Cassazione Penale, Sez. 6, 07 ottobre 2020, n. 27905 - Mobbing para-familiare


Pres. Di Stefano – est. Aprile
 

Fatto




1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Napoli, in riforma della pronuncia di condanna di primo grado emessa il 7 febbraio 2014 dal Tribunale di Benevento, assolveva G.A., C.G., N.S. e M.C. dal reato di cui all'art. 572 c.p., loro contestato per avere in concorso, tra il giugno del 2000 e il maggio del 2007, il primo quale sindaco, il secondo e il terzo quali assessori, la quarta quale segretario del comune di (OMISSIS), maltrattato la dipendente R.C., nei confronti della quale aveva adottato una delibera di giunta che comportava il trasferimento interno della impiegata, un suo demansionamento, la sua collocazione in un ufficio in precarie condizioni igienico-sanitarie e un suo isolamento, culminato anche nella sua esclusione dal servizio elettorale: condotte che avevano provocato nella dipendente uno stress lavorativo ed una patologia qualificabile in termini di disturbo depressivo.

Rilevava la Corte territoriale come le emergenze processuali avessero escluso che il rapporto esistente tra la dipendente R. e i quattro imputati aveva assunto caratteristiche di para-familiarità, tali da permettere di applicare la fattispecie incriminatrice dell'art. 572 c.p., per fatti che si erano verificati in un contesto nel quale l'interessata ben avrebbe potuto eventualmente far valere le proprie ragioni dinanzi al giudice del lavoro.

2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso la parte civile R., con atto sottoscritto dal suo difensore, la quale ha dedotto i seguenti due motivi.

2.1. Violazione di legge, in relazione all'art. 157 c.p. e artt. 129 e 531 c.p.p., per avere la Corte distrettuale erroneamente prosciolto gli imputati nel merito, laddove avrebbe dovuto far prevalere la causa di estinzione del reato per intervenuta prescrizione e mantenere ferme le statuizioni sugli interessi civili.

2.2. Violazione di legge, in relazione all'art. 572 c.p., per avere la Corte di merito ingiustificatamente riformato la sentenza di condanna di primo grado, ben potendo il reato contestato essere configurabile anche in un ambiente di lavoro qual è quello di un ente pubblico.


 

Diritto




1. Ritiene la Corte che il ricorso sia inammissibile.

2. Il primo motivo del ricorso è inammissibile per difetto di interesse e, comunque, perchè manifestamente infondato.

E' pacifico che la parte civile non sia legittimata ad impugnare la sentenza di proscioglimento dibattimentale emessa ai sensi dell'art. 129 c.p.p., in quanto in assenza di impugnazione del pubblico ministero il giudicato penale di proscioglimento non può venire modificato (Sez. 3, n. 18070 del 03/03/2004, Nicolini, Rv. 228627).

La parte civile avrebbe potuto dolersi della mancata pronuncia ai sensi dell'art. 578 c.p.p. in ordine agli interessi civili nel caso in cui il giudice di appello avesse riconosciuto che il reato, per il quale vi è stato condanna in primo grado, si fosse estinto per prescrizione o amnistia: ma tale disposizione resta inapplicabile nell'ipotesi in cui, superando il criterio di prevalenza della formula di proscioglimento per estinzione del reato, il giudice - come nel caso di specie è accaduto - reputi, a mente dell'art. 129 c.p.p., comma 2, che vi siano le condizioni per un proscioglimento dell'imputato nel merito.

D'altra parte, è da escludere che la Corte di appello di Napoli abbia fatto una applicazione non corretta di tale norma processuale, in quanto dalla lettura della sentenza gravata si evince agevolmente che i giudici di secondo grado hanno affermato di poter escludere la sussistenza dell'elemento materiale del delitto contestato sulla base di una mera rilettura delle emergenze processuali già a disposizione, senza il compimento di alcun accertamento o approfondimento istruttorio.

3. Il secondo motivo del ricorso è generico.

Nella giurisprudenza di legittimità si è avuto modo ripetutamente di chiarire che il requisito della specificità dei motivi implica non soltanto l'onere di dedurre le censure che la parte intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi che sono alla base delle censure medesime, al fine di consentire al giudice dell'impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato.

Nel caso di specie la ricorrente si è limitata ad enunciare, in forma molto indeterminata, il dissenso rispetto alle valutazioni compiute dalla Corte territoriale, senza specificare gli aspetti di criticità di passaggi giustificativi della decisione, cioè omettendo di confrontarsi realmente con la motivazione della sentenza gravata: pronuncia con la quale era stato convincentemente spiegato come la inconfigurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia fosse coerente con il principio di diritto reiteratamente enunciato da questa Corte regolatrice, secondo cui le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto 'mobbing') possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, sia cioè caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (così, da ultimo, Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018, M., Rv. 272804).

Elementi, questi, che la Corte di appello di Napoli ha correttamente reputato essere assenti in una vicenda caratterizzata da contrasti tra i vertici politici e amministrativi di quella amministrazione comunale e una dipendente dello stesso ente, che ben avrebbe potuto far valere le proprie ragioni nella sede propria, quella della giurisdizione del lavoro.

4. Segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e a quella di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si stima equo fissare nella misura indicata in dispositivo.

In accoglimento della richiesta formulata dal difensore dell'imputata, la ricorrente va, altresì, condannata al pagamento delle spese di difesa sostenute da M.C. in questo grado di giudizio, che, in ragione dell'attività difensiva svolta, si ritiene di poter liquidare in via equitativa nella misura meglio indicata nel dispositivo che segue.


 

P.Q.M.




Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Condanna altresì la parte civile R. al pagamento delle spese di difesa nel grado in favore di M.C., che liquida in complessivi Euro 2.800, oltre spese generali, iva e cpa come per legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.