Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 3, 17 marzo 2021, n. 10209 - Montefibre


 

 

Presidente: DI NICOLA VITO
Relatore: ZUNICA FABIO Data Udienza: 07/10/2020
 

 

INDICE
Sintesi delle imputazioni 3
La sentenza di primo grado 4
La prima sentenza della Corte di appello 5
La sentenza di annullamento della Corte di cassazione 7
La seconda sentenza della Corte di appello 12
I ricorsi del Procuratore generale e delle parti civili. 14
La memoria dei difensori degli imputati C.L., M.G. e V.C. 21
L'annullamento della sentenza nei confronti di V. 23
L'ambito di valutazione del presente giudizio 23
I casi di tumore polmonare 26
I casi di mesotelioma pleurico 32
Considerazioni riepilogative 39
Dispositivo 40

 

FattoDiritto



Sintesi delle imputazioni


l. I reati per cui si procede nei confronti degli imputati C.L., M.G., G.P., Q.B., V.C. e V. L. (gli altri cinque originari coimputati sono nelle more deceduti) sono due, ovvero quelli di omicidio colposo e di lesioni personali colpose, aggravati dalla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro: si contesta in particolare agli imputati, nelle rispettive vesti o di componenti del C.d.A. della società Montefibre s.p.a. (C.L. e M.G.), o di amministratori delegati (V.C. e V.), o di direttori di stabilimento (Q.B. e G.P.), cariche ricoperte in un arco temporale compreso tra l'aprile del 1972 e l'aprile del 1988, di avere cagionato la morte dei lavoratori singolarmente indicati in rubrica, o di avere comunque provocato la malattia professionale di altri lavoratori, a loro volta riportati nell'imputazione, per colpa consistita nella mancata adozione delle misure che sarebbero state necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro operanti nello stabilimento "Rhodiatoce - società italiana Nailon - Montefibre s.p.a ." di Verbania PA., nonostante fosse confermata da anni la correlazione tra l'inalazione delle fibre di amianto cui erano esposti i lavoratori e le patologie dell'asbestosi, del mesotelioma, del tumore polmonare, delle placche e degli ispessimenti pleurici. Gli imputati avrebbero altresì agito in violazione dei precetti contenuti negli art. 377 commi 1 e 2 e 387 del d.P.R. n. 547 del 1955, nonché negli art. 4, 19 e 21 del d.P.R. n. 303 del 1956, omettendo di fornire ai lavoratori mezzi personali di protezione appropriati ai rischi connessi all'esposizione, diretta e indiretta, alle polveri di amianto, minerale largamente impiegato all'interno degli ambienti di lavoro. Sia i datori di lavoro che i dirigenti, inoltre, avrebbero omesso tra l'altro di attuare le misure di igiene previste dal d.P.R. n. 303 del 1956, non rendendo e,9(1fti i lavoratori edotti del rischio specifico di inalazione di polveri-fibre di amianto cui erano esposti, non facendo effettuare in luoghi separati, ogni qualvolta ciò fosse possibile, le lavorazioni pericolose o insalubri e non adottato i provvedimenti volti a impedire o a ridurre efficacemente, per quanto possibile, lo sviluppo e la diffusione delle polveri, in relazione all'esecuzione dei lavori che normalmente davano luogo alla formazione e alla dispersione di quella polvere.
1.1. Deve altresì premettersi che il presente giudizio ha fatto seguito a un altro (cd. "Montefibre l") a carico dei medesimi imputati (tranne uno poi deceduto, B.), avente ad oggetto tre ipotesi di omicidio colposo per morte conseguente ad asbestosi e otto episodi di mesotelioma pleurico ai danni di altrettanti lavoratori del medesimo stabilimento. In quel caso, la sentenza della Corte di appello, che in riforma della pronuncia di primo grado, aveva condannato tutti gli imputati, era stata in parte annullata con rinvio dalla sentenza n. 38991 del 10 giugno 2010 della Quarta Sezione della Corte di cassazione, limitatamente ai decessi dei lavoratori morti per aver contratto il mesotelioma pleurico, mentre era stata confermata la statuizione di condanna degli imputati in ordine agli omicidi colposi dei dipendenti affetti da asbestosi, venendo affidato al giudice del rinvio il compito di attenersi al seguente principio di diritto: "nella valutazione della sussistenza del nesso di causalità, quando la ricerca della legge di copertura deve attingere al "sapere scientifico", la funzione strumentale e probatoria di quest'ultimo impone al giudice di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di motivare la scelta ricostruttiva ancorata ai concreti elementi scientifici raccolti. Una opzione ricostruttiva fondata sulla mera opinione del giudice attribuirebbe a questi, in modo inaccettabile, la funzione di elaborazione della legge scientifica e non invece, come consentito, della sola utilizzazione".

La sentenza di primo grado


2. Per quanto concerne i fatti oggetto del presente giudizio, occorre evidenziare che, in primo grado, il Tribunale di Verbania, con sentenza del 19 luglio 2011, ha assolto gli imputati dai delitti di lesioni personali colpose consistite in una malattia professionale, asseritamente commessi in danno dei dipendenti R.S. e P.L., perché il fatto non sussiste, nonché dai delitti loro rispettivamente ascritti di omicidio colposo relativi ai decessi per carcinoma polmonare, perché il fatto non sussiste, e dai delitti di omicidio colposo riguardanti i decessi per mesotelioma e dai reati concernenti le lesioni personali consistite in placche pleuriche/ispessimenti pleurici, per non aver commesso il fatto.
Secondo il Tribunale, con riferimento alle morti per tumore polmonare, non era stata acquisita certezza processuale circa la derivazione di tale patologia, di origine multifattoriale, dalla esposizione dei lavoratori all'asbesto, stante la condizione di fumatore di quasi tutti i lavoratori, tranne G.M..
Anche rispetto al decesso di quest'ultimo, tuttavia, il Tribunale è pervenuto all'assoluzione degli imputati, per l'impossibilità di escludere l'azione di un fattore alternativo, registrandosi un'incidenza non nulla del tumore al polmone anche tra la popolazione non esposta all'amianto e non essendovi stime sull'eccesso di rischio nella coorte dei lavoratori dello stabilimento verbanese.
In ordine poi ai decessi causati dai mesoteliomi, pleurici e peritoneali, il Tribunale, pur precisando che doveva ritenersi processualmente provato il ruolo eziologico dell'esposizione dei lavoratori all'amianto presente nello stabilimento, è parimenti pervenuto all'assoluzione degli imputati rispetto a tali eventi, osservando in particolare come fossero controverse nel dibattito scientifico la valenza eziologica di tutte le esposizioni, l'esistenza di una relazione che correli l'aumento della incidenza della malattia alla durata dell'esposizione all'agente cancerogeno e l'esistenza altresì del cd. effetto acceleratore, cioè di una proporzionalità inversa tra dose cumulativa e latenza, tale che all'aumentare della dose o della durata dell'esposizione diminuisca la latenza della malattia. Il primo giudice sottolineava, in particolare, la persistente incertezza scientifica circa l'incidenza della durata dell'esposizione sull'incremento di frequenza della malattia, non potendosi peraltro escludere, in presenza di diversi periodi di esposizione corrispondenti ai vari imputati, che le esposizioni successive siano state da sole sufficienti a innescare la malattia e a determinare la morte dei lavoratori e che le esposizioni antecedenti siano state da sole sufficienti a innescare e a far progredire fino all'esito la malattia, non essendo pacifica la tesi del cd. effetto acceleratore.
Infine, rispetto alle lesioni personali, il Tribunale assolveva ugualmente gli imputati, rimarcando come fossero ignote la data o l'epoca di insorgenza delle malattie, non essendovi leggi di copertura sulle autentiche spiegazioni causali.

La prima sentenza della Corte di appello


3. Con sentenza del 21 luglio 2015, la Corte di appello di Torino, all'esito di un nuovo esame dei consulenti del P.M. e in accoglimento delle impugnazioni proposte dal P.M. e dalle parti civili, condannava gli imputati alle pene di giustizia con riferimento agli omicidi colposi a loro ascritti e alle lesioni personali in danno di P.L., oltre che al risarcimento dei danni, in solido con il responsabile civile Montefibre s.p.a., in favore delle parti civili costituite, con assegnazioni di provvisionali in favore dei prossimi congiunti dei lavoratori deceduti.
In relazione alle lesione colpose in danno degli altri lavoratori (BU., C., DP., M., R. e Mo.), veniva dichiarata l'estinzione del reato per prescrizione, maturata prima della pronuncia del Tribunale, mentre, per il solo reato in danno di MA., la Corte territoriale, ritenendo che la prescrizione fosse maturata dopo la sentenza del Tribunale, affermava la responsabilità ai soli effetti civili degli imputati V., Q.B., G.P., C.L., M.G. e V.C., non sussistendo i presupposti per l'assoluzione .
La Corte di appello premetteva che dalla sentenza della Quarta Sezione Penale della Corte n. 38991 del 10 giugno 2010, relativa al processo cd. "Montefibre l", concernente fatti in parte connessi con quelli per cui si procede, come si è in precedenza anticipato, potevano desumersi a livello probatorio, ai sensi dell'art. 238 bis cod. proc. pen., dei dati fattuali non bisognevoli di altri approfondimenti. Dovevano in particolare ritenersi provati: l'inquinamento degli ambienti di lavoro, caratterizzati dall'uso di amianto quale materiale di coibentazione; la titolarità in capo a ciascun imputato di poteri e obblighi che imponevano di attivarsi per evitare la messa in pericolo della salute dei lavoratori, non potendo una delega di funzioni comportare l'esclusione della responsabilità dei componenti del C.d.A., essendo la gestione dello stabilimento connotata non da disfunzioni occasionali, ma da difetti strutturali, rispetto ai quali residuavano obblighi di vigilanza a carico degli imputati. Parimenti comprovata doveva ritenersi infine l'esposizione massiccia al rischio di inalazione non solo degli addetti alle specifiche lavorazioni (esposizione diretta), ma di tutti i lavoratori presenti sul luogo di lavoro (esposizione indiretta). Veniva altresì ricordato dalla Corte territoriale come, nell'ambito del processo cd. "Montefibre 1" fossero state accertate sia la derivazione delle asbestosi dall'esposizione all'amianto, sia l'efficienza causale di tutte le condotte omissive degli imputati, sia infine l'esistenza dell'elemento soggettivo, rispetto alla violazione delle regole cautelari e alla prevedibilità e prevenibilità degli eventi.
Ciò posto, nel rimarcare che la ricostruzione operata dal Tribunale peccava di astrattezza, in quanto svincolata dalle circostanze acquisite nel passaggio dalla causalità generale a quella individuale, i giudici di appello osservavano:
1) quanto ai tumori al polmone, che nella comunità scientifica internazionale era condivisa la tesi della relazione causale tra fattori di rischio amianto e patologie asbesto correlate in soggetti professionalmente esposti, nel senso di una relazione lineare tra dose di amianto inalata e rischio di cancro al polmone, tale da escludere un'esposizione senza rischio, per cui l'incidenza della malattia aumenta proporzionalmente alla dose e alla durata della esposizione, fermo restando che non tutti i lavoratori facevano parte della categoria degli "esposti passivi".
Il punto controverso, rappresentato dalla possibile incidenza di un fattore alternativo di rischio costituito dal fumo di tabacco, doveva invece essere affrontato valutando gli elementi che dimostrano l'esistenza di un effetto sinergico sull'organismo dei due fattori di rischio; in tal senso è stata richiamata la condivisa acquisizione della valenza del fumo sull'esposizione all'amianto come "modificatore d'effetto", ovvero come fattore di accentuazione dei casi di cancro polmonare, che sono maggiori dei casi attesi in base all'azione indipendente dei due fattori, venendo altresì sottolineata, da un lato, l'inesistenza di una soglia al di sotto della quale non è presente il rischio di cancro polmonare in caso di esposizione all'asbesto, dall'altro la circostanza che tutti i lavoratori deceduti, per le mansioni svolte, erano stati lungamente e in termini significativi esposti alle polveri.
2) quanto invece ai casi di mesotelioma, premesse le conclusioni del primo giudice circa il provato ruolo eziologico dell'amianto, la Corte territoriale aderiva alle conclusioni del consulente del P.M. in ordine all'esistenza di una correlazione tra rischio di mesotelioma, durata dell'esposizione e dose cumulativa per la quale il processo cancerogeno si evolve in rapporto all'esposizione cumulativa.
Ha poi rilevato la Corte di appello, richiamando le dichiarazioni dei consulenti del P.M., che gli studi epidemiologici indicano che all'aumentare dell'esposizione aumenta il rischio di mesotelioma, avendo tutte le esposizioni susseguitesi nella

storia professionale di ciascun lavoratore contribuito alla insorgenza delle patologie tumorali da amianto; è stato inoltre precisato che, definendosi il periodo di induzione come quello terminato il quale le esposizioni successive non hanno effetto sull'andamento della malattia, possono ritenersi sostanzialmente inefficaci soltanto le esposizioni verificatesi durante il periodo di latenza clinica del tumore, diversamente da quelle avutesi nel corso del periodo di induzione, i cui confini sono, a monte, il momento delle iniziali esposizioni e, a valle, quello della trasformazione della cellula capostipite in senso compiutamente maligno, essendo stato stimato il periodo di latenza clinica in 10 anni.
Dopo aver descritto i dati concernenti i periodi di esposizione, la data della diagnosi del mesotelioma e quella del decesso di ciascun lavoratore deceduto, con l'indicazione del periodo di induzione, i giudici di secondo grado hanno così fondato il giudizio di colpevolezza degli imputati, rapportando e sovrapponendo i diversi periodi di induzione ai periodi di titolarità delle cariche da ciascuno di essi ricoperte.

La sentenza di annullamento della Corte di cassazione



4. Con la sentenza n. 12175 del 3 novembre 2016, dep. 2017, la Quarta Sezione della Corte di cassazione ha annullato la sentenza della Corte territoriale nei confronti di V.C., Va., P., M.G., C.L., Q.B. e del responsabile civile Montefibre s.p.a., limitatamente ai reati di omicidio colposo, con rinvio alla Corte di appello di Torino, mentre venivano rigettati i ricorsi degli imputati limitatamente al punto concernente la prescrizione dei reati di lesioni personali colpose dichiarata nei precedenti gradi di giudizio; la sentenza della Corte di appello veniva altresì annullata: con rinvio, limitatamente alle statuizioni civili relative al reato di lesioni personali colpose in danno di MA.; senza rinvio, quanto alle statuizioni penali, limitatamente al reato ex art. 590 cod. pen. commesso in danno di Luigi P.L., perché estinto per prescrizione, e con rinvio, quanto alle statuizioni civili concernenti il predetto reato.
Orbene, nel confrontarsi con le censure difensive, la Corte di legittimità ha innanzitutto escluso che fosse ravvisabile, rispetto ai casi trattati dal processo "Montefibre l", un'ipotesi di ne bis in idem sostanziale, atteso che il giudicato si era formato con riferimento a omicidi colposi che, pur presentando tratti di identità delle condotte rispetto a quelle contestate in questa sede, certamente attengono a eventi naturalistici ben diversi, perché relativi a persone offese differenti.
In secondo luogo, ma sempre rispetto alla portata operativa del richiamo alla sentenza di legittimità resa nel processo "Montefibre l", la Corte, dopo una attenta esegesi dell'art. 238 bis cod. proc. pen., ha chiarito che dalla decisione in esame, la n. 38991 del 2010, sono stati legittimamente assunti i seguenti dati: la titolarità in capo agli imputati di una posizione di garanzia, la sussistenza di inquinamento ambientale nello stabilimento di Verbania PA., la derivazione delle asbestosi dall'esposizione all'amianto subita dai lavoratori, la condotta oggettivamente colposa degli imputati e la loro rimproverabilità per essere gli eventi prevedibili e prevenibili; ciò posto, la pronuncia rescindente ha ribadito che, ai sensi dell'art. 238 bis cod. proc. pen., le risultanze del precedente giudicato devono comunque essere valutate alla stregua della regola probatoria di cui all'art. 192 comma 3 cod. proc. pen., ovvero come elemento di prova la cui valenza, per legge non autosufficiente, deve essere corroborata da altri elementi di prova che lo confermano, con ciò recuperandosi parzialmente il contraddittorio nel segmento delle attività processuali funzionali all'acquisizione di quegli elementi che dovranno essere valutati nel loro rilievo in funzione di riscontro.
Nel caso di specie, è stata ritenuta corretta l'acquisizione del dato probatorio concernente l'inquinamento degli ambienti di lavoro, avendo la Corte di appello indicato, sulla scorta della documentazione acquisita e delle fonti dichiaratiye vagliate dai consulenti del P.M., le tipologie di lavoratori soggetti all'esposizione, diretta e indiretta, e le postazioni inquinate: i coibentisti, i manutentori, gli operai addetti ai reparti di produzione, quelli addetti alla filatura del nylon, quelli preposti alla produzione acetati, quelli addetti ai reparti ausiliari come la centrale termica e gli addetti della squadra antincendio, venendo quindi corroborato adeguatamente il dato dell'inquinamento ambientale massiccio e diffuso.
Carente è stata invece ritenuta la motivazione della sentenza di condanna in ordine al ruolo dei ricorrenti di garanti della salute dei lavoratori, posto che i giudici distrettuali si sono arrestati di fronte al dato formale della titolarità della carica nel periodo di occupazione del lavoratore e alla natura strutturale delle cause della dispersione nell'aria delle fibre di amianto, evocando le affermazioni del processo "Montefibre l", senza tuttavia occuparsi dei riscontri in base ai quali ritenere provato che gli odierni imputati abbiano disposto o concorso a disporre l'esposizione all'asbesto dei lavoratori persone offese di questo procedimento.
Sotto questo profilo, la sentenza della Corte di appello è stata quindi annullata per una nuova valutazione in merito alla riconducibilità agli odierni ricorrenti della esposizione dei lavoratori all'asbesto, nelle condizioni di cui all'imputazione.
Ciò posto, la pronuncia rescindente ha censurato la violazione dell'obbligo di rinnovazione istruttoria, osservando che la Corte territoriale ha ritenuto maggiormente attendibili le conclusioni dei consulenti del P.M., facendo propria la tesi della rilevanza causale di tutte le esposizioni, con il corollario dell'effetto acceleratore, mentre il Tribunale aveva aderito ai differenti pareri scientifici veicolati dai consulenti della difesa, per cui la Corte di appello avrebbe dovuto provvedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, assumendo direttamente le dichiarazioni degli esperti proposti dalla difesa, ciò nella ulteriore prospettiva, parimenti rimarcata dalla sentenza di legittimità, secondo cui il giudice, essendo portatore di una "legittima ignoranza" in tema di conoscenze scientifiche, è chiamato a recepire il contributo tecnico veicolato nel processo, verificando con serietà il grado di autorevolezza e indipendenza degli esperti.
In tal senso sono stati richiamati i principi formulati dalla "sentenza Cazzini" (IV Sez., 17 settembre 2010, n. 43786), con cui, con orientamento poi non smentito dalla successiva evoluzione giurisprudenziale, è stata affermata la necessità di valutare l'autorità scientifica dell'esperto che trasferisce nel processo la sua conoscenza della scienza, ma anche di comprendere, soprattutto nei casi più problematici, se gli enunciati che vengono proposti trovano comune accettazione nella comunità scientifica, posto che, per valutare l'attendibilità di una teoria, occorre esaminare gli studi che la sorreggono, le basi fattuali su cui sono stati condotti, l'ampiezza, il rigore e l'oggettività della ricerca, il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi, la discussione critica che ha accompagnato la elaborazione dello studio, l'attitudine esplicativa della elaborazione teorica e l'indipendenza di chi ha discusso la ricerca e le finalità da cui è stata ispirata.
Ciò posto, nel caso di specie, l'evocazione da parte della Corte di appello di una estraneità degli esperti agli interessi delle compagnie utilizzatrici dell'amianto è stata ritenuta di per sé non esauriente, essendo stato enfatizzato solo uno dei possibili fattori in grado di pregiudicare l'indipendenza dell'esperto e non essendo state indicate le basi fattuali da cui si è tratto il relativo giudizio, per cui si era praticamente al cospetto di una affermazione non illogica ma apodittica, dovendo l'indipendenza dell'esperto essere valutata anche in base alla completezza delle fonti sulle quali è stato fondato il proprio contributo scientifico al giudizio.
Tanto premesso, la Corte si è espressa poi sulla problematica del nesso causale. La disamina è partita dai tumori polmonari, rispetto ai quali è stato evidenziato che, al di là della generica indicazione dei punti di disaccordo con la prima sentenza, in realtà non adeguatamente specificati, è mancato nella sentenza di condanna l'accertamento della causalità individuale, avendo la Corte di appello rimarcato la valenza degli agenti nocivi asbesto e fumo, senza chiarire se la relativa legge di copertura avesse carattere universale o probabilistico, posto che, ove l'effetto sinergico si realizzi solo in una certa percentuale di casi, occorrerebbe anche dimostrare che la malattia rientra in quella percentuale, fermo restando che, in presenza di patologie neoplastiche multifattoriali, la sussistenza del nesso
causale non può essere esclusa sulla sola base di un ragionamento astratto di tipo deduttivo, che si limiti a prendere atto della ricorrenza di un elemento causale alternativo di innesco della malattia, dovendosi procedere a una puntuale verifica in ordine alla efficienza determinante dell'esposizione dei lavoratori a specifici fattori di rischio nel contesto lavorativo nella produzione dell'evento. Del resto, ha precisato la sentenza rescindente, le leggi evocate dalla Corte di appello indicano che l'esposizione all'amianto induce un numero di tumori polmonari significativamente maggiore di quello che investe la popolazione dei non esposti, non che a ogni esposizione professionale corrisponde l'insorgenza del tumore.
Di qui la necessità, preliminare all'utilizzo della teoria dell'effetto sinergico, di accertare che nel caso di specie abbia agito l'amianto e non da solo il fumo.
Ancora, la Corte di appello aveva espresso una serie di giudizi critici verso il Tribunale, ad esempio nella mancata considerazione delle esposizioni passive dei lavoratori, senza riuscire a dare dimostrazione degli errori valutativi, superando le affermazioni del Tribunale con il recupero di quanto accertato nel processo "Montefibre l", senza alcuna integrazione specificatrice, mentre, anche rispetto ai soli due lavoratori esposti in via diretta, ovvero DS.B. e T., è rimasto inespresso il criterio inferenziale grazie al quale si può affermare che nel caso concreto l'esposizione è stata causa determinante del tumore. Infine, con riferimento all'unico lavoratore non tabagista, G.M., la Corte di appello non si era confrontata con gli argomenti del Tribunale, secondo cui non vi erano stime sull'eccesso di rischio nella coorte dei lavoratori dello stabilimento rispetto alla popolazione non esposta, mentre la Corte avrebbe dovuto esibire le ragioni per le quali, con alta probabilità logica, erano da escludere fattori causale alternativi, non essendo stata adeguatamente argomentata l'affermazione secondo cui per G.M. non era stato accertato un fattore di rischio alternativo all'amianto.
Quanto ai decessi per mesotelioma, la Quarta Sezione ha osservato che la Corte di appello aveva eluso l'obbligo di motivazione rinforzata rispetto al tema dell'inizio del periodo di induzione, fatto coincidere dai giudici di secondo grado con l'inizio dell'esposizione, mentre il Tribunale aveva diffusamente motivato sulla impossibilità di determinare il momento iniziale del periodo di induzione, richiamando proprio la relazione dei consulenti del P.M. Vineis e Mirabelli.
Pertanto, la Corte di appello ha finito con il "creare" il dato scientifico, motivando in contraddizione con le risultanze processuali e omettendo di confrontarsi con la sentenza di primo grado, il che è avvenuto anche con riferimento all'ulteriore tema della determinazione della fine del periodo di induzione. Dopo aver premesso che non è individuabile il momento preciso in cui l'induzione si è occultamente completata, la Corte territoriale ha aggiunto che, poiché la latenza comprende il periodo di induzione, la latenza clinica è necessariamente più breve della latenza convenzionale, il che tuttavia non sposta i termini del problema; secondo i giudici di secondo grado, infatti, essendo stimata in 10 anni la latenza clinica, iniziando cioè il decimo anno antecedente alla diagnosi clinica, per individuare il periodo di induzione, avendo contezza della diagnosi certa di malattia, occorre risalire nel tempo di almeno 10 anni, con conseguenza che hanno contribuito alla insorgenza dei tumori tutte le esposizioni antecedenti il periodo di latenza clinica.
Dopo aver rilevato la contraddittorietà di una motivazione dove sono state stratificate enunciazioni tra loro diverse e inconciliabili, la pronuncia rescindente ha rimarcato che, quando la Corte territoriale è passata ad applicare lo schema che si è data alle singole storie lavorative per determinare il periodo di induzione verificatosi per ciascuna persona offesa, ha utilizzato un dato ancora diverso, ovvero il periodo stimato mediante la durata massima della fase preclinica secondo Greengard e altri, metodologia la cui adozione è stata giustificata unicamente con l'affermazione che essa risultava essere la più favorevole agli imputati. Dunque, le coordinate temporali del periodo di induzione erano state attribuite dal giudice distrettuale in termini contrastanti con i canoni di razionalità definiti dalla giurisprudenza di legittimità, non avendo la Corte di appello esposto le ragioni che l'hanno condotta a preferire una tesi piuttosto che l'altra rispetto al consenso acquisito presso la comunità scientifica, avendo adottato il criterio di Greengard et altri, senza inserirlo nel più ampio contesto del dibattito scientifico, quello stesso dibattito che la stessa Corte territoriale ha asserito non essere ancora pervenuto a certezze quanto alla possibilità di attribuire una più o meno precisa collocazione temporale alla fine del periodo di induzione. Ha infine concluso la Corte, nel dettare i criteri ermeneutici al giudice del rinvio, che, in una materia contraddistinta da una pluralità di tesi antagoniste, anche quando non sia in discussione che l'amianto sia causa di mesotelioma, che esista una correlazione tra entità dell'esposizione e rischio di ammalarsi e persino quando si assume che ogni esposizione ricadente nel periodo di induzione abbia incidenza nel processo cancerogenetico, deve essere tenuto presente che il postulato dell'incidenza di ciascuna esposizione ( ovvero dose inalata) non è sufficiente a risolvere il problema causale, quando durante il periodo di esposizione sia necessario distinguere sub-periodi in dipendenza dell'avvicendarsi di diversi garanti, perché in tal caso deve potersi affermare che proprio nel sub periodo in considerazione si è determinata l'insorgenza o la ulteriore evoluzione del processo morboso, il che chiama in causa la natura, universale o probabilistica, della legge di spiegazione causale utilizzata, perché ove si tratti di legge probabilistica, nel senso che l'effetto acceleratore non si verifica in tutti i casi, il giudice è tenuto a individuare i segni fattuali che permettono di affermare che in ciascuno dei differenti periodi, definiti dall'avvicendarsi degli imputati nel ruolo di garante, si è prodotto l'effetto in via teorica possibile, posto che, come chiarito dalla nota sentenza Cazzini, il carattere probabilistico della legge può condurre alla dimostrazione del nesso causale solo ove fossero note informazioni cronologiche e fosse provato, ad esempio, che il processo patogenetico si è sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto, nei casi in cui all'iniziazione non segue una ulteriore esposizione, ovvero fossero noti i fattori che, nell'esposizione protratta, accelerano il processo e fossero presenti nella concreta vicenda processuale.
Di qui il forte richiamo della sentenza rescindente all'accertamento dell'effettivo inverarsi dell'effetto acceleratore, con la precisazione che il riscontro singolare non può essere mai affidato dai giudici di merito al richiamo dell'auctoritas delle sentenze del giudice di legittimità, atteso che il precedente giurisprudenziale non costituisce il nomos in tema di sapere scientifico, né può esigersi che la Corte di cassazione possa attestare l'esistenza di questa o quella legge di copertura.
Il giudizio penale, in definitiva, non può essere il luogo dove si forma il sapere scientifico, ma questo, altrove consolidatosi, giunge nel processo penale attraverso gli esperti, spettando al giudice il compito di assicurare la competenza e l'imparzialità del medium e di verificare con l'ausilio di questi, attraverso la documentata analisi della letteratura scientifica in materia, l'esistenza e l'apporto della legge scientifica di copertura.

La seconda sentenza della Corte di appello


5. In sede di rinvio, con sentenza del 31 gennaio 2019, la Corte di appello di Torino, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha assolto tutti gli imputati dal reato contestato in danno di G.M., perché il fatto non sussiste, e ha rigettato le domande risarcitorie avanzate dalle parti civili in relazione alle lesioni patite da MA. e P.L., confermando nel resto la sentenza assolutoria del Tribunale di Verbania.
Deve premettersi che, nel giudizio di rinvio, la Corte di appello, all'udienza del 6 dicembre 2017, ha conferito incarico peritale ai dr. Dario Consonni e Carolina Mensi, allo scopo di valutare, alla luce della migliore legge scientifica e degli studi che la sorreggono, l'eventuale sussistenza del nesso di causalità avuto riguardo ai decessi e alle lesioni oggetto di imputazione; all'udienza del 12 settembre 2018, è stato acquisito l'elaborato peritale, mentre il 4 ottobre 2018, completato l'esame dei periti, aveva altresì luogo l'audizione anche dei consulenti del P.M. Oddone e Mirabelli, oltre che dei consulenti della difesa, prof. Pira e prof. Boffetta.
Ciò posto, il giudice del rinvio, dopo aver richiamato i precedenti esiti processuali, ha affrontato innanzitutto i decessi da tumore polmonare (lavoratori B., C.B., DS.B., L.M., P., T. e G.M.).
Richiamati gli indici sintomatici della riconducibilità della patologia tumorale al polmone all'amianto elaborati dal Consensus report di Helsinki, la Corte di appello ha osservato che gli stessi non appaiono sussistenti in nessuno dei casi per cui si procede, e ciò anche nei casi in cui si era in presenza di placche pleuriche, perché l'attribuzione del tumore del polmone all'amianto deve essere sostanziata da una storia lavorativa di consistente esposizione o da misure del carico polmonare di fibre, dovendosi a ciò aggiungere che, nel caso di specie, era mancato un accertamento in concreto sulle condizioni di lavoro dei dipendenti, non potendosi ritenere sufficienti né il dato, proveniente dal processo "Montefibre l", dell'inquinamento ambientale dello stabilimento di Verbania, né le ulteriori produzioni documentali effettuate dal P.M. con le operazioni di bonifica in corso. In ogni caso, i decessi in esame hanno riguardato soggetti con esposizione solo passiva all'amianto, con eccezione di DS.B., e certamente esposti per anni al significativo fattore di rischio costituito dall'abitudine al fumo.
Le conclusioni, secondo il giudice del rinvio, erano uguali anche rispetto alla posizione di G.M., unico soggetto non fumatore, esposto dal 1953 al 1983 con esposizione solo passiva, in quanto il rischio di contrarre il tumore al polmone anche nei soggetti non esposti non è pari a zero, né comunque la patologia poteva essere ricondotta con certezza alla condotta degli imputati.
Il nesso di causalità è stato escluso dalla Corte territoriale anche rispetto ai decessi causati da mesotelioma pleurico (lavoratori C., DM., F., FE., G., L., Ma., S., MA. e G.M.).
In particolare, i giudici del rinvio, dopo aver richiamato le conclusioni dei periti, manifestavano adesione alla tesi da loro sostenuta della cd. dose risposta, ovvero della rilevanza causale di tutte le esposizioni anche successive alla prima fino al completamento della fase di induzione, per cui, essendo impossibile stabilire il momento di innesco della malattia, a partire dal quale l'eventuale esposizione del soggetto passivo all'amianto non assuma più incidenza causale, diventa importante stabilire, con alto livello di credibilità razionale, se le esposizioni ad amianto riconducibili all'assunzione di responsabilità degli odierni imputati abbiano assunto incidenza causale tale da poter rispondere negativamente alla domanda se l'evento si sarebbe verificato ugualmente anche in assenza della condotta incriminata: tale domanda, ad avviso della Corte di appello, non poteva trovare risposta positiva in termini di appagante certezza. Ed invero, premesso che la relazione esposizione-risposta, a parità di altre condizioni (tipo di amianto, intensità e durata dell'esposizione) è influenzata anche dal periodo in cui si verifica l'esposizione e il tempo trascorso dalle esposizioni più remote assegna a loro un peso maggiore rispetto a quelle più recenti, la sentenza impugnata ha osservato che le percentuali dell'aumento del rischio di contrazione attribuibile ai singoli imputati, come individuate dal consulente del P.M. che aveva adottato il modello di Price e Ware, non consentivano di poter affermare che, eliminata la condotta attribuita agli imputati, l'evento storicamente individuato non si sarebbe realizzato o si sarebbe realizzato in epoca successiva, trattandosi di percentuali inferiori al 20%, a parte quelle relative ai lavoratori F. (40,9%) e FE. (21,7%).
Quanto a FE., la Corte territoriale osservava che la prima posizione di garanzia, ovvero quella assunta da M.G. nel 1972, interveniva dopo che il lavoratore era stato esposto sia presso la Montefibre che presso altre società per 16 anni, mentre, quanto a F., è stato osservato che la maggior parte degli imputati ha assunto posizioni di garanzia dopo che lo stesso è stato esposto già da almeno 10 anni, mentre, rispetto ai due imputati in carica in epoca precedente, ovvero M.G., componente del CdA dal 1972 al 1973 e Q.B., direttore dello stabilimento dal novembre 1975 al novembre 1976, le percentuali di rischio erano pari, rispettivamente, all'11% e al 5,1 %, e dunque erano troppo basse ai fini dell'affermazione della sussistenza della causalità commissiva.
In definitiva, ritenere che, in assenza delle esposizioni riconducibili agli imputati la probabilità di contrarre un mesotelioma sarebbe stata ridotta, non varrebbe a far dimostrare con alta probabilità logica la qualità di antecedente causale della condotta attribuita agli imputati rispetto all'evento, non potendosi sostenere con certezza che, eliminata la condotta, l'evento non si sarebbe realizzato.
In ordine, infine, alla posizione di G.M., i giudici del rinvio hanno rilevato che i periti, non essendovi conferma istologica della diagnosi di mesotelioma maligno, non si sono espressi con certezza sulla causa della morte, non propendendo per la diagnosi di neoplasia maligna di probabile origine respiratoria (mesotelioma o tumore polmonare), per cui in tal caso si è pervenuti alla pronuncia assolutoria degli imputati "perché il fatto non sussiste".
La Corte di appello ha concluso evidenziando la superfluità di esaminare il profilo dell'elemento soggettivo, alla luce delle considerazioni in tema di nesso causale.

I ricorsi del Procuratore generale e delle parti civili

6. Avverso la seconda sentenza della Corte di appello piemontese, hanno proposto ricorso per cassazione sia il Sostituto Procuratore generale presso la Corte di appello di Torino che, tramite il loro comune difensore, le parti civili "Medicina democratica movimento di lotta per la salute" e "l'Associazione italiana esposti amianto nazionale".
6.1. Il Procuratore generale ha sollevato due articolati motivi, il primo dedicato al tema dei decessi da tumore polmonare, il secondo riguardante il nesso di causalità relativo ai decessi da mesotelioma pleurico.
I due motivi sono invero accomunati da una critica di fondo rivolta alla Corte di appello, ovvero quella di aver valorizzato solo le deduzioni dei consulenti della difesa, senza esplicitarne le ragioni, a fronte del contributo dei periti e dei consulenti tecnici della Procura, che erano giunti a conclusioni perfettamente sovrapponibili, risultando immotivato in particolare il discostamento dagli esiti della perizia, peraltro disposta per la prima volta solo nel giudizio di rinvio, proprio seguendo le indicazioni della sentenza rescindente. Viene censurata quindi la mancata verifica della affidabilità e della indipendenza degli esperti nominati dalla difesa, le cui informazioni sono state ritenute valide senza alcun rigoroso vaglio critico. Peraltro, il convincimento del giudice del rinvio è stato fondato non su una relazione tecnica aggiornata, ma su mere riflessioni che non hanno formato oggetto di uno scritto confluito nel processo.
6.2. Ciò premesso, con il primo motivo il ricorrente lamenta che, nella parte dedicata ai tumori polmonari, la sentenza impugnata non ha mai fatto riferimento a dati del compendio probatorio che abbiano rivelato l'esistenza di fattori alternativi, posto che, ove anche la neoplasia contratta dalle vittime fosse derivata dal tabagismo (e lasciando da parte il caso di G.M., unico lavoratore non fumatore), la Corte avrebbe dovuto esplicitare gli elementi processuali che avrebbero conferito concretezza nel caso specifico proprio a quel fattore
alternativo. Un conto infatti è ragionare in termini astratti di ipotetici decorsi causali alternativi, un altro conto è adempiere compiutamente all'obbligo di motivazione, soprattutto laddove si arrivi al punto di privare di qualsiasi incidenza deterministica il fattore (amianto) che invece i due periti Consonni e Mensi nominati dalla Corte hanno fortemente valorizzato, almeno in termini concausali e sinergici. Nel richiamare le schede dei singoli lavoratori elaborate dai periti, il Procuratore ricorrente deduce inoltre il travisamento della prova, non avendo la Corte di appello preso in considerazione i risultati dell'attenta valutazione compiuta dai periti rispetto a ciascun caso, in risposta ai quesiti che la stessa Corte aveva loro formulato. Peraltro, non sarebbe dato comprendere come la Corte di appello abbia potuto definire "modeste" le esposizioni cumulative dei lavoratori, non desumendosi ciò da alcun elemento probatorio.
In maniera indebita e affrettata, inoltre, il giudice del rinvio avrebbe operato un collegamento tra la sentenza di primo grado e gli esiti ben diversi della approfondita istruttoria dibattimentale rinnovata nel giudizio di rinvio, nel quale è stato acquisito per la prima volta il contributo molto più aggiornato di due esperti indipendenti, che hanno citato il qualificato studio internazionale "Sinergy" del 2017. La contraddizione logico-argomentativa della pronuncia impugnata emergerebbe in modo palese rispetto alla valutazione del caso del lavoratore non tabagista G.M., avendo il giudice del rinvio, sulla falsariga di quanto sostenuto dal Tribunale, ritenuto prima irrilevanti le evidenze statistico­ epidemiologiche nella ricostruzione della eziologia della neoplasia, per poi sostenere poco dopo che la certezza della ricostruzione del nesso causale sarebbe potuta derivare dalle stime dell'eccesso di rischio nella coorte dei lavoratori dello stabilimento verbanese, il che determina una grave antinomia logica, perché o le stime epidemiologiche sono reputate sempre irrilevanti nella ricostruzione fenomenica dell'evento, oppure le evidenze medico-statistiche sono valorizzate ogni volta. Il richiamo alle stime riguardante la coorte dei lavoratori risulta peraltro generico e ininfluente, tanto è vero che i periti non ne hanno affatto sostenuto il rilievo nella valutazione dei casi concreti.
Quanto agli altri casi, si osserva che il postulato dell'alternatività degli agenti cancerogeni da cui muove la Corte distrettuale è stato ampiamente smentito sia dai periti che dai consulenti tecnici della Procura, i quali, con il conforto della letteratura internazionale, hanno evidenziato che fumo e amianto operano in sinergia tra loro, nel senso che un fattore cancerogeno potenzia l'effetto dell'altro. Gli studi più recenti hanno consentito ai periti di affermare l'esistenza di interazioni più che additive tra i fattori oncogeni fumo e amianto, persino a basse esposizioni cumulative, per cui, essendo nel caso di specie la presenza di amianto massiccia e ubiquitaria nello stabilimento, avrebbe dovuto essere ben motivata l'esclusione del suo rilievo eziologico nella formazione delle neoplasie.
Il Procuratore ricorrente stigmatizza inoltre la scelta del giudice del rinvio di fondare il proprio convincimento sul solo Consensus internazionale di Helsinki del 1997, anziché utilizzare i ben più aggiornati dati esposti dal più ampio studio internazionale "Sinergy", promosso dall'Agenzia per la ricerca sul cancro di Lione. La Corte di appello avrebbe inoltre limitato la propria analisi sulla eziologia dei tumori polmonari alla sola fase dell'insorgenza, senza estendere la disamina all'azione promovente del fattore amianto, capace di incidere, con effetti di aggravamento, anche su un tumore indotto inizialmente da un altro fattore oncogeno. Il ricorrente sottolinea inoltre l'incoerenza argomentativa della sentenza impugnata, nella parte in cui non è stato considerato che uno degli indici di attribuibilità del tumore, ovvero il periodo di tempo (10 anni) che deve intercorrere tra l'insorgenza del tumore e l'epoca della prima esposizione all'amianto, è ampiamente soddisfatto non solo per uno o per alcuni, ma per tutti i casi in contestazione, come messo ben in luce dai consulenti del P.M. e dai periti, per cui non è vera l'affermazione circa l'inesistenza degli indici di attribuibilità. Nella parte finale dell'esposizione del primo motivo, il ricorrente, dopo aver enucleato le contraddizioni della sentenza impugnata rispetto all'omessa considerazione delle risultanze degli accertamenti tecnici compiuti dai periti e dai consulenti del P.M., è infine tornato sulla posizione del lavoratore non fumatore, G.M., osservando che la Corte aveva finito con l'attribuire rilievo esclusivo a uno sconosciuto e innominato fattore eziologico diverso dall'amianto, pur essendo provato che G.M. ha subito una esposizione alle fibre di asbesto in modo continuo per 30 anni. A questo punto, conclude il ricorrente, l'intero discorso della sentenza sulla alternatività tra fumo e tabacco perde significato, perché anche per i non fumatori dovrebbe valere il principio dell'azione cancerogena indotta da chissà quale agente diverso dall'asbesto, mentre in realtà le uniche cause di tumore da prendere in considerazione sono quelle che si rivelano in concreto al giudice nel compendio probatorio e non quelle astratte e ignote.
6.3. Con il secondo motivo, dedicato come detto ai decessi da mesotelioma pleurico, si contestano il vizio di motivazione della sentenza impugnata, il travisamento della prova scientifica sull'azione cancerogena delle fibre di amianto, l'erronea applicazione degli art. 40 e 41 cod. pen. e l'inosservanza delle statuizioni e delle indicazioni contenute nella sentenza rescindente.
In particolare, il Procuratore ricorrente osserva che la Corte di appello ha ritenuto fallace la tesi dell'anticipazione dell'evento in base alle sole deduzioni dei consulenti della difesa, senza indicare la fonte scientifica di tale affermazione e gli eventuali studi a sostegno: anche in tal caso sarebbero stati quindi ignorati i contributi dei periti, i quali, richiamando l'importante monografia 103 C dell'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro di Lione del 2012, hanno ribadito la rilevanza causale di tutte le esposizioni alle fibre di amianto nell'induzione del mesotelioma pleurico, risultando connessi l'aumento dell'incidenza della malattia e l'anticipazione dell'evento.
Nel censurare la valutazione relativa al nesso causale, il Procuratore evidenzia che le condotte ascritte agli imputati erano di tipo misto, nel senso che i comportamenti attivi si saldano con condotte di tipo sicuramente omissivo, il che avrebbe imposto una prospettiva diversa da quella concentrata solo sulle condotte consistite in un "tacere", per cui andava approfondita anche la causalità omissiva, tenendo presente i principi formulati dall'art. 41 cod. pen.: la Corte territoriale, in definitiva, ha finito per escludere che le leggi probabilistiche accreditate dalla letteratura internazionale potessero trovare applicazione nei singoli casi delle persone offese, senza menzionare e approfondire eventuali decorsi causali alternativi. Peraltro, la sentenza impugnata sarebbe incoerente nella misura in cui è giunta alla pronuncia assolutoria degli imputati, pur avendo affermato la rilevanza causale di tutte le esposizioni anche successive alla prima e fino al completamento della fase di induzione, tanto più ove si consideri che la sentenza del Tribunale di Verbania aveva concluso nel senso della irrilevanza delle esposizioni successive ai fini della produzione dell'evento neoplasia pleurica.
Quanto alla mancata conoscenza del momento di innesco del mesotelio, a partire dal quale l'eventuale esposizione del soggetto passivo all'amianto non assuma più incidenza causale, si osserva che costituisce insegnamento consolidato, già illustrato in altre pronunce di legittimità richiamate nel ricorso, quello secondo cui le esposizioni successive aggravano comunque il decorso del processo patogeno. In ogni caso, i giudici del rinvio avrebbero ignorato la circostanza che i periti hanno sempre parlato di una fase dell'induzione e non di un fenomeno temporalmente inquadrabile nella categoria dell'evento istantaneo che si manifesta ex abrupto, mentre in realtà la lunga fase dell'induzione vede compiersi al suo interno una lunga serie di fenomeni biologici dinamici che richiedono un arco temporale esteso, posto che l'agente cancerogeno necessita di un periodo di tempo non breve per vincere i meccanismi di autotutela dell'organismo. Ed è questa la ragione per cui i periti hanno ritenuto rilevanti tutte le condotte attive e omissive che hanno cagionato la prolungata inalazione di fibre di amianto da parte delle vittime.
Si contesta inoltre alla Corte di appello di aver considerato solo una parte della relazione dei consulenti del P.M., quella dedicata alla determinazione del contributo causale, rispetto all'induzione della neoplasia pleurica, attribuibile a ciascun segmento temporale di esposizione all'agente cancerogeno per ogni vittima, senza tener conto della precisazione dei due consulenti Mirabelli e Oddone, con cui è stata riconosciuta l'importanza della durata dell'esposizione, nel senso che tutti i segmenti temporali dell'esposizione concausano l'induzione e la promozione del mesotelioma pleurico, risultando eziologicamente irrilevanti solo le eventuali esposizioni all'amianto verificatesi negli ultimi 10 anni rispetto alla diagnosi della neoplasia.
Ridimensionare la significatività delle percentuali di incidenza che le singole condotte degli imputati hanno avuto sulle neoplasie delle vittime, ignorando la premessa sul ruolo concausale di tutte le esposizioni escluse quelle collocabili negli ultimi 10 anni prima della diagnosi, significherebbe stravolgere il pensiero degli esperti, con relativo travisamento della prova scientifica introdotta nel processo, difettando nel caso di specie la completezza dell'apprezzamento che il giudice deve compiere sui contributi tecnico-scientifici acquisiti.
Sarebbe inoltre sfuggito alla Corte territoriale che il calcolo proposto dai consulenti del P.M. sul peso dei contributi delle diverse esposizioni temporali all'agente cancerogeno, riferite quindi ai singoli periodi di assunzione delle posizioni di garanzia degli imputati, è stato operato utilizzando il metodo suggerito da due autori, Price e Ware, che si sono occupati del problema dell'indennizzo delle persone offese, cioè di come si debba ripartire il ristoro tra i responsabili delle esposizioni. Peraltro, come precisato dai consulenti Mirabelli e Oddone, se si opta per la valorizzazione del modello di Price e Ware, si deve per coerenza assumere anche il concetto presupposto della rilevanza di tutte le esposizioni all'amianto nell'induzione del mesotelioma, tema questo più volte sottolineato sia dai consulenti del P.M. che dai periti, come espressione di una legge scientifica accreditata e sostenuta da adeguato consenso, mentre è rimasta indimostrata la tesi della Corte territoriale del "minor peso" eziologico delle esposizioni più recenti. In ogni caso, la verifica demandata al giudice del rinvio non era quella di valutare il quantum risarcitorio, ma piuttosto quella di considerare le conseguenze che sarebbero state certamente prodotte dalla interruzione definitiva dell'esposizione alle fibre nel luogo di lavoro, tenendo cioè conto degli effetti positivi di una eventuale bonifica. Del resto, non si comprende come sia possibile affermare che una neoplasia, indotta e promossa dalle fibre di amianto, non risenta più, improvvisamente, di ulteriori fibre respirate dalla stessa vittima.
Di qui la richiesta di annullamento della sentenza impugnata.

6.4. Le parti civili "Medicina democratica movimento di lotta per la salute" e "l'Associazione italiana esposti amianto nazionale" (A.I.E.A.), nel loro comune ricorso, hanno sollevato due motivi.
6.4.1. Con il primo motivo, è stata dedotta l'erronea applicazione dell'art. 627 comma 3 cod. proc. pen., non essendosi la Corte di appello uniformata alla pronuncia rescindente rispetto alle questioni di diritto decise, in primo luogo sul tema concernente l'accertamento in concreto delle posizioni di garanzia dei singoli imputati e di come gli stessi abbiano contribuito ad esporre ad amianto le persone offese, avuto riguardo alle statuizioni definitive di cui alla sentenza di legittimità del processo "Montefibre l", anche in ordine alla corretta applicazione dell'art. 238 bis cod. proc. pen. in relazione a una serie di aspetti, ovvero:
-la titolarità in capo agli imputati di una posizione di garanzia;
-la sussistenza di inquinamento ambientale nello stabilimento di Verbania PA.;
-la derivazione delle asbestosi dall'esposizione ad amianto subita dai lavoratori presso lo stabilimento;
-la condotta oggettivamente colposa degli imputati;
-la loro rimproverabilità per essere gli eventi prevedibili ed evitabili.
Questi dati non sono stati presi in considerazione nella sentenza impugnata, per essere adeguati alla realtà lavorativa delle vittime. Vi sarebbe inoltre un difetto di motivazione anche con riferimento all'esame dell'indipendenza e attendibilità degli esperti, peraltro sentiti di nuovo nel giudizio di rinvio a seguito di rinnovazione istruttoria, essendovi stata inoltre anche la nomina di due periti.
La valutazione preventiva dell'indipendenza degli esperti avrebbe dovuto costituire la premessa al fine di poter valutare l'attendibilità, la coerenza e la condivisione degli studi scientifici da loro indicati.
6.4.2. Con il secondo motivo, oggetto di doglianza è il difetto di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata adesione della Corte di appello alle conclusioni dei periti, avendo i giudici del rinvio eluso il principio della sentenza rescindente, secondo cui il giudice si pone come fruitore e non come autore della scienza nel processo penale, non avendo autorità per dare poteri di fondatezza a questa piuttosto che a quella teoria; la Corte di appello si sarebbe invece sostituita ai propri periti, dando credito alla teoria scientifica minoritaria su cui si basava la sentenza del Tribunale del 2011.
Pur avendo infatti i periti nominati nel giudizio di rinvio ricondotto le morti e le lesioni delle persone offese all'effetto dell'esposizione all'amianto, sia rispetto ai tumori polmonari che ai mesoteliomi, i giudici del rinvio si sono discostati da tali conclusioni, senza fornire una motivazione logica su tale opzione, e ciò sebbene i due periti abbiano prodotto una nutrita serie di argomentazioni basate su studi recenti e condivisi dalla comunità scientifica internazionale.
La Corte territoriale, in particolare, si sarebbe limitata a richiamare solo gli indici sintomatici della riconducibilità all'amianto del cancro al polmone dettati dal Consensus di Helsinki del 1997, per negarne la sussistenza nei casi in esame, senza tuttavia motivare l'assenza di tali criteri e fermo restando che, come riportato nella stessa sentenza impugnata, non tutti i criteri di esposizione devono essere soddisfatti ai fini dell'attribuzione all'amianto del cancro polmonare. Sarebbe inoltre sfuggito alla Corte che proprio uno dei criteri richiamati nel Consensus di Helsinki, ovvero un tempo minimo di 10 anni dalla prima esposizione all'amianto, era presente in ciascuno dei casi di neoplasia polmonare in esame, ognuno dei quali era contraddistinto da una storia lavorativa di consistente e ininterrotta esposizione professionale all'amianto, sia per il tipo di mansioni espletate, sia per la presenza ubiquitaria dell'asbesto, risultando al 2015 la presenza di 800 tonnellate di amianto disperse all'interno dei reparti dove le vittime hanno lavorato, essendo stato inoltre accertato che due lavoratori, DS.B. e T., hanno avuto una esposizione di tipo diretto.
Né sarebbe stato considerato che G.M., esposto per 30 anni ad amianto, era soggetto non fumatore, per cui, in assenza di spiegazioni alternative, ben poteva essere ricondotta l'insorgenza della patologia polmonare all'unico dato certo acquisito al processo. Allo stesso modo, è stato ignorato che tre persone offese, C.B., L.M. e DS.B., avevano rispettivamente smesso di fumare nel 1984, dal 1996 e nel 1980, con riduzione del rischio di cancro, essendo per altri incerta la data di inizio e fine del tabagismo. La Corte di appello avrebbe inoltre omesso di spiegare perché il proprio ragionamento è stato fondato solo sul Consensus di Helsinki del 1997 e non anche sui dati ben più aggiornati contenuto nel più ampio studio internazionale "Synergy" del 2017 promosso dall'Airc, su cui si sono invece basati i periti Consonni e Mensi, i quali hanno in particolare ribadito che fumo e amianto hanno un effetto sinergico, aumentando l'associazione di questi due fattori, tra loro non scindibili, il rischio di contrarre il tumore al polmone. Quanto, infine, ai decessi da mesotelioma, viene parimenti rimarcata la manifesta illogicità della motivazione, essendo la Corte di appello partita da una premessa corretta per arrivare a un risultato fallace. Se è vero infatti che tutte le esposizioni contano fino alla fine del periodo di induzione, che i periti hanno fissato in 10 anni, in coerenza con il Consensus di Helsinki, non si comprende perché quelle subite dalle persone offese (in particolare F. e FE., esposti prima che l'imputato M.G. assumesse nel 1972 la posizione di garanzia) nei sub periodi di garanzia degli imputati, non debbano essere ritenute causali ai fini della insorgenza del mesotelioma, posto che, come chiarito dai periti e dai consulenti del P.M. Mirabelli e Oddone, attribuire maggior peso alle esposizioni più risalenti nel tempo non significa affermare che anche quelle successive non contino.

Quanto poi al calcolo che i consulenti del P.M. hanno proposto sul peso da attribuire alle diverse esposizioni temporali rispetto ai segmenti temporali di assunzione delle posizioni di garanzia, è sfuggito al giudice del rinvio che la metodologia proposta, ovvero quella degli autori Price e Ware, era riferita al problema dell'indennizzo da riconoscere alle persone offese, quindi con riferimento a un ambito prettamente civilistico . Viene quindi censurato il percorso argomentativo della sentenza impugnata nella misura in cui, da un lato, ha attribuito ugual peso a percentuali del tutto distanti tra loro (dall'1% al 40%) e dall'altro ha omesso di tradurre in termini giuridici le percentuali, estrapolando un dato parziale delle consulenze e non spiegando le conseguenze che si sarebbero verificate a causa dell'interruzione definitiva dell'esposizione dei lavoratori alle fibre di amianto all'interno dello stabilimento, tanto più ove si consideri che il capo di imputazione faceva riferimento anche a condotte omissive. E in ogni caso, non si comprenderebbe in che modo siano state superate dalla Corte di appello le conclusioni dei consulenti del P.M., secondo cui sarebbe stata ridotta in maniera importante (cioè del 20-40%) la probabilità di contrarre il mesotelioma per F. e FE., in assenza delle esposizioni riconducibili agli imputati.
Soffermandosi solo sulle percentuali da attribuire ai singoli periodi di esposizione, la Corte territoriale non avrebbe quindi espresso alcuna valutazione sul risultato finale cui erano giunti i consulenti del P.M., non considerando che la prova dell'effetto acceleratore sui singoli casi è dimostrata dal fatto che tutti i soggetti colpiti da mesotelioma sono deceduti, per cui la difficoltà di calcolo non poteva essere intesa come negazione del fenomeno generale determinato tra aumento del rischio e anticipazione, come affermato dal III Consensus di Bari del 2005 sul mesotelioma, studio con il quale la Corte di appello ha mancato di confrontarsi.
Ribadito dunque, come affermato anche nella sentenza impugnata, che tutte le esposizioni, anche successive alla prima, hanno rilievo fino al completamento della fase di induzione, il cui termine è fissato in 10 anni prima della diagnosi, doveva quindi concludersi che nella vicenda in esame assume rilievo ogni sub-periodo di garanzia ricoperto dagli imputati, compreso M.G., collocandosi gli stessi in anni in cui il periodo di induzione non era ancora terminato.

La memoria dei difensori degli imputati C.L.. M.G. e V.C.


7. Il 21 settembre 2020 i difensori degli imputati C.L., M.G. e V.C. (avvocati Padovani, Accinni, Baccaredda Boy, Ravaglia e Sassi) hanno depositato una memoria, con cui hanno chiesto il rigetto dei ricorsi, osservando:
a) quanto al nesso di causalità rispetto ai casi di tumori polmonari, la Corte di appello, lungi dall'ignorare il sapere veicolato dai tecnici, ha proceduto a un serrato vaglio delle poche questioni lasciate ancora aperte dalla sentenza rescindente, proprio attraverso il rinvio puntuale alle risposte fornite dai periti nominati.
Del resto, si evidenzia, la Corte di cassazione aveva fissato un perimetro molto chiaro per il giudizio di rinvio, stabilendo che non vi era un sostanziale dissenso tra le parti circa talune delle acquisizioni consolidate, riguardanti la relazione lineare tra dose di amianto inalata e rischio di cancro al polmone, l'inesistenza di una soglia di esposizione priva di rischio e l'effetto sinergico fumo-amianto.
Tuttavia, la pronuncia rescindente aveva rilevato che, trattandosi di una patologia multifattoriale, hanno natura probabilistica e non universale tanto la legge di copertura che lega l'esposizione all'amianto al tumore polmonare, quanto quella relativa all'effetto sinergico dei differenti fattori di rischio, nel senso che non è possibile affermare che a ogni esposizione professionale corrisponde l'insorgenza del tumore e che lo stesso effetto sinergico si presenta solo in una parte dei casi, non in tutti. La sentenza rescindente, in definitiva, aveva acceso un riflettore su un aspetto segnalato dalle difese, ovvero la necessità di procedere all'accertamento della causalità individuale, dovendosi cioè nei singoli casi escludere decorsi causali alternativi, e ciò sia rispetto alle persone fumatrici che ai soggetti non fumatori, con la precisazione che non può fornire certezze il mero dato della entità e della natura delle esposizioni, se massicce o dirette.
A queste domande la Corte di appello aveva fornito risposte chiare, affrontando in modo corretto il tema cruciale della causalità individuale, recuperando proprio un'affermazione del perito Consonni, il quale ha sottolineato che, nel caso di tumore al polmone, non può affermarsi con certezza che una persona si sia ammalata perché fumatrice, perché esposta ad amianto o per entrambi i motivi, il che rende impossibile escludere fattori causali alternativi.
Peraltro, nel caso di specie, pare dubbia anche la sussistenza della causalità generale, non potendosi prendere in considerazione, quale legge di copertura, la generica osservazione epidemiologica, secondo cui l'asbesto determinerebbe il rischio di contrarre il tumore al polmone, atteso che mancava uno studio epidemiologico sui lavoratori dello stabilimento di Verbania, per cui non è stata offerta la prova che quei lavoratori si siano ammalati "di più" rispetto alla popolazione dimorante in quella specifica zona.
Inoltre, non poteva ritenersi applicabile la regola dell'aumento del rischio codificata dai criteri di Helsinki, non essendo stati dimostrati gli effettivi livelli di esposizione all'asbesto delle singole persone offese nei vari reparti, verosimilmente ben distanti dalle 25 fibre/millilitro/anno, per cui deve escludersi che il rischio connesso all'amianto sia stato superiore al rischio correlato al fumo.
b) quanto al nesso di causalità rispetto ai casi di mesotelioma pleurico , le difese rilevano che anche in tal caso il ricorso del Procuratore generale si è soffermato confusamente su argomenti estranei al cardine della decisione impugnata, che si era limitata ad applicare le statuizioni contenute nella sentenza rescindente.
In particolare, si evidenzia che la pronuncia della Quarta Sezione, nell'annullare la prima sentenza della Corte di appello, aveva rimarcato la necessità di accertare se, nel periodo in cui ciascun imputato ha rivestito una posizione di garanzia, l'esposizione ad amianto abbia determinato l'insorgenza o l'ulteriore evoluzione det singolo processo cancerogeno, ciò previo riconoscimento da parte della comunità scientifica di una legge scientifica, accreditata e sostenuta da adeguato consenso, esplicativa in merito alle coordinate temporali dell'evoluzione del mesotelioma. La sentenza impugnata, in ogni caso, lungi dal dar luogo ai travisamenti della prova dedotti nel ricorso, avrebbe solo dato conto di come la nuova prova assunta, ovvero la perizia, fosse in realtà coerente rispetto alle relazioni dei consulenti del P.M. e della difesa sul dato della impossibilità di definire il legame tra anticipazione, accelerazione ed esposizioni causalmente rilevanti.
Tanto i periti quanto i consulenti del P.M. avevano infatti ammesso di non essere in grado di definire il momento finale della fase di induzione e di ricavare una risposta individuale dai dati clinici dei pazienti.
Dunque, ribadito che, come affermato anche dai periti, non sono identificabili né il momento di inizio né il momento di fine della induzione, si osserva che nel presente giudizio il tema non riguarda il danno genericamente derivante dall'esposizione all'amianto, profilo questo destinato alla sede civile, ma l'accertamento del nesso di causalità tra singola condotta ed evento, dovendosi cioè verificare se e in che modo gli imputati, negli anni in cui erano in carica, hanno contribuito ad abbreviare la vita dei lavoratori: orbene, sia il Tribunale che il giudice del rinvio hanno affrontato in maniera adeguata la questione, rilevando come non sia stato provato con sufficiente certezza che a esposizioni professionali durate più a lungo siano state correlate latenze più brevi.

L'annullamento della sentenza nei confronti di V.



8. In via preliminare, deve rilevarsi che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti di V.L., per essere i reati estinti per morte dell'imputato: questi, infatti, come debitamente documentato dal difensore, è deceduto il 3 dicembre 2019 nel Comune di Milano; si impone dunque nei suoi confronti l'annullamento senza rinvio della sentenza, risultando esaurito il sottostante rapporto processuale ed essendo preclusa ogni eventuale pronuncia di proscioglimento nel merito, ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen.

L'ambito di valutazione del presente giudizio

9. Prima di soffermarsi sul merito delle doglianze sollevate dai ricorrenti, occorre premettere che il perimetro di valutazione del presente giudizio è quello tracciato dalla sentenza rescindente, dovendosi cioè verificare se, partendo dalle acquisizioni istruttorie cristallizzate in sede di merito e dagli eventuali elementi probatori sopravvenuti, la pronuncia impugnata abbia fornito adeguata risposta alle sollecitazioni interpretative provenienti dalla sentenza di annullamento.
A tal fine, si ritiene utile una breve premessa ricostruttiva, sia della vicenda fattuale per cui si procede, sia degli aspetti controversi in punto di diritto.
Orbene, un dato pacifico, sin dalla sentenza di primo grado, è costituito dalla reiterata esposizione alle fibre di amianto dei lavoratori dello stabilimento "Montefibre" di Verbania PA., risultando ampiamente comprovati, con documenti e rilievi fotografici, l'impiego e la manipolazione del predetto minerale. Parimenti comprovato è che numerosi lavoratori dello stabilimento si sono negli anni ammalati alcuni di tumore polmonare, altri di ispessimenti pleurici, altri ancora di mesotelioma pleurico, molti perdendo la vita a causa di tali patologie.
Altra circostanza non controversa è che gli odierni imputati hanno ricoperto, in tempi diversi, cariche apicali nell'ambito dello stabilimento in esame: in particolare, Q.B. e G.P. sono stati direttori di stabilimento, il primo dal 28 novembre 1975 al novembre 1976, il secondo dal novembre 1976 al luglio 1983; V.C. è stato amministratore delegato dal 30 aprile 1977 al 29 giugno 1981, mentre C.L. e M.G. sono stati componenti del consiglio di amministrazione della "Montefibre s.p.a.", il primo dal 27 aprile 1976 al 10 febbraio 1978 e il secondo dal 7 aprile 1972 al 9 dicembre 1973.
Orbene, se questi elementi probatori possono ritenersi pacificamente acquisiti, è stato invece fortemente dibattuto nei vari giudizi il tema della riconducibilità delle patologie subite dai lavoratori all'esposizione all'amianto nello stabilimento, in particolare nei periodi in cui gli imputati hanno ricoperto cariche gestionali.
L'accertamento del nesso di causalità assume ovviamente un carattere preliminare rispetto alla verifica della sussistenza dell'elemento soggettivo, potendosi valutare la configurabilità della colpa dei singoli imputati solo dopo aver stabilito che gli eventi (morte e lesioni) sono ricollegabili al prolungato contatto dei lavoratori con le polveri di amianto diffusamente presenti nell'ambito dell'opificio piemontese.
Orbene, il tema del nesso causale, soprattutto in una materia delicata come quella delle malattie professionali connesse con le lavorazioni industriali, è strettamente collegato con la questione dei rapporti tra giudice penale e sapere scientifico.
Tale questione è stata lungamente affrontata nella sentenza rescindente, nella quale, sulla falsariga di una elaborazione giurisprudenziale ormai consolidatasi, soprattutto a partire dalla sentenza "Cazzini" (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Rv. 248943), è stato ribadito che il giudizio penale non può essere il luogo nel quale si forma il sapere scientifico, che è processo di estrema complessità, di imprevedibile proiezione temporale e di necessaria dimensione universale, coinvolgendo l'intera comunità scientifica: il sapere scientifico, altrove formatosi, giunge dunque nel processo penale attraverso gli esperti, spettando al giudice il compito di assicurare la competenza e l'imparzialità di giudizio dell'esperto e di verificare con l'ausilio di questi, attraverso una documentata analisi della letteratura scientifica universale in materia, l'esistenza e l'apporto della legge scientifica di copertura, per cui il significato dell'espressione "iudex peritus peritorum" deve essere inteso nel senso che il giudice è portatore di una "legittima ignoranza" con riferimento alle conoscenze scientifiche, nel senso che egli non ha autorità per dare patenti di fondatezza a questa o a quella teoria, ma, al fine di determinare il grado di affidabilità delle informazioni scientifiche veicolate nel processo, è tenuto ad apprezzare innanzitutto la qualificazione professionale e l'indipendenza di giudizio dell'esperto, dovendo altresì verificare gli studi che sorreggono una determinata teoria, le basi fattuali su cui è stata condotta, le finalità della ricerca, l'autorità di chi la gestisce, l'ampiezza, il rigore e l'oggettività della ricerca e il grado di consenso raccolto nella comunità scientifica.
Ora, prima di soffermarsi sui casi trattati dalla Corte territoriale nel giudizio di rinvio, che seguiranno la bipartizione seguita in ciascun giudizio tra decessi o lesioni da tumori polmonari e decessi o lesioni da mesotelioma pleurico, deve sin d'ora premettersi che il limite principale della sentenza impugnata è costituito proprio dalla valutazione degli esperti, nel senso che è mancata una adeguata valutazione non solo del livello di attendibilità delle tesi scientifiche acquisite, ma anche e soprattutto del grado di indipendenza degli esperti che le hanno sostenute, dovendosi rimarcare che la presenza di tesi antagoniste non è di per sé motivo sufficiente per escludere l'esistenza di una spiegazione causale uniforme, essendo necessario verificare la portata e l'autorevolezza delle opinioni discordanti.
Peraltro, come si è già anticipato e come si avrà modo di approfondire in seguito, la Corte di appello ha conferito nel giudizio di rinvio un incarico peritale a due esperti, le cui conclusioni, spesso sovrapponibili a quelle dei consulenti del P.M., sono in larga parte disattese, senza che sia state adeguatamente spiegati le ragioni che hanno spinto i giudici di secondo grado a ritenere preferibili le contrarie deduzioni dei consulenti della difesa, dovendosi sul punto precisare che la verifica di autorevolezza e indipendenza non riguarda ovviamente solo i periti e i consulenti del P.M., ma coinvolge nella stessa misura anche gli esperti indicati dalla difesa. Peraltro, rispetto al giudizio di primo grado, la perizia ha fornito elementi valutativi fondati su una progressione degli studi scientifici rispetto a quelli scrutinati in origine dai consulenti del P.M. e dalle difese, il che, a maggior ragione, avrebbe richiesto uno sforzo argomentativo ulteriore per superare le conclusioni dei periti. Come stigmatizzato dai ricorrenti, tale lacuna motivazionale è ravvisabile in relazione a entrambe le tipologie dei casi esaminati dalla Corte territoriale.

I casi di tumore polmonare


10. I casi di tumore polmonare riguardano sette lavoratori dello stabilimento, ovvero: B., in servizio dal 1970 al 1985, deceduto nel 2005; C.B., in servizio dal 1969 al 1983, deceduto nel 2002, DS.B., in servizio dal 1961 al 1989, deceduto nel 2000; L.M., in servizio dal 1955 al 1977, deceduto nel 2001, P., in servizio dal 1970 al 1992, deceduto nel 2005, G.M., in servizio dal 1953 al 1983, deceduto nel 2006 e F.T., in servizio dal 1962 al 1985, deceduto nel 2007, mentre è stato contestato il reato di lesioni personali colpose rispetto alla posizione di P.L., dipendente dello stabilimento a partire dal 1973.
Orbene, rispetto a questi casi, il Tribunale, pur premettendo che sin dal 1955 è indiscussa la natura cancerogena dell'amianto per il polmone dell'uomo, nonché la stessa esistenza di una relazione lineare dose-risposta tra dose di amianto e rischio di cancro al polmone, ha osservato che, nel caso di specie, non poteva essere considerata adeguatamente comprovata la riconducibilità eziologica delle patologie contratte dai lavoratori all'amianto presente nello stabilimento, piuttosto che a un fattore alternativo di rischio, rappresentato principalmente dal fumo, atteso che tutti i dipendenti, tranne G.M., sono risultati essere fumatori.
Dunque, pur essendo certo che un'esposizione anche a livelli inferiori comporti un significativo aumento del rischio di contrarre il tumore, non poteva fornirsi una risposta in termini appaganti al quesito sul nesso causale, essendosi in presenza di una malattia multifattoriale, che può colpire anche soggetti non fumatori e non esposti alle fibre di amianto, motivo per cui anche rispetto all'unico soggetto non tabagista, ovvero G.M., il Tribunale è pervenuto ugualmente all'esclusione dell'esistenza del nesso di causalità tra insorgenza della malattia rivelatasi poi letale ed esposizione ad amianto, non essendovi stime sull'eccesso di rischio nella coorte dei lavoratori dello stabilimento rispetto alla popolazione non esposta.
Per quanto concerne i lavoratori fumatori, in ogni caso, il Tribunale ha riconosciuto l'esistenza di un effetto sinergico tra fumo ed esposizione all'amianto, tale per cui la combinazione dei due fattori di rischio, ove una persona sia esposta a entrambi, è superiore alla mera addizione aritmetica degli stessi, ma al contempo ha evidenziato che, allo stato attuale delle conoscenze, non può dirimersi il dubbio, più che ragionevole, sulla riconducibilità sul piano eziologico, delle patologie tumorali al fattore causale ipotetico alternativo rappresentato dall'abitudine al fumo con riferimento alle malattie contratte dai lavoratori tabagisti, costituendo mere ipotesi le pretese interazioni tra i due fattori cancerogeni, non potendosi cioè stabilire con adeguato grado di certezza che il tumore sia riconducibile all'uno o all'altro agente cancerogeno, o effettivamente alla sinergia di entrambi.
A conclusioni diverse era pervenuta la Corte di appello con la prima sentenza.
I giudici di secondo grado, infatti, nel premettere che tutti i dipendenti hanno lavorato per anni in un ambiente molto inquinato, come emerso anche dalla sentenza del processo "Montefibre 1", hanno rimarcato il fatto che l'effetto sinergico tra fumo ed esposizione ad amianto costituisce un dato pacificamente acquisito, per cui, non esistendo una soglia al di sotto della quale non sia presente il rischio di cancro polmonare in caso di esposizione ad amianto, quest'ultima doveva ritenersi eziologicamente rilevante, non implicando la multifattorialità delle cause della malattia necessariamente la alternatività delle une rispetto alle altre. Tale impostazione, come detto, è stata censurata nella sentenza rescindente, nella quale è stato rilevato che la Corte di appello aveva mancato di precisare se le affermazioni sostenute fossero o meno espressione di leggi scientifiche universali, non essendo stato cioè chiarito perché le tesi sostenute dai consulenti del P.M. dovevano ritenersi "maggiormente accreditate nella comunità scientifica".
Del resto, le leggi evocate dalla Corte territoriale indicavano che l'esposizione all'amianto provoca un numero di tumori polmonari significativamente maggiore di quello che investe la popolazione dei non esposti, non che ad ogni esposizione professionale corrisponde l'insorgenza del tumore, per cui sarebbe stato necessario accertare che nel caso di specie abbia agito l'amianto e non da solo il fumo, ciò in base al consolidato principio giurisprudenziale (cfr. Sez. 4, n. 37762 del 21/06/2013, Rv. 257113), secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, in presenza di patologie neoplastiche multifattoriali, la sussistenza del nesso causale non può essere esclusa sulla sola base di un ragionamento astratto di tipo deduttivo, che si limiti a prendere atto della ricorrenza di un elemento causale alternativo di innesco della malattia, dovendosi procedere a una puntuale verifica, da effettuarsi in concreto e in relazione alle peculiarità della singola vicenda, in ordine all'efficienza determinante dell'esposizione dei lavoratori a specifici fattori di rischio nel contesto lavorativo nella produzione dell'evento fatale (nel caso relativo a tale massima, in particolare, era stato ritenuto sussistente il nesso causale tra l'esposizione dei lavoratori al cromo esavalente e il loro decesso, pur se alcune delle vittime avevano l'abitudine al fumo di sigaretta, di per sé fattore causale alternativo di potenziale innesco del tumore polmonare).
Orbene, nel giudizio di rinvio, come si è anticipato, è stato conferito dalla Corte di appello un incarico peritale ai dottori Dario Consonni, medico chirurgo, specialista in medicina del lavoro e dottore di ricerca in medicina del lavoro e igiene industriale, e Carolina Mensi, biologa, specialista in igiene e sanità pubblica, dottore di ricerca in sanità pubblica, entrambi in servizio presso la Clinica del lavoro "Luigi Devoto" di Milano, cui è stato posto tra gli altri il quesito di accertare, "alla luce delle diagnosi dei lavoratori deceduti per tumore polmonare nonché di quella effettuata con riferimento alle lesioni riportate dal sig. P.L., delle modalità e dei tempi di insorgenza della malattia che poi li conduceva alla morte, se le lesioni e le morti dei lavoratori di cui alle imputazioni possano ricondursi, con elevato grado di credibilità razionale, all'effetto sinergico o concausale dell'esposizione ad amianto con altri eventuali fattori di rischio, e ciò anche alla luce delle modalità di svolgimento dell'attività e all'intensità e durata dell'esposizione".
All'esito della verifica della posizione di ciascun lavoratore, i periti hanno concluso nel senso che "le lesioni e le morti dei lavoratori di cui alle imputazioni possono ricondursi, con elevato grado di credibilità razionale, all'effetto dell'esposizione ad amianto occorsa sia in Montefibre che in altre aziende" (pag. 16 della perizia).
In particolare, i dr. Consonni e Mensi, nel premettere che per tutti i soggetti era stata rilevata una importante esposizione ad amianto in Montefibre, durata tra i 10 e i 34 anni, di tipo indiretto e per due di essi, DS.B. e T., di tipo diretto, essendo costoro addetti alla manutenzione, hanno evidenziato che la interazione tra fumo di sigaretta e amianto nella genesi del tumore polmonare è uno dei casi più studiati in cui un fattore cancerogeno potenzia l'effetto dell'altro. È stato accertato, in particolare, che l'interazione è super-additiva, nel senso che un certo numero di casi aggiuntivo di tumori polmonari si è verificato solo per l'azione congiunta di fumo di sigaretta e amianto; ciò è stato confermato, oltre che da numerose ricerche scientifiche, anche da un recente e importante studio internazionale, denominato "Synergy", coordinato dall'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (''IARC"), che ha ribadito l'esistenza di un'interazione più che additiva, anche a basse esposizioni cumulative (>2,8 ff/ cm 3-anni), essendo dunque errata la diversa concezione secondo cui l'interazione super-additiva ma meno che moltiplicativa sia sinonimo di assenza di interazione.
Ora, il giudice del rinvio ha inteso superare le conclusioni dei periti, rilevando come i dati acquisiti al processo non consentissero di ritenere dimostrata la sussistenza del nesso di causalità tra i tumori polmonari e l'esposizione alle fibre di amianto, atteso che, come riconosciuto dallo stesso perito Consonni, si era innanzitutto in presenza di leggi di copertura di tipo non universale, ma statistico-probabilistico. Partendo da questo presupposto, è stato osservato nella sentenza impugnata che il Consensus di Helsinki del 1997 aveva stabilito che l'aumento di rischio di tumore al polmone in caso di esposizione ad amianto assume portata significativa solo in caso di superamento di un determinato tasso - soglia, fermo restando che il medesimo Consensus aveva enucleato degli indici sintomatici di riconducibilità della patologia tumorale al polmone all'amianto, nessuno dei quali ravvisabile nei casi contestati, a ciò dovendosi aggiungere che era mancato nel caso di specie un accertamento in concreto sulle condizioni di lavoro dei dipendenti dello stabilimento deceduti per tumore polmonare e sulla entità della loro esposizione all'amianto, non potendosi ritenere a tal fine sufficienti né il dato proveniente dal procedimento "Montefibre l" dell'inquinamento ambientale dell'opificio, né le ulteriori produzioni documentali circa le operazioni di bonifica in corso.

Né, secondo la Corte territoriale, poteva pervenirsi a conclusioni diverse rispetto alla posizione dell'unico dipendente non fumatore, G.M., in quanto il rischio di contrarre il tumore al polmone anche in chi non è esposto all'amianto non è pari a zero. Orbene, ritiene il Collegio che il ragionamento seguito nella sentenza impugnata non sia immune da censure, dovendosi in primo luogo ribadire che il discostamento dalle conclusioni dei periti e la condivisione delle tesi dei consulenti della difesa, secondo cui i rischi connessi con esposizioni cumulative modeste fossero molto bassi, non risultano adeguatamente argomentati, mancando sia un riferimento alla maggiore o minore attendibilità degli studi che sorreggono le tesi antagoniste, sia un richiamo al grado di indipendenza e autorevolezza degli esperti.
La Corte territoriale, inoltre, ha insistito nel richiamare il Consensus di Helsinki del 1997, senza spiegare se il mancato accertamento degli indici di attribuibilità è dipeso da una verifica specifica in tal senso o piuttosto da un'omessa verifica, fermo restando che l'elencazione degli indici non ha affatto carattere tassativo.
Ma, soprattutto, i giudici del rinvio non hanno adeguatamente chiarito le ragioni per cui lo studio "Synergy" sulla portata degli effetti sinergici tra fumo e amianto più volte richiamato dai periti non sia stato ritenuto meritevole di considerazione, sebbene scaturito da una ricerca più recente, promossa su scala internazionale. Quanto poi alle condizioni di lavoro dello stabilimento, non è stato chiarito nella sentenza impugnata in che senso non fossero sufficienti le prove documentali prodotte dal P.M . e soprattutto i dati provenienti dal procedimento "Montefibre l", che aveva accertato in maniera definitiva l'inquinamento ambientale dell'opificio. Peraltro, non è stata posta adeguata attenzione al fatto che due dei lavoratori deceduti, DS.B. e T., hanno subito un'esposizione diretta alle fibre di amianto, con evidenti ripercussioni sul maggior rischio di contrazione del tumore. In questo scenario, la posizione dell'unico lavoratore non fumatore, ovvero G.M., meritava indubbiamente una considerazione più attenta, essendo assertiva l'affermazione secondo cui "premesse le rilevate carenze, il rischio di contrarre il tumore al polmone anche nei soggetti non esposti non è pari a zero", per cui l'evento non poteva essere attribuito con certezza agli imputati. Ora, se è vero che l'origine multifattoriale del tumore al polmone è un dato acquisito pacificamente, è tuttavia altrettanto innegabile che la multifattorialità della malattia non è di per sé motivo sufficiente per eludere la ricerca del nesso causale, solo in base all'obiezione secondo cui è astrattamente possibile rinvenire una spiegazione eziologica alternativa, perché, cosi ragionando, si finirebbe con il rendere inutile ogni indagine su un evento che in astratto può avere più cause.
Viceversa, in questi casi, e in particolare nelle ipotesi di malattie multifattoriali, diventa importante compiere un accertamento in concreto volto da un lato a individuare una spiegazione plausibile e agganciata a un preciso contesto fattuale, e dall'altro a escludere ragionevolmente l'interferenza di decorsi causali alternativi.
coefficiente probabilistico "prossimo a l", cioè alla "certezza", occorre riferirsi al ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall'art. 192 comma 2 cod. proc. pen. e alla regola generale in tema di valutazione della prova di cui al primo comma della medesima disposizione e alla ponderazione, ma non all'acritico accoglimento, delle ipotesi antagoniste, in modo che, "esclusa l'interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell'imputato, risulti condizione "necessaria" dell'evento, attribuibile perciò all'agente come fatto proprio.
Ciò che infatti interessa al diritto è l'individuazione della condizione necessaria dell'evento e non di quella sufficiente, cioè dell'insieme delle condizioni che rendono inevitabile un determinato risultato, condizione che nemmeno le leggi scientifiche sono in molte ipotesi in grado di esprimere, senza che per questo si dubiti della loro intrinseca razionalità; in definitiva, il giudizio di elevata probabilità logica non definisce il nesso causale, ma costituisce il criterio con il quale il giudice deve procedere all'accertamento probatorio di tale nesso causale, verificando se la legge statistica di riferimento trovi applicazione nel caso concreto di giudizio, stante l'alta probabilità logica che siano da escludere fattori causali alternativi.
Naturalmente, resta fermo che il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile circa la reale ed effettiva efficacia condizionante della condotta omissiva rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comporta la neutralizzazione dell'accusa e l'esito assolutorio del giudizio.
Ma il ragionevole dubbio deve essere però reale, fondato cioè su specifici elementi di fatto che lo avvalorino, in concreto, circa l'effettiva inferenza causale del fattore alternativo, non potendosi escludere che, sulla base delle leggi scientifiche e di quelle statistiche, e dell'esame di tutte le evidenze probatorie disponibili, quel fattore interagente possa risultare non influente, eliminato mentalmente quello addebitabile alla condotta umana, all'esito di un giudizio di credibilità razionale.
Ora, questo tipo di verifica ulteriore non risulta compiuta adeguatamente nel caso di specie, sia in generale rispetto alla categoria dei lavoratori dello stabilimento colpiti da tumore polmonare, sia con specifico riferimento alle posizioni dei due lavoratori esposti in via diretta all'amianto, ovvero F.T. e DS.B., oltre che dell'unico lavoratore non fumatore, G.M..
Di qui la necessità di annullare la sentenza impugnata sul punto concernente la valutazione del nesso causale rispetto ai decessi da tumore polmonare, con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di appello di Torino.
Limitatamente ai decessi di C.B., L.M. e DS.B., tuttavia, l'annullamento ai fini penali è senza rinvio, perché nelle more i reati si sono estinti per prescrizione (il 2 dicembre 2017 rispetto alla posizione di C.B., 1'8 ottobre 2016 in ordine alla posizione di L.M. e il 24 agosto 2015 rispetto alla posizione di DS.B.), per cui, con riferimento a tali posizioni, il rinvio, agli effetti civili, va operato dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello.

I casi di mesotelioma pleurico.


11. I casi di mesotelioma pleurico riguardano dieci lavoratori dello stabilimento, ovvero: FE., in servizio dal 1956 al 1984, deceduto nel 2008; E.F., in servizio dal 1970 al 1984, deceduto nel 2010, L.C., in servizio dal 1961 al 1980, deceduto nel 2007; DM., in servizio dal 1940 al 1975, deceduta nel 2008, M.G., in servizio dal 1962 al 1979, deceduto nel 2008, C. G., in servizio dal 1961 al 1979, deceduto nel 2009; L. L., in servizio dal 1947 al 1975, deceduto nel 2008, F. Ma., in servizio dal 1959 al 1973, deceduto nel 2003; D. S., in servizio dal 1949 al 1986, deceduto nel 2010, E.MA., persona offesa del reato di lesioni personali, in servizio dal 1946 al 1981, poi deceduto nel 2012. I casi di mesotelioma pleurico differiscono da quelli di tumore polmonare, perché per i primi non si pone, come per i secondi, un problema di multifattorialità, se non in maniera teorica, essendo il mesotelioma riconducibile principalmente all'esposizione alle fibre di amianto (gli altri fattori di rischio, come la erionite o la fluoro-edenite, sono invero legati a contesti territoriali ben circoscritti).
Per usare l'efficace espressione riportata nella sentenza di legittimità che ha definito il procedimento "Montefibre l" (n. 38991 del 10 giugno 2010 della Sezione Quarta), può dunque affermarsi che il mesotelioma "porta la firma dell'amianto". Se questo dato è pacifico, viceversa è controverso il momento dell'insorgenza della patologia: sul punto, il Tribunale, pur partendo dal condiviso assunto secondo cui all'aumentare della dose di amianto inalata aumenta anche la frequenza dei casi in cui la malattia si manifesta, ha tuttavia evidenziato che non esiste analoga certezza sull'esistenza di una simile relazione tra durata di esposizione al fattore di rischio e incremento di malattia, non essendo cioè provato che più lunga è nel tempo l'esposizione all'agente cancerogeno, più alta è la frequenza della malattia. Parimenti incerta, ad avviso del Tribunale, sarebbe inoltre l'individuazione del momento in cui la patologia tumorale si manifesta, non essendo cioè noto quando abbia inizio il cd. periodo di induzione, che si avvia al verificarsi del primo evento biomolecolare del processo di trasformazione maligna, dovendosi escludere che tale avvio abbia luogo invariabilmente al primo istante di esposizione alla prima dose di cancerogeno, esistendo un periodo di esposizione dalla durata non determinabile, durate il quale l'induzione del tumore non è ancora iniziata.
Dunque, non potendosi stabilire quando il singolo lavoratore si è ammalato, risulta impossibile attribuire il singolo evento lesivo alla condotta di ciascun imputato.
Ma, ha aggiunto il Tribunale, pur dando per scontato, ma così non è, che il processo cancerogenetico si fosse avviato all'assunzione della carica societaria del singolo imputato, non sarebbe comunque possibile affermare sia l'esclusiva ipotetica rilevanza causale dei periodi di esposizione precedenti, sia la rilevanza concausale di tutti i periodi di esposizione, anche di quelli successivi all'innesco della patologia. La Corte di appello di Torino, con la prima sentenza del 21 luglio 2015, ha seguito un'impostazione differente, affermando, sulla falsariga delle conclusioni dei consulenti del P.M., che tutte le esposizioni ad amianto susseguitesi nel corso della storia lavorativa di un individuo contribuiscono all'insorgenza delle patologie tumorali da amianto, tra cui il mesotelioma pleurico, con la precisazione che sono ritenute sostanzialmente ininfluenti solo le esposizioni verificatesi durante il periodo di latenza clinica, ovvero nell'intervallo di tempo che separa la comparsa della cellula trasformata in senso maligno che darà origine al clone di cellule neoplastiche e l'esordio clinico che ne è costituito, periodo stimato in 10 anni, ovvero quelli che precedono la diagnosi clinica, di regola effettuata quando si manifestano i sintomi della malattia, che rimane per lungo tempo asintomatica.
Sono viceversa rilevanti le esposizioni intervenute durante il periodo di induzione, i cui confini coincidono, a monte, con il momento delle iniziali esposizioni al fattore cancerogeno e, a valle, con la trasformazione, determinata dalla prolungata esposizione al fattore cancerogeno dell'organismo, i cui meccanismi di difesa sono stati soverchiati, della cellula capostipite in senso compiutamente maligno, cioè allorquando il tumore ha avuto il suo principio con evoluzione progressiva e irreversibile, per cui l'eventuale prosecuzione dell'esposizione diventa irrilevante. Per individuare il periodo di induzione, avendo contezza dell'epoca della diagnosi certa di malattia, occorre quindi risalire a ritroso nel tempo di almeno 10 anni, con la conseguenza che contribuiscono all'insorgenza delle malattie tutte le esposizioni antecedenti il periodo di latenza clinica, subite durante i periodi di lavoro.
In definitiva, superata la tesi della cd. "dose-killer", che attribuisce importanza alla esposizione iniziale, è stata accolta dai giudici di secondo grado la cd. "teoria "multistadio", secondo cui l'insorgenza della malattia è il frutto di un lungo processo innescato dalla perdurante esposizione al fattore di rischio, con la precisazione che l'insorgenza biologica separa le esposizioni causalmente e cumulativamente efficaci da quelle che non lo sono più, posto che, una volta completato il periodo di induzione, la malattia assume un andamento irreversibile. Ora, il percorso motivazionale della Corte di appello è stato censurato nella sentenza rescindente, nella quale è stato osservato che la Corte territoriale aveva "creato" il dato scientifico, motivando in contraddizione con le risultanze processuali, atteso che, come rilevato dal Tribunale, tutti gli esperti, sia quelli introdotti dal P.M., sia quelli proposti dalle difese, avevano concordato sulla impossibilità allo stato di individuare anche solo il periodo o l'arco temporale, a partire dall'inizio dell'esposizione lavorativa, in cui possa dirsi avvenuto l'avvio del processo; in ogni caso la Corte di appello non aveva esposto le ragioni che le hanno fatto preferire una tesi piuttosto che l'altra rispetto al consenso da ciascuna.
Dunque, assodato che l'esposizione continuativa, anche se indiretta, all'amianto è un sicuro fattore cancerogeno, non è sufficiente sostenere, rispetto all'unico lavoratore non tabagista, che questi si sarebbe potuto comunque ammalare di tumore al polmone per un'altra causa, essendo necessario, al fine di escludere l'incidenza del concreto e conclamato fattore di rischio, individuare una possibile origine alternativa della malattia che possa aver avuto una qualche interferenza, anche eventualmente mediante dati statistici comparativi rispetto a persone che si siano trovate nella stessa condizione in un analogo contesto spazio-temporale. Nella valutazione dei singoli casi, dunque, l'apparato motivazionale della sentenza impugnata presenta evidenti lacune argomentative rispetto ai temi probatori introdotti nel processo e a quelli veicolati dalla sentenza rescindente, nella quale era stato sì richiesto di accertare se la legge di copertura sulla valenza concausale degli agenti nocivi asbesto e fumo avesse carattere universale o probabilistico, ma con la precisazione di verificare comunque, ove l'effetto sinergico si realizzi solo in una certa percentuale, che la malattia descritta rientri in quella percentuale, il che impone un approfondimento non solo delle condizioni dell'ambiente di lavoro e del livello delle esposizioni, ma anche dell'incidenza concreta del fattore alternativo costituito dal tabagismo della gran parte dei lavoratori, anche se non di tutti.
Del resto, l'esclusione del carattere universale della legge di copertura non può valere di per sé a fermare l'accertamento sul nesso causale, avendo questa Corte, con la nota sentenza "Franzese" (Sez. Un. n. 30328 del 10/07/2002, Rv. 222138), ma anche con la successiva elaborazione giurisprudenziale (cfr. ex plurimis, Sez. 4, n. 17523 del 26/03/2008, Rv. 239542, Sez. 4, n. 33311 del 24/05/2012, Rv. 255585, Sez. 3, n. 5460 del 04/12/2013, dep. 2014, Rv. 258847 e Sez. 4, n. 9695 del 12/02/2014, Rv. 260159), affermato il condiviso principio secondo cui il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo, ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o anche con minore intensità lesiva.
Dunque, nulla esclude che anche coefficienti medio - bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico - legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di causalità tra condotta ed evento. Pertanto, escluso che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un omissis
Nel rispondere poi ai quesiti sollecitati dalla difesa, i periti osservavano che per il mesotelioma, come per qualsiasi patologia neoplastica, non era possibile definire nel singolo individuo i momenti iniziali e finali della fase di induzione.
Veniva altresì ribadita dai periti la relazione tra esposizione ad amianto e anticipazione del tempo di insorgenza del mesotelioma, assumendo rilievo causale tutte le esposizioni subite dagli individui nei vari periodi lavorativi.
Nel corso del loro esame dibattimentale, i periti precisavano poi che si vi è consenso generale sul fatto che le uniche esposizioni non rilevanti sono quelle subite negli ultimi dieci anni prima dell'insorgenza della malattia, fermo restando che nel periodo antecedente rilevano sia la durata che l'intensità dell'esposizione. Ora, i giudici del rinvio, pur recependo la tesi dei periti sulla rilevanza causale di tutte le esposizioni, anche di quelle successive alla prima e fino al completamento della fase di induzione, si sono tuttavia discostati dalle conclusioni dei dr. Consonni e Mensi circa la riconducibilità agli imputati delle esposizioni ad amianto rilevanti. Premessa l'impossibilità di stabilire il momento di innesco della malattia, a partire dal quale l'esposizione del soggetto passivo non assume più incidenza causale, e premesso altresì che le stime più estreme per l'insorgenza biologica del mesotelioma vanno da 4,5 a 22 anni prima della diagnosi clinica, con un accordo generale nel collocare il tempo in circa 10 anni, la Corte territoriale ha evidenziato che non può affermarsi con certezza che le esposizioni ad amianto riconducibili all'assunzione di responsabilità degli imputati abbiano assunto incidenza causale tale da poter rispondere negativamente alla domanda se l'evento si sarebbe realizzato ugualmente anche in assenza della condotta incriminata.
In tal senso, la Corte di appello, partendo dal presupposto che nessuna delle posizioni di responsabilità era inquadrabile nei 10 anni antecedenti alla diagnosi, richiamava il modello di Price e Ware utilizzato dal consulente del P.M. per valutare il peso delle diverse componenti dell'esposizione corrispondenti ai singoli periodi di carica degli imputati e in base ad esso analizzava i singoli decessi, giungendo alla conclusione che le percentuali del peso proporzionale delle esposizioni durante i periodi di carica degli imputati erano inferiori al 20%, ad eccezione di quelle relative ai lavoratori F. e FE., il primo esposto dal 1954, il secondo dal 1966; quanto a F., posto che la percentuale complessiva di rischio addebitabile agli imputati era pari al 21,7%, veniva rilevato che la prima posizione di garanzia era quella assunta da M.G. nel 1972, intervenuta dopo che il lavoratore era stato esposto sia presso la "Montefibre" che presso altre società per ben 16 anni. Quanto a FE., premesso che la maggior parte degli imputati assumeva posizioni di garanzia dopo che lo stesso era stato esposto già da almeno 10 anni, veniva osservato che, rispetto ai due imputati in carica in epoca precedente (M.G. dal 1972 al 1973 e Q.B. dal novembre 1975 al novembre 1976), le percentuali di rischio a loro addebitabili erano pari, rispettivamente, all'11%e al 5,1%, percentuali inappaganti ai fini della sussistenza della causalità commissiva. Ad avviso della Corte di appello, quindi, ritenere che, in assenza delle esposizioni riconducibili agli imputati, la probabilità di contrarre un mesotelioma sarebbe stata ridotta non vale a far ritenere dimostrata, con alta probabilità logica, la qualità di antecedente causale della condotta attribuita agli imputati rispetto all'evento, anche con riferimento ai lavoratori F. e FE., non potendo sostenersi con sufficiente certezza che, eliminata la condotta, l'evento non si sarebbe realizzato. Lo stesso discorso valeva per il dipendente MA., esposto sin dal 1946, non potendosi pure per lui stabilire con sufficiente certezza la riconducibilità agli imputati delle esposizioni rilevanti ai fini della contrazione della malattia.
Orbene, anche in relazione alla valutazione dei decessi da mesotelioma e alle lesioni, contestate con riferimento al lavoratore MA., la motivazione della sentenza impugnata non si sottrae alle censure sollevate nei ricorsi.
Innanzitutto, deve premettersi che non è compito di questa Corte esprimersi sulla maggiore o minore plausibilità di questa o quella tesi scientifica sui tempi di insorgenza del mesotelioma pleurico o sui confini delle fasi di induzione o latenza. Come è stato ribadito nella sentenza rescindente, nei procedimenti penali aventi ad oggetto le conseguenze sulla salute dell'uomo dell'esposizione professionale all'amianto, si sono confrontate varie tesi, tra cui principalmente due, ovvero la tesi della trigger dose e quella della dose-correlata; semplificando, secondo la prima tesi, la malattia insorge per effetto di una "dose killer", risultando irrilevanti sul piano eziologico le ulteriori fibre eventualmente inalate, mentre la seconda tesi, detta anche "teoria multistadio" dell' "effetto acceleratore", descrive l'evoluzione biologica della malattia ricostruendola non come ictus, ma come un processo all'interno del quale si colgono distinti sub-eventi, raccolti nel periodo di induzione. La distinzione tra le due teorie attiene in sostanza alla quantità di fibre di amianto necessaria a produrre l'insorgenza della patologia, tema questo che è tuttavia distinto da quello della cronologia dello sviluppo della malattia, che rileva quando, durante il periodo di esposizione rilevante, sia necessario distinguere sub-periodi in ragione dell'avvicendarsi di diversi garanti, perché in tal caso è necessario poter affermare che, proprio nel sub-periodo in considerazione, si è determinata l'insorgenza o eventualmente l'evoluzione ulteriore del processo morboso.
Ora, in ordine all'individuazione del modello di spiegazione causale, deve ribadirsi che non può certo valere l'auctoritas delle pronunce di legittimità, atteso che il precedente giurisprudenziale non costituisce il nomos in tema di sapere scientifico, nel senso che il ruolo della Corte di cassazione non è quello di prendere posizione sulla maggiore validità di una teoria scientifica rispetto all'altra, ma di verificare se, nel processo, risulta metodologicamente corretta la valutazione operata dal giudice di merito, ovvero se può ritenersi razionale la verifica del nesso causale.

Tanto premesso, occorre innanzitutto prendere atto che i modelli di spiegazione causale dell'insorgenza del mesotelioma seguiti dai giudici di merito (tenendo da parte in tal caso la sentenza annullata dalla Corte di cassazione) non risultano coincidenti, posto che mentre il Tribunale è giunto alla conclusione secondo cui non può ritenersi certo che la durata dell'esposizione all'amianto aumenti il rischio di mesotelioma, il giudice del rinvio, in ciò recependo le indicazioni dei periti, ha fatto propria la tesi antagonista della rilevanza causale di tutte le esposizioni, anche quelle successive alla prima, fino al completamento della fase di induzione. Nonostante questa diversa impostazione, che invero costituisce il presupposto logico della contestazione accusatoria, la Corte territoriale, tuttavia, non è approdata alle conclusioni formulate dai suoi periti circa la riconducibilità delle morti a tutte le esposizioni avvenute nei periodi in cui gli imputati sono stati in carica, sebbene tali esposizioni fossero riferibili alla lunga fase dell'induzione, fase che vede compiersi al proprio interno una prolungata serie di fenomeni biologici, per il cui completamento è richiesto il decorso di un esteso arco temporale.
Il giudice del rinvio, pur riconoscendo il principio della rilevanza causale di tutte le esposizioni avvenute durante la fase dell'induzione e prima della latenza clinica (ovvero 10 anni prima della diagnosi), ne ha tuttavia ridimensionato l'impatto pratico, richiamando un modello di computo, quello di Price e Ware, che era stato utilizzato dai consulenti della Procura Mirabelli e Oddone, senza considerare però che tale modello era stato valorizzato dai due consulenti ai fini del calcolo della percentuale di rischio nell'ottica della liquidazione dell'indennizzo in sede civile.
Il metodo impiegato dalla Corte territoriale, dunque, attiene non all' "an" della rilevanza eziologica delle singole esposizioni, ma piuttosto al "quantum", in una logica indennitaria non del tutto sovrapponibile alla valutazione del nesso causale. Né può ignorarsi che le conclusioni dei consulenti del P.M. erano coincidenti con quelle dei periti nominati dalla Corte di appello circa l'adozione della cd. "teoria multistadio", risultando il richiamo al modello di Price e Ware operato dai consulenti del P.M. un passaggio dedicato alla risoluzione del diverso problema di come ripartire l'indennizzo tra i responsabili delle esposizioni all'amianto.
Non può sottacersi, in tal senso, che i consulenti Mirabelli e Oddone, al di là del calcolo percentuale enfatizzato dalla Corte territoriale, avevano concluso nel senso di ritenere che, in assenza delle esposizioni all'amianto riconducibili agli imputati, la probabilità di contrarre un mesotelioma nel momento in cui venne diagnosticato alle persone offese non sarebbe stata sostanzialmente modificata solo per i lavoratori L. e DM., mentre sarebbe stata ridotta in misura importante per F. e FE. (del 20% e del 40%) e in misura intermedia per gli altri casi (ovvero dal1'8 al 16%), essendovi stata cioè un'anticipazione nel tempo dell'evento di alcuni mesi per taluni (come Ma., il più giovane tra i casi) o di anni per altre persone offese (ad esempio i lavoratori F., FE., C. e S.).

Il recepimento delle conclusioni degli esperti, in definitiva, risulta compiuto in maniera atomistica dai giudici del rinvio, nel senso che ne sono stati condivisi taluni assunti generali e ne sono stati valorizzati alcuni particolari, senza tuttavia spiegare adeguatamente perché non siano state accolte le loro conclusioni finali. Ora, non c'è dubbio che l'acquisizione della tesi della rilevanza causale di tutte le esposizioni non comporta automaticamente l'affermazione della colpevolezza di tutti i soggetti che hanno avuto ruoli apicali negli anni coincidenti con la fase di induzione, occorrendo in tal senso una valutazione attenta della durata dei singoli periodi di responsabilità, dell'incidenza degli stessi sul ciclo evolutivo della malattia e della storia lavorativa e clinica del singolo dipendente, tenendo presente altresì la tipologia dei comportamenti omessi dai soggetti investiti di ruoli operativi, dovendo cioè il giudice valutare se le condotte doverose, invero puntualmente descritte nelle imputazioni, avrebbero o meno, ed eventualmente in che misura, scongiurato l'evento lesivo o almeno ritardato significativamente il manifestarsi. Sul punto, peraltro, deve osservarsi che la sentenza di legittimità che ha definito il processo "Montefibre l" (ovvero la n. 38991 del 10 giugno 2010 della Quarta Sezione), oltre a rimarcare che gli amministratori delegati e i componenti del consiglio di amministratore hanno assunto una posizione di garanzia, idonea a renderli responsabili delle conseguenze relative al mancato rispetto dell'igiene sul lavoro (e lo stesso discorso è stato ripetuto per i direttori di stabilimento, anch'essi chiamati ad attuare e a vigilare sulle condizioni di sicurezza e igiene dell'opificio), ha ribadito il condiviso principio, invero già affermato da Sez. 4, n. 27959 del 05/06/2008, Rv. 240519), secondo cui, in caso di successione di posizioni di garanzia, in base al principio dell'equivalenza delle cause di cui all'art. 41 cod. pen., il comportamento colposo del garante sopravvenuto non è sufficiente ad interrompere il rapporto di causalità tra la violazione di una norma precauzionale operata dal primo garante e l'evento, quando tale comportamento non abbia fatto venir meno la situazione di pericolo originariamente determinata.
Tale profilo valutativo non risulta sufficientemente affrontato nella sentenza impugnata, nella quale non è stato spiegato in che senso e in che misura le esposizioni alle fibre di amianto dei lavoratori nei singoli periodi di responsabilità siano state eziologicamente irrilevanti nella formazione progressiva delle malattie. In definitiva, la Corte territoriale, una volta superata la ratio decidendi della pronuncia assolutoria di primo grado, affermando cioè, a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, che hanno valenza causale ai fini della contrazione del mesotelioma tutte le esposizioni verificatesi nella fase di induzione, ovvero fino al decennio antecedente la diagnosi clinica, avrebbe dovuto illustrare le ragioni per cui le esposizioni avvenute nei periodi in cui gli imputati erano in carica erano eziologicamente irrilevanti, risultando generica e comunque non esauriente l'affermazione secondo cui "le esposizioni più remote assumono un peso maggiore nel determinismo della malattia", non comprendendosi in che termini le esposizioni successive alle prime abbiano minore efficienza causale e dovendo in ogni caso tale postulato, da un lato, essere coordinato con il dato della lunghezza dei tempi di insorgenza della malattia e, dall'altro, essere calato nella dimensione specifica della storia clinica di ciascun lavoratore e della durata dei periodi di responsabilità, non potendosi sottacere che i relativi dati non sono tra loro omogenei, sia per quanto riguarda ad esempio la posizione dei lavoratori F. e FE., sia per quanto concerne le distinte epoche in cui si sono avvicendati gli odierni imputati. Anche rispetto ai decessi da mesotelioma pleurico, ad eccezione di quello riguardante G.M., si impone quindi l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Torino per nuovo esame.
La posizione del lavoratore G.M. merita infatti un discorso a parte, posto che in tal caso sono stati gli stessi periti a esprimere dubbi sulla causa della morte, stante la mancata conferma istologica della diagnosi di mesotelioma. Alla luce di tale accertamento, non seriamente smentito aliunde, correttamente i giudici del rinvio sono pervenuti all'assoluzione degli imputati con riferimento al reato contestato in danno di G.M., perché il fatto non sussiste, statuizione questa che non è stata specificamente censurata nei ricorsi, anche rispetto al suo presupposto, per cui, limitatamente al decesso di G.M., i ricorsi del Procuratore generale e delle parti civili devono essere dichiarati inammissibili.

Considerazioni riepilogative



12. Riassumendo le considerazioni sin qui esposte, deve premettersi che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti di V.L., perchè i reati sono estinti per la sopravvenuta morte dell'imputato. Quanto ai decessi scaturiti da tumore polmonare, la sentenza impugnata deve essere invece annullata nei confronti dei restanti imputati: senza rinvio, agli effetti penali, limitatamente ai decessi di C.B.,  L.M. e DS.B., essendo i reati estinti per prescrizione, con rinvio, agli effetti civili, al giudice civile competente per valore in grado di appello; in ordine agli altri lavoratori deceduti per tumore al polmone, la sentenza va annullata invece con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Torino.
Quanto ai decessi dovuti al mesotelioma pleurico, i ricorsi del Procuratore generale e delle parti civili devono essere dichiarati inammissibili limitatamente alla morte di Mario G.M., mentre, rispetto ai decessi degli altri lavoratori, la sentenza deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Torino, cui è demandato il regolamento tra le parti delle spese del presente giudizio di legittimità, dovendosi solo precisare che, rispetto al reato di lesioni colpose contestato in danno di P.L. ed E.MA., già la sentenza rescindente ha verificato il maturare del termine di prescrizione, per cui, .. almeno agli effetti penali, non si procede più in ordine a tali specifiche condotte. Il giudizio del rinvio dovrà quindi nuovamente esaminare, sia rispetto ai tumori polmonari che ai casi di mesotelioma pleurico, il tema del nesso di causalità tra le esposizioni alle fibre di amianto e le malattie professionali riscontrate, tenendo conto naturalmente delle differenti problematiche che pongono i casi affrontati.
Nell'accertamento del legame eziologico tra le condotte degli imputati e l'insorgere delle patologie, il giudice del rinvio dovrà confrontarsi adeguatamente con tutte le evidenze scientifiche disponibili, previa verifica non solo dell'attendibilità e della condivisione degli studi che le sorreggono, ma anche del grado di indipendenza e professionalità degli esperti che hanno veicolato il sapere tecnico nel processo.
Nel caso in cui dovesse essere risolto positivamente il quesito sulla configurabilità del nesso causale (restando salva ovviamente la facoltà della Corte territoriale di acquisire, ove ritenuto indispensabile, altri elementi probatori), il giudice del rinvio dovrà porsi poi l'ulteriore problema dell'eventuale sussistenza dell'elemento soggettivo, profilo questo chiaramente non esplorato nella sentenza impugnata, per l'evidente priorità logica che assume la verifica del rapporto di causalità.

 

P.Q.M.
 



Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di V.L., perché i reati sono estinti per morte dell'imputato. Annulla senza rinvio, agli effetti penali, la sentenza impugnata nei confronti di C.L., M.G., G.P., Q.B. e V.C., perché, limitatamente ai decessi di C.B., L.M. e DS.B., i reati sono estinti per prescrizione e, con rinvio, agli effetti civili, al giudice civile competente per valore in grado di appello; dichiara inammissibili i ricorsi del Procuratore generale e delle parti civili nei confronti di C.L., M.G., G.P., Q.B. e V.C., limitatamente al decesso di G.M.. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di C.L., M.G., G.P., Q.B. e V.C., limitatamente ai residui reati di omicidio colposo, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Torino, alla quale demanda il regolamento tra le parti delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso il 07/10/2020

Il Presidente Vito Di Nicola