Cassazione Civile, Sez. Lav., 29 ottobre 2020, n. 23921 - Agenti cancerogeni e decesso di un lavoratore chimico alle dipendenze di laboratorio ospedaliero: la prova della nocività dell’ambiente di lavoro è a carico del lavoratore


 


Presidente Napoletano – Relatore Belle’

Rilevato che:


1. la Corte d’Appello di Venezia ha rigettato il gravame proposto da F.A. , M.A. , M.P. e M.C. , rispettivamente moglie e figli del defunto M.G. , avverso la sentenza del Tribunale di Verona dichiarativa della prescrizione del diritto al risarcimento dei danni dai medesimi rivendicato per il decesso del loro congiunto, chimico coordinatore presso il Laboratorio dell’Ospedale di (omissis) , asseritamente verificatosi per l’esposizione, durante il lavoro svolto fin dagli anni ‘70, ad agenti cancerogeni;
la Corte territoriale, decidendo nel contraddittorio dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, della Gestione Liquidatoria della ex Azienda Ospedaliera di Verona e della Gestione Liquidatoria della ex ULSS (…) della Regione Veneto (ora Azienda ULSS X Scaligera), confermava la pronuncia di prescrizione con riferimento alla F. , moglie del M. , mentre riteneva non estinto il diritto rivendicato dai figli, rispetto ai quali tuttavia respingeva ugualmente la domanda sostenendo, in esito alla c.t.u. con successivi chiarimenti svolta in grado di appello, la mancanza di prova del nesso causale tra la morte e l’esposizione alle sostanze nocive presenti durante le lavorazioni svolte nel corso degli anni;
2. avverso tale sentenza sono stati proposti dalle parti private tre motivi di ricorso, cui hanno resistito, con controricorso, l’Azienda ULSS X Scaligera (già Gestione Liquidatoria della ex ULSS (…) della Regione Veneto), la Gestione Liquidatoria della ex Azienda Ospedaliera di Verona e l’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, queste ultime due proponendo anche ricorsi incidentali condizionati, per rispondere ai quali i ricorrenti principali hanno depositato a propria volta appositi controricorsi;
i ricorrenti principali e l’Azienda ULSS X Scaligera hanno infine depositato memoria illustrativa.

Considerato che:


1. con il primo motivo è affermato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) con riferimento, rilevante rispetto alla tipologia di reato ascrivibile ed al conseguente regime della prescrizione, all’avere la Corte territoriale omesso di considerare come anche altri lavoratori fossero stati colpiti da malattia conseguenti all’esposizione lavorativa ad agenti patogeni;
il secondo motivo adduce invece la violazione e falsa applicazione dell’art. 2935, 2947 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, sempre con riferimento al tema della prescrizione ed in particolare alla posizione della F. , sostenendosi che la Corte d’Appello non avrebbe potuto desumere dalla presentazione della domanda per riconoscimento della c.d. causa di servizio la conoscenza da parte della medesima della responsabilità delle controparti rispetto al decesso del marito, atteso che quest’ultima dipendeva da ulteriori elementi, quali i comportamenti omissivi datoriali;
il terzo motivo riguarda invece la valutazione (negativa) della Corte d’Appello rispetto al nesso causale ed afferma la violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 del c.p., degli artt. 1218, 2043, 2049, 2050, 2087, 2697 e 2729 c.c., nonché degli artt. 61, 115 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3);
2. iniziando dall’ultimo motivo, la Corte d’Appello, dopo avere riepilogato le circostanze di causa e le valutazioni peritali svolte (relazione e chiarimenti), ha richiamato quanto detto dal c.t.u. in ordine alla veste di fattore causale decisivo svolta all’"abitudine tabagista" del Dott. M. , combinata con il "rilievo sinergico" dell’assunzione quotidiana di vino;
la Corte territoriale, quindi, pur riconoscendo che il c.t.u. aveva ammesso, quale "fattore di rischio potenziale", il "contatto con agenti chimici del tipo di quelli utilizzati nel laboratorio" ha altresì dato atto che, secondo il consulente, "in letteratura scientifica" si era pervenuti alla conclusione che "nessuna" di tali sostanze rivestiva "rilevanza causale nell’insorgenza del tipo di tumore" che aveva determinato il decesso, finendo per escludere - sempre il c.t.u. nelle valutazioni quali riportate in sentenza - la presenza di evidenze idonee a "giustificare l’affermazione di un nesso di causa" secondo un "criterio di validazione scientifica", che non poteva essere messo in discussione e secondo cui "le cause sconosciute rimangono tali";
3. il terzo motivo qui in esame contiene una pluralità di articolate critiche a tali conclusioni, sintetizzabili, in sostanza, nei seguenti punti:
a) affermazione di efficacia esclusiva del tabagismo, unito al consumo moderato di vino, senza approfondire se l’esposizione professionale abbia avuto un ruolo concausale;
b) mancato accertamento dell’incidenza concreta dell’abitudine al fumo, in mancanza, a fronte della cessazione dell’uso di sigarette da ben 25 anni, di evidenze rispetto alla quantità e durata dell’uso della pipa;
c) illogicità della tesi, consequenziale ai ragionamenti svolti dal c.t.u. e dalla Corte di merito, per cui le sostanze cui era stato esposto lavorativamente il M. , essendo presenti anche nel fumo di tabacco, avrebbero effetto etiologico rispetto al tumore solo se fumate;
d) sussistenza di almeno altri due casi, tra i molti di decesso per tumori di coloro che avevano lavorato nello stesso laboratorio del M. , per i quali il Tribunale di Verona aveva accertato il nesso causale tra malattia, decesso ed esposizione lavorativa;
e) impossibilità di escludere con ragionevole certezza, l’incidenza delle sostanze cancerogene cui era stato esposto il M. rispetto al tumore poi insorto, anche in base all’orientamento giurisprudenziale (Cass., pen., 2 febbraio 2015, n. 4888) secondo cui per stabilire il nesso causale tra esposizione in un luogo di lavoro in cui era colpevolmente assente qualsiasi sistema di protezione, non valeva l’individuazione di studi statistici sulla correlazione esposizione-tumore, quanto l’esclusione di interferenza di decorsi alternativi;
f) il contrasto tra la stessa sentenza di appello e la perizia del c.t.u., che non aveva mai affermato l’incidenza causale esclusiva del fumo di tabacco, ma aveva espressamente ammesso il ruolo di possibile concausa, seppure marginale, delle sostanze chimiche cui era stato esposto il M. ;
4. gli aspetti evidenziati nel motivo in esame sono tra loro eterogenei;
per quanto anche il vizio motivazionale individui, in ultima analisi, una violazione delle norme che regolano l’obbligo del giudice di fornire spiegazione delle conclusioni raggiunte, è indubbio che tale vizio abbia, rispetto al giudizio di cassazione, una fisionomia del tutto autonoma, delineata nell’art. 360 c.p.c., n. 5, mentre un diverso ambito è quello coperto dal vizio di violazione di legge in senso stretto, da riportare all’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3;
4.1 con riferimento al nesso causale, ovverosia alla consequenzialità tra uno o più fatti ed un successivo evento, l’apprezzamento può coinvolgere censure di violazione di legge in senso stretto (art. 360 c.p.c., n. 3), se venga in discussione in quali limiti uno o più fatti, secondo diritto, vanno considerati rilevanti nel far sorgere la responsabilità per un evento ad essi conseguente (ad es., rilievo delle concause, regolato nel nostro diritto secondo il principio di c.d. equivalenza, di cui all’art. 41 c.p. - norma di carattere generale, applicabile nei giudizi civili di responsabilità: v. Cass. 14 luglio 2011, n. 15537), oppure, più a fondo, il regime stesso dei presupposti probabilistici affinché un fatto, in sé considerato, possa essere ritenuto causa di un certo evento (secondo un regime che in tema di responsabilità civile, si colloca sul piano del c.d. "più probabile che non": v. Cass., S.U., 11 gennaio 2008, n. 576) e comunque quando ad essere sollecitato è il regime degli oneri probatori (art. 2697 c.c.);
4.2 ciò posto, il motivo del ricorso qui in esame si incentra in profili di natura realmente giuridica allorquando (punto 3 supra lett. e) ritiene di individuare un errore di diritto, relativo congiuntamente al regime delle concause ed all’applicazione dell’art. 2697 c.c., adducendo la necessità, a fronte di un ambiente di lavoro caratterizzato dall’esposizione a sostanze cancerogene, in colpevole assenza di sistemi di protezione, di escludere, per negare efficacemente il nesso causale, l’interferenza di decorsi alternativi;
il rilievo non è tuttavia fondato;
la Corte ha infatti sostanzialmente ritenuto che, rispetto al tipo di tumore insorto, l’esposizione a sostanze nel corso del lavoro non potesse dirsi munita di rilevanza causale, perché era da ritenere ignota, secondo criteri di validazione scientifica, la loro incidenza;
si tratta di valutazione che correttamente applica la regola sull’onere della prova in tema di responsabilità contrattuale ed ex art. 2087 c.c., spettando al danneggiato la prova della derivazione dell’evento dalle condizioni di lavoro (tra le molte, Cass. 19 ottobre 2018, n. 26495; Cass. 29 gennaio 2013, n. 2038) secondo parametri probabilistici e non meramente possibilistici (Cass. 24 novembre 2017, n. 25151);
neppure giova alla ricorrente quanto deciso da Cass. (pen) 4888/2015, su cui fanno leva le difese;
in quel caso la sentenza di merito fu annullata per difetto motivazionale, avendo il giudice del merito escluso l’incidenza causale dell’esposizione lavorativa a sostanze, sulla base dell’apodittica ("intuitivamente" afferma quella pronuncia) decisività causale attribuita al solo fumo di tabacco, ritenuto in sede di disamina tecnica solo come fattore causale da non potersi escludere, ma a fronte di emergenze peritali viceversa orientate nel senso della prevalenza dell’esposizione professionale;
non può pertanto dirsi che quella pronuncia, elaborata sotto il profilo essenzialmente "logico motivazionale" ed in un contesto probatorio ben diverso - per non dire diametralmente contrario - a quello del caso di specie (in cui semmai, secondo quanto asserito nella sentenza, gli elementi istruttori erano nel senso della certa efficacia causale del fumo e solo possibile era l’incidenza dell’esposizione professionale) sia espressione di un indirizzo, rispetto all’accertamento del nesso causale, effettivamente difforme da quello impostato dalla Corte d’Appello nella presente vertenza;
4.3 non individuano invece in senso stretto censure di diritto, ma motivazionali, i profili riguardanti l’apprezzamento del ricorrere in concreto del grado probabilistico giuridicamente richiesto, così come quello sulla misura probabilistica di altri fatti causalmente rilevanti, ma estranei alla sfera di responsabilità dell’agente;
si tratta infatti di aspetti relativi al convincimento del giudice di merito ed alla (unica) concretizzazione giuridicamente rilevante di esso che sta nella motivazione;
4.4 rispetto alla motivazione possono tuttavia ora ipotizzarsi soltanto vizi meramente processuali, riportabili alla fattispecie dell’art. 132 c.p.c., n. 4, che incidano sulla sua stessa "esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta)", parametri che "determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata" (Cass. 7 aprile 2014, n. 8053);
oppure rileva il solo difetto consistente nell’omesso esame di un fatto (o più fatti), da ritenere "decisivi", ovverosia tali per cui la loro considerazione avrebbe con alta probabilità logica sovvertito l’esito della pronuncia (art. 360 c.p.c., n. 5) esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (Cass. 8053/2014 cit.);
nel caso di specie, sub specie dell’art. 360 c.p.c., n. 5 non può dirsi:
che non sia stata esaminata l’incidenza causale dell’esposizione lavorativa (supra punto 3 lett. a), avendone la Corte territoriale ritenuta la natura di "mero fattore di rischio potenziale";
che non vi sia stato esame del rilievo da attribuire al fumo (supra punto 3 lett. b), in quanto la Corte di merito, pur dando atto dell’assenza di dati esatti sull’intensità del fumo da pipa, ha ritenuto di valorizzare il fatto in sé, ricavato dalla c.t.u., in ordine all’assenza di un lasso di tempo significativo tra la cessazione dell’abitudine al fumo (complessivamente intesa come relativa al fumo di sigaretta in misura ritenuta "assai importante" e poi al fumo da pipa) e l’insorgere della malattia;
che vi siano elementi per affermare che la considerazione degli altri decessi (supra, punto 3 lett. d) di cui sarebbe stata accertata la derivazione lavorativa per colleghi del R. sarebbe decisiva rispetto al presente caso, non essendo noti gli esatti particolari di tali vicende e nulla escludendo che, rispetto a diverse persone, abbiano luogo iter etiologici differenziati;
infine, quanto all’ipotesi di un vizio di illogicità manifesta, nella misura in cui esso sia da riportare (come afferma Cass. 8053/2014 cit.) alla violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 5, in quanto in ipotesi tale da insistere sulla stessa esistenza della motivazione, non può dirsi:
che non sia tangibile o possa dirsi manifestamente illogico il criterio posto dalla Corte a fondamento del proprio ragionamento, sulla base della c.t.u., allorquando per distinguere tra contatti con certe sostanze attraverso il fumo e possibili contatti diversi nell’ambiente di lavoro (supra, punto 3 lett. c), essa ha sottolineato come "le vie patogenetiche dello sviluppo dei tumori" sono "non univoche";
che vi sia contrasto manifesto tra gli esiti peritali utilizzati e la pronuncia del giudice (supra, punto 3 lett. f), perché, da quanto riportato nel ricorso per cassazione e nella sentenza impugnata, se è vero che la prima relazione avrebbe contenuto conclusioni nel senso della ricorrenza di un coefficiente concausale, gli stralci dei chiarimenti ampiamente riportati nella successiva parte della motivazione suffragano la diversa conclusione della Corte d’Appello rispetto all’incidenza ignota dell’esposizione lavorativa rispetto al danno e quindi le conclusioni sfavorevoli infine assunte;
in definitiva i singoli passaggi del ricorso principale sopra esaminati in dettaglio non consentono l’accoglimento del motivo ricorso, il quale peraltro, nel suo insieme ed anche al di là dei punti analiticamente sopra disaminati, si caratterizza come essenzialmente finalizzato a proporre una diversa valutazione del merito della causa, certamente estranea all’ambito del giudizio di legittimità;
5. il rigetto del terzo motivo di ricorso rende superfluo l’esame dei primi due, riguardanti la prescrizione, in quanto l’accoglimento di essi non potrebbe mai portare all’accoglimento della domanda, vista la carenza di nesso causale accertata nel contraddittorio di tutte le parti del giudizio;
assorbiti restano anche i ricorsi incidentali dell’Azienda Ospedaliera e della Gestione Liquidatoria dell’ex Azienda Ospedaliera, perché attinenti al rigetto dell’eccezione di prescrizione nei riguardi dei figli di M.G. ;
6. con riferimento al controricorso dell’Azienda ULSS X Scaligera (già Gestione Liquidatoria ex ULSS (…) della Regione Veneto) assume rilevanza, per la pronuncia sulle spese di giudizio, l’eccezione di inammissibilità sollevata dai ricorrenti principali nella memoria finale;
essi fanno rilevare che la notificazione del ricorso per cassazione nei riguardi della predetta parte si sarebbe perfezionata per compiuta giacenza il 18.8.2017 e non il 28.8.2017, come indicato nel relativo controricorso, sicché - affermano - il termine ultimo per la notifica del controricorso stesso, avvenuta il 11.10.2017, era da individuarsi nella data del 10.10.2017;
quest’ultima precisazione non è corretta, in quanto, se la notificazione si è perfezionata il 18.8.2017 (ma, come si dirà, il perfezionamento va spostato al 21.8.2017), il termine di cui all’art. 370 c.p.c. (pari a quaranta giorni derivanti dalla sommatoria dei venti concessi al ricorrente dall’art. 369 c.p.c. e dei venti di cui all’art. 370) sarebbe spirato il 27.9.2017 (e quindi, per quanto si dirà, al 2.10.2017);
6.1 questa Corte ha già precisato che, per la prova del perfezionamento della notifica a mezzo posta in caso di irreperibilità (relativa) del destinatario, non è sufficiente la prova della spedizione della raccomandata di avviso di deposito del piego di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2 (ora comma 4), come modificato dal D.L. n. 35 del 2005 e della (successiva) compiuta giacenza del piego dopo tale spedizione, ma è necessario anche, in una logica costituzionalmente orientata, conoscere gli esiti della menzionata raccomandata, attraverso la produzione dell’"avviso di ricevimento della comunicazione di avvenuto deposito" (avviso ricevimento del C.A.D.) di cui allo stesso comma 2 (Cass. 21 febbraio 2019, n. 5077, poi seguita da Cass. 20 giugno 2019, n. 16601 ed anche da Cass. 17 ottobre 2019, n. 26287);
tale necessità probatoria è dunque da considerarsi dato acquisito, anche perché, nell’economia della notifica a persona (relativamente) irreperibile di cui all’art. 8 cit., l’avviso di deposito è il fulcro su cui ruota l’intero iter notificatorio, in quanto le garanzie conoscitive di base sono individuate dal legislatore in un duplice accesso (per tentare il recapito della prima raccomandata e poi della seconda) e, in caso di persistente assenza al momento del recapito della seconda raccomandata, nell’affissione o immissione in cassetta dell’avviso di deposito;
tali incombenti (duplice accesso; affissione o immissione in cassetta dell’avviso di deposito) definiscono i presupposti di legge affinché l’atto sia da considerare, nonostante la persistente assenza, entrato nella "sfera di conoscibilità" del destinatario, sulla base di un’impostazione complessivamente coerente con i principi riguardanti gli atti recettizi (art. 1335 c.c.);
6.2 nel caso di specie l’avviso di ricevimento del C.A.D. è stato depositato ed esso attesta - come si dirà più in specifico successivamente - soltanto la persistente assenza del destinatario o di chi per esso e l’avvenuta immissione in cassetta della raccomandata di avviso del deposito;
d’altra parte, l’avviso di avvenuto deposito non segue il percorso comunicativo proprio dell’originaria raccomandata di notifica del piego, in quanto per esso, al fine evidentemente di regolare una vicenda che altrimenti potrebbe portare al reiterarsi indefinito di successivi avvisi e depositi, la norma prevede soltanto che "in caso di assenza del destinatario, deve essere affisso alla porta d’ingresso oppure immesso nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda" (art. 8, comma 2, ora comma 4, cit.) e pertanto l’agente postale, nel recapitare la raccomandata di avviso, ove non trovi il destinatario, non può far altro che procedere ad uno di tali incombenti, dandone atto nell’avviso di ricevimento della C.A.D.;
nella medesima logica dell’irreperibilità (relativa) del destinatario va altresì intesa la previsione secondo cui "la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2 ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore", necessaria per evitare che il perfezionamento dell’iter si collochi anch’esso in un tempo futuro ed indefinito;
6.3 il sistema è dunque ben delineato dalla disciplina positiva della fattispecie; infatti, qualora vi sia ritiro del piego prima dei dieci giorni di giacenza, la notifica sarà da considerare perfezionata in quel momento ed il notificante otterrà avviso di ricevimento dell’originaria raccomandata di notifica, con l’indicazione della sua avvenuta consegna e delle modalità di essa;
dopo lo spirare dei dieci giorni di giacenza, invece, il notificante, come previsto dell’art. 8 cit., comma 3 (ora comma 6), otterrà la restituzione dell’originario piego con "l’indicazione "atto non ritirato entro il termine di dieci giorni"";
in quest’ultima ipotesi non è necessaria, per determinare il perfezionamento della notificazione ed il momento in cui essa si ha per eseguita, la verifica sul concreto ritiro di quel piego originario o dell’avviso di avvenuto deposito, perché la conoscenza "legale" per il destinatario (anche ai fini di cui all’art. 149 c.p.c., u.c.) si determina per il solo spirare del termine di dieci giorni successivo alla spedizione della raccomandata di avviso;
tali ritiri - qualora si verifichino - verranno certamente documentati, ma la norma, dopo la predetta giacenza, non attribuisce di regola rilievo ad essi, di cui non fa menzione al fine del perfezionamento della notifica, quanto al fatto che, in caso di assenza anche al momento della comunicazione dell’avviso di deposito, siano state osservate le formalità di affissione alla porta o immissione in cassetta;
è dunque all’osservanza di tali formalità che deve avere riguardo il controllo da eseguirsi sull’avviso relativo alla C.A.D., al fine di verificare l’avvenuto ingresso dell’attività notificatoria nella "sfera di conoscibilità dell’interessato", secondo i presupposti a tal fine delineati dalla legge;
come precisato anche da Cass. 30 gennaio 2019, n. 2683 (punto 13) rispetto all’omologo avviso di deposito della notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., ed in ragione anche di Corte Costituzionale 14 gennaio 2010, n. 3, attraverso esso "occorre avere prova (non già della consegna ma) del fatto che la raccomandata di avviso sia effettivamente giunta al recapito del destinatario e tale prova è raggiunta a mezzo della produzione dell’avviso di ricevimento, sia esso sottoscritto dal destinatario o da persone abilitate, sia esso annotato dall’agente postale in ordine all’assenza di persone atte a ricevere l’avviso medesimo";
coerentemente, in tale logica, Cass. 5077/2019 cit. richiede la produzione dell’avviso di ricevimento del C.A.D. al fine di verificare se in ipotesi - le indicazioni sono tratte da tale pronuncia - la raccomandata di avviso non sia stata consegnata perché il destinatario risulta trasferito, oppure deceduto o, ancora, per altre ragioni (tra cui, va qui aggiunto, il patologico procedersi alle formalità di consegna della raccomandata di avviso di deposito - recapito effettivo al domicilio o affissione o immissione in cassetta - dopo lo spirare dei termini di dieci giorni dalla sua spedizione, ipotesi che, ultimando l’iter conoscitivo minimo delineato da legislatore successivamente al teorico perfezionamento della notifica, non può non avere effetti sul momento da considerare come di perfezionamento per il destinatario e sul decorso dei termini che lo riguardano) le quali comunque rivelino che l’atto in realtà "non è pervenuto nella sfera di conoscibilità dell’interessato";
6.4 nel caso di specie, è stato depositato l’"avviso di ricevimento della comunicazione di avvenuto deposito" ed esso riporta l’attestazione dell’agente postale di avere "immesso in cassetta" la "raccomandata retro indicata" che è appunto la raccomandata di comunicazione dell’avvenuto deposito, come si desume non solo da quanto indicato in tale avviso, ma anche dalla coincidenza del numero della predetta raccomandata di comunicazione, con quello indicato come ad essa relativo nell’avviso di ricevimento dell’atto oggetto di notifica;
in sostanza, è documentato l’invio della (seconda) raccomandata, di avvenuto deposito, in data 9.8.2017 e l’immissione in cassetta di essa il medesimo giorno;
l’avviso di ricevimento della (prima) raccomandata attesta il compimento della giacenza fin dal 18.8.2017, anche se, essendo stata la seconda raccomandata inviata il 9.8.2017, il compimento del decimo giorno successivo di giacenza, sulla base dei criteri di cui a Cass., S.U., 1 febbraio 2012, n. 1418, va spostato al 19.8.2017 che, essendo sabato, comporta, per effetto dell’art. 155 c.p.c., comma 5, l’ulteriore spostamento al 21.8.2017;
a fronte dell’essere stata la C.A.D. (in questo caso) immessa in cassetta, nel rispetto della previsione della norma, e dell’essersi (in ogni caso) compiuti i dieci giorni di giacenza, l’iter notificatorio si è dunque perfezionato in forza della già citata regola di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 3, secondo cui "la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2 ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore";
6.5 non vi è dubbio che il destinatario della notifica, qualora all’apparente rispetto dell’iter normativo non corrisponda l’idoneità rispetto ai presupposti di conoscibilità stabiliti dalla legge, possa reagire adducendo i motivi per cui, sebbene l’avviso di ricevimento della C.A.D. attesti l’osservanza delle forme, quanto accaduto non sia in concreto coerente rispetto a tali presupposti, sia che ciò derivi da falsità nelle attestazioni rese dall’agente postale (nel qual caso è necessaria querela di falso: Cass. 8 ottobre 2018, n. 24780) sia che ciò derivi da fatti estranei alla sfera di conoscenza del medesimo (ad es., comprovato trasferimento di domicilio), oltre a poter altresì dimostrare che, nonostante la piena regolarità del procedimento; egli si sia trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di prendere cognizione del piego (v. rispetto all’omologa raccomandata di avviso ai sensi dell’art. 140 c.p.c., Cass. 4 dicembre 2019, n. 31724; Cass. 24780/2018 cit.);
a ciò conduce l’esigenza di corrispondenza della procedura rispetto ai propri scopi, ma certamente a tal fine non è sufficiente il fatto in sé che la controricorrente affermi nel controricorso che la notifica sarebbe avvenuta il 28.8.2017, senza altra spiegazione idonea a superare quanto emerge dai documenti agli atti e sulla base dei quali il perfezionamento va fissato al 21.8.2017;
6.6 in definitiva il controricorso della ULSS 9 Scaligera, posto in notifica il 9.10.2017, mentre il termine scadeva il 2.10.2017 (in quanto i quaranta giorni a partire dal 21.8.2017 spiravano il 30.9.2017, giornata di sabato) non può essere considerato tempestivo;
6.7 è altresì opportuno indicare il seguente principio: "In tema di notificazione a mezzo posta, la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio nel caso di irreperibilità relativa del destinatario deve avvenire - in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della L. n. 890 del 1982, art. 8 - con la verifica dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.). Il controllo sull’avviso di ricevimento della C.A.D. deve riguardare, in caso di ulteriore assenza del destinatario in occasione del recapito della relativa raccomandata, non seguita dal ritiro del piego entro il termine di giacenza, l’attestazione dell’agente postale in ordine all’avvenuta immissione dell’avviso di deposito nella cassetta postale od alla sua affissione alla porta dell’abitazione, formalità le quali, ove attuate entro il predetto termine di giacenza, consentono il perfezionarsi della notifica allo spirare del decimo giorno dalla spedizione della raccomandata stessa, spettando al destinatario eventualmente contestare, adducendo le relative ragioni di fatto e proponendo quando necessario querela di falso, che, nonostante quanto risultante dall’avviso di ricevimento inerente la C.A.D., in concreto non si siano realizzati i presupposti di conoscibilità richiesti dalla legge oppure egli si sia trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di prendere cognizione del piego";
7. la tardività del controricorso sollecita, sempre ai fini delle spese riguardanti la ULSS n. X Scaligera, la questione consequenziale in ordine all’ammissibilità della memoria depositata dalla stessa parte in vista della trattazione camerale ai sensi dell’art. 380-bis1 c.p.c.;
dopo l’introduzione del nuovo regime delle decisioni presso la Corte di Cassazione, ad opera del D.L. n. 168 del 2016 e della L. n. 197 del 2016, di conversione del medesimo D.L., si è consolidato il principio secondo cui "in tema di rito camerale di legittimità di cui alla L. n. 197 del 2016, art. 1-bis, che ha convertito, con modificazioni, il D.L. n. 168 del 2016, applicabile, ai sensi del comma 2 della stessa norma, anche ai ricorsi depositati prima dell’entrata in vigore della legge di conversione per i quali non sia stata ancora fissata l’udienza o l’adunanza in Camera di consiglio, alle parti costituitesi tardivamente nei corrispondenti giudizi deve essere riconosciuto il diritto di depositare memorie scritte, nel termine di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c., al fine di evitare disparità di trattamento rispetto ai processi trattati in pubblica udienza ed in attuazione del principio costituzionale del giusto processo, di cui all’art. 111 Cost., oltre che dell’art. 6 CEDU" (Cass. 27 febbraio 2017, n. 4906 e successive conformi);
tali conclusioni, destinate a farsi carico dei profili di diritto transitorio, non possono tuttavia valere rispetto alla disciplina a regime e dunque per il presente procedimento, interamente soggetto ab initio alle nuove regole di decisione;
7.1 in proposito, devono prendersi le mosse dal novellato disposto dell’art. 375 c.p.c., da cui si evince che la pronuncia in Camera di consiglio è dettata non solo per le speciali ipotesi ancora regolate espressamente ai nn. 1, 4 e 5 della stessa norma, ma più in generale (art. 375 c.p.c., u.c.) "in ogni altro caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto";
dal complesso di tale insieme normativo si desume quindi che la trattazione "camerale", per le sezioni semplici, è la regola e la trattazione in pubblica udienza è l’eccezione, allorquando ricorra la particolare rilevanza delle questioni di diritto, come non è contraddetto neppure dal rito previsto per l’apposita sezione di cui agli artt. 374 e 380-bis c.p.c., ove l’avvio a pubblica udienza è parimenti eventuale e conseguente ad una previa trattazione camerale non "partecipata";
è dunque da escludere che, a regime, possano avere qualsiasi rilievo le ragioni di affidamento della parte rispetto all’evolversi della decisione attraverso l’udienza pubblica (o almeno attraverso la richiesta di camerale "partecipata", di cui ai previgenti art. 380-bis e ter c.p.c., se il processo avesse avuto indirizzo in tal senso) cui evidentemente si ispirò la menzionata soluzione adottata nel periodo transitorio, perché il rito che di regola è da applicarsi è appunto quello camerale e non quello della pubblica udienza;
venendo quindi all’art. 370 c.p.c., esso, nel disciplinare il controricorso, prevede che, in mancanza della notificazione nel termine (complessivamente di quaranta giorni) da esso stabilito, il controricorrente "non può presentare memorie, ma soltanto partecipare alla discussione orale", con regola pacificamente intesa nel senso il controricorso notificato e depositato oltre i predetti termini è inammissibile e nel senso che da tale inammissibilità deriva il divieto per i giudici di conoscere il contenuto dell’atto e per il resistente di depositare memorie, fatta salva la facoltà di partecipazione del difensore di quest’ultimo alla discussione orale (Cass. 24 aprile 2007, n. 9897; Cass. 21 aprile 2006, n. 9396);
se però, come si è detto, la discussione orale non ha luogo, perché il processo non devia dal percorso camerale delineato come generale dall’art. 375 c.p.c. (e art. 380-bis) c.p.c., non vi è ragione perché non operi, dato anche il netto tenore letterale della norma, la preclusione al deposito di memorie stabilito dall’art. 370 c.p.c.;
del resto, è evidente che la parte, rendendosi inosservante alle regole del rito di cui all’art. 370 c.p.c., comma 1 prima parte, al di fuori del particolare caso di cui al periodo transitorio e di cui si è detto, non può che subire le conseguenze pregiudizievoli, quanto alle facoltà di difesa, che, non irragionevolmente, l’art. 370 c.p.c., stabilisce quale sanzione per il determinarsi della corrispondente irritualità, salvo il parziale recupero delle difese orali nel caso (diverso e non sovrapponibile, anche per la specificità dei presupposti e l’operare, in udienza, della direzione giudiziale) in cui sia fissata udienza di discussione;
se ne conclude che la tardività del controricorso rende inammissibili, se la causa sia avviata a decisione camerale, anche le memorie eventualmente depositate dalla parte intimata, così confermandosi anche in tale ipotesi le conclusioni già assunte da questa Corte rispetto al caso di mancanza di controricorso (Cass. 28 febbraio 2019, n. 5798) o di valido controricorso (Cass. 18 aprile 2019, n. 10813) o ancora di controricorso tardivamente notificato, in ipotesi di trattazione secondo il rito di cui all’art. 380-bis c.p.c. (Cass. 12 dicembre 2019, n. 32724), cui segua il deposito di memoria;
8. in definitiva, il controricorso e la memoria depositati dall’Azienda USLL n. X sono inammissibili e non è dovuto rimborso spese a favore di essa;
nei riguardi delle altre parti le spese del grado restano regolate secondo soccombenza.

 

P.Q.M.



La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara assorbiti i ricorsi incidentali e condanna i ricorrenti principali al pagamento in favore dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona e della Gestione liquidatoria della ex azienda ospedaliera di Verona delle spese del giudizio di legittimità che liquida, per ciascuna di esse, in Euro 3.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.