Cassazione Penale, Sez. 4, 29 marzo 2021, n. 11686 - Caduta dal balcone privo di parapetto. Responsabilità del datore di lavoro di fatto e della Srl: irrilevante che l'imputato agisse da mero prestanome del padre


 

 

Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: CENCI DANIELE Data Udienza: 15/12/2020

 

Fatto
 

1. La Corte di appello di Caltanissetta il 29 novembre 2018 ha integralmente confermato la sentenza con cui il Tribunale di Gela il 19 aprile 2018, all'esito del dibattimento, ha riconosciuto E.C. responsabile del reato di lesioni colpose, con violazione della disciplina antinfortunistica, nei confronti di L.S., commesso il 7 luglio 2011 (così corretto l'originario capo di imputazione nel dibattimento di primo grado), e la s.r.l. "Tetto energia'' responsabile dell'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies, comma 3, del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in relazione all'infortunio che ha coinvolto il lavoratore indicato, in conseguenza condannando l'imputato, con le attenuanti generiche, alla pena di giustizia, condizionalmente sospesa, oltre al risarcimento dei danni alla costituita parte civile, e condannando l'ente alle sanzioni ritenute di giustizia.

2. Il fatto, in estrema sintesi, così come concordemente accertato dai giudici di merito.
2.1. L.S., dipendente con mansioni di operaio della s.r.l. "Tetto Energia", stava svolgendo attività lavorative propedeutiche alla verniciatura di un tetto in legno, cioè apposizione di teli in plastica sui muri e sui telai delle porte­finestre di una terrazza al secondo piano di un immobile, quando, perduto l'equilibrio o inciampato, è precipitato dal balcone, che era privo di parapetto o di qualsiasi protezione, nel vuoto per circa tre metri, atterrando sul balcone del piano sottostante e così riportando lesioni guarite dopo più di quaranta giorni.
2.2. E' emerso che era la prima volta che l'operaio si recava in quel luogo, luogo che non conosceva, che non sapeva della mancanza di parapetto, che era stato inviato in loco non già da E.C., legale rappresentante della s.r.l. "Tetto Energia", ma dal padre G. (deceduto due mesi dopo l'incidente), il quale, di fatto, come riferito da più testimoni, era il vero imprenditore, assumendo tutte le decisioni aziendali.
Si è constato che E.C., nella qualità formale di legale rappresentante della società, non aveva conferito deleghe in materia di sicurezza, sicché doveva ritenersi garante della sicurezza dei dipendenti; che non erano state predisposte nel cantiere cautele atte ad evitare la precipitazione (art. 146, comma 3, del d. lgs. 9 aprile n. 2008, n. 81) e che il lavoratore non era stato formato né informato (artt. 36 e 37 del d. lgs. n. 81 del 2008).
La posizione di garanzia attribuita all'imputato è quella di datore di lavoro, amministratore unico e responsabile del servizio di prevenzione e protezione della società.
E' stato ritenuto irrilevante che l'imputato agisse da mero prestanome del padre, ai sensi dell'art. 299 del d. lgs. n. 81 del 2008; richiamata giurisprudenza di legittimità, tenuto conto che dall'istruttoria è emerso che comunque E.C., seppure da più testimoni descritto come giovane ed inesperto, si recava in cantiere, ove lavorava ed impartiva disposizioni, si è affermato che «la circostanza che accanto all'imputato vi fosse la figura del padre, quale soggetto più esperto, aggiungerebbe profili di responsabilità ascrivibili in capo a coloro i quali, accanto al datore di lavoro, avessero di fatto impartito e gestito l'attività, senza escludere, comunque la responsabilità originaria del datore di lavorio [ ...] a nulla rilevando la circostanza che, in concreto , [ ...] l'imputato non si trovasse a Gela ma a Rimini per partecipare ad un corso di formazione. A tale riguardo, infatti, permane la responsabilità del datore, nella qualità di garante per la sicurezza dei lavoratori, ancorché non presente sui luoghi di lavoro, dovendo individuare in tal caso un soggetto responsabile preposto alla vigilanza e al controllo della normativa antinfortunistica. E' emerso, invece, che presso il cantiere ove si era verificato l'incidente, non vi fosse né l'imputato né il padre e che, pertanto, non vi fosse nessuno a controllare e a vigilare sulla sicurezza dei luoghi di lavoro e sul rispetto della normativa antinfortunistica» (così alle pp. 9- 10 della sentenza di primo grado).
I giudici di merito hanno concordemente escluso l'abnormità della condotta del lavoratore, che - si è sottolineato - stava svolgendo mansioni proprie; ed hanno ritenuto prevedibile il rischio di caduta dall'alto ove si lavori su di una terrazza che è priva di protezioni verso l'esterno.
2.3. Quanto, poi, alla responsabilità amministrativa. della società, si è ritenuto: che l'ente era privo di un adeguato piano di formazione e di informazione dei lavoratori sul rischio nel luogo di lavoro; che non erano stati attuati i presidi di sicurezza necessari nel caso di specie; che mancava l'adozione e la efficace attuazione, prima del fatto, di un modello di gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi; ché difettava un sistema di vigilanza e di controllo sul rispetto della normativa antinfortunistica; che il vantaggio per la società è da individuare sia nella omissione delle doverose attività di formazione e di informazione sia nella mancata apposizione delle cautele contro le precipitazioni nel vuoto.

3. Ciò posto, ricorrono per la cassazione della sentenza sia E.C. sia la s.r.l. "Tetto energia ", tramite un unico atto di impugnazione redatto dal medesimo difensore di fiducia, affidandosi a tre motivi, con i quali denunziano violazione di legge.

3.1. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la ritenuta violazione degli artt. 125, comma 3, 187, 192, 533, comma 1, cod. proc. pen. e 590, comma 1, cod. pen.
Ad avviso della difesa, non si sarebbe potuto ritenere l'imputato responsabile del reato contestato, sia per insussistenza del rapporto di causalità tra condotta omissiva ed evento sia sotto il profilo della prevedibilità dell'evento stesso e della sua rimproverabilità per colpa.
3.1.1. Richiamata giurisprudenza di legittimità, si ritiene che nel reato omissivo improprio il rapporto tra causalità ed evento non possa ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma debba essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica fondato sulle particolarità del caso concreto.
Essendosi passati nel campo degli infortuni sul lavoro da un modello "iperprotettivo" ad un modello "collaborativo", un comportamento del lavoratore che, anche ove non abnorme, appaia comunque imprevedibile a priori rispetto alla direttive ricevute, sarebbe da ritenersi idoneo ad interrompere il nesso causale tra condotta ed evento lesivo: si tratterebbe di comportamento idoneo a recidere il nesso di causalità, ai sensi dell'art. 41 cod. pen, siccome - ad avviso della difesa - causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento. Ciò in forza - si sottolinea - del principio di responsabilità per fatto proprio colpevole e del criterio di imputazione di cui al comma 2 dell'art. 4 del cod. pen. (c.d. clausola di equivalenza).
Dal contenuto di alcune testimonianze (si riportano per stralcio nel ricorso le dichiarazioni di Gabriele L. e di Alessandro R.) ed anche alla stregua di alcuni passaggi della deposizione della stessa persona offesa, si desumerebbe che la scelta operativa di L.S. era stata unilaterale, imprevista ed imprevedibile, ed era consistita nel recarsi all'esterno della terrazza, anziché mantenersi nella parte interna della stessa, ove, a ben vedere, non sarebbe incorso nel rischio di precipitazione dall'alto.
Avendo, invece, disatteso le direttive ricevute ed avendo posto in essere una condotta frutto di una sua scelta del tutto autonoma, il comportamento di L.S. avrebbe reciso radicalmente il nesso di causalità tra condotta del datore di lavoro (anche per l'ipotesi che la si voglia ritenere commessa in violazione di un qualche obbligo giuridico) ed evento dannoso verificatosi.
3.1.2. In ogni caso, si sarebbe dovuta escludere la responsabilità dell'imputato sotto il profilo della rimproverabilità psicologica (elemento soggettivo), anche in considerazione dell'assenza, in capo ad E.C., dell'obbligo giuridico di impedire l'evento, cioè della posizione di garanzia rispetto al bene giuridico tutelato, essendo lo stesso un mero prestanome ed avendo l'istruttoria dimostrato che il vero dominus era il padre G., il quale aveva ed esercitava i poteri di gestione e di vigilanza. Peraltro, il giorno dell'infortunio l'imputato non era in cantiere ma nella lontanissima Rimini per partecipare ad un corso di formazione, come ampiamente dimostrato tramite documenti (fattura alberghiera ed attestato di partecipazione a corso di aggiornamento) e testimoni (L.S., R. e C.).
Si sottolinea anche che nemmeno dopo la morte del padre il figlio E. aveva avuto un concreto ruolo di gestione e di vigilanza, essendo la titolarità passata all'altro fratello, Gi..
L'imputato sarebbe stato condannato, in realtà, per una mera responsabilità di tipo oggettivo e la sentenza impugnata avrebbe eluso i temi posti al riguardo con l'atto di appello, violando le regole di giudizio di cui agli artt. 187e 192 cod. proc. pen. e dell' "oltre ogni ragionevole dubbio" e dei principi, anche di rango costituzionale, che regolano il processo penale (i.e.: presunzione di innocenza dell'imputato, onere della prova in capo all'accusa, regola di giudizio in caso di prova insufficiente o inadeguata, obbligo di motivazione delle decisioni).
3.2. Mediante l'ulteriore motivo si censura ulteriormente la ritenuta violazione degli artt. 125, comma 3, 187, 192, 533, comma 1, cod. proc. pen. e 590, commi 1 e 6, cod. pen. in relazione alla omessa riqualificazione del fatto nel reato di lesioni semplici e della omessa constatazione da parte dei giudici di merito dell'assenza della necessaria condizione di procedibilità.
Attestando il referto del 9 luglio 2011 del Pronto Soccorso dell'Ospedale trenta giorni, la durata della malattia sarebbe inferiore a quaranta giorni e, mancando la querela, si sarebbe dovuta adottare sentenza di proscioglimento.
La Corte di appello non si sarebbe pronunziata su tale questione, che era stata posta con il secondo motivo di appello.
3.3. Infine, con l'ultimo motivo sia E.C. sia la s.r.l. "Tetto energia" criticano la ritenuta violazione degli artt. 125, comma 3, 187, 192, 533, comma 1, cod. proc. pen. e 25-septies del d. lgs. n. 231 del 2001 in relazione al reato di cui all'art. 590, comma.3, cod. pen.
Si assume che, in conseguenza di tutte le considerazioni svolte ai punti precedenti, essendo insussistente il reato di lesioni colpose sarebbe, per l'effetto, insussistente anche il contestato illecito amministrativo.
Anche tale aspetto, evidenziato nell'impugnazione di merito con il terzo motivo, sarebbe stato trascurato dalla Corte di appello.
Si domanda, dunque, l'annullamento della sentenza impugnata.
4. Il Procuratore Generale della S.C. nelle proprie conclusioni scritte del 26 novembre 2020, rassegnate ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.

 

Diritto




1.I ricorsi sono manifestamente infondati, per le seguenti ragioni.
Va premesso che l'atto di impugnazione è la testuale riproposizione dell'appello, con minimi adattamenti, con la sola aggiunta di alcune, generiche, considerazioni (tra p. 8 e p. 10), considerazioni che si sono riassunte alla fine del punto n. 3.1.2. del "ritenuto in fatto" (in estrema sintesi: l'imputato sarebbe stato condannato, in realtà, per responsabilità oggettiva; la sentenza impugnata avrebbe eluso i temi posti al riguardo con l'atto di appello, violando le regole di giudizio di cui agli artt. 187 e 192 cod. proc. pen. e dell' "oltre ogni ragionevole dubbio" e dei principi, anche di rango costituzionale, che regolano il processo penale, cioè presunzione di innocenza dell'imputato, onere della prova in capo all'accusa, regola di giudizio in caso di prova insufficiente o inadeguata; obbligo di motivazione delle decisioni).
1.1. Quanto, in particolare, al primo motivo, si osserva quanto segue.
Le due decisioni di merito vanno lette congiuntamente, integrandosi a vicenda, secondo tradizionale insegnamento della S.C., da cui non vi è ragione alcuna di discostarsi: infatti, «Il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile» (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosina, Rv. 209145-01; in conformità, tra le numerose altre, Sez. 6, n. 23248 del 07/02/2003, Zanotti ed altri, Rv. 225671-01; Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano ed altri, Rv. 224079-01; Sez. 3, n. 4700 del 14/02/1994, Scauri, Rv. 197497-01; più di recente, v. Sez. 5, n. 14022 del 12/01/2016, Genitore e altro, Rv. 266617-01).
Ebbene, in fatto, la ricostruzione svolta nella doppia conforme appare logica e non fondata su di un travisamento, peraltro nemmeno denunciato, delle prove: i giudici di merito hanno compiutamente ricostruito la totale assenza di formazione e di informazione del lavoratore infortunato e la mancata predisposizione di parapetti per le aperture che davano verso l'esterno.
In diritto, quanto alla asserita veste di mero "prestanome" di E.C., lo stesso - siccome legale rappresentante - è, comunque, destinatario degli obblighi di protezione antinfortunistica, come ritenuto correttamente dalla Corte di merito, conformemente al costante all'insegnamento di legittimità (Sez. 3, n. 2580 del 21/11/2018, Slabu, Rv. 274748-01; Sez. 3, n. 17426 del 10/03/2016, Tornassi, Rv. 267026-01; Sez. 4, n. 39266 del 04/10/2011, Fornoni, Rv. 251440-01; Sez. 3, n. 24478 del 23/05/2007, Lalia, Rv. 236955-01; Sez. 3, n. 28358 del 04/07/2006, Bonora e altri, Rv. 234949-01).
Principio che vale anche ove il legale rappresentante sia un mero prestanome (Sez. F, n. 42897 del 09/08/2018, C., Rv. 273939-01; Sez. 3, n. 7770 del 05/12/2013, Todesco, Rv. 258850-01; Sez. 3, n. 14432 del 19/09/2013, Carminati, Rv. 258689-01; Sez. 3, n. 25047 del 25/05/2011, Piga, Rv. 250677-01; Sez. 3, n. 22919 del 06/04/2006, Furini, Rv. 234474-01).
Le sentenze di appello e di primo grado escludono, con motivazione che risulta congrua e logica, sia la abnormità sia la imprevedibilità della condotta del lavoratore.
Né può utilmente evocarsi da parte dei ricorrenti la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. (unica aggiunta al contenuto dell'appello, pp. 8-10 del ricorso, per il resto consistente in una assai vaga evocazione di principi generali non calati però nel concreto contesto), in quanto «Poiché la mancata osservanza di una norma processuale in tanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come espressamente disposto dall'art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., non è ammissibile il motivo di ricorso in cui si deduca la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen., la cui inosservanza non è in tal modo sanzionata» (così, ex plurimis, Sez. 4, n. 51525 del 04/10/2018, M., Rv. 274191-02).
1.2. In relazione al secondo motivo di ricorso, i giudici di merito hanno valutato la durata delle lesioni e, conseguentemente, le hanno qualificate come "gravi", sulla base della documentazione medica successiva alla prima prognosi, ciò che è corretto e, anzi, doveroso.
La sentenza non si misura in alcun modo con quanto si legge alla p. 5 della sentenza di appello (ed alle pp. 4-5 di quella del Tribunale) ossia che, a parte l'originario referto, successiva documentazione sanitaria ha attestato la protrazione della malattia per novantacinque giorni.
1.3. Infine, anche in relazione all'ultimo motivo, si prende atto che il ricorso risulta essere reiterativo, aspecifico ed incentrato su di un mero automatismo tra condanna dell'imputato e riconoscimento di responsabilità dell'ente (mentre l'autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella penale della persona fisica che ha commesso il reato-presupposto, prevista dall'art. 8 del d.lgs. n. 231 del 2001, deve essere intesa nel senso che, per affermare la responsabilità dell'ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale, purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del medesimo decreto, tale autonomia operando anche nel campo processuale: Sez. 4, n. 38363 del 23/05/2018, Consorzio Melinda s.c.a., Rv. 274320-03)

2. Pur non essendosi nei gradi di merito verificato alcun evento sospensivo della prescrizione, la situazione è impermeabile all'astratto calcolo della prescrizione (fatto: 7 luglio 2011 + sette anni e sei mesi = 7 gennaio 2019 + 60 gg. per rinvio udienza in primo grado del 12 maggio 2015 = 8 marzo 2019; sentenza di appello del 28 novembre 2018), poiché, non essendosi, in ragione della rilevata inammissibilità, instaurato alcun valido rapporto processuale, non possono rilevarsi cause di non punibilità ex art. 129 cod. proc. pen., quale, appunto, la prescrizione che sarebbe maturata nelle more tra il secondo grado di merito ed il giudizio di legittimità (fondamentale principio risalente a Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266-01; in conformità, v., tra le Sezioni semplici, Sez. 2, n. 28848 del ·08/05/2013, Ciaffoni, Rv. 256463-01; Sez. 4, n. 18641 del 20/01/2004, Tricomi, Rv. 228349-01).
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo ragioni ostative (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 186 del 13 giugno 2000), al versamento a favore della cassa delle ammende, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di una somma che si stima conforme a diritto ed equo individuare in tremila euro.
Infine, non può provvedersi sulla richiesta di liquidazione delle spese irritualmente depositata dal difensore della parte civile in una pausa dell'udienza pubblica (come da attestazione del Cancelliere), siccome in violazione sia delle modalità che del termine di cui al procedimento "cameralizzato" dal legislatore in ragione dell'emergenza sanitaria (art. 23, comma 8, del d.l. n. n. 137 del 2020).

 

P.Q.M.




Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 15/12/2020.