Tribunale di Ravenna, 07 gennaio 2021 - Licenziamento per GMO. Sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione - Moratoria stabilita dalla normativa emergenziale da pandemia COVID-19 - Nullità - Massima sanzione della reintegra e del risarcimento



 

 
 

FattoDiritto


 
Con ricorso (...) domandava - in via principale e per quanto qui rileva - Accertare e quindi dichiarare la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo comunicato al ricorrente con raccomandata del 30 aprile 2020 per le ragioni esposte in narrativa e/o per le diverse e/o ulteriori ragioni che dovessero risultare di giustizia e, per l’effetto, in applicazione dell’articolo 2 del decreto legislativo 04 marzo 2015 n. 23 e ss. m. e i: — Ordinare a (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro- tempore, di reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro; - Condannare (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore, a corrispondere al ricorrente, a titolo di risarcimento del danno, un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, determinata in € 1.717,44 mensili ovvero nella diversa maggiore o minore cifra che dovesse risultare di giustizia, dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e, comunque, non inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto; - Condannare (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore, al versamento, per il medesimo periodo, dei contributi previdenziali ed assistenziali in favore del ricorrente".
 
La (...) srl resisteva al ricorso.
 
La causa veniva posta in decisione senza assumere prove costituende, in quanto le stesse non sono necessarie nell’impianto logico seguito per la decisione.
 
Il ricorrente veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo (dovuto a sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione) con missiva del 30.4.2020, in seguito al giudizio di inidoneità pronunciato dal medico competente in data 24.4.2020.
 
Sul motivo di licenziamento non vi sono dubbi.
 
Il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta integra, per giurisprudenza e dottrina consolidate, un motivo oggettivo (categoria frammentaria e che comprende tutto ciò che non è disciplinare) di licenziamento: Cass. 21 maggio 2019, n. 13649; Cass. 22 gennaio 2019, n. 6678; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29250; Cass. 4 ottobre 2016, n. 19774.
Ciononostante, si è discusso tra le parti se il licenziamento in questione rientri nell’ambito della moratoria stabilita dalla normativa emergenziale scaturita dalla pandemia da COVID-19 (secondo la difesa della resistente "siamo di fronte ad un licenziamento che nulla c’entra con il diritto del lavoro dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, quello dell’art. 46 D.L. 18/2020 come convertito e modificato. Ne consegue che il licenziamento oggi avversato non ha natura di licenziamento economico in senso stretto e, soprattutto, occasionato dai fatti di questo periodo, che è quello ostacolato dal divieto invocato dal ricorrente, introdotto in via eccezionale e temporanea alfine di impedire il recesso unilaterale dal rapporto di lavoro per motivi legati ad assenza di lavoro, soppressione del posto di lavoro o ridimensionamento della società come conseguenza alle misure restrittive adottate dal Governo per fronteggiare l’epidemia in corso. Ad avviso dì chi scrive, infatti, non si può prescindere da una valutazione della applicabilità del divieto tenuto conto del caso specifico, pena - al contrario - una eccessiva, illogica ed indiscriminata compromissione dell’art. 41 Cost. che, invero, dovrebbe essere necessariamente bilanciata dai principi di proporzionalità ed adeguatezza; bilanciamento che non si configura qualora si impedisce al datore dì lavoro di licenziare per motivi non strettamente legati alle "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa" connesse alle misure restrittive assunte contro la pandemia (duplice requisito), come lo è il caso di un dipendente che è divenuto inidoneo al disimpegno delle mansioni assegnategli, mansioni che sono le uniche presenti in azienda: (...) non avrebbe comunque potuto lavorare, lockdown (situazione che non ha impedito a tutti i suoi colleghi di lavorare) o meno.)").
 
Viene in rilievo il D.L. 18 del 17.3.2020 (convertito con modificazioni dalla L. 24 aprile 2020, n. 27) che all’art. 46 prevedeva un blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo: "1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l'avvio delle procedure dì cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per cinque mesi e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell'appalto, sia riassunto a seguito dì subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, dì contratto collettivo nazionale di lavoro o dì clausola del contratto d'appalto. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604. Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604".
 
A parere di chi scrive non possono esservi dubbi sulla ricomprensione nell’ambito applicativo del blocco dei licenziamento per G.M.O. di cui all’art. 46 anche del licenziamento per sopravvenuta inabilità,
 
Non solo perché tale motivo di licenziamento è indubbiamente oggettivo (non è disciplinare) nella dicotomia dell’art. 3 della L. n. 604/1966.
 
Ma anche perché, in concreto, per tale licenziamento valgono le stesse ragioni di tutela economica e sociale (art. 1: Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di contenere gli effetti negativi che l'emergenza epidemiologica COVID-19 sta producendo sul tessuto socio-economico nazionale, prevedendo misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale, della protezione civile e della sicurezza, nonché di sostegno al mondo del lavoro pubblico e privato ed a favore delle famiglie e delle imprese...") che stanno alla base di tutte le altre ipotesi di licenziamento per G.M.O. che la normativa emergenziale ha inteso espressamente impedire.
 
Va, infatti, evidenziato come per il lavoratore divenuto inidoneo alla mansione, il licenziamento sia sistematicamente delineato come extrema ratio, evitabile con l’adozione di misure organizzative tali da consentire al lavoratore di continuare a lavorare presso lo stesso datore di lavoro, anche eventualmente passando a svolgere mansioni inferiori (come previsto dall’art. 42 del D.Lgs. n. 81/2008, ai sensi del quale "(1. Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all'articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un'inidoneità' alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza").
 
Ragionevolmente, in una situazione di contrazione economica (con blocco di una buona parte della domanda: la popolazione era chiusa in casa, c.d. lockdown) con blocchi più o meno totali alle attività di impresa e comunque rallentamenti della stessa in una pluralità di. settori produttivi (nulla rileva che nello specifico caso l’impresa abbia continuato a funzionare a pieno regime), la scelta del congelamento dei licenziamenti dei dipendenti (il cui costo di mantenimento senza svolgimento della prestazione veniva correlativamente assunto dall’INPS) andava a rimandare alla fase successiva all’emergenza ogni valutazione aziendale circa l’esistenza (a quella data) di giustificati motivi oggettivi di licenziamento.
 
Tali ragioni valgono all’evidenza anche per il licenziamento per inidoneità permanente alla mansione specifica, posto che (nell’ottica del legislatore) solo all’esito del superamento della crisi potrà esservi una attuale e concreta (relativa alla specifica azienda coinvolta) scelta in punto a organizzazione o riorganizzazione aziendale e, dunque, anche in punto al ripescaggio del lavoratore in questione (si tratta proprio dell’adozione della misure organizzative come detto previste dall’art. 42 del D.Lgs. n. 81/2008).
 
Conseguentemente, il caso di specie rientra appieno nel blocco dei licenziamento per G.M.O. di cui all’art. 46 del D.L. n. 18 del 2020.
 
Peraltro, nessuna disposizione ha mai previsto una sorta di "prova di resistenza" in materia.
 
Non si pongono nemmeno immediati (rectius: rilevanti per il processo a quo) problemi di costituzionalità circa la durata attualmente assunta dal blocco dei licenziamenti, posto che il licenziamento è avvenuto nella prima vigenza del blocco inizialmente disposto (aprile 2020) e non in un momento successivo (ad oggi il blocco perdurerà sino al 31.3.2021) e che circa tale misura, attese le esigenze alla stessa sottese, non si reputano sussistenti elementi tali da introdurre una questione di legittimità costituzionale non manifestamente infondata.
 
Devono ora stabilirsi le conseguenze di tale violazione del regime della moratoria dei licenziamenti.


La conseguenza, a parere di chi scrive, non può essere che la nullità, per violazione di una norma imperativa (non si tratta di un consiglio, ma di un divieto a tutela di fondamentali interessi sociali, financo teso alla tenuta del "contratto sociale" stesso, minacciata dall’emergenza causata dal COVID-19), diretta proprio a proibire (in quelle determinate circostanze) l’adizione del licenziamento (art. 1418 c.c.: "Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente").
 
Il rimedio va individuato nell’art. 2, I^ comma del D.Lgs. n. 23/2015 che prevede la massima sanzione (reintegra e risarcimento) in relazione ai casi di "nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge", dovendosi fare riferimento al dato testuale codicistico sopra riportato e che vale a qualificare espressamente nullo il contratto (qui il licenziamento in forza del richiamo di cui all’art. 1324 c.c.) contrario a norme imperative (qual è la disposizione sopra esaminata).
 
Nell’ottica dell’art. 2, infine, nulla rilevano le dimensioni dell’impresa: una eco - seppure tecnicamente non ineccepibile, posto che i motivi di licenziamento prescindono dal numero dei dipendenti, che influenzano, dal 2012 in avanti, le tecniche di tutela contro gli atti espulsivi illegittimi - del concetto la si rinviene nello stesso art. 46 laddove si precisa che il blocco dei licenziamenti per G.M.O. opera "indipendentemente dal numero dei dipendenti".
 
Tale precisazione, a parere dello scrivente, funge da cartina al tornasole del ragionamento sopra compiuto in tema di conseguenze del licenziamento (nullità) e di strumenti di tutela conseguenti (reintegra e risarcimento), posto che il riferimento nell’art. 46 alla circostanza che non si potesse licenziare per G.M.O. "indipendentemente dal numero dei dipendenti" va invece riferito all’evidenza al piano proprio delle tutele e, dunque, delle conseguenze, che devono essere - per tutte le imprese - quelle della nullità.
 
Come visto sopra, nessuna disposizione ha mai previsto una sorta di "prova di resistenza" in materia, con la conseguenza che alla nullità per violazione della norma imperativa del licenziamento non è possibile sovrapporre una valutazione di legittimità a . motivo di una asserita - alla data dell’aprile 2020 - inoccupabilità del lavoratore, posto che ogni valutazione in materia è già stata compiuta ed esaurita dal legislatore nel momento in cui ha vietato di licenziare per G.M.O. (e quindi anche nel caso di specie) nel periodo in questione.
 
Ne conseguono la reintegra, la condanna al risarcimento nella misura pari alla retribuzione omessa dalla data del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra, nonché la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tale periodo.
 
L’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R. è stata allegata come pari ad € 1.717,44, quantificazione non oggetto di contestazione e, dunque, da prendersi per buona.


Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

 

P.Q.M.
 

Definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:
 
1)  accertata la nullità del licenziamento per cui è causa, ordina la reintegrazione del lavoratore, condanna la resistente al pagamento a titolo di risarcimento del danno, di una somma pari alla retribuzione (di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto: nel caso di specie € 1.717,44 mensili) omessa dalla data del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra, nonché la condanna il datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tale periodo;
 
2)  condanna il datore di lavoro a rimborsare a le spese di lite, che si liquidano in € 259,00 per spese ed € 3.000,00 per compensi, oltre i.v.a., c.p.a. e 15,00 % per rimborso spese generali.