Categoria: Cassazione penale
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  • Datore di Lavoro
  • Lavoratore
  • Infortunio sul Lavoro
  • Macchina ed Attrezzatura di Lavoro

Responsabilità di un datore di lavoro per la morte di un suo dipendente che, trovatosi a percorrere un breve tratto di strada alla guida di una macchina operatrice a carrello elevatore ("muletto"), allorchè la macchina si ribaltò, finì con la gamba sinistra sotto il mezzo: la strada era viscida a causa della pioggia ed era in discesa rispetto alla direzione di marcia del lavoratore.
 
Al datore di lavoro della vittima, si contestò di avere concorso, insieme al chirurgo di turno  che non si accorse tempestivamente della gravità del sinistro,  a cagionare la morte del lavoratore  per colpa, consistita nel munire quest'ultimo, per l'esecuzione di lavori edili ai quali lo aveva assegnato, di una macchina... il cui dispositivo di frenatura, in violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 173, non era idoneo ad assicurare il pronto arresto e la posizione di fermo del mezzo.
 
Ricorso in Cassazione - Rigetto
 
La Corte afferma che:
"I giudici dell'appello, difatti, hanno dato atto che "il D. non predispose affatto idonee cautele atte ad evitare che i propri lavoratori, nell'utilizzare l'elevatore meccanico, fossero tutelati dai rischi ad esso connessi, perchè consentiva che il mezzo fosse usato non in condizioni di sicurezza".
E la integrativa sentenza di prime cure, cui quella di secondo grado rimanda quanto alla "inefficienza del mezzo meccanico e in particolare del sistema frenante", ha ricordato che il consulente tecnico del P.M. aveva riscontrato "l'inefficienza totale del freno di servizio e di quello di stazionamento; smontato il gruppo frenante, notò che l'impianto era completamente scarico, privo di liquido, avendo la vaschetta di contenimento dell'olio ... del tutto vuota. Distaccati i tamponi dei freni, ravvisò una notevole quantità di olio, molto denso, che si era attaccato sia sul tamburo stesso che sulle ganasce di espansione...".
Posto che si trattava di percorrere (in discesa) una strada con una pendenza "del 17% lungo l'asse longitudinale e dell'8% nella curva dove il muletto si ribaltò", si appalesa evidente la incidenza causale della riscontrata assoluta inefficienza del sistema frenante del mezzo, a conferma di tanto annotandosi anche che "nessun segno di frenata (si) riscontrò sul luogo del sinistro".
Ed aveva anche ricordato il primo giudice che il consulente tecnico aveva evidenziato che "il muletto avrebbe potuto percorrere quel tipo di strada (anche se, di regola, su strade comunali e statali non avrebbe potuto circolare e, comunque, non era prudente farlo) se i freni fossero stati pienamente efficienti e che la velocità eccessiva raggiunta nell'occorso fu determinata proprio da loro mancato funzionamento, che verosimilmente indusse il De. ad effettuare una manovra repentina sulla destra, verso il ciglio della strada (per ottenere, con l'attrito della fiancata destra, l'arresto del mezzo), causando il ribaltamento del muletto, a causa della pesantezza e dell'altezza del suo baricentro"."
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MOCALI Piero - Presidente -
Dott. MARZANO Francesco - rel. Consigliere -
Dott. ZECCA Gaetanino - Consigliere -
Dott. GALBIATI Ruggero - Consigliere -
Dott. D'ISA Claudio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) D.M.G., n. in (OMISSIS);
2) D.G.G., n. in (OMISSIS);
avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli in data 14.3.2007.
Udita in pubblica udienza la relazione svolta dal Consigliere Dott. Francesco Marzano;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. DI POPOLO Angelo, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
Udito il difensore della parte civile P.R.M., avv. Massimo Preziosi, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
Udito il difensore delle parti civili DE.Ge., C. C., DE.Am. e DE.Sa., avv. Gennaro Saveriano, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
Uditi i difensori dei ricorrenti, avv. VILLANI Alberico per D. M. e avv. Benedetto De Maio per D., che hanno concluso per l'accoglimento dei ricorsi.
Osserva:
 
Fatto

1.0 Il 20 gennaio 2006 il Tribunale di Avellino, in composizione monocratica, condannò D.G.G., riconosciutegli le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, a pena ritenuta di giustizia, nonchè al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, per imputazione di cui all'art. 589 c.p..
Assolse da analoga imputazione D.M.G. per non aver commesso il fatto.
La vicenda venne così ricostruita dal giudice.
Il (OMISSIS) De.Re., dipendente della ditta il cui titolare era il D., si trovava a percorrere un breve tratto di strada alla guida di una macchina operatrice a carrello elevatore ("muletto"), allorchè la macchina si ribaltò, finendo il lavoratore con la gamba sinistra sotto il mezzo: la strada era viscida a causa della pioggia ed era in discesa rispetto alla direzione di marcia del De..
Questi venne prontamente soccorso e ricoverato, verso le ore 13,50, presso l'Ospedale di (OMISSIS): qui venne formulata una diagnosi di "frattura pluriframmentaria femore e tibia sinistra" e vennero disposti esami ematologici e pressori, che diedero risultati tali da non lasciare diagnosticare emorragie in corso.
Il paziente venne condotto nel reparto di radiologia alle ore 14,00 ed ivi rimase sino alle ore 15,00, ora in cui si riscontrò un peggioramento del quadro ematologico.
Alle 15.10 l'ortopedico di turno, valutata la gravità delle condizioni generali, prescrisse consulenze anestesiologica e chirurgico-vascolare ed indi si decise di inviare il paziente in rianimazione, ove giunse alle ore 15,20: in cartella clinica si annotò che egli, alle ore 15,30, era in grave stato di shock, obnubilato ed in agitazione psicomotoria, con cute e mucose visibili cianotiche, sudorazione profusa, pressione arteriosa indeterminabile, polso centrale presente, anuria.
Dopo altri esami, alle ore 15.40 la situazione si aggravò ulteriormente; si tentò di bloccare l'emorragia in corso, si praticò un massaggio cardiaco, si trasfuse sangue e venne praticato il camplaggio dell'arteria femorale da parte del chirurgo vascolare, dott. D.M., che era intervenuto alle ore 15.30 in seguito alla richiesta di consulenza.
Alle ore 17, risultate vane le manovre rianimatorie, si registrò il decesso del paziente per "collasso cardiocircolatorio irreversibile, determinato dalla copiosa emorragia interna, causata da rotture vascolari indotte dallo schiacciamento dell'arto ad opera del muletto, emorragia che diede luogo ad anemia acuta".
 
1.1 A D.G.G., quale datore di lavoro della vittima, si contestò di avere concorso a cagionare la morte del lavoratore per colpa, "consistita nel munire quest'ultimo, per l'esecuzione di lavori edili ai quali lo aveva assegnato, di una macchina... il cui dispositivo di frenatura, in violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 173, non era idoneo ad assicurare il pronto arresto e la posizione di fermo del mezzo, essendo risultato che il gruppo frenante era completamente inefficiente sia per la mancanza di olio anticongelante nella pompa e nella vaschetta di alimentazione, sia per la presenza di olio lubrificante fuoriuscito dal corteo del semiasse di sinistra..." A D.M.G., quale chirurgo vascolare di turno nel pomeriggio del (OMISSIS) presso il precitato nosocomio di (OMISSIS), si contestò di aver concorso a cagionare il decesso del lavoratore per colpa, "consistita nel porre in essere la propria attività solo a partire dalle ore 16,00 circa, nel non rendersi conto immediatamente della gravità delle condizioni di De.Re., in conseguenza del sinistro patito, nel non ricorrere all'amputazione dell'arto inferiore sinistro", così impedendo "il tempestivo arresto dell'emorragia in atto".
 
1.2 Il giudice, richiamate le acquisite risultanze processuali, ritenne la comprovata sussistenza dei profili di colpa contestati al D..
Quanto al D.M., rilevò, innanzitutto, che "le consulenze d'ufficio e di difesa concordano nel ritenere che la condotta da lui tenuta nell'occorso fu conforme alle legis artis...; dette consulenze, invece, dissentono sulla tempestività dell'intervento:... i consulenti d'ufficio ritengono che, se si fosse intervenuti dalle ore 15,00 alle ore 15,30 con l'amputazione dell'arto, l'esito sarebbe potuto essere fausto (seppure nessuno di loro abbia parlato di probabilità vicina alla certezza) ed assumono che il dott. D.M. intervenne solo dopo le ore 16,00, laddove il consulente di difesa..., fondandosi sui dati della cartella clinica..., asserisce che il sanitario, prontamente portatosi in rianimazione..., non avrebbe potuto effettuare fruttuosamente l'amputazione, stante lo shock irreversibile in cui versava il De., nemmeno se fosse intervenuto alcuni minuti prima ...". In tale contesto, ritenne il giudice che "i consulenti d'ufficio, tuttavia, errano nel ritenere che alle 15.30 il chirurgo vascolare ancora non fosse intervenuto, malamente interpretando i dati della cartella clinica...
Ed in ogni caso, affermando che già alle ore 15,30 il paziente era compromesso, e che l'amputazione sarebbe dovuta intervenire prima di quell'ora per dare risultati apprezzabili, i consulenti d'ufficio finiscono con l'ammettere che alle 15,30 un intervento di demolizione sarebbe stato vano".
In conclusione: "a fronte di un'annotazione in cartella clinica che colloca alle ore 15,10 la richiesta dell'ortopedico di consulenza vascolare, tenuto conto del fatto che non è dato sapere se immediatamente fu contattato il D.M., avuto riguardo alla circostanza che questi era stato chiamato dal reparto di pronto soccorso, ove non trovò il paziente, nel frattempo condotto in rianimazione, a fronte, infine, di un dato oggettivo costituito dall'orario (15,30) in cui fu effettuata consulenza vascolare, non può certamente parlarsi di intempestività e di ritardo da parte dell'odierno imputato che, allorquando giunse, non potette fare altro che comportarsi come è provato che si comportò...". Da tanto la statuizione assolutoria nei confronti di tale imputato, per non aver commesso il fatto.
 
1.3 Avverso tale sentenza proposero appelli il D., nonchè le parti civili, ai soli effetti della responsabilità civile, nei confronti del D.M.; una delle parti civili, P.R. M., impugnò la sentenza anche nei confronti del D., chiedendo la liquidazione del danno ed il riconoscimento di una provvisionale immediatamente esecutiva.
La Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 14 marzo 2007, condannò anche il D.M., in solido col D., al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, ed assegnò alla P. una provvisionale immediatamente esecutiva; confermò nel resto la sentenza impugnata.
Quanto al D., rigettate alcune preliminari eccezioni, i giudici dell'appello confermarono l'espresso giudizio di responsabilità, tra l'altro rilevando che "il notevole sforzo della difesa nel cercare di attribuire l'esclusiva responsabilità dell'evento al lavoratore è certamente apprezzabile, ma vano...";
che, come ritenuto dal primo giudice, "il D. non predispose affatto idonee cautele atte ad evitare che i propri lavoratori, nell'utilizzare l'elevatore meccanico, fossero tutelati dai rischi ad esso connessi, perchè consentiva che il mezzo fosse usato non in condizioni di sicurezza"; che non poteva ritenersi che la causa sopravvenuta dell'"intempestivo intervento dei medici dell'ospedale" fosse, in sostanza, idonea ad interrompere il rapporto causale tra la condotta dell'appellante e l'evento letale determinatosi; che, quanto al trattamento sanzionatorio, "la pena come inflitta in primo grado è congrua e correttamente calcolata...".
Quanto al D.M., invece, ritennero fondato l'appello delle parti civili.
Rilevarono che "è pacifico che l'intervento di camplaggio iniziò dopo le ore 16, quando le condizioni del paziente erano decisamente gravi..., laddove esso sarebbe dovuto e potuto essere praticato sin dalle ore 15,10 ed in tal modo, impedendo la forte perdita di sangue dall'arteria femorale tranciata, si sarebbe salvata la vita del paziente"; che "non è corretta la lettura delle risultanze processuali" effettuata dal primo giudice; che, in particolare, "dalle ore 15,10 alle 16, il chirurgo vascolare, nonostante richiesta urgente, non visitò il paziente e non sono emerse nè sono state addotte dall'interessato ragioni tali che gli impedirono il doveroso intervento nei tempi richiesti o almeno ragionevoli"; che "la prova che l'intervento sulla arteria femorale sia iniziato dopo le 16, rectius verso le 16,30, è... data: a) dalle annotazioni in cartella clinica...; b) dalla deposizione del dr. D.F., cardiologo...; c) dalla deposizione di contenuto analogo, dell'infermiere C.... Erra pertanto il primo giudice quando ritiene eseguita la consulenza alle ore 15,30 e iniziato l'intervento alle ore 16 circa, essendo emerso dall'insieme delle acquisizioni dibattimentali che la prima non fu effettuata a quell'ora e che il secondo ebbe inizio tra le h. 16,30 e le 16,45", che anche l'affermazione del primo giudice, secondo cui le condizioni del paziente "erano in ogni caso talmente compromesse già alle h.
15,40 che inutile o scarsamente positivo sarebbe stato l'intervento...", non potevano condividersi perchè "anche in presenza di shock emorragico (avutosi verso le ore 15,40) sarebbe stato doveroso praticare la saturazione dei vasi arteriovenosi, intervento che, bloccando la fuoriuscita di sangue, avrebbe impedito il precipitare dei valori e quindi il rapido aggravamento delle condizioni generali del paziente, salvandogli la vita...".
 
2.0 Avverso tale sentenza hanno proposto ricorsi D.M. G. e D.G.G., per mezzo dei rispettivi difensori.
 
2.1 D.M. denunzia:
 
a) il vizio di violazione di legge, in relazione all'art. 591 c.p.p..
Deduce che illegittimamente la Corte territoriale aveva ritenuto ammissibile l'impugnazione della parte civile P.R. proposta in data 5 maggio 2006, "nella vigenza della L. n. 46 del 2006".
Posto che "tale impugnazione per gli interessi civili proposta direttamente con ricorso per cassazione non incorreva nelle preclusioni introdotte dalla suindicata normativa... e pertanto trattandosi di impugnazione ammissibile direttamente per saltum da parte della parte civile ricorrente, non poteva tramutarsi in appello, così come in definitiva ha finito per operare la Corte territoriale. Peraltro, con sentenza della Corte Suprema di Cassazione 7^ Sezione penale del 4,4.2007 veniva dichiarata la inammissibilità dell'impugnazione per intervenuta rinuncia alla stessa della parte civile P.R. e pertanto la sentenza del Tribunale monocratico di Avellino allo stato deve ritenersi definitiva, essendo intervenuta la pronuncia sull'impugnazione della parte civile proposta avverso la sentenza del tribunale monocratico con la richiamata sentenza della Corte di Cassazione". In sostanza, "risultava... evidente che la impugnazione proposta con ricorso per cassazione non poteva ritenersi correlat(a) normativamente alla L. n. 46 del 2006, che non aveva affatto modificato la norma di cui all'art. 576 c.p.p. che consentiva l'impugnazione per gli interessi civili con appello o direttamente per cassazione secondo i principi generali in materia di impugnazione delle sentenze, indipendentemente dalle modifiche introdotte con la L. n. 46 del 2006;
 
b) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 192, 546 e 530 c.p.p., artt. 40, 41 e 589 c.p.. Deduce che "la valutazione operata dalla Corte" in ordine alla ritenuta intempestività dell'intervento del ricorrente, "non può essere condivisa, atteso che la tempestività dell'intervento del sanitario non solo è ampiamente documentata in cartella clinica, ma è stata in modo articolata provata attraverso la prova testimoniale resa dai medici e paramedici intervenuti sul paziente De...."; e che altrettanto "evidente" sarebbe "la erroneità della ricostruzione logica dei fatti, operata dai giudici di appello, atteso che risultava dalla cartella clinica non la mera richiesta di consulenza chirurgo-vascolare ma lo svolgimento effettivo della consulenza stessa come ricavabile da inoppugnabili atti documentali, perchè effettivamente alle ore 15,10 venne avanzata richiesta di consulenza chirurgica vascolare urgente assieme a consulenza anestesiologica..."; che "appare... conclamato che l'intervento chirurgico di camplaggio fu eseguito, con inizio alle ore 15,30, anche se le possibilità di successo erano già scarse e l'eventuale amputazione dell'arto avrebbe aggravato lo stato clinico del soggetto..."; che vi sarebbe stato un "evidente travisamento del fatto, laddove viene a confondersi la richiesta di consulenza chirurgica vascolare urgente indicata alle ore 15,10 con lo svolgimento effettivo e concreto della consulenza cardiologica e vascolare delle ore 15,30..."; che le risultanze della cartella clinica evidenzierebbero come "appare ugualmente viziato l'argomento utilizzato dalla Corte secondo il quale l'intervento di camplaggio non potesse essere svolto al momento della visita cardiologica che sarebbe iniziata alle ore 16,30, tenuto conto che parzialmente l'intervento del D.M. è avvenuto in concomitanza e contestualmente alle manovre cardiologiche e rianimatorie operate da altri medici intervenuti, i quali hanno potuto in tal modo testimoniare e deporre in ordine ai concreti interventi terapeutici prestati dal D.M. sul paziente..."; che, richiamate le "condivisibili... conclusioni operate dal consulente della difesa dott. B.... in relazione al problema dell'accertamento del rapporto di causalità", illegittimamente si era omesso di considerare che "l'ausilio della prova testimoniale e medico-legale identificava ed escludeva ogni correlazione fra l'intervento chirurgico e i fattori dell'evento infausto...".
 
2.2 D.G.G., dal canto suo, denunzia:
 
a) il vizio di violazione di legge, perchè illegittimamente la Corte territoriale aveva ritenuto che "alla consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero nel corso delle indagini (nel cui ambito il consulente dichiarava di aver accertato l'assoluta inefficienza del sistema frenante per la mancanza di olio nella vaschetta che doveva contenerlo) non potesse riconoscersi natura di atto irripetibile...";
 
b) il vizio di motivazione.
Richiamate le addotte condizioni del tratto di strada percorso e del carrello elevatore, deduce che i giudici del merito non avevano accertato perchè il carrello elevatore si ribaltò e "nulla hanno aggiunto in ordine alla dinamica del ribaltamento...", omettendo di considerare la tesi alternativa della difesa (che, cioè, "l'automezzo potesse essersi ribaltato non per l'inefficienza del sistema frenante bensì per aver proceduto con le forche abbassate quasi a livello del piano stradale, di guisa che la pendenza (17%) della strada percorsa in discesa potesse avere verosimilmente determinato la spinta delle forche sul piano carrabile e, per effetto della leva derivatane, il ribaltamento dell'automezzo, il tutto senza che il sistema frenante avesse avuto una qualche influenza nell'incidente").
La sentenza impugnata, inoltre, avrebbe risposto con una motivazione solo apparente alla domanda se "il sistema frenante del carrello era realmente inefficiente al tempo dell'incidente..."; e non avrebbe spiegato perchè il conducente, avendo subito prima del sinistro utilizzato quella macchina e dovendosi essere perciò avveduto della ritenuta inefficienza del sistema frenante, "si fosse messo (a questo punto, in maniera assolutamente irresponsabile) nuovamente alla sua guida nella consapevolezza dell'assoluta inefficienza dei freni.
 
Diritto

3.0. Quanto al ricorso del D.M., per quel che concerne il primo motivo di doglianza, risulta dagli atti del procedimento che P.R., per mezzo dell'avv. Massimo Preziosi, propose ricorso per cassazione (n. 328/06 Ufficio impugnazione del Tribunale di Avellino) avverso la sentenza del Tribunale di Avellino del 20 gennaio 2006, "con la quale D.M.G. è stato assolto per non aver commesso il fatto...". Propose altresì appello (n. 327/06 dell'Ufficio impugnazione del Tribunale di Avellino) avverso la stessa sentenza "con la quale il D.G.G. veniva condannato... al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede, con il rigetto della richiesta di provvisionale...", di tale ultima statuizione dolendosi.
Quindi: da tale parte civile, nei confronti di D.M. venne proposto ricorso, ai fini civili, lamentandosi la sua assoluzione;
nei confronti di D. venne proposto appello, lamentandosi la mancata concessione di una provvisionale.
Le altre parti civili ( De.Ge., Co.Ca., De.Am., De.Sa.) proposero appello "per il riconoscimento della responsabilità civile e penale del dott. D.M....".
Il primo gravame della P. (ricorso per cassazione nei confronti di D.M.) è stato in effetti definito da questa Suprema Corte, Sez. 7, con sentenza n. 23531 del 4 aprile 2007: si è ivi dato atto che "il Tribunale di Avellino", con la sentenza indicata in epigrafe, assolveva D.M.G. dal reato di cui all'art. 589 c.p. in danno di De.Re."; che "avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la parte civile P.R., la quale presentava poi istanza di conversione del ricorso in appello in conseguenza della declaratoria di incostituzionalità... della L. n. 46 del 2006, artt. 1 e 10"; che "successivamente la ricorrente P. ha rinunciato al ricorso": in conseguenza di tale rinuncia è stata dichiarata la inammissibilità del ricorso.
In effetti, quindi, la P. ha definitivamente rinunciato ad ogni doglianza nei confronti del D.M. ed al riguardo è intervenuta la precitata sentenza definitiva di questa Suprema Corte.
Residuava solo l'appello, per la provvisionale, concernente l'altro imputato D..
E dunque, illegittimamente la Corte territoriale ha reso le suindicate statuizioni risarcitorie nei confronti del D.M. anche a favore di tale parte civile, P.R., non tenendo conto dell'intervenuto atto abdicativo a far valere doglianze di sorta in ordine alla pronuncia di assoluzione intervenuta in primo grado.
 
La sentenza impugnata va, quindi, annullata senza rinvio sul punto.
 
Il rapporto processuale, invece, sotto il profilo civilistico, rimane ovviamente integro in riferimento alle altre parti civili, le quali hanno impugnato la statuizione liberatoria del D.M., ed avevano già beneficiato della statuizione risarcitoria espressa in prime cure nei riguardi del D..
 
Il secondo profilo di censura è infondato.
 
Per come, difatti, si è sopra ampiamente riportato, i giudici dell'appello hanno dato ampia ed esaustiva contezza del percorso argomentativo seguito nel pervenire alla resa statuizione, puntualmente spiegando anche le ragioni per le quali si è ritenuto non condivisibile il diverso divisamente espresso dal giudice di primo grado.
Ed occorre al riguardo considerare che, in tema di sindacato del vizio di motivazione, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito in ordine alla affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass., Sez. Un., 13.12.1995, n. 930/1996); id., Sez. Un., 31.5.2000, n. 12).
Inoltre, il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o - a seguito della modifica apportata all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 - da "altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame", il che vuoi dire - quanto al vizio di manifesta illogicità -, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l'iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un'altra interpretazione o di un altro iter, quand'anche in tesi egualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si presterebbero ad una diversa lettura o interpretazione, ancorchè munite, in tesi, di eguale crisma di logicità (cfr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30).
L'argomentare dei giudici del merito si appalesa, nella specie, esente da rinvenibili vizi di illogicità, che, peraltro, la norma vuole dover essere manifesta, cioè coglibile immediatamente, ictu oculi; e gran parte dei rilievi gravatori del ricorrente si sostanziano nella inammissibile richiesta di rivalutare e riconsiderare, in questa sede di legittimità, il merito della vicenda che occupa.
 
3.1. Il ricorso di D. è infondato.
 
Quanto, invero, al primo profilo di censura, ha già correttamente e del tutto condivisibilmente rilevato la sentenza impugnata che a quell'accertamento tecnico non poteva riconoscersi la connotazione di irripetibilità, concernendo esso le "condizioni meccaniche e di funzionalità dei veicolo", che potevano essere anche successivamente riscontrate e verificate, non vertendo su "cose e luoghi soggetti a modificazioni tali da far perdere in tempi brevi ogni valenza probatoria...".
Quanto al secondo motivo di censura, la sentenza impugnata ha anche al riguardo dato esaustiva contezza delle ragioni apprezzate nel pervenire alla resa confermativa statuizione di responsabilità.
I giudici dell'appello, difatti, hanno dato atto che "il D. non predispose affatto idonee cautele atte ad evitare che i propri lavoratori, nell'utilizzare l'elevatore meccanico, fossero tutelati dai rischi ad esso connessi, perchè consentiva che il mezzo fosse usato non in condizioni di sicurezza".
E la integrativa sentenza di prime cure, cui quella di secondo grado rimanda quanto alla "inefficienza del mezzo meccanico e in particolare del sistema frenante", ha ricordato che il consulente tecnico del P.M. aveva riscontrato "l'inefficienza totale del freno di servizio e di quello di stazionamento; smontato il gruppo frenante, notò che l'impianto era completamente scarico, privo di liquido, avendo la vaschetta di contenimento dell'olio ... del tutto vuota. Distaccati i tamponi dei freni, ravvisò una notevole quantità di olio, molto denso, che si era attaccato sia sul tamburo stesso che sulle ganasce di espansione...".
Posto che si trattava di percorrere (in discesa) una strada con una pendenza "del 17% lungo l'asse longitudinale e dell'8% nella curva dove il muletto si ribaltò", si appalesa evidente la incidenza causale della riscontrata assoluta inefficienza del sistema frenante del mezzo, a conferma di tanto annotandosi anche che "nessun segno di frenata (si) riscontrò sul luogo del sinistro".
Ed aveva anche ricordato il primo giudice che il consulente tecnico aveva evidenziato che "il muletto avrebbe potuto percorrere quel tipo di strada (anche se, di regola, su strade comunali e statali non avrebbe potuto circolare e, comunque, non era prudente farlo) se i freni fossero stati pienamente efficienti e che la velocità eccessiva raggiunta nell'occorso fu determinata proprio da loro mancato funzionamento, che verosimilmente indusse il De. ad effettuare una manovra repentina sulla destra, verso il ciglio della strada (per ottenere, con l'attrito della fiancata destra, l'arresto del mezzo), causando il ribaltamento del muletto, a causa della pesantezza e dell'altezza del suo baricentro".
A fronte di tale del tutto logico argomentare, l'assunto gravatorio del ricorrente, che "l'automezzo potesse essersi ribaltato non per inefficienza del sistema frenante bensì per aver proceduto con le forche abbassate quasi a livello del piano stradale...", è affermazione meramente labiale e del tutto ipotetica, non sorretta da alcun addotto dato effettivo di riscontro.
E per il resto, la sentenza impugnata ha del pari correttamente rilevato che, come già ritenuto dal primo giudice, "nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale per escludere la responsabilità del datore di lavoro può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre comunque alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento".
 
4. Conclusivamente: la sentenza impugnata va annullata senza rinvio nei confronti di D.M.G. limitatamente alla sua condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile P.R.; il ricorso dello stesso va nel resto rigettato. Va rigettato anche il ricorso di D.G.G., con conseguente condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese di questo giudizio in favore delle costituite parti civili, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
 
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di D.M.G. limitatamente alla sua condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile P.R..
Rigetta nel resto il ricorso dello stesso D.M..
Rigetta il ricorso di D.G.G., che condanna al pagamento delle spese processuali, nonchè in solido con D.M.G., al rimborso delle spese in favore delle costituite parti civili De.
G., C.C., De.Am. e D. S., che unitariamente liquida in complessivi Euro 2.600,00, oltre accessori come per legge. Condanna inoltre il ricorrente D.G.G. al rimborso alla parte civile P.R. delle spese di questo giudizio, che liquida in Euro 2.000,00, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 3 giugno 2009.
Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2009