Cassazione Penale, Sez. 4, 12 marzo 2021, n. 9824 - Morte dell'operaio edile per un colpo di calore durante i lavori in quota. Datore di lavoro assolto per mancanza di qualsivoglia profilo di colpa specifica e generica 


 

 

Nel caso di specie si contesta al datore di lavoro di non avere sospeso l'attività lavorativa in una giornata calda, consentendo che il lavoratore riprendesse il lavoro nel primo pomeriggio, nonostante una temperatura di 34° centigradi, ritenuta dai giudici del merito di per sé incompatibile con lo svolgimento di lavori edili, senza che ciò trovi alcun riscontro tecnico, né esperienziale e soprattutto senza che una simile affermazione trovi aggancio in una condizione di allerta meteorologica giustificante l'astensione dalle attività fisiche e lavorative all'aperto. D'altro canto, è evidente che laddove si dovesse giungere ad un'affermazione come quella contenuta nella sentenza si dovrebbe affermare che in tutta la zona meridionale del Paese durante la stagione estiva è interdetta, in quanto pericolosa per la salute, ogni prestazione lavorativa che implica uno sforzo fisico all'aperto (i lavori edili, ma anche quelli svolti nei campi, la mietitura o la raccolta della frutta) ogniqualvolta la temperatura salga, il che è pacificamente contraddetto dai risultati dell'esperienza.
Deve, dunque, sotto questo profilo l'assenza di qualsivoglia profilo di colpa specifica e generica connotante la condotta dell'imputato.


... L'elmetto era stato fornito al lavoratore, mentre il medesimo, dopo avere ingerito un consistente quantitativo di alcool ha deliberatamente scelto di non indossarlo.
Come già chiarito da questa Corte in caso di infortunio sul lavoro riconducibile a prassi comportamentali elusive delle disposizioni antinfortunistiche, non è ascrivibile alcun rimprovero colposo al datore di lavoro -o a colui eventualmente preposto- sotto il profilo dell'esigibilità del comportamento dovuto, laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza di tali prassi o che le avesse colposamente ignorate, sconfinandosi altrimenti in una inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva.


 

 

Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: NARDIN MAURA Data Udienza: 09/12/2020
 

Fatto


1. Con sentenza del 25 marzo 2019 la Corte d'appello di Lecce ha parzialmente riformato, riducendo la pena inflitta, la sentenza del Tribunale di Brindisi, resa in sede di giudizio abbreviato, con cui F.F. è stato ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 589, commi 1"' e 2"', per avere, nella sua qualità di legale rappresentante della F.F. s.r.l., cagionato la morte del dipendente V.C., operaio edile, con colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e violazione degli artt. 17, 28 e 29 d.lgs. 81/2008, omettendo di valutare i rischi derivanti dai danni da calore, inerenti alle attività svolte in ambiente aperto in periodo estivo, in condizioni climatiche avverse determinate da alte temperature, non impedendo al lavoratore di prestare attività, né di assumere bevande alcoliche, pur nella consapevolezza dell'abitudine da parte del medesimo di bere ¼ di litro di vino al giorno, come risultante dalla visita medico periodica antecedente, trascurando di verificare l'uso di dispositivi individuali ed in particolare il copricapo protettivo per la protezione contro la calura estiva, così ponendo in essere gli antecedenti causali della morte del medesimo per collasso delle funzioni cardiorespiratorie, derivante da colpo di calore, associato a vasodilatazione indotta dalla significativa assunzione di alcool.
2. Il fatto per come accertato dalle sentenze di primo e secondo grado può essere così riassunto: in data 4 luglio 2012 l'operaio edile V.C., veniva adibito, all'interno del cantiere della F.F. s.r.l., allo riempimento con delle pietre del cono centrale di un trullo in ristrutturazione. Intorno alle ore 15,00 veniva lasciato solo in cantiere dal datore di lavoro, che si allontanava per verificare l'andamento dei lavori in altri cantieri. Ripetutamente contattato dal datore di lavoro, ad un'ora di distanza, non rispondeva al telefono. A quel punto, F.F. decideva di raggiungerlo in cantiere, ove lo trovava sul terrazzino del trullo in ginocchio che rantolava e vomitava. In attesa dei soccorsi F.F. tentava di rianimare il lavoratore, che aveva perso sensi, non riuscendo nell'intento. Giunto sul posto il personale sanitario tentava, a sua volta, inutilmente la rianimazione, constatando il decesso di V.C. alle ore 17,07. All'interno dell'auto del lavoratore venivano rinvenute una bottiglia di vino, praticamente vuota, nonché tre piccole bottiglie vuote, della capacità di L. 0,03 con l'etichetta Stock 84, una bottiglietta della capacità di 1.0,1 di brandy ed un'altra della medesima capacità di 'Caffè sport Borghetti'.
3. La sentenza di primo grado aggiunge: che dagli accertamenti successivi all'evento, svolti dallo SPRESAL, è emerso che il documento di valutazione dei rischi non comprendeva la valutazione del rischio di caduta per i lavori svolti in quota superiore a due metri di altezza, né quello dei possibili danni da calore, per le attività svolte all'aperto nel corso della stagione estiva; che il lavoratore non era stato sottoposto a visita medica periodica, il cui termine di rinnovo annuale era scaduto il 12 giugno 2012; che nel verbale di consegna dei dispositivi di protezione individuale non erano indicata la consegna di copricapo per i lavoratori che debbono permanere sotto l'azione prolungata dei raggi di sole e che l'altezza complessiva del manufatto ove operava V.C. era di m. 2,80; che dall'esame autoptico affidato al consulente del pubblico ministero è emersa la sussistenza di un quadro di intenso edema cerebrale e polmonare, nonché edema del tessuto miocardico, i segni tipici di una condizione cardiopatica, nonché quelli di steatosi epatica, oltre che la presenza di fratture della VI costa di destra e della V costa di sinistra, e del naso; che le indagini di natura tossicologica avevano evidenziato un tasso alcolemico pari a gl/1,52; che le lesioni di natura contusiva non assumevano rilevanza nel determinismo del decesso del lavoratore, essendo collegabili ad una caduta dovuta al frastornamento determinato dall'assunzione di alcool, così come prive di rilievo erano le fratture costali, verosimilmente prodotte dal tentativo di rianimazione del medesimo; che la morte era stata provocata da insufficienza cardiorespiratoria acuta da colpo di calore, in soggetto affetto da miocardiosclerosi, in stato di intossicazione da alcool, la cui assunzione aveva provocato la vasodilatazione sinergica al collasso. Ciò premesso la sentenza, tenute in considerazione le modalità di causazione del sinistro -esclusa la rilevanza della mancata considerazione nel DVR del rischio di caduta dall'alto, in quanto del tutto ininfluente- individua le violazioni ascrivibili al datore di lavoro incidenti sulla causazione del sinistro, nell'avere consentito l'attività lavorativa in condizioni climatiche avverse per le elevate temperature, nel non avere fornito adeguato copricapo al lavoratore, nel non avere comunque vigilato affinché indossasse l'elmetto fornitogli, nel non avere vigilato sull'assunzione di alcolici da parte del medesimo, nel non avere curato che il lavoratore si sottoponesse tempestivamente alla visita medica annuale, dalla quale avrebbe potuto emergere il suo stato di etilista cronico.
4. La sentenza di secondo grado, confermando la penale responsabilità di F.F., ha escluso la rilevanza causale del ritardo nell'effettuazione della visita medica annuale, nonché dell'omesso controllo del datore di lavoro sull'assunzione di alcolici, tenuto conto dell'interesse del lavoratore ad occultarla, affermando che la condotta ascrivibile all'imputato è consistita, da un lato, nel non avere programmato l'attività lavorativa in modo da impedire ai dipendenti di permanere sul luogo di lavoro nell'orario più caldo - comportamento questo rilevante sotto il profilo della colpa generica- a prescindere dall'assenza di allerta meteo da parte della Protezione civile, dall'altro, nel non vigilare sull'utilizzo da parte del lavoratore di un adatto copricapo, utile ad attenuare gli effetti negativi dell'esposizione ai raggi solari, così contravvenendo alla disposizione di cui all'art. 111, comma 7 d.lgs. 81/2008, comportamento rilevante sotto il profilo della colpa specifica.
5. Avverso la sentenza della Corte di appello propone ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del suo difensore, affidandolo ad un motivo, articolato in tre doglianze.
6. Con la prima fa valere, ex art. 606, primo comma, lett.re b) ed e) cod. proc. pen. la violazione dell'art. 589 cod. pen. ed il vizio di motivazione. Rileva che la Corte territoriale nell'addebitare all'imputato il mancato approntamento di iniziative e mezzi idonei a garantire l'esercizio dell'attività lavorativa senza rischi per la salute riconducibili all'elevata temperatura estiva, ha omesso di verificare se il comportamento giuridico diligente preteso dal datore di lavoro fosse idoneo a scongiurare l'evento. Ricorda che il lavoratore era affetto da miocardiosclerosi ed in stato di intossicazione alcolica e che aveva assunto un consistente quantitativo di alcool (tasso alcolemico g/1. 1,52). Sostiene che per verificare l'incidenza della condotta contestata sul prodursi dell'evento si sarebbe dovuto accertare se l'esposizione alla temperatura di 34°, indipendentemente dall'assunzione di un consistente quantitativo di alcool, fosse condizione sufficiente ad indurre un colpo di calore. Sottolinea che le condizioni meteorologiche, peraltro tipiche dell'estate in Puglia, non avevano impedito agli altri lavoratori ed allo stesso F.F., socio-lavoratore, di prestare l'ordinaria attività lavorativa, senza necessità di adottare alcuna particolare regola di cautela.
7. Con la seconda lamenta la carenza di motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità per omessa vigilanza sull'utilizzo di idoneo copricapo. Osserva che l'elmetto dato in dotazione al lavoratore fu rinvenuto nell'autovettura di V.C., ma che ciò non autorizza a ritenere che il lavoratore non ne avesse fatto uso durante lo svolgimento dell'attività lavorativa, rendendo, invece, probabile che egli se ne fosse liberato allorquando, in assenza di F.F., si recò nell'auto per bere gli alcolici che conservava nello zaino. Sostiene che l'uso del casco protettivo -rinvenuto nell'auto- non avrebbe salvaguardato il lavoratore dal colpo di calore, essendo questo una condizione patologica dell'organismo consistente nell'incapacità di rispondere alle variazioni ambientali, non necessariamente collegata con la prolungata esposizione ai raggi solari, ben potendo verificarsi anche in ambiente chiuso. Nel caso di specie, solo il grave abuso di bevande alcoliche -non imputabile al datore di lavoro- da parte di soggetto affetto da malattia cardiaca, anch'essa ignota al datore di lavoro aveva indotto il collasso e l'insufficienza cardiorespiratoria, da cui era derivata la morte.
8. Con la terza doglianza censura il vizio di motivazione nella parte in cui addebita al datore di lavoro il profilo di colpa generica consistito nel non avere organizzato la propria attività in modo da limitare l'attività lavorativa alle ore mattutine e del tardo pomeriggio, per evitare condizioni favorenti i colpi di calore. Sottolinea che la temperatura alle ore 19 del 4 luglio 2012 era di 35° - com'è risultato in giudizio dal verbale di rinvenimento del cadavere- cioè tutt'altro che inferiore a quella registrata nel corso della giornata (34°), sicché nell'invariabilità delle condizioni meteorologiche, pur se fosse stato posto in essere il ritenuto comportamento doveroso consistente nell'organizzare l'attività lavorativa nel tardo pomeriggio, l'evento si sarebbe egualmente verificato. Assume che, dunque, neppure l'asserita condotta doverosa omessa avrebbe scongiurato la morte della persona offesa. Conclude per l'annullamento della sentenza impugnata.
9. Con memoria in data 27 novembre 2020 F.F., a mezzo del suo difensore ha ribadito i motivi e le conclusioni già formulate.
10. Con requisitoria scritta, ai sensi dell'art. 23, comma 8 d.l. 137/2020 il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Diritto


1. Il ricorso è fondato.
2. Le doglianze possono essere affrontate unitariamente in quanto strettamente connesse.
3. Per dare soluzione alle questioni poste con il ricorso deve, innanzitutto, muoversi dalla considerazione che fra i numerosi profili di colpa originariamente addebitati con l'imputazione, sono residuate solo due contestazioni. La prima inerisce alla mancata vigilanza sull'utilizzo del copricapo da parte del lavoratore, essendo stato acclarato che al lavoratore era stato fornito un casco protettivo - ritenuto dalla Corte equiparabile ad un berretto in funzione di protezione dai raggi solari- rinvenuto nell'automobile dell'operaio deceduto. La seconda riguarda l'omessa organizzazione dell'attività lavorativa con modalità tali da evitare l'esposizione dei lavoratori a condizioni meteorologiche tali da metterne in pericolo la salute individuale.
4. Conviene, per ragioni di ordine logico, partire da quest'ultima. La Corte territoriale, invero, delinea l'obbligo di pianificare l'attività produttiva in modo coerente rispetto alle condizioni meteorologiche sia quale ordinarie regole di prudenza, che quale adempimento degli obblighi previsti dall'art. 111, comma 7 d.lgs. 81/2008. Siffatta disposizione, secondo cui "Il datore di lavoro effettua i lavori temporanei in quota soltanto se le condizioni meteorologiche non mettono in pericolo la sicurezza e la salute dei lavoratori" è inserita fra le previsioni inerenti gli 'Obblighi del datore di lavoro nell'uso di attrezzature per lavori in quota'.
5. Va preliminarmente osservato che già con la sentenza di primo grado si era esclusa la rilevanza del difetto nel D.V.R. di previsione dei rischi in ordine alle attività lavorative svolte in quota, posto che il lavoratore non è morto a causa di una caduta, bensì per l'insufficienza cardiorespiratoria acuta da colpo di calore, in soggetto affetto da miocardiosclerosi ed in stato di intossicazione da acool. Tanto è vero che la condotta ascritta dal giudice di prime cure all'imputato riguarda, da un lato, l'omessa fornitura al medesimo dell'elmetto, o comunque l'omesso controllo sul suo utilizzo, dall'altro, la mancata vigilanza sull'assunzione di alcolici, non essendo sufficiente, ai sensi dell'art. 8 comma 1 d.lgs. 81/2008 la mera formazione dei lavoratore sul punto, essendo egli etilista cronico, circostanza da ritenersi nota al datore di lavoro, che peraltro aveva omesso di curare la tempestività della visita annuale di idoneità al lavoro. Ed infine, il non avere impedito che il lavoratore operasse nelle ore più calde della giornata, senza dare le opportune direttive.
6. La Corte territoriale che, come si è detto, ulteriormente limita le contestazioni escludendo la rilevanza del ritardo nella sottoposizione alla visita annuale -in quanto non necessariamente la condizione di etilismo avrebbe potuto essere rilevata dal medico- nonché la rilevanza della mancata vigilanza sull'assunzione di alcolici, avendo il lavoratore interesse a nasconderla, al fine di mantenere il rapporto di lavoro.
7. Ora, la lettura dell'art. 111 comma 7 d. lgs. 81/2008, consente di escludere la sussistenza del ritenuto profilo di colpa specifica.
8. Illuminano il significato della disposizione sia la sua collocazione fra gli obblighi relativi ai lavori in quota, che la sua lettera. Invero, la previsione che condiziona l'attività del datore di lavoro alle condizioni meteorologiche collega il dovere di limitare l'attività in modo da non mettere in pericolo la sicurezza e la salute dei lavoratori in condizioni di tempo avverse proprio all'opera prestata in quota. E ciò, perché il lavoro svolto ad un'altezza superiore ai due metri da un piano stabile espone maggiormente il lavoratore a situazioni quali il vento, la pioggia la neve o la nebbia e comunque ad ogni circostanza meteorologicamente sfavorevole, condizionando l'equilibrio e la stessa attenzione del lavoratore e favorisce il verificarsi di condizioni di pericolo.
9. E' chiaro, dunque, che una simile normativa non riguarda le ipotesi in cui si operi su un piano stabile, posto che simili condizioni meteorologiche non incidono sulla stabilità del lavoratore.
10. Esclusa, pertanto, la ricorrenza della colpa specifica, per violazione dell'art. 111, comma 7 d.lgs. 81/2008, in quanto la persona offesa - come emerge dalle sentenze di merito- si trovava sulla parte superiore di un trullo, intenta a riempiere il cono di un trullo con delle pietre, operando su un piano stabile, va verificata la sussistenza di un'ipotesi di colpa generica.
11. Entrambe le sentenze, infatti, addebitano al datore di lavoro il non avere impedito all'operaio di lavorare nelle ore più calde della giornata e, particolarmente, nel primo pomeriggio quando la temperatura raggiungeva i 34° gradi centigradi.
Si tratta di una contestazione che contiene un rimprovero di negligenza ed imprudenza, e che presuppone la violazione della regola cautelare sostanzialmente rinvenuta nella necessità di valutare in concreto la compatibilità delle condizioni atmosferiche con l'attività svolta, in modo da modo da non mettere in pericolo la sicurezza e la salute dei lavoratori.
12. Ora, è chiaro che una simile generalissima norma di diligenza e
prudenza deve senza dubbio connotare la condotta del datore di lavoro, ma proprio per il suo contenuto generico occorre che essa sia ancorata a parametri di prevedibilità individuabili da colui sul quale incombe l'apprezzamento, ché, altrimenti, si incorre nel rischio di trasformare la valutazione sulla conciliabilità fra condizioni atmosferiche ed attività lavorativa in un giudizio ex post. E ciò, da un lato, per la variabilità delle reazioni individuali alle situazioni climatiche e, dall'altro, perché il prodursi di un evento avverso deve essere pronosticabile dal datore di lavoro.
13. Ecco che, allora, per elidere la vaghezza di un simile norma comportamentale, tenendo presente la pluralità dei fattori che determinano la condizione meteorologica sfavorevole, non dipendente solo dalla temperatura (o, per ipotesi, dalla presenza di precipitazioni), ma anche dal vento, dall'umidità dell'aria, dalla tipologia dell'area interessata, occorre che, in concreto, il datore di lavoro possa riferirsi ad un quadro meteorologico valutato in modo tecnico e non empirico ed individualistico, che tenga conto dei fattori generali e di quelli specifici e che sia sintetizzato in una previsione che, laddove determinati valori soglia siano superati in quel preciso contesto territoriale, implichi il rispetto di una serie di raccomandazioni generali impartite dall'autorità competente sul comportamento da tenere in simili condizioni climatiche. Agevola l'individuazione del contenuto della regola cautelare il riferimento alle situazioni di 'allerta meteo' del Dipartimento della protezione civile, ma possono essere tenute in considerazione anche altre forme di allertamento, eventualmente locale, con cui venga reso noto che una determinata condizione climatica prevista potrà comportare problemi per la salute.
14. Nel caso di specie, al contrario, si contesta al datore di lavoro semplicemente di non avere sospeso l'attività lavorativa in una giornata calda, consentendo che il lavoratore riprendesse il lavoro nel primo pomeriggio, nonostante una temperatura di 34° centigradi, ritenuta dai giudici del merito di per sé incompatibile con lo svolgimento di lavori edili, senza che ciò trovi alcun riscontro tecnico, né esperienziale e soprattutto senza che una simile affermazione trovi aggancio in una condizione di allerta meteorologica giustificante l'astensione dalle attività fisiche e lavorative all'aperto. D'altro canto, è evidente che laddove si dovesse giungere ad un'affermazione come quella contenuta nella sentenza si dovrebbe affermare che in tutta la zona meridionale del Paese durante la stagione estiva è interdetta, in quanto pericolosa per la salute, ogni prestazione lavorativa che implica uno sforzo fisico all'aperto (i lavori edili, ma anche quelli svolti nei campi, la mietitura o la raccolta della frutta) ogniqualvolta la temperatura salga, il che è pacificamente contraddetto dai risultati dell'esperienza.
15. Deve, dunque, sotto questo profilo l'assenza di qualsivoglia profilo di colpa specifica e generica connotante la condotta dell'imputato.
16. Venendo al secondo addebito ascritto a F.F., relativo alla mancata vigilanza sull'uso del copricapo da parte del lavoratore è sufficiente osservare che, come sottolinea proprio il giudice di seconda cura, l'elmetto era stato fornito al lavoratore, mentre il medesimo, dopo avere ingerito un consistente quantitativo di alcool ha deliberatamente scelto di non indossarlo.
Come già chiarito da questa Corte in caso di infortunio sul lavoro riconducibile a prassi comportamentali elusive delle disposizioni antinfortunistiche, non è ascrivibile alcun rimprovero colposo al datore di lavoro -o a colui eventualmente preposto- sotto il profilo dell'esigibilità del comportamento dovuto, laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza di tali prassi o che le avesse colposamente ignorate, sconfinandosi altrimenti in una inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva" (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 1096 del 08/10/2020, dep. 13/01/2021 Rv. 28018: In applicazione del principio la Corte ha annullato senza rinvio, "perché il fatto non costituisce reato", la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del capo reparto di un supermercato, preposto di fatto da soli cinque giorni, per l'infortunio subito da un dipendente a causa del mancato uso dei dispositivi di protezione; ma anche Sez. 4, Sentenza n. 32507 del 16/04/2019, Rv. 276797: con cui la Corte ha annullato senza rinvio, "perché il fatto non costituisce reato", la sentenza di condanna del legale rappresentante di una società di raccolta rifiuti per l'omicidio colposo di un lavoratore deceduto perché, dopo aver ritirato l'ultimo sacchetto di rifiuti, anziché salire nella cabina del camion, si era aggrappato dietro allo stesso, rilevando che la vigilanza che i veicoli venissero utilizzati in maniera conforme alle prescrizioni contenute nel documento di valutazione dei rischi era stata delegata ai capisquadra presenti sui mezzi, e che era impossibile una diuturna vigilanza su mezzi circolanti ininterrottamente)
17. In assenza di condotte rimproverabili al datore di lavoro la sentenza va annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.

 

P.Q.M.


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.
Così deciso il 9/12/2020