Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 07 settembre 2021, n. 32964 - Caduta dall'alto durante i lavori di installazione dell'impianto fotovoltaico. Nessuna operatività dell'art. 41, comma 2, cod. pen.


 

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: DI SALVO EMANUELE
Data Udienza: 04/06/2021
 

 

Fatto



1. V.A. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata la pronuncia di condanna emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all'art. 590 cod. pen., perché, in qualità di titolare dell'impresa esecutrice dei lavori di installazione dell'impianto fotovoltaico sulla copertura di un capannone, non predisponendo alcuna misura di protezione per le cadute (sistemi per l'agganciamento delle imbracatura di sicurezza dei lavoratori; parapetti o sbarramenti); predisponendo un piano operativo di sicurezza generico e non pertinente alla natura dei lavori da effettuare; non verificando, prima di procedere all'esecuzione dei lavori, che le coperture avessero resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai; non provvedendo alla formazione dei lavoratori in ordine ai rischi inerenti all'attività lavorativa, cagionava a S.F., che stava operando sulla copertura del capannone industriale e che precipitava da un'altezza di circa 8 metri in conseguenza della rottura dei pannelli di copertura della parte attigua a quella sulla quale stava lavorando, lesioni personali dalle quali derivava una malattia e un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni. In Termini Imerese, il 18 giugno 2012.

2. Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione, poiché non è ravvisabile il requisito della causalità della colpa, non essendovi alcun nesso tra la presunta violazione della regola cautelare e il verificarsi dell'evento. I dispositivi di sicurezza, infatti, come funi o parapetti, erano presenti sul capannone nei giorni precedenti ed erano stati rimossi, ad insaputa del V.A., prima dell'evento, poiché si erano conclusi i lavori sulla sommità dell'immobile. Comunque i dispositivi di sicurezza, anche se fossero stati presenti il 18 giugno 2012, non avrebbero evitato la caduta del lavoratore, che decise autonomamente e senza alcuna valida motivazione tecnica di uscire dal carrello elevatore, attraversare il tetto del capannone interessato ai lavori e scavalcare il muretto, di quasi un metro, che divideva tale edificio da quello attiguo, su cui non si doveva effettuare alcun lavoro, precipitando, dopo aver percorso alcuni metri, e sfondando la copertura di fibrocemento. Al momento dell'evento il lavoratore non stava affatto svolgendo i compiti assegnatigli dal V.A., poiché come da cronoprogramma e come affermato dal teste F., il dipendente avrebbe dovuto soltanto, in tutta sicurezza, rimanendo all'interno del carrello elevatore, connettere i cavi che pendevano sul prospetto del capannone alle cassette di derivazione ivi presenti anziché passeggiare, senza alcuna necessità tecnica, sul tetto dell'altro capannone: distante dal luogo di lavoro e interessato da alcuna attività lavorativa. Dunque il lavoratore, al quale erano stati messi a disposizione tutti i dispositivi di sicurezza, ha tenuto un comportamento abnorme, che ha innescato un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto a quello originario, che era stato valutato correttamente in ordine all'attività da compiere sul solo capannone oggetto dei lavori appaltati e non sull'altro, che era estraneo ad ogni attività. Non è neanche vero che il piano operativo di sicurezza presentasse macroscopiche inadeguatezze, tant'è che i coimputati sono stati tutti assolti.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.


3. Con nota del 14-5-2021, la parte civile INAIL, ha chiesto il rigetto del ricorso.

4. Con requisitoria scritta, in data 13-5-2021, il Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto declaratoria di inammissibilità del ricorso.

5. Con memoria del 24-5-2021, la Difesa ha ulteriormente illustrato le proprie argomentazioni, insistendo per l'accoglimento del ricorso.


 

Diritto



l. Le doglianze formulate non possono trovare ingresso in questa sede. Costituisce infatti ius receptum, nella giurisprudenza della suprema Corte, il principio secondo il quale, anche alla luce della novella del 2006, il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene pur sempre alla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l'oggettiva "tenuta", sotto il profilo logico-argomentativo, e quindi l'accettabilità razionale, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass., Sez. 3, n. 37006 del 27 -9-2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 6 , n. 23528 del 6-6-2006, Bonifazi, Rv. 234155). Ne deriva che il giudice di legittimità, nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. non consente alla Corte di cassazione una diversa interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l'apprezzamento della logicità della motivazione (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 8570 del 14-1-2003, Rv. 223469; Sez. fer. , n. 36227 del 3-9-2004, Rinaldi; Sez . 5, n. 32688 del 5- 7-2004, Scarcella; Sez. 5, n.22771 del 15-4-2004, Antonelli).

2. Nel caso in disamina, il giudice a quo ha evidenziato come i tecnici del servizio di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro avessero appurato che mancavano parapetti destinati a interdire il transito e dispositivi di ancoraggio. D'altronde il teste F., elettricista presente in cantiere nel giorno del sinistro e che coadiuvava S.F. nell'esecuzione dei lavori, aveva dichiarato che, pur dovendo lavorare sulla facciata, a volte era necessario andare sul tetto per prendere i cavi. E la persona offesa aveva precisato che non era possibile operare rimanendo sul carrello elevatore perché "bisognava andare dentro per prendere i cavi che uscivano fuori e metà restavano dentro ". In ogni caso il motivo di spostarsi avrebbe potuto essere correlato ad un'anomalia nei cavi. Ciò dunque smentiva l'asserto secondo cui nel giorno dell'incidente era prevista un'attività che avrebbe potuto essere svolta dagli operai rimanendo a bordo della piattaforma aerea, come risultava anche dalle fotografie. S.F., quindi, come evidenziato dal giudice di primo grado, si trovava, nel contesto di un'operazione rientrante appieno nelle sue mansioni, sul tetto dell'edificio per raccordare i cavi e portarli fino all'estremità per poi collegarli ai quadri elettrici, onde l'aver camminato sulla copertura attigua rappresentava comportamento, anche se negligente, non certo imprevedibile. Di qui la conclusione dei giudici di merito secondo la quale non può ravvisarsi abnormità del comportamento del lavoratore.
L'impianto argomentativo a sostegno del decisum è dunque puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico­ giuridico seguito dai giudici e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo la Corte d'appello preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuta alle proprie conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede.

3. D'altronde, le conclusioni alle quali sono pervenuti i giudici di merito sono del tutto conformi al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui compito del titolare della posizione di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi dell'incolumità fisica intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative, anche nell'ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Il garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia (Cass., Sez. 4., 22-10-1999, Grande, Rv. 214497). Il garante, dunque, ove abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa in ordine all'assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass., Sez. 4, n. 18998 del 27-3-2009, Rv. 244005). Ne deriva che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da eventuali responsabilità dei lavoratori (Cass., Sez. 4, n. 22622 del 29-4-2008, Rv. 240161).

4. A tali considerazioni si correla il rilievo secondo cui il comportamento del lavoratore può essere ritenuto abnorme solo allorquando sia consistito in una condotta radicalmente, ontologicamente, lontana dalle ipotizzabili, e quindi prevedibili, scelte, anche imprudenti, del lavoratore, nell'esecuzione del lavoro (Cass., Sez. 4, n. 7267 del 10-11-2009, Rv. 246695). È dunque abnorme soltanto il comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. Tale non è il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un'operazione comunque rientrante, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro assegnatogli ( Cass., Sez. 4, n. 23292 del 28-4-2011, Rv. 250710) o che abbia espletato un incombente che, anche se inutile ed imprudente, non risulti eccentrico rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate, nell'ambito del ciclo produttivo ( Cass., Sez. 4, n. 7985 del 10-10- 2013, Rv. 259313). Da ciò consegue che non può essere ravvisata, nel caso di specie, interruzione del nesso causale. L'operatività dell'art. 41, comma 2, cod. pen. è infatti circoscritta ai casi in cui la causa sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima condotta (Cass., Sez. 4, n. 25689 del 3-5-2016, Rv. 267374; Sez. 4, n. 15493 del 10-3-2016, Pietramala, Rv. 266786; n. 43168 del 2013, Rv. 258085). Non può, pertanto, ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l'evento, il comportamento imprudente di un soggetto, nella specie il lavoratore, che si riconnetta ad una condotta colposa altrui, nella specie a quella del datore di lavoro (Cass., Sez. 4, n. 18800 del 13-4-2016, Rv . 267255; n. 17804 del 2015, Rv. 263581; n. 10626 del 2013, Rv.256391). L'interruzione del nesso causale è infatti ravvisabile esclusivamente qualora il lavoratore ponga in essere una condotta del tutto esorbitante dalle procedure operative alle quali è addetto ed incompatibile con il sistema di lavorazione ovvero non osservi precise disposizioni antinfortunistiche. In questi casi, è configurabile la colpa dell'infortunato nella produzione dell'evento, con esclusione della responsabilità penale del titolare della posizione di garanzia (Cass., Sez. 4, 27-2-1984, Monti, Rv. 164645; Sez 4, 11-2-1991, Lapi, Rv. 188202) . Ma abbiamo visto come, nel caso in disamina, l'operazione che stava effettuando il lavoratore rientrasse appieno nelle sue attribuzioni . Si esula pertanto dall'ambito applicativo dell'art. 41, comma 2 , cod. pen.

5. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila, determinata secondo equità, in favore della Cassa delle ammende. Il ricorrente va inoltre condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile INAIL, che si liquidano in euro tremila.
 



PQM



Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile INAIL, che liquida in euro tremila.

Così deciso in Roma, il 4-6-2021.