotta dall'odierna ricorrente nel giudizio di primo grado"-
che il primo motivo di ricorso è inammissibile, poiché formulato in maniera generica ed aspecifica. Ed infatti la giurisprudenza di questa corte ha da tempo evidenziato come "ai fini del rituale adempimento dell'onere, imposto al ricorrente dall'art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l'esame". Cass. 23 marzo 2010, n. 6937, e Cass. 16 marzo 2012, n. 4220. Secondo Cass. 9 aprile 2013, n. 8569.
L'onere di Cd. localizzazione, in altre parole, nella interpretazione fornita da questa corte del n. 6 dell'art. 366 cod. proc. civ., si atteggia come previsione a carico del ricorrente di un onere ulteriore rispetto a quello di integrale trascrizione degli atti processuali, il cui assolvimento risulta indispensabile ai fini dell'ammissibilità del motivo di ricorso, in quanto, anche in presenza di una puntuale riproduzione degli atti dei precedenti gradi di giudizio, posti a fondamento della censura, la mancata individuazione topografica del luogo processuale in cui gli stessi sono consultabili non consente alla Corte di reperirli per verificare se il contenuto sia conforme a quanto trascritto dal ricorrente in seno al ricorso;
parte ricorrente, nel caso di specie sfugge al rispetto degli oneri sopra richiamati, non indicando né allegando e localizzando le allegazioni che riporta, né il verbale di udienza richiamato; che i successivi motivi, esaminabili congiuntamente per connessione logico giuridica, sono infondati.
Ed infatti, nonostante la veste formale della denuncia di violazioni di legge, nella sostanza, con affermazioni aspecifiche e senza confrontarsi realmente con la decisione impugnata, la ricorrente lamenta un errato apprezzamento da parte dei giudici di merito della vicenda storica che ha dato origine alla controversia, con una richiesta di riesame della quaestio facti che è preclusa in questa sede di legittimità, tanto più nella vigenza, come ne caso che ci occupa, dell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c, introdotto dall'art. 54 del D.L. n. 83 del 2012, conv. in L. n. 134 del 2012, come rigorosamente interpretato da Cass. SS. UU. nn. 8053 e 8054 del 2014.
Nel caso di specie, la corte di appello, con adeguata motivazione, e richiamando quanto osservato dal primo Giudice, ha evidenziato, non solo, che "ancora attualmente diversi dipendenti (anche neo assunti; a tale proposito si rileva come l'inquadramento di molti di essi secondo un livello inferiore rispetto a quello posseduto dal Pi. non costituisca argomentazione convincente e assorbente dal momento che è noto come i neo assunti vengano normalmente inquadrati nei livelli più bassi durante il tempo occorrente per prendere autonomia e sicurezza nella nuova attività lavorativa) si occupano della commercializzazione, dei prodotti Illva in Sicilia o comunque nel Sud d'Italia, ma anche che la mancata attribuzione al ricorrente delle precedenti mansioni non può ora essere giustificata sulla base dell'attuale situazione venutasi a creare in conseguenza di scelte aziendali illegittime (mancata corretta applicazione dei criteri di scelta del lavoratore da licenziare e attribuzione delle mansioni del lavoratore licenziato a un dipendente con minor anzianità di servizio)"; né tale ultima affermazione, che non costituisce il nucleo essenziale della decisione, conduce alla dedotta illegittimità della sentenza, non avendo neppure chiarito il ricorrente la rilevanza della presunta violazione dell'art. 112 c.p.c.; ed invero per costituire motivo idoneo di ricorso per cassazione, il vizio processuale deve necessariamente influire, in modo determinante, sulla sentenza impugnata, nel senso che la pronuncia stessa - in assenza del vizio denunciato - non sarebbe stata resa nel senso in cui lo è stata (v. per tutte: Cass. n. 22978 del 2015); infatti la lesione delle norme processuali non è invocabile in sé e per sé, essendo viceversa sempre necessario che la parte che deduce siffatta violazione adduca anche, a dimostrazione della fondatezza, la sussistenza di un effettivo pregiudizio conseguente alla violazione medesima (Cass. SS.UU. n. 3758 del 2009), poiché alla radice di ogni impugnazione deve essere individuato in interesse giuridicamente tutelato, identificabile nella possibilità di conseguire una concreta utilità o un risultato giuridicamente apprezzabile, attraverso la rimozione della statuizione censurata, e non già un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica non avente riflessi effettivi sulla soluzione adottata (Cass. n. 18074 del 2014; Cass. n. 7394 del 2008; Cass. n. 13091 del 2003); nel caso di specie, conclusivamente, la corte, specificamente valutando la vicenda del trasferimento, ha riscontrato la mancata dimostrazione in giudizio della effettiva sussistenza di un processo di riorganizzazione interna comportante il venir meno delle mansioni in precedenza demandate al Pi., unitamente alla dimostrazione del fatto che l'attività di commercializzazione in Sicilia continua ad essere svolta "ancora attualmente" pervenendo logicamente alla "dichiarazione di illegittimità del trasferimento adottato nei confronti del Signor Pi. An.".
che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve, pertanto, essere rigettato;
che al rigetto segue la condanna della ricorrente, secondo il principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità;
che, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

 

P.Q.M.
 


La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.