Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 26 ottobre 2020, n. 23441 - Intossicazione da glutaraldeide del medico ambulatoriale dell'ASL


 

Presidente: TORRICE AMELIA
Relatore: TRICOMI IRENE
Data pubblicazione: 26/10/2020
 

Ritenuto
1. Che la Corte d'Appello di Torino, con la sentenza n. 951 del 2014, in parziale accoglimento dell'appello proposto da Z.A. nei confronti della ASL VCO n. 14 - Omegna, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Verbania, ha assolto l'appellante dalla condanna al risarcimento dei danni ex art. 96, comma 1, cod. proc. civ., confermando nel resto l'impugnata sentenza.
2. La lavoratrice, medico specialista ambulatoriale di ostetricia e ginecologia presso l'ASL 14 VCO - Omegna, premetteva di avere, dall'ottobre 2002, reiteratamente avvertito malori, e di avere segnalato all'Azienda la possibile presenza nell'ambiente di lavoro di una sostanza irritante, presumibilmente glutaraldeide (nella premessa del ricorso per cassazione, si riferiscono le esalazioni a solventi utilizzati per lo sviluppo radiografico nell'ambulatorio odontoiatrico), che le avrebbe impedito di svolgere la propria attività.
Pertanto, chiedeva la condanna dell'ASL convenuta al risarcimento del conseguente danno biologico, esistenziale e patrimoniale, previo accertamento del nesso eziologico tra l'avvenuta intossicazione da glutaraldeide e le patologie documentate (laringite, iperemia con noduli alle corde vocali e disfonia, con disturbo post traumatico) e con sensibilizzazione ritardata ad alcune sostanze chimiche.
L'ASL avrebbe violato le disposizioni di cui all'art. 2087 cod. civ., nonché plurime norme antinfortunistiche.
A sostegno delle proprie ragioni, la lavoratrice deduceva, tra l'altro, che con sentenza del 22 marzo 2010, resa nella causa che aveva promosso nei confronti della società Zurigo assicurazioni spa, il Tribunale di Milano aveva accertato il nesso di causalità tra le manifestazioni patologiche documentate e l'infortunio sul lavoro occorso in data 11 ottobre 2002, allorquando essa ricorrente aveva inalato sostanze gassose sul luogo di lavoro, che le avevano provocato irritazioni agli occhi, disturbi ripetutisi con maggiore intensità in successive occasioni.
3. L'ASL aveva contestato la domanda.
4. Il Tribunale di Verbania aveva rigettato la domanda, e aveva pronunciato condanna ex art. 96, comma 1, cod. proc. civ.
5. La Corte d'Appello ha affermato, in particolare, che le deduzioni attoree non valevano ad assolvere l'onere della prova in merito all'effettiva esposizione a rischio, atteso che spetta al lavoratore provare i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riconducibilità dell'affezione denunciata alle modalità concrete di svolgimento della prestazione lavorativa e/o alla nocività dell'ambiente di lavoro. Solo in tal caso, spetta al datore di lavoro provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, e che la malattia non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
Nel caso di specie, la prospettazione m merito all'avvenuta inalazione di sostanze irritanti risultava generica ed assertiva, denunciata solo dalla ricorrente, nonostante la presenza di personale e dell'utenza della struttura, e dunque formulata in termini di mera possibilità.
6. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando otto motivi di impugnazione.
7. L'ASL VCO 14 - Omegna è rimasta intimata.
8. In prossimità dell'adunanza camerale la lavoratrice ha depositato memoria.
 

Considerato
1. Che con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 24 e 111, primo comma, Cost., dell'art. 2697 cod. civ., degli artt. 421 e 424 cod. proc. civ., e degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ., in relazione all'art. 360, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione, relativamente all'onere della prova a carico della ricorrente (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.).
3. La ricorrente tratta insieme l'illustrazione dei due motivi.
La lavoratrice contesta la statuizione che ha ritenuto non provata la domanda, sia perché, invece, aveva prodotto documentazione medica, sia perchè non era stata ammessa la prova testimoniale che aveva articolato (riprodotta nella seconda, terza e quarta pagina dei primi due motivi di ricorso).
Le circostanze e i fatti relativi all'infortunio e le denunce effettuate erano riportati nel ricorso di primo grado (come riprodotto dalla quarta alla tredicesima pagina dei primi due motivi di ricorso).
Tali circostanze, se fossero state esaminate dai giudici di merito, sarebbero state sufficienti a provare le allegazioni di essa attrice.
Pertanto, la Corte d'Appello avrebbe dovuto dare ingresso alla prova testimoniale e alla CTU, come richiesto anche in appello, e non limitarsi a prendere in esame la consulenza del PM, mai prodotta in atti, e riportata per stralci nel decreto di archiviazione del GIP prodotto da controparte.
Pertanto, la sentenza si era basata su elementi estranei a quelli introdotti nel giudizio. Il provvedimento del GIP, inoltre, non ha natura giurisdizionale, e non contiene accertamenti processuali certi.
In ogni caso, la Corte avrebbe dovuto esperire i poteri officiasi ex artt. 421 e 424 cod. proc. civ.
La Corte d'Appello, peraltro, si era basata solo sugli elementi probatori offerti dall'altra parte, contestati in entrambi i gradi, senza la necessaria verifica.
Ad avviso della ricorrente, invece, assumeva rilievo la sentenza della Corte d'Appello di Milano, passata in giudicato, che collegava l'infermità all'esposizione a glutaraldeide; la relazione del CTU Ronchi e del prof. Mantovani, depositata nel suddetto giudizio; il provvedimento ENPAM di riconoscimento di inidoneità assoluta; la relazione del dott. Premoli e la relativa diagnosi di flogosi cronica per esposizione a glutaraldeide.
Tale documentazione introduceva nuovi elementi di carattere tecnico-sanitario ad integrazione della documentazione esaminata con il decreto di archiviazione, e doveva indurre il giudice a disporre CTU.
La Corte d'Appello non teneva conto della documentazione fornita dalla ricorrente, e prendeva in considerazione la relazione del tecnico manutentore che era erronea nelle circostanze riferite, senza considerare la documentazione di essa ricorrente che offriva elementi a contrasto della stessa.
Infine, la ricorrente rileva che il giudizio probabilistico espresso dal consulente del PM contrastava con specifiche nozioni tecniche, come emergeva dalla relazione tecnica del Cesi dell'aprile 2005 depositata da essa medesima.
In conclusione, la ricorrente espone che sussisteva la prova dell'evento avverso accaduto sul luogo di lavoro, e lo sviluppo della patologia successivamente all'avverarsi del medesimo evento.
Andava, altresì, considerato che il lavoratore non è tenuto a provare la colpa del datore di lavoro, atteso che nei confronti di quest'ultimo opera la presunzione ex art. 2118 cod. civ., e che la Corte d'Appello poneva a base della decisione una perizia di un consulente di parte, quale il PM, neppure in atti, configurandosi la violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ, in relazione all'art. 360, n. 4, e l'autonoma fattispecie di cui all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
4. I primi due motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono inammissibili.
4.1. Occorre premettere che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, l'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro - di natura contrattuale - va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Ne consegue che incombe sul lavoratore, anche in ragione del concetto di specificità del rischio (si veda, Cass., n. 8911 del 2019), che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
Elemento costitutivo della responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 cod. civ. è la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. L'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 cod. civ. impone all'imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano Io standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità del rischio, atteso che la sicurezza del lavoratore è un bene protetto dall'art. 41, secondo comma, Cost. (sui principi richiamati, si veda, ex plurimis Cass., n. 8911 del 2019, già citata, Cass, n. 28516 del 2019, Cass., n. 26495 del 2018).
4.2. Va, altresì, osservato che la Corte d'Appello, in particolare, ha posto in evidenza che:
la lavoratrice deduceva di essere affetta da patologie conseguenti a quanto verificatosi l'11 e il 18 ottobre 2002, allorquando nei locali del consultorio di Stresa, inalava una sostanza nociva aerodispersa, sprigionatasi dall'attiguo e separato ambulatorio odontoiatrico;
analoghi episodi si sarebbero verificati il 23 e il 30 ottobre 2002 presso il consultorio di Stresa, a novembre 2003 presso il consultorio di Verbania (cert. medico 5 novembre 2003 lieve irritazione laringea da aspirazione in ambiente lavoro a vernice), l'8 gennaio 2004 presso il consultorio di Borgomanero (guanti nitrile), il 1° dicembre 2011 presso sede ENPALM Roma - quindi in luoghi e situazioni differenti;
era documentato che, il 29 ottobre 2002, il direttore del distretto, in attesa di opportuni controlli, disponeva che temporaneamente l'attività medica di ginecologia venisse svolta in altro locale, e in data 31 ottobre 2002 trasferiva temporaneamente la ricorrente presso la struttura di Verbania, in attesa dell'esito degli accertamenti sanitari;
era incontroverso che, nell'ottobre 2002, la lavoratrice svolgeva l'attività medica presso il consultorio di Stresa e di Borgomanero, e che, a seguito di segnalazione in data 18 ottobre 2002, priva di sottoscrizione, veniva comunicato alla direzione l'avvenuto intervento dell'ufficio tecnico;
dalla relazione dell'ufficio tecnico, si ricavava che al momento del controllo (effettuato il 18 ottobre 2002 alle 10,15) nell'ambulatorio ginecologico era stato avvertito un odore acido, ma non così negli altri ambulatori collocati nello stesso piano, tra cui quello di odontoiatria, ove il personale affermava di non aver utilizzato prodotti acidi per la preparazione e lo sviluppo delle lastre;
anche il personale degli ambulatori collocati al piano terra e al primo piano della struttura dichiarava di non aver avvertito odore di acidi, neppure nella giornata precedente, ed infine, in tale relazione veniva altresì riscontrata l'assenza di lavori effettuati all' interno e all'esterno della struttura;
in pari data, un tecnico manutentore segnalava la presenza all'interno dell'ambulatorio odontoiatrico di un tubo di scarico di "macchine per lo sviluppo di lastre'' con un'entrata aperta che emanava esalazioni, ma in calce a tale dichiarazione il medico dentista dell'ambulatorio, dr. Buggè, annotava che si trattava di errore essendo lo sfiato dell'aspiratore ad anello liquido del riunito dentale;
dalla comune prospettazione della parti risultava allegato che la lavoratrice sospendeva le visite mediche e prontamente si allontanava allorquando percepiva un odore acre, e d'altra parte non risultavano analoghe segnalazioni dell'utenza o di altro personale in servizio presso la struttura;
dalle sommarie informazioni rese il 16 settembre 2004 al funzionario SPRESAL dall'infermiera professionale O.B., in servizio presso la struttura di Stresa, risultava che quest'ultima non aveva avvertito alcun odore acre nelle giornate dell' 11 e del 18 ottobre 2002 ed, inoltre, che per tale ultimo episodio nessuno dei presenti aveva avanzato questioni se non la dott.ssa Z.A. e la sua assistente;
in data 23 settembre 2002 vi era stato un intervento manutentivo sulla macchina sviluppatrice ad opera della ditta esterna incaricata, lo sviluppatore era collocato all'interno di un locale adiacente l'ambulatorio odontoiatrico dotato di finestra apribile schermata e di aspiratore, dal 28 ottobre 2002 veniva interrotta l'attività di radiologia, e tutto il materiale liquido per il fissaggio veniva collocato in apposito locale e successivamente smaltito regolarmente.
4.3. Quindi, la Corte d'Appello ha affermato che occorreva considerare che le deduzioni della lavoratrice non valevano ad assolvere all'onere della prova in merito all'effettiva esposizione a rischio della stessa, in ragione dell'applicazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità sul riparto dell'onere della prova in materia. La prospettazione in merito all'avvenuta inalazione di sostanze irritanti (peraltro rimasta invariata per ciascun episodio, anzi ancora più laconica per quelli successivi) risultava generica ed assertiva, denunciata solo dalla ricorrente, nonostante la presenza di personale e dell'utenza della struttura, e dunque formulata in termini di mera possibilità.
Appariva del tutto condivisibile l'argomentazione del primo giudice laddove aveva evidenziato che, anche ammettendo che vi fossero state esalazioni di glutaraldeide, non sussistevano elementi per ritenere che ciò si fosse verificato con superamento della soglia di rischio, secondo i valori limite TLV-STEL, ed anzi, vi era da aggiungere che le risultanze convergevano nell'escludere che tale limite fosse stato superato.
Era sufficiente osservare che, in una struttura che si doveva ritenere regolarmente frequentata dall'utenza, dotata di personale medico ed infermieristico e, probabilmente, anche amministrativo, le reiterate denunce della lavoratrice erano rimaste isolate, non risultando avanzate segnalazioni da parte degli utenti e del personale della struttura (che pure ospitava un ambulatorio pediatrico operativo, come quello ginecologico, il mercoledì con orario 9-12, mentre il secondo con orario 13-17), né da parte sindacale.
Ciò, escludeva che la sintomatologia avvertita dalla lavoratrice fosse stata accusata da altri soggetti, ma comprovava anche che qualunque evenienza si fosse verificata non era stata percepita dai soggetti presenti nei termini indicati dalla lavoratrice, la quale pur a posteriori, trascorsi 10 anni dai fatti, nulla aveva dedotto e documentato a riguardo.
4.4. Pertanto, la Corte d'Appello ha ritenuto le richieste istruttorie esplorative e volte ad ampliare le circostanze di fatto dedotte con il ricorso introduttivo.
4.5. Tanto premesso, si rileva che, nonostante che con i primi due motivi di ricorso si denunci la violazione di norme di diritto da parte della Corte d'Appello, le relative censure attengono in realtà alla motivazione della sentenza.
Questa viene infatti valutata come carente in quanto non avrebbe desunto dalle risultanze istruttorie i significati ritenuti dalla ricorrente evidenti o comunque desumibili dalle stesse, e avrebbe ritenuto erroneamente sufficienti le risultante penali e le altre risultanze istruttorie in atti, non dando ingresso alla prova testimoniale e alla CTU, e non esperendo i poteri officiosi.
Le suddette censure di vizio di motivazione contenute nel primo e nel secondo motivo di ricorso sono inammissibili.
Le complessive censure travalicano il modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all'art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti, senza neppure confrontarsi adeguatamente con la ratio decidendi (cfr., Cass., S.U. n. 34476 del 2019), sopra riportata ai punti 4.3. e 4.4.
4.6. Deve essere, altresì, considerato, che rispetto alle circostanze ritenute accertate con congrua motivazione, in base alle convergenti acquisizioni probatorie, non può trovare ingresso, il regime di sindacato minimale ex art. 360, n. 5 novellato, cod. proc. CIV.
Nel presente giudizio trova applicazione il testo vigente dell'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., come risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 54 del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, atteso che la sentenza della Corte di Appello è stata pubblicata il 22 dicembre 2014.
Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., S.U. n. 19881 del 2014 e Cass., S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell'art. 360 n. 5, cod. proc. civ. ha la finalità di evitare l'abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l'anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, "in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", che non s1 riscontrano nella fattispecie in esame in ragione dell'articolata motivazione della Corte d'Appello, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione", sicché quest'ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi.
Le critiche articolate dalla difesa della ricorrente non hanno il tono proprio di una censura di legittimità; esse, sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, e di omesso esame, degradano in realtà verso l'inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata la domanda della lavoratrice come accertati dalla Corte d'Appello, in esito alle risultanze istruttorie, con congrua motivazione.
5. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dei principi di autonomia e separazione dei giudizi penale e civile, nonché degli artt. 24 e 111 Cost., nonché della disciplina processuale penale in materia di ricorribilità per cassazione delle ordinanze di cui all'art. 409 cod. proc. pen., e degli artt. 24 e 111 Cost. (art. 360, n. 3, cod. proc. pen.).
La Corte d'Appello poneva a fondamento del propno convincimento le argomentazioni svolte nei due provvedimenti penali di archiviazione: l'ordinanza GIP del 17 maggio 2007, che non ha natura giurisdizionale penale e non contiene statuizioni e accertamenti processuali certi, e il decreto di archiviazione del 2012 che conteneva stralci della relazione del consulente tecnico del PM.
Pertanto, il giudice di appello poneva a fondamento del proprio convincimento argomentazioni e prove raccolte in un procedimento che non ha natura giurisdizionale, e rispetto al quale la parte offesa non aveva potuto opporsi in alcun modo, né esercitare il proprio diritto di difesa in merito alle argomentazioni ivi contenute, anche perché il procedimento civile avrebbe dovuto essere il luogo dove poter far valere le proprie rag1om.
5.1. Il motivo non è fondato.
5.2. Occorre precisare che la Corte d'Appello ha ritenuto corretta l'utilizzazione da parte del giudice di primo grado dell'esito delle indagini penali, aventi ad oggetto i fatti di causa.
Afferma la Corte d'Appello che tali provvedimenti penali, resi nel 2007 e nel 2012, risultavano formulati sulla base di un'attenta ed approfondita valutazione delle risultanze raccolte e della relazione peritale, analiticamente vagliata, da ultimo, anche in relazione alla sentenza civile n. 3726 del 2010.
I provvedimenti di archiviazione erano prodotti in atti, ampiamente conosciuti ed esaminati dalle parti, e pertanto era sufficiente il rinvio agli stessi in quanto già motivatamente utilizzati nella sentenza impugnata, di cui essa Corte d'Appello condivideva la motivazione.
5.3. Questa Corte (Cass., n. 19521 del 2019) ha statuito che il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento anche gli elementi probatori raccolti in un giudizio penale, ed in particolare le risultanze della relazione di una consulenza tecnica esperita nell'ambito delle indagini preliminari, soprattutto quando la relazione abbia ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i giudizi.
Si è, altresì, affermato, che in mancanza di qualsiasi divieto di legge, il giudice oltre che utilizzare prove raccolte in altro giudizio tra le stesse o altre parti, può anche avvalersi delle risultanze derivanti da atti di indagini preliminari svolte in sede penale, le quali debbono, tuttavia, considerarsi quali semplici indizi, idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio e la cui concreta efficacia sintomatica dei singoli fatti noti deve essere valutata - in conformità alla regola in tema di prova per presunzioni - non solo analiticamente, ma anche nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva in base ad un apprezzamento, che, se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico, non è sindacabile in sede di legittimità.
Ne consegue, da un canto, che anche una consulenza tecnica disposta dal PM in un procedimento penale, se ritualmente prodotta dalla parte interessata, può essere liberamente valutata come elemento indiziario idoneo alla dimostrazione di un fatto determinato (ancorchè la relativa valutazione debba pur sempre tener conto della circostanza che l'atto si è formato senza il contraddittorio tra le parti e che esso non risulta sottoposto al vaglio del giudice del dibattimento), dall'altro che, trasposta la vicenda processuale in grado di appello, il giudice del gravame ha l'obbligo di estendere il proprio giudizio a tutte le eventuali, successive risultanze probatorie, e non limitarsi ad una rivalutazione della sola consulenza eventualmente posta a fondamento della decisione di primo grado (citata Cass., n. 19521 del 20 I 9; si cfr., anche Cass., n. 5317 del 2017, relativa all'utilizzabilità degli atti delle indagini preliminari)
5.4. La Corte d'Appello ha fatto corretta applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamati.
Ed infatti, il giudice di secondo grado, nel ritenere corretta l'utilizzazione delle risultanze istruttorie e della relazione peritale vagliate nei provvedimenti di archiviazione, non si è limitato ad un acritico recepimento delle stesse e al rinvio alla motivazione del Tribunale, ma ha dato atto di come tali provvedimenti fossero prodotti in atti. conosciuti ed esaminati dalle parti, e ha svolto una propria articolata disamina delle risultanze istruttorie di causa, come richiamato in particolare nella trattazione del primo e del secondo motivo di ricorso, così dimostrando di essere a conoscenza della necessità di adeguato scrutinio delle risultanze istruttorie, non trasponendo acriticamente e non ponendo ad esclusivo fondamento della decisione il contenuto delle risultanze raccolte e della relazione peritale dei provvedimenti di archiviazione.
5.5. Pertanto, la censura formulata con il terzo motivo di ricorso, che peraltro prospetta doglianze già in parte introdotte con il primo ed il secondo motivo di ricorso, seppure in quella sede, come si è detto sopra, da ricondurre nell'ambio del vizio di motivazione, deve essere rigettata.
6. Con il quarto motivo di ricorso è prospetta la violazione e/o falsa applicazione del principio in materia di causalità civile e di quella penale ai fini dell'accertamento dell'infortunio sul lavoro (art. 360, n. 3 cod. proc. civ.).
Assume il ricorrente che il giudice di appello, nel porre a base della propria decisione l'esito delle indagini penali, aventi ad oggetto i fatti di causa, di cui ai decreti di archiviazione emessi in sede penale, non avrebbe tenuto conto che in sede penale si era fatta applicazione del principio di causalità penale che risponde alla regola della prova oltre ogni ragionevole dubbio, mentre nel processo civile vige il principio del più probabile che non, così dando luogo al vizio denunciato.
6.1. Il motivo è inammissibile.
La ricorrente ha prospettato il vizio di violazione di legge, senza censurare il complessivo ragionamento decisorio con cui la Corte d'Appello ha fatto applicazione dei principi sull'onere della prova in materia, ex art. 2087 cod. civ. In tal modo, la lavoratrice ha introdotto una richiesta di rivalutazione nel merito dell'accertamento svolto dal giudice di appello, inammissibile in questa sede in ragione dei principi già enunciati da questa Corte, e richiamati nella trattazione del primo e del secondo motivo di ricorso.
7. Con il quinto motivo di ricorso è illustrata la censura di violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2909, cod. civ., e del principio dell'incontrovertibilità della cosa giudicata (art. 360, n. 3).
È censurata la statuizione con cui la Corte d'Appello ha affermato che il giudicato relativo alla sentenza del Tribunale di Milano n. 3726 del 2010 non spiegava effetti nel presente giudizio.
Il giudice di secondo grado rilevava che la suddetta sentenza era stata resa tra parti diverse, e in un giudizio volto ad attivare una copertura assicurativa privata; quindi il giudicato era fondato su presupposti che richiedevano l'accertamento e circostanze non coincidenti con quelle dell'odierno giudizio.
Ad avviso della ricorrente, invece, il giudice di appello era tenuto ad attenersi,
quantomeno, ai fatti accertati dalla sentenza passata in giudicato, perché i presupposti per raccertamento dell'esistenza dell'infortunio erano gli stessi.
7.1. Il motivo non è fondato.
7.2. È noto il principio per cui, qualora due giudizi tra le stesse parti s1 riferiscano al medesimo rapporto giuridico e uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, 1'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo e il petitum del primo (Cass., n. 16847 del 2018 e pronunce ivi richiamate; Cass., n. 27304 del 2018).
7.3. Tuttavia, nella specie la sentenza richiamata dalla ricorrente, in relazione alla quale si prospetta la formazione del giudicato, per stessa ammissione della
lavoratrice è intervenuta in un giudizio tra parti diverse - la lavoratrice medesima e una compagnia di assicurazione - con riguardo a reciproche obbligazioni di fonte contrattuale.
Pertanto, viene in rilievo una situazione giuridica diversa rispetto a quella, ex art. 2087 cod. civ., del presente giudizio, ragione per la quale, correttamente la Corte d"Appello ha escluso la rilevanza del suddetto giudicato.
7.4. Pertanto, la censura formulata con il quinto motivo di ricorso, che peraltro prospetta doglianze già in parte introdotte con il primo ed il secondo motivo di ricorso, seppure in quella sede, come si è detto sopra, da ricondurre nell'ambio del vizio di motivazione, deve essere rigettata.
8. Con il sesto motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2087 e 1218 cod. civ., 2729 cod. civ., degli artt. 3 e ssg., 72 quater e ssg., degli artt. 31 e ssg., 72 quinquies, 72 sexies, 72 nonies, del d.lgs. n. 626, del 1994, nonché del dPR n. 271, del 2000 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
9. Con il settimo motivo di ricorso è dedotta la nullità della sentenza e del procedimento per la violazione degli artt. 112 e 115, cod. proc. civ., nonché dell'art. 2087, cod. civ., e del d.lgs. n. 626 del 1994 (art. 360, n. 4, cod. proc. civ.).
10. Con l'ottavo motivo di ricorso è dedotto l'omesso esame circa fatti decisivi per la valutazione della responsabilità del datore di lavoro in materia di sicurezza e salute dei lavoratori.
11. La trattazione dei motivi sesto, settimo e ottavo è svolta unitariamente dalla ricorrente.
Espone la ricorrente che, nella specie, sussisteva la violazione degli artt. 2087 e 1218 cod. civ., come risultava dalla documentazione versata in atti e richiamata nel corso della trattazione dei motivi (in particolare lettera del direttore distretto di Verbania in data 30 gennaio 2006, documento del tecnico Soldani, relazione geom. Cavazzon, relazione CTP della ricorrente, relazione perito Fischi), tenuto conto che il manuale informativo dei rischi era stato consegnato in epoca successiva al 2002 agli specialisti ambulatoriali, nonchè del mancato aggiornamento delle misure di prevenzione in relazione ai mutamenti strutturale che erano intervenuti nell'ambulatorio di Stresa qualche mese prima dell'ottobre 2002.
Inoltre, la Corte d'Appello non si era pronunciata sul fatto che l'ASL non aveva rispettato le norme sull'adeguamento delle prescrizioni e sicurezza dei luoghi di lavoro e del singolo lavoratore, in ragione dei lavori che avevano messo in comunicazione tre ambulatori. tra cui quello odontoiatrico, e della sostituzione di un prodotto già in uso con altro, che conteneva aldeide glutarica, per lo sviluppo delle lastre dell'ortopantometro, sul cui uso assumeva rilievo la testimonianza Ottolini.
11.1. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono inammissibili.
Le complessive censure travalicano il modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all'art. 360 cod. proc. civ., perché pongono a proprio presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti, accertati dalla Corte d'Appello con adeguata motivazione, come sopra riportato, senza confrontarsi in modo specifico con la ratio decidendi (cfr., citata Cass., S.U. n. 34476 del 2019), sopra riportata ai punti 4.3. e 4.4.
Rispetto alle circostanze ritenute accertate con congrua motivazione, in base alle convergenti acquisizioni probatorie, peraltro, non può trovare ingresso, il regime di sindacato minimale ex art. 360, n. 5 novellato, cod. proc. civ., secondo la giurisprudenza di legittimità già illustrata nella trattazione del primo e del secondo motivo di ricorso.
12. Il ricorso deve essere rigettato.
13. Nulla spese atteso che la ASL è rimasta intimata.
14. Ai sensi del dPR n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
 

PQM
 

La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del dPR n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma I-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell'adunanza camerale del 17 luglio 2020.