Cassazione Civile, Sez. Lav., 05 ottobre 2020, n. 21314 - Caduta dal ponteggio. Concorso di colpa del lavoratore e azione di regresso


 

Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: CALAFIORE DANIELA
Data pubblicazione: 05/10/2020
 

Rilevato che
La Corte d'appello di Roma, con sentenza n. 192 del 2014, ha rigettato l'impugnazione proposta da M.D. nei confronti dell'Inail avverso la sentenza del Tribunale di Viterbo di accoglimento della domanda di regresso, avanzata dall'Inail ai sensi degli artt. 10 ed 11 d.P.R. n. 1124 del 1965, in relazione alle somme erogate dall'Istituto a seguito dell'infortunio occorso il 6 agosto 1997 ad E.C. (dipendente di M.D. impegnato nel cantiere edile di Soriano nel Cimino) che si era procurato lesioni gravissime cadendo dal ponteggio apprestato dal datore di lavoro;
la Corte territoriale, dopo aver rilevato l'inammissibilità per genericità dei motivi d'appello relativi alla eccezione di prescrizione del credito ed a quella di improponibilità ed improcedibilità dell'azione di regresso per l'assenza di condanna penale, ha respinto l'unico motivo ritenuto ammissibile, con il quale si era lamentata la erronea affermazione della responsabilità del M.D. nella causazione dell'evento;
in particolare, la Corte territoriale ha accertato, valutando le risultanze istruttorie acquisite in primo grado e costituite dalla documentazione del processo penale (conclusosi con sentenza di proscioglimento per prescrizione) e da due testimonianze, la responsabilità del datore di lavoro, in quanto non aveva impedito ai dipendenti di utilizzare il ponteggio per accedere all'appartamento e per non avere predisposto una idonea vigilanza sul rispetto del divieto; la sentenza impugnata ha pure riconosciuto il concorso di colpa del lavoratore ai sensi dell'art. 1227, primo comma, c.c., in quanto lo stesso aveva, in modo immotivato ed irragionevole ma non abnorme, utilizzato il ponteggio, apprestato solo per appoggiarvi un tiro destinato solo a sollevare carichi, per salire nell'appartamento da ristrutturare;
a fronte di una valutazione dell'apporto causale fornito dall'infortunato pari al cinquanta per cento e di una stima dell'intero danno civilistico (liquidato secondo le tabelle del Tribunale di Milano) subito dal lavoratore pari ad Euro 850.220,23, la Corte d'appello ha rilevato che l'importo richiesto dall'Inail era pari ad Euro 396.632,61 e, quindi, inferiore alla somma dovuta dal datore di lavoro a titolo di risarcimento del danno per cui nessuna decurtazione andava effettuata;
avverso tale sentenza, M.D. ricorre per cassazione sulla base di due motivi: 1) errata e contraddittoria valutazione di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, nonché carenza di motivazione, e violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione alla circostanza che dall'istruttoria non era mai emersa la prova che il datore di lavoro non avesse fatto osservare il divieto di salire e o scendere lungo i montanti del ponteggio; 2) violazione e o falsa applicazione di norme di diritto laddove la sentenza impugnata, pur riconoscendo il concorso di colpa del lavoratore, non aveva dimezzato la pretesa dell'Inail riducendola del cinquanta percento; ciò avrebbe, altresì, determinato il vizio di ultrapetizione;
l'Inail resiste con controricorso;
 

Considerato che
Il primo motivo è inammissibile; esso pur essendo intitolato, in modo cumulativo, sia al vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360, primo comma n. 5) c.p.c., che alla violazione di legge di cui al n. 3 del medesimo comma primo dell'art. 360 c.p.c., nella illustrazione si sofferma solo sul vizio di motivazione in quanto, ad avviso del ricorrente, le ragioni addotte dalla sentenza impugnata sarebbero carenti e contraddittorie laddove si è dedotta la responsabilità del datore di lavoro derivante dalla omissione dell'obbligo di fare osservare il divieto di salire e o scendere lungo i montanti del ponteggio dal quale il lavoratore è precipitato, pur riconoscendo che lo stesso datore non aveva l'obbligo di predisporre le misure di sicurezza richieste in generale per i ponteggi, dal momento che il ponteggio in questione era stato realizzato solo per sostenere un tiro e non per essere calpestato; inoltre, la conclusione della sentenza non sarebbe coerente con i contenuti della testimonianza di un certo Parsi resa nel corso del giudizio penale;
la doglianza non è conforme al modello di vizio motivazionale accolto dalla formulazione vigente, ed applicabile alla fattispecie ratione temporis, dell'art. 360, primo comma n.5, c.p.c.;
questa Corte di legittimità ha, ormai da tempo, affermato che il testo della citata disposizione, riformulato dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in I. n. 134 del 2012, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. 27415 del 2018; SS.UU. n. 8053 del 2014);
tale riformulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali;
tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione ( Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014);
nel caso di specie, la doglianza non evidenzia il ricorrere di tali vizi ma, semmai, una lettura delle risultanze istruttorie giudicata non coerente con una complessiva valutazione del quadro probatorio;
ma ciò, oltre a non derivare dalla esatta riproduzione ed allegazione degli atti cui ci si riferisce, altro non è che una critica alla discrezionale attività di prudente apprezzamento del materiale istruttorio che spetta esclusivamente al giudice del merito e che non può essere sindacato dal giudice di legittimità;
il secondo motivo pare alludere (visto che non è espressamente indicata quale sarebbe la norma violata, ai sensi del n. 3 dell'art. 360, primo comma c.p.c.) ad un presunto errore in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata laddove, pur riconoscendo che il lavoratore aveva posto in essere una condotta del tutto imprudente, arrampicandosi sul ponteggio, tale da limitare al cinquanta per cento la entità del danno risarcibile da parte del datore di lavoro, non aveva decurtato della medesima percentuale la pretesa avanzata dall'Inail in applicazione dell'art. 1227, secondo comma, C.C.;
tale motivo è infondato, giacché, come correttamente riportato dalla sentenza impugnata, l'azione di regresso riconosciuta all'Inail nei confronti del datore di lavoro dagli artt. 10 ed 11 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, ove sia accertata la responsabilità di quest'ultimo in sede penale o civile in ordine all'infortunio subito dal lavoratore assicurato e per il quale l'istituto abbia corrisposto le prestazioni di legge, ha natura diretta ed autonoma, derivando dal rapporto assicurativo, senza che sia possibile alcuna riduzione o riproporzionamento della somma dovuta a titolo di rivalsa ove risulti che alla produzione dell'evento abbia concorso il comportamento colpevole del lavoratore stesso, bensì, nei limiti dettati dalla norma di portata generale di cui all'art. 1916 cod. civ., potendo l'istituto pretendere dal datore di lavoro una somma non maggiore di quella che quest'ultimo sarebbe obbligato a corrispondere al danneggiato a titolo di risarcimento del danno. Pertanto il giudice, adito dall'Inail con l'azione di regresso, prima deve effettuare la liquidazione del danno patito dal lavoratore infortunato, secondo gli ordinari criteri utilizzabili per la liquidazione del danno da fatto illecito, decurtando tale liquidazione di quanto deve esser posto a carico del danneggiato stesso per il suo concorso nella produzione dell'evento e, quindi, operata la rivalutazione del detto credito risarcibile che, essendo di valore, va accertato al momento della decisione, deve procedere al raffronto dello ammontare del risarcimento, così calcolato, con il credito, che forma oggetto dell'azione di regresso, per attribuire all'Inail una somma non eccedente l'ammontare del primo;
dunque, una volta riconosciuto il concorso di colpa dell'infortunato, il giudice non può, per questo solo fatto, ridurre proporzionalmente l'ammontare delle somme richieste dall'INAIL in via di rivalsa nei confronti del responsabile dell'infortunio stesso, ma deve previamente determinare, come in qualsiasi altra ipotesi di rivalsa, l'ammontare del danno risarcibile in relazione alla misura dell'accertato concorso di colpa e, quindi, verificare se sulla somma così determinata vi sia capienza per la rivalsa dell'INAIL, procedendo, solo in caso di esito negativo di tale accertamento, a ridurre la somma spettante all'Istituto per le prestazioni erogate all'assicurato (o ai suoi eredi) in modo che la stessa non superi quanto dovuto dal danneggiante" (in tal senso, Cass. n. 4879 del 2015; Cass. n. 15633 del 2001, cui adde Cass., 2 febbraio 2010, n. 2350; Cass., 20 agosto 1996, n. 7669);
a tali principi la sentenza impugnata si è attenuta, per cui il ricorso va rigettato;
le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo;

 

P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del contro ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 11000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.
Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 luglio 2020.