Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 3, 12 marzo 2020, n. 9878 - Molestie sessuali nell'ambito della pubblica amministrazione


 



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LIBERATI Giovanni - Presidente -

Dott. GAI Emanuela - Consigliere -

Dott. CORBO Antonio - Consigliere -

Dott. MENGONI Enrico - rel. Consigliere -

Dott. ZUNICA Fabio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA


sul ricorso proposto da:

R.N., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 6/7/2018 della Corte di appello di Napoli;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

sentita la relazione svolta dal Consigliere MENGONI Enrico;

udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale MOLINO Pietro, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

udite le conclusioni del difensore della parte civile, Avv. Ernesto Ruggiano, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

udite le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. Marcello D'Auria, che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso.

 

Fatto


1. Con sentenza del 6/7/2018, la Corte di appello di Napoli, in riforma della pronuncia emessa il 5/2/2016 dal Tribunale di Benevento, dichiarava R.N. colpevole del delitto di cui all'art. 81 cpv. c.p., art. 56 c.p., art. 609-bis c.p., u.c., art. 609- septies c.p., comma 4, n. 3), e lo condannava alla pena di due anni di reclusione; allo stesso, nella descritta qualità all'interno dell'Amministrazione autonoma Monopoli di Stato, era contestato di aver commesso atti sessuali - in forma tentata e consumata - in danno di una collaboratrice, nei termini e nei tempi di cui alla rubrica.

2. Propone diffuso ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:

- erronea applicazione dell'art. 609-septies c.p., comma 4, n. 3); vizio di motivazione. La Corte di appello, in contrasto con il Tribunale, avrebbe immotivatamente concluso che il ricorrente vestisse una posizione di supremazia e preminenza all'interno dell'ufficio e nei confronti della persona offesa, allorquando, per contro, l'istruttoria avrebbe provato che i due avevano un rapporto di colleganza paritaria, con identico inquadramento professionale e trattamento economico; il ricorrente, infatti, avrebbe coperto il solo ruolo di referente, limitandosi a raccordare l'ufficio con il direttore e comunicando a questi l'andamento dell'attività. Un rapporto - tra l'imputato e la donna - non di tipo pubblicistico, quindi, ma privatistico, dal quale, pertanto, non sarebbe mai potuto derivare un sentimento di soggezione psicologica o di metus della seconda verso il primo, come invece erroneamente affermato in sentenza. Quel che, peraltro, troverebbe conferma nelle parole della stessa Corte, che avrebbe riferito come la parte civile, in occasione delle molestie, avesse prontamente reagito, in modo fisico e verbale, sì da evidenziare l'assenza di un qualunque atteggiamento di inferiorità o timore. La qualità di pubblico ufficiale propria del ricorrente, dunque, non avrebbe in alcun modo agevolato la commissione del reato (come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità per configurare la circostanza aggravante in esame), invero legato al normale e necessitato rapporto di lavoro ed insensibile alla natura pubblica dell'attività, svolta da entrambi;

- vizio di motivazione con riguardo a molteplici profili. Premesso che la sentenza non conterrebbe alcuna motivazione rafforzata rispetto alla pronuncia del primo Giudice, limitandosi la Corte a contrapporre la propria lettura del materiale probatorio a quella compiuta dal Tribunale; tanto premesso, emergerebbe palese il travisamento della prova (dichiarativa) ad opera del Collegio di appello, dalla quale tutta risulterebbe, ancora, l'assenza di qualsivoglia potere di supremazia in capo al ricorrente e, pertanto, di uno stato di timore e condizionamento nella vittima. La sentenza, per sostenere il contrario, avrebbe impiegato soltanto frammenti di dichiarazioni, anche rese dalla donna, senza operarne una lettura complessiva; per compiere la quale, peraltro, la Corte avrebbe dovuto riassumere la deposizione anche di due colleghi della stessa persona offesa ( D. e I.), le cui dichiarazioni dibattimentali sarebbero state impiegate a sostegno delle accuse. Si tratterebbe, quindi, di una prova decisiva, la cui mancata assunzione vizierebbe la struttura argomentativa della pronuncia. Di seguito, e sempre nell'ambito del secondo motivo, si lamenta la mancata valutazione della memoria depositata l'11/5/2018, nella quale si richiamerebbero le dichiarazioni di numerosi testimoni ( De.Ve., Ru., M., P.) che, se esaminate, avrebbero ulteriormente confermato l'assenza di un potere gerarchico in capo all'imputato e, pertanto, di un metus in capo alla donna; come ancora ribadito, peraltro, dalla riferita volontà di questa di continuare comunque a lavorare nella stessa stanza del ricorrente (pur in esito al contestato episodio del (OMISSIS)), così come dall'episodio del corso di aggiornamento seguito dai due a (OMISSIS), per il quale la parte civile avrebbe deciso di alloggiare nel medesimo albergo dell'altro (oltre a mangiare spesso con lui), pur potendone scegliere uno diverso. Da ultimo sul punto, risulterebbe palese la contraddittorietà della motivazione laddove, con argomento inconciliabile, riconoscerebbe tanto la circostanza aggravante in esame quanto l'attenuante di cui all'art. 609-bis c.p., u.c.;

- la stessa contraddizione, infine, si lamenta quanto al giudizio espresso dalla Corte sulla sentenza di primo grado, laddove, per un verso, si contesterebbe al Tribunale di non aver valutato le prove dichiarative, e, per altro verso, se ne confermerebbe la motivazione proprio su queste.

La parte civile ha fatto pervenire una memoria a data 15/1/2020, con la quale ha chiesto il rigetto dell'impugnazione.

Motivi della decisione
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato; le numerose censure, peraltro, ben possono esser trattate in modo congiunto, emergendone evidente l'identità di ratio e contenuto, volta a contestare la sentenza con riguardo all'unico profilo di rilievo, quale la circostanza aggravante di cui all'art. 609-septies c.p., comma 4, n. 3), che sola ha consentito la procedibilità d'ufficio, attesa la tardività della querela.

4. Ritiene la Corte, proprio a tale proposito, che la pronuncia non meriti censura, contenendo una lettura del materiale probatorio del tutto congrua, logicamente articolata e priva dei vizi argomentativi denunciati; motivazione con la quale, in particolare, il Collegio di appello non si è limitato a sostituire la propria valutazione del materiale probatorio a quella compiuta dal Tribunale, come qui si lamenta, ma ha contestato tout court il carattere assertivo e di fatto immotivato della prima sentenza, contrapponendo a questa un esame finalmente articolato e complessivo delle stesse risultanze istruttorie, integrate soltanto dalla nuova escussione della persona offesa, peraltro immutata nei contenuti essenziali. Una lettura delle prove con la quale, dunque, la Corte ha concluso per la sussistenza della circostanza aggravante in esame, a fronte di una pronuncia di primo grado che era pervenuta a conclusioni opposte in assenza di un'effettiva motivazione, e pur dando atto di elementi concreti che avrebbero dovuto condurre a soluzioni difformi.

5. Tanto premesso, la circostanza aggravante in oggetto - "se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell'esercizio delle proprie funzioni" - è stata riconosciuta dal Collegio di appello in forza di numerosi e specifici esiti dichiarativi tralasciati dal primo Giudice, che peraltro il ricorso non contesta, se non lamentandone - in modo del tutto generico - un richiamo frazionato o parziale. In ragione di queste emergenze, la sentenza ha quindi affermato che il ricorrente - lungi dallo svolgere il ruolo di mero referente del direttore De.Ve. all'interno dell'ufficio, così limitandosi a riferirne l'andamento - risultava di fatto il "capo" dell'ufficio stesso, al punto che: a) tutte le pratiche trattate erano sottoposte al suo vaglio; b) consentiva o meno la partecipazione a corsi di formazione in sede regionale (la donna, in una occasione, si era vista negare proprio dall'imputato tale possibilità); c) rivestiva la funzione "di capo settore degli apparecchi di intrattenimento", mentre la persona offesa, unitamente ad altri quattro impiegati, ne era una collaboratrice; d) dava il benestare "anche solo per prendere un caffè" o partecipare a verifiche esterne, oltre a risultare il destinatario di domande di permessi o di ferie.

6. Quanto precede - osserva il Collegio - la Corte di appello ha tratto in primo luogo dalle dichiarazioni della persona offesa (che tale rapporto lavorativo aveva descritto, prima ancora delle condotte di reato), definite lucide, coerenti e ricche di particolari, nonchè prive di contraddizioni, di animosità o di rancore nei confronti del ricorrente (come emerge anche dal racconto sul corso di aggiornamento al quale entrambi avevano partecipato, che ben la donna avrebbe potuto arricchire di elementi utili all'accusa, qualora avesse voluto). Quel che, ancora, neppure questi contesta, atteso che in nessun passo dell'impugnazione si lamenta il giudizio di attendibilità formulato sulla donna in entrambe le pronunce di merito; conclusione - si osservi - che vale con riguardo non soltanto alle condotte di natura sessuale compendiate nel capo di accusa, completamente estranee al ricorso, ma anche al ruolo ricoperto dall'imputato nell'ufficio in cui questa prestava servizio, compiutamente descritto nei termini appena riportati, che nessuna contestazione in fatto hanno ricevuto in questa sede.

7. Di seguito, la posizione di concreta preminenza del soggetto, al di là di qualifiche formali o trattamenti retributivi, è stata riconosciuta in sentenza anche con il richiamo ad un documento proveniente dallo stesso imputato, quale una lettera del 2/12/2012; in questa, in particolare, si legge che "la gelosia del lavoro e il non riconoscere nel sottoscritto il funzionario responsabile e coordinatore del settore ha forse scatenato le gravi e infamanti accuse nei confronti del superiore".

8. Ancora nello stesso senso, da ultimo, sono state richiamate le dichiarazioni di due colleghi della donna ( D. e I.), che avevano riferito brevi elementi dai quali ulteriormente ricavare la supremazia esercitata dal ricorrente nell'ufficio. Quel che, peraltro, i due testimoni avevano affermato in primo grado, senza che però il Tribunale ne avesse tratto conseguenze nell'ottica dell'accusa; ne consegue che la Corte ha operato delle stesse dichiarazioni una (logica) valutazione in luogo di una "non valutazione" ad opera del primo Giudice, sì da non rendere necessaria una nuova escussione degli stessi soggetti, ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis. Ciò, peraltro, a differenza di quanto congruamente ritenuto dal Collegio di appello con riguardo alla deposizione della donna, attesane la decisività nel riferire il rapporto di lavoro con l'imputato, a differenza dei testi citati che avevano indicato soltanto elementi di conferma. Sì da doversi negare - a queste ultime deposizioni - la qualifica di prova decisiva, che invece il ricorrente sostiene, lamentandone la mancata assunzione; per costante e condiviso indirizzo, infatti, tale deve intendersi secondo la previsione dell'art. 606 c.p.p., lett. d), la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (per tutte, Sez. 4, n. 6783 del 23/1/2014, Di Meglio, Rv. 259323).

9. La Corte di appello, infine, ha riconosciuto la supremazia del ricorrente rispetto alla donna, nell'ambito del comune ufficio, pur a fronte di deposizioni di segno contrario, vanificate nella loro valenza probatoria con argomento non manifestamente illogico; se, infatti, la M. è stata ritenuta non credibile perchè in rapporti pessimi con la persona offesa, avendo addirittura sporto una querela contro di lei, così il De.Ve. è risultato interessato "ad alleggerire la posizione processuale del R., considerato che costui aveva posto in atto le condotte moleste col suo pieno e costante avallo, comportamento che già gli era costato una duplice condanna da parte del Tribunale del Lavoro nel medesimo procedimento coinvolgente l'imputato".

10. In forza di questo ampio e completo compendio probatorio, la sentenza ha quindi concluso per la piena configurabilità della circostanza aggravante contestata (pacifiche - si ribadisce - le condotte di cui alla rubrica e la loro esclusiva riferibilità al ricorrente), riscontrando un collegamento funzionale tra il ruolo ricoperto dall'imputato e le aggressioni da questo perpetrate, "ovvero che la commissione del reato sia stata agevolata e resa possibile dal potere inerente all'esercizio della funzione pubblica (...) e dal rapporto particolare instauratosi tra lui e la vittima in relazione al servizio svolto", vittima vulnerabile per il metus nutrito nei suoi confronti, o comunque per la soggezione psicologica. E senza che, in termini contrari, possa valere la reazione - fisica e verbale - che la donna era riuscita in alcune occasioni a manifestare; nessuna contraddizione, infatti, è ravvisabile al riguardo nella pronuncia impugnata, atteso che i due elementi richiamati non appaiono affatto in sè incompatibili, come invece apoditticamente sostenuto nel ricorso.

Del tutto irrilevante, di seguito, risulta anche l'asserito mancato esame della memoria dell'11/5/2018, che - anche a voler aderire a tale prospettazione difensiva - non avrebbe comunque potuto aggiungere alcun elemento di rilievo alla sentenza, che di fatto ne ha trattato tutti i profili, esplicitamente o per implicito: ed invero, come, per un verso, la Corte di appello ha esaminato il tema dei rapporti interni all'ufficio e delle relative qualifiche, anche alla luce delle dichiarazioni della persona offesa, di De.Ve. e di M., così, per altro verso non risulta certo decisiva la circostanza, di mero fatto, secondo la quale la donna avrebbe scelto lo stesso albergo del ricorrente a Roma, per il citato corso di aggiornamento, atteso che il dato in sè - quand'anche riscontrato - non risulterebbe di certo significativo.

11. Con tale complessa ed articolata motivazione, dunque, la sentenza ha aderito alla costante giurisprudenza di legittimità secondo cui "la qualità di pubblico ufficiale o d'incaricato di pubblico servizio assume rilevanza ai fini della procedibilità d'ufficio non solo quando si pone in relazione diretta con la condotta criminosa, ciò che si verifica quando il reato è commesso nell'esercizio delle funzioni pubblicistiche, ma anche quando, pur collocandosi il comportamento criminoso fuori dall'esercizio di tali funzioni, abbia agevolato in modo diretto la commissione del reato. La ratio della disposizione - analoga alla fattispecie di cui al precedente n. 4 del medesimo art. 609-septies, comma 4 ("se il fatto è commesso dall'ascendente, dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, dal tutore, ovvero da altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia o che abbia con esso una relazione di convivenza") - è quella di tutelare la parte offesa che, per il particolare rapporto con l'autore dell'abuso (congiunto o assimilato) ovvero per il ruolo di quest'ultimo (pubblico ufficiale o assimilato), possa avere una oggettiva remora a presentare tempestivamente la querela.

Con riferimento all'art. 609-septies, comma 4, n. 3, dunque, è necessario e sufficiente che la qualità di pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio abbia inciso nella commissione dell'abuso, nel senso che abbia avuto un'oggettiva rilevanza in termini di maggiore vulnerabilità della parte offesa per il metus o la soggezione psicologica riconducibili alla qualità suddetta" (in questi termini, Sez. 3, n. 15181 del 10/1/2012, B, Rv. 252371; tra le altre, successivamente, Sez. 3, n. 3637 del 5/11/2013, C, Rv. 258926); proprio quel che la Corte di merito ha riscontrato nella vicenda in esame, in particolare valorizzando che le condotte delittuose erano state tenute esclusivamente sul luogo di lavoro, approfittando della condivisione dei medesimi limitati spazi e della posizione di supremazia, e che la persona offesa aveva così maturato un sentimento effettivo di soggezione nei confronti dell'imputato, tanto da "supplicare" il De.Ve., nell'ambito di una riorganizzazione dell'ufficio, "di non inserirla nello stesso settore del R. e motivando la richiesta proprio sulla base dei molesti comportamenti tenuti" da questi.

12. Da ultimo, rileva la Corte che nessuna contraddizione si riscontra nella sentenza laddove ha riconosciuto sia la circostanza aggravante in oggetto che l'attenuante di cui all'art. 609-bis c.p., comma 3. Quest'ultima, infatti, è stata applicata dal Giudice di appello in ragione delle modalità estrinseche delle condotte di reato, ossia dei comportamenti (pacificamente) tenuti dal ricorrente per violare la sfera sessuale della persona offesa; ciò che, all'evidenza, attiene ad un profilo diverso da quello coinvolgente la circostanza ex art. 609-septies c.p., comma 4, n. 3) che attiene al rapporto tra autore del fatto, attività esercitata e vittima.

Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. Segue, a carico del ricorrente, anche la condanna al rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in Euro 3.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.



P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende e alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, liquidate in Euro 3.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Dispone, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, che - a tutela dei diritti o della dignità degli interessati - sia apposta a cura della cancelleria, sull'originale della sentenza, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.

Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2020