Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 agosto 2021, n. 22591 - Licenziamento per superamento del periodo di comporto e mancata adibizione a mansioni adatte allo stato di salute


 

Presidente: BERRINO UMBERTO
Relatore: PICCONE VALERIA Data pubblicazione: 10/08/2021
 

 

Fatto
 



1. Con sentenza del 13 settembre 2018, la Corte d'appello di Potenza in accoglimento del reclamo proposto dalla G.D.A. Unipersonale S.p.A. avverso la decisione del Tribunale, emessa in sede di piena cognitio a seguito dell'ordinanza sommaria, ha respinto la domanda avanzata da G.S. nei confronti della società volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato alla ricorrente in data 27 gennaio 2016.

1.1. La Corte d'appello, riformando l'iter argomentativo del primo giudice, ha ritenuto che non sussistesse alcuna effettiva cesura fra il periodo di sospensione della prestazione per l'infortunio occorso alla dipendente in data 22 maggio 2015 e quello successivo alla presunta cessazione dello stesso in data 10 novembre 2015, dovendo imputarsi entrambi i periodi al medesimo accadimento storico e non, invece, a due distinti episodi di malattia susseguitisi nel corso dell'anno solare ed entrambi rispettosi del termine di 180 giorni previsto dalla contrattazione collettiva come ritenuto dal Tribunale.
2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso G.S. , affidandolo a tre motivi.
2.1. Resiste, con controricorso, GDA Unipersonale S. p.A..

2.2. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

3. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.
 



Diritto



1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 175 e 177 del CCNL Commercio del 30/03/2015 e la violazione dei principi generali in tema di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e 1371 cod. civ., nonché dell'art. 2110 cod. civ..
1.1. Con il secondo motivo si allega l'omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell'art. 360 comma 1 n. 5 cod. proc. civ., nonché l'omessa pronuncia, la violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato e la conseguente nullità del procedimento ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ., nonché, infine, la violazione degli artt. 2087 e 2110 cod. civ. in relazione alle richieste istruttorie avanzate.
1.2. Con il terzo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., nonché degli artt. 41 e 42 D. Lgs. n. 81 dei 2008 per non aver la Corte correttamente valutato il comportamento dei datore di lavoro in relazione alla scadenza del periodo di comporto ed alla mancata adibizione della dipendente a mansioni confacenti al suo stato di salute.
2. Il primo motivo è infondato e, pertanto, non può essere accolto.

2.1. Giova premettere, con riguardo alla censura proposta, che l'interpretazione del regolamento contrattuale è attività riservata al giudice di merito, pertanto sottratta al sindacato di legittimità, salvo che per il caso della violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale, tuttavia, non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un'altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicchè quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l'interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un'altra (sul punto, ex plurimis, Cass. n. 11254 del 10/05/2018).
Nel caso di specie nessuna violazione delle regole legali di ermeneutica appare commessa dal giudice di secondo grado, né, tampoco, può riscontrarsi una violazione delle disposizioni di contrattazione collettiva di cui al CCNL commercio inerenti ai superamento del periodo di comporto.

La Corte territoriale, invero, proprio muovendo dal dato letterale dell'art.175 del CCNL di settore, secondo il quale, durante la malattia, il lavoratore non in prova ha diritto alla conservazione del posto per un periodo massimo dì 180 giorni, trascorso il quale e perdurando la malattia, il datore di lavoro potrà procedere al licenziamento, ha concluso per l'intervenuto superamento del periodo di comporto da parte della ricorrente e, per l'effetto, per la legittimità del licenziamento intimato.
Val la pena ricordare che l'art. 177 del medesimo CCNL afferma che in caso di infortunio, per la conservazione del posto di lavoro e per la risoluzione del rapporto valgono le stesse norme valevoli in tema di malattia, mentre nella dichiarazione a verbale che segue l'art. 177 citato, si precisa che i periodi di comporto per malattia e per infortunio, agli effetti del periodo massimo di conservazione del posto sono distinti ed hanno la durata di centottanta giorni cadauno.

Orbene, ad avviso di questa Corte, nel ritenere configurabile un unico periodo di sospensione dell'attività lavorativa, determinato dall'originario infortunio del 22 maggio, il giudice di secondo grado si è perfettamente allineato, alla giurisprudenza di legittimità sul punto richiamata dalla stessa parte.

Non v'è dubbio, infatti, che, ai sensi del combinato disposto degli artt. l 75 e 177, nonché della dichiarazione a verbale in calce al predetto art. 177, del c. c.n.I. per i dipendenti delle aziende del settore terziario, ogni periodo di comporto ha durata di 180 giorni, sicché, nel caso in cui all'infortunio succeda, anche senza alcuna soluzione di continuità, un periodo di assenza per malattia, inizia a decorrere, dal momento dell'insorgenza della malattia, un distinto termine di 180 giorni, talchè non può procedersi a licenziamento per superamento del periodo di comporto se non quando sia decorso il periodo considerato (sui punto Cass. n. 26005 del 2015).
Nondimeno, nel caso di specie, la Corte territoriale ha escluso, in fatto, che il secondo periodo di astensione dall'attività lavorativa potesse configurarsi quale nuova malattia, ritenendo, piuttosto, che lo stesso si collegasse direttamente all'infortunio sul lavoro occorso alla dipendente nel maggio 2015.
In particolare, la Corte, dopo aver richiamato tutti i periodi di sospensione dell'attività lavorativa susseguitisi dal 22 maggio all'11 novembre, ha evidenziato come in tale ultima data la dipendente fosse abile al servizio ma inidonea alle mansioni specifiche, talchè la società datrice, cui la G.S. non aveva chiesto l'adibizione a diverse mansioni compatibili con il proprio stato di salute, aveva provveduto a collocarla prima in ferie sino al 17 e poi in permesso non retribuito sino al 22, come da lei accettato, suggerendole, altresì, di consultare il proprio medico.
Secondo la Corte, quindi, la cesura dall'11 al 22 novembre aveva creato una soluzione di continuità con l'infortunio soltanto formale, per la scelta del datore di lavoro come accettata dalla lavoratrice, atteso che, posta la permanenza del medesimo stato patologico, consistente nel trauma distorsivo della spalla destra, lo stesso non poteva che causalmente ricollegarsi all'originario infortunio, con la sola differenza che la sospensione dal lavoro veniva imputata concordemente fra le parti non allo stato patologico, bensì a permessi non retribuiti.
La Corte, quindi, decorsi i centosettantadue giorni di assenza per infortunio dal 22 maggio al 10 novembre e sommato l'ulteriore periodo , ascrivibile, secondo quanto descritto dallo stesso medico competente dell'INAIL, al medesimo trauma distorsivo, ha concluso per il superamento del periodo di comporto e tale opzione interpretativa, di fatto, in quanto del tutto immune da vizi logici, deve ritenersi sottratta al sindacato di legittimità.
3. Il secondo motivo, con cui si denunziano, cumulativamente, l'omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell'art. 360 comma 1 n. 5 cod. proc. civ., nonché l'omessa pronuncia, la violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, la conseguente nullità del procedimento ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ. e la violazione degli artt. 2087 e 2110 cod. civ. deve reputarsi inammissibile.
Esso, infatti, oltre ad essere inammissibilmente formulato in modo promiscuo, denunciando violazioni di legge e vizi di motivazione senza che nell'ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell'uno o dell'altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere estremamente difficoltosa l'operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v., in particolare, sul punto, Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 17931 del 2013; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008), nella sostanza, contesta l'accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta legittimità del licenziamento, criticando sotto vari profili la valutazione dalla stessa compiuta con doglianze intrise di circostanze fattuali, mediante un pervasivo rinvio a richieste probatorie la cui istanza non risulta essere stata correttamente formulata nella fase di merito.
Parte ricorrente, infatti, si duole, nella sostanza, della mancata ammissione di mezzi di prova dalla cui assunzione avrebbe potuto dedursi il comportamento del datore di lavoro violativo del disposto di cui all'art. 2087 cod. civ.
Orbene, costituisce insegnamento costante di questa Corte, ribadito di recente dalle Sezioni Unite (SU n. 34469 del 27/12/2019) il principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell'art.366, comma l, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l'esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità.
Nel caso di specie, parte ricorrente pur affermando di aver formulato determinate richieste istruttorie tempestivamente, tuttavia non ne fecero contezza, mentre, al contempo, la Corte territoriale afferma, con tranquillante certezza, il difetto della stessa allegazione in ordine alla eventuale responsabilità anche colposa del dator di lavoro nella causazione dell'evento lesivo del 22 maggio, evidenziando come l'allegazione della violazione di norme di sicurezza sul posto di lavoro, mancante, avrebbe, invece, condotto al trasferimento dell'intero rischio della prestazione e dell'intero onere probatorio sul datore circa il fatto esimente.
Secondo la Corte - e in questa sede nessun elemento di segno contrario viene addotto da parte ricorrente - soltanto in appello la G.S. avrebbe lamentato la carenza di dotazione strumentale (quale uno scanner portatile) che la avrebbe costretta ad una manovra istintiva e pericolosa, aspetto, questo, del tutto assente nella stessa memoria di costituzione avverso il ricorso in opposizione.

Va, poi, rilevato che, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione delle norme che presiedono al procedimento probatorio non può mai porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest'ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento unico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014
n. 13960): tali aspetti risultano del tutto difettanti nel caso di specie.

Quanto, poi, alla dedotta omessa valutazione di un fatto decisivo, va rilevato che, in seguito alla riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall'art. 54 col, lett. b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti", ne consegue che, al di fuori dell'indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost. ed individuato "in negativo" dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4 ), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per- carenza assoluta del prescritto requisito di validità ( fra le più recenti, Cass. n. 23940 del 2017).
Nessuna omissione di pronunzia può, infine, ipotizzarsi, rilevando che, perché possa parlarsi di omessa pronuncia, secondo la giurisprudenza dì legittìmità (Cfr., ex plurimis, fra le più recenti, Cass. n. 5730 del 03/03/2020) occorre che sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile per la soluzione dei caso concreto, ciò che si verifica quando il giudice non decide su alcuni capi della domanda, che siano autonomamente apprezzabili, o sulle eccezioni proposte, ovvero quando pronuncia solo nei confronti di alcune parti, ipotesi, queste, senza dubbio non ricorrenti nel caso di specie.
4. Il terzo motivo, con cui si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 coa. civ., nonché degli artt. 41 e 42 D. Lgs. n. 81 del 2008 per non aver la Corte correttamente valutato il comportamento del datore di lavoro in relazione alla scadenza del periodo di comporto ed alla mancata adibizione della dipendente a mansioni confacenti al suo stato di salute, è anch'esso da reputarsi inammissibile.
Il ricorso per cassazione richiede, infatti, da un lato, per ogni motivo di ricorso, la rubrica del motivo, con la puntuale indicazione delle ragioni per cui il motivo medesimo - tra quelli espressamente previsti dall'art. 360 cod. proc civ. - è proposto; dall'altro, esige l'illustrazione del singolo motivo, contenente l'esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata, e l'analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (Cass. 19 agosto 2009, n. 18421).
Nel caso di specie, con una formulazione perplessa, parte ricorrente allega un generico comportamento del datore di lavoro, che assume in violazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ.
Nella confusione e promiscuità del motivo va comunque evidenziato che, come rilevato dalla stessa Corte territoriale, nessun obbligo sussiste per il datore di lavoro di comunicare al dipendente l'appropinquarsi della scadenza del comporto, nulla è stato addotto dalla stessa difesa circa l'eventuale disponibilità a diverse mansioni atteso che, secondo quanto accertato dal giudice di secondo grado, soltanto sulla diversa modalità di gestione della sospensione del rapporto si è configurato un accordo fra dipendente e datore di lavoro.
5. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso va respinto.

6. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell'art. 1 -bis dell'articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

 

PQM


La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente, che liquida in complessivi euro 4.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell'art. 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2021.