Categoria: Cassazione civile
Visite: 3409

Cassazione Civile, Sez. Lav., 06 settembre 2021, n. 24024 - Domanda di riconoscimento della rendita da malattia professionale per mesotelioma pleurico


 

 

Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: BUFFA FRANCESCO Data pubblicazione: 06/09/2021
 

Rilevato che

Con sentenza del 2.7.15 la corte d'appello di Brescia, in riforma della sentenza del 2014 del tribunale della stessa sede, ha rigettato la domanda di riconoscimento in favore della signora Z. della rendita per malattia professionale per mesotelioma pleurico, escludendo, all'esito di nuova c.t.u. disposta in appello, l'origine professionale della malattia.

Avverso tale sentenza ricorrono gli eredi della lavoratrice per due motivi, cui resiste l'Inail con controricorso.

Considerato che

Con il primo motivo si deduce -ex art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c.- violazione dell'articolo 144 t.u.i.l.m.p., come sostituito dall'articolo 2 legge 780/75, per avere la sentenza impugnata, peraltro basandosi su dichiarazioni raccolte dal consulente da persona non escussa come teste, escluso l'origine professionale della patologia sofferta dalla ricorrente, senza peraltro individuare causa diversa non professionale rilevante nell'eziologia.
Con il secondo motivo si deduce -ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.- vizio di motivazione della sentenza impugnata per non aver ammesso, in violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., i testi richiesti dalla parte sulla presenza di amianto nella lavorazione.
I motivi possono essere esaminati insieme per la loro connessione: essi sono fondati.             
La sentenza impugnata ha escluso l'origine professionale della malattia del lavoratore in ragione dell'assenza di amianto nelle lavorazioni, attribuendo valore decisivo ad immagini storiche del luogo di lavoro, dalle quali si evinceva che i freni utilizzati negli impianti erano in cuoio e non in amianto.
In particolare, risulta dagli atti che la Corte territoriale ha disposto il rinnovo della CTU in appello, autorizzando il consulente ad acquisire tutta la documentazione necessaria; il CTU, acquisita dal sindaco foto storiche dei telai utilizzati nelle lavorazioni ( dalle quali risultava che le cinghie dei freni dei telai erano in cuoio e non in amianto), acquisite altresì le dichiarazioni di un lavoratore che ha confermato la circostanza, e rilevato che non vi erano nelle lavorazioni altre fonti morbigene, ha concluso per la non esposizione del lavoratore all'amianto. La Corte territoriale, ritenuta processualmente corretta l'acquisizione documentale ("se del caso anche ai sensi dell'art. 421 c.p.c."), disattese le critiche della parte all'acquisizione di dichiarazioni da parte del ctu (ritenendo tali dichiarazioni "non decisive" ed utili "unicamente a corroborare un dato già evidente nella documentazione"), ha quindi fatto proprie le conclusioni del CTU.
Nel caso in oggetto, pacifica la malattia (mesotelioma pleurico, malattia tabellata: v. d.P.R. n. 1124/65 e relativo all. n. 8, nonché d.m. 9.4.2008 del Ministero del lavoro e della previdenza sociale e d.P.R. 13.4.94 n. 336), restava a carico degli aventi causa del lavoratore solo la prova della presenza di amianto nella lavorazione cui era stato adibito.
Ciò posto, va rilevato che il CTU ha escluso che esistesse amianto nel sistema frenante delle macchine tessili in base a fotografie d'epoca fornitegli dal Comune e ad informazioni da lui assunte da un terzo.
Quanto alle prove documentali, il c.p.c. prevede che i documenti siano prodotti dalle parti e ne disciplina il deposito in modo formale attraverso gli artt. 163 n. 5 e 166 c.p.c. (nel rito ordinario), gli artt. 414 e 416 c.p.c. (in quello speciale), nonché mediante gli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c.; nessuna norma prevede, invece, l'acquisizione di documenti da parte del CTU e, quindi, l'ingresso di tali documenti nel processo come allegati all'elaborato peritale. È pur vero, peraltro, che il CTU può essere autorizzato ad acquisire documenti che non siano stati previamente prodotti in giudizio e che l'art. 194 co. 1° c.p.c. prevede che il CTU possa essere autorizzato ad assumere informazioni da terzi e a eseguire piante, calchi e rilievi.
Nel caso, dagli atti risulta che il CTU era stato autorizzato ad acquisire documenti, ma non anche informazioni da terzi: ne deriva un vizio della CTU limitatamente all'acquisizione delle dichiarazioni del terzo (sicché dovrebbe essere escluso anche il valore puramente indiziario, tipico delle prove atipiche, che a siffatte dichiarazioni competerebbe in astratto).
Anche a ritenere il vizio della CTU ora evidenziato non decisivo, come fatto dalla corte territoriale, deve evidenziarsi che l'acquisizione documentale (come detto, nel caso effettuata invece ritualmente) è pur sempre riconducibile all'esercizio del potere istruttorio d'ufficio, come dalla stessa corte territoriale sottolineato.
Ora, a fronte dell'esercizio di tale potere officioso, deve ritenersi doverosa l'ammissione altresì delle prove contrarie ritualmente richieste dalla parte interessata. Infatti, il giudice che abbia esercitato i propri poteri istruttori deve assegnare alle parti un termine per l'eventuale istanza di prova contraria (v. combinato disposto degli artt. 421 co. 2° e 420 co. 6° c.p.c.) o, a maggior ragione, deve disporre la prova contraria già chiesta dalle parti (sempre che non sia inammissibile, irrilevante o sovrabbondante), il che non è avvenuto.
In tal senso, Cass. Ordinanza n. 17683 del 25/08/2020 (Rv. 658623 - 01) ha ribadito di recente che, nel rito del lavoro, stante l'esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, il giudice, anche successivamente al verificarsi delle preclusioni istruttorie ed ove reputi insufficienti le prove già acquisite, può disporre d'ufficio l'ammissione di nuovi mezzi di prova per l'accertamento degli elementi allegati o contestati dalle parti od emersi dall'istruttoria e deve assegnare il termine perentorio per la formulazione della prova contraria (ex artt. 421, comma 2, e 420, comma 6, c.p.c.) se la parte interessata abbia inteso avvalersi del diritto di controdedurre.
La sentenza impugnata non ha indicato alcuna motivazione circa la mancata ammissione delle prove ritualmente richieste (nell'atto introduttivo, poi nell'appello ed all'esito della CTU) dai ricorrenti.
La sentenza impugnata, non essendosi attenuta all'indicato principio, deve dunque essere cassata e la causa va rinviata alla Corte d'appello di Milano, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

 

P. Q. M.
 


La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Milano, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 16 marzo 2021