Categoria: Giurisprudenza penale di merito
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Tribunale di Bari, Sez. 1, 09 giugno 2021, n. 1718 - Infortunio mortale e validità del modello di organizzazione e gestione. Nessuna responsabilità dell'ente


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il giorno 01 Giugno 2021
IL GIUDICE MONOCRATICO Dott. ssa Antonietta Guerra
PRESSO IL TRIBUNALE DI BARI
1° SEZIONE PENALE MONOCRATICA

con la presenza del P.M. Dott. F Buquicchio
con l'assistenza del cancelliere Fortunato Esposito
ha pronunciato mediante lettura del Dispositivo la seguente

SENTENZA

nella causa penale di primo grado

Contro

Lo.S. +7 vedi allegato 1

IMPUTATO

Vedi allegato 2
Conclusione delle parti:

ALLEGATO IMPUTATI E DIFENSORI 1

1) Lo.S. ***
2) Tr.M. ***
3) Ac.D. *** deceduto
4) Ta.L. ***
5) Ci.R. ***
6) Qu.B.***
7) Ce.S. ***
8) SI***I SPA con sede in Milano *** (legale rapp.te ad processum M.Sc. ***)
[…]
Le Persona Offesa: Eredi di De.D.
D.D.G. D.M. assenti

Allegato 2

IMPUTATI

in ordine ai seguenti reati:
A) del reato p. e p. dagli art. 113 e 589 c.p. perché, in rapporto di cooperazione colposa nella determinazione dell’evento, nelle qualità di seguito indicate cagionavano per colpa la morte di De. D., in particolare
Ce., capo della squadra che portava il materiale da altro cantiere a quello di Gravina di proprietà di Sc.G., conduceva l’autocarro Iveco Magirus con il rimorchio Bertoja Supercondor parcheggiandolo verso il centro del piazzale, dove la sua squadra composta da De. e S.F. scaricava il materiale trasportato. Al termine delle operazioni Ce.S. risaliva sull’automezzo e lo spostava, travolgendo De.D. che sostava nei pressi dello stesso;

colpa consistente in imprudenza, imperizia, negligenza, anche nelle attività di vigilanza, scelta e controllo, nonché nell’inosservanza delle norme descritte di seguito dettagliatamente per ciascuno dei prevenuti:
LO.S. in qualità di amministratore delegato
TR.M. in qualità Dirigente
Entrambi con funzioni di datore di lavoro di De.D. usufruivano della sua prestazione in violazione dei seguenti articoli del D.Lgs.81/08:
1) Art. 17c. 1, lett. a) Art. 28 c2 lett. a), b), c), d), f) Art.29 c. 1 Art.29 c.2 Art.29 c.4 In quanto non eseguivano la Valutazione dei Rischi artt.17 c. 1,- lett.a, art.28 e art 29 del D.L.vo 81/08. In particolare il DVR non prevedeva procedura di sicurezza la realizzazione di nuove unità produttive né gli spostamenti da uh unità produttiva ad un’altra con traslazione dei materiali .
2) Art. 36 c2, lett.a) e c) in quanto non informavano i lavoratori dell’esito della valutazione dei rischi del deposito di Gravina in Puglia, dei rischi residui e delle misure di sicurezza da adottare in relazione alle attività lavorative da svolgere. C’era il DVR ma non prevedeva procedura di sicurezza la realizzazione di nuove unità produttive né gli spostamenti da un unità produttiva ad un altra con traslazione dei materiale
3) Artt. Art. 18 c. 1 lett. i), 1) lett. z), lett. bb) ,Art. 18 c.2 lett. a), b), c) , in quanto
• Lett, i) Non aggiornavano le misure di sicurezza da adottare a seguito delle mutate esigenze
organizzative per l’utilizzo del nuovo deposito ;
• Lett. 1) non adempivano agli obblighi di informazione di cui all’art. 36/37 del D.L.vo 81/08;
• Lett. z) non aggiornavano le misure di sicurezza da adottare a seguitò delle mutate esigenze
organizzative per l’utilizzo del nuovo deposito ;
• let.t bb) non vigilavano affinchè il lavoratore Ce.S. osservasse le prescrizioni del medico competente e non valutavano attentamente il problema del deficit uditivo che potrebbe aver concorso all’evento infortunistico.
• Art. 18 Co. 2 lett a) b) c) non fornivano al servizio di prevenzione e protezione ed al medico competente informazioni in merito alla natura dei rischi, l’organizzazione del lavoro la programmazione e l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione per il nuovo deposito in Gravina in Puglia;
4) Art. 63c. 1 ,Art. 64 c.1 lett. a) non rendevano il luogo di lavoro conforme all’all. IV punti 1.4.1, 1.4.3, 1.4.5, 1.4.8, 1.4.18, 1.8.3 in quanto
• Il deposito nonostante prevedesse la circolazione di mezzi e pedoni non disponeva di vie di circolazione situate e calcolate in modo tale che i pedoni o i veicoli le potessero utilizzare facilmente in piena sicurezza e conformemente alla loro destinazione e che i lavoratori operanti nelle vicinanze di queste vie di circolazione non corressero alcun rischio;
• Nonostante nelle vie di circolazione fossero utilizzati mezzi di trasporto pesanti, non era stata prevista per i pedoni una distanza di sicurezza sufficiente alla loro incolumità;
• Nonostante nel deposito le vie di circolazione fossero utilizzate da automezzi pesanti e con rimorchi e quindi vi era l’esigenza di garantire la protezione dei lavoratori, non tracciavano le vie di circolazione in modo da renderle evidenti;
• Non provvedevano a segnalare adeguatamente le zone più pericolose quali quelle a scarsa visibilità, alla presenza di automezzi pesanti e lunghi veicoli;
• Non provvedevano, per la circolazione di automezzi con rimorchio come per il caso in esame, il rimorchio Bertoja Supercondor tg. *** trainato dall’autocarro Iveco Magirus tg. ***, a far controllare il percorso, da uno o più incaricati che provvedessero alle necessarie segnalazioni per assicurare l’incolumità delle persone presenti;
• Non provvedeva a concepire i posti di lavoro (carico e scarico merci, sosta veicolo per scarico, zona movimentazione) in modo tale che la circolazione dei pedoni e dei veicoli avvenisse in modo sicuro.

AC.D. in qualità di Dirigente (nomina del 0.05.2012, con la quale veniva investito della responsabilità di dirigente ai sensi dell’art 16)
usufruiva della prestazione di De.D. in violazione dei seguenti articoli del D.Lgs.81/08 : art. 18 c.l lett. i), 1), z), bb) c.2 lett. a), b), c) e art. 20 c.2 lett e) in quanto
• Lett. i) non informava i lavoratori circa il rischio di investimento presente all’interno dell’area di lavoro del deposito in Gravina in Puglia e le misure di sicurezza da adottare;
• Lett. 1) non adempiva agli obblighi di informazione di cui all’art. 36/37 del D.L.vo 81/08;
• Lett. z) non aggiornava le misure di sicurezza da adottare a seguito delle mutate esigenze organizzative per l’utilizzo del nuovo deposito;
• lett. bb) non vigilava affinché il lavoratore Ce.S. osservasse le prescrizioni del medico competente e non ha valutato attentamente il problema del deficit uditivo che potrebbe aver concorso all’evento infortunistico.
• Art. 18 Co. 2 lett a) b) c) non forniva al servizio di prevenzione e protezione ed al medico competente informazioni in merito alla natura dei rischi, l’organizzazione del lavoro la programmazione e l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione per il nuovo deposito in Gravina in Puglia;
• Art. 20 co. 2 lett. e) non segnalava al dirigente con funzione di datore di lavoro ing. Tr.M. della condizione di pericolo in cui operavano i lavoratori presso il deposito di Gravina in Puglia privo di ogni sistema di sicurezza, di cui era a conoscenza;

TA.L.
in qualità di Preposto (nomina del 10.05.2012, con la quale veniva investito della responsabilità di preposto ai sensi dell’art 16 d.lvo 81/08) in violazione dei seguenti articoli del D.Lgs.81/08, art. 18 c. 1 lett. bb) Art. 19 c. 1 lett. f) Art. 20 c. 1 Art. 20 c. 2 lett.e) in quanto
• 18 co. lett. bb) non segnalava tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente della condizione di
pericolo presente nel luogo di lavoro, delle quali era a conoscenza sulla base della formazione ricevuta;
• Art. 19 co. 1 lett. f) non vigilava affinché il lavoratore Ce.S. osservasse le prescrizioni del medico competente e non valutava attentamente il problema del deficit uditivo che potrebbe aver concorso all’evento infortunistico.
• art. 20 c1, art. 20 c.2 lett. e), in quanto pur a conoscenza che l’area fosse inidonea ad ospitare un luogo di lavoro con quelle caratteristiche non informava i dirigenti Ac.D., ing. TR.M.

CI.R. in qualità di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione relativamente al deposito in Gravina in Puglia in violazione dei seguenti articoli del D.Lgs.81/08 Art. 33 c. 1 lett. a), b), c), d), f) non provvedeva a:
• Lett. a) individuare i fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale;
• Lett. b) elaborare, per quanto di competenza, le misure preventive e protettive di cui all’articolo 28, comma 2, e i sistemi di controllo di tali misure;
• Lett. c) elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali all’interno del deposito SI***I in Gravina in Puglia;
• Lett. d) proporre i programmi di informazione e formazione dei lavoratori;
• Lett. f) fornire ai lavoratori le informazioni di cui all’articolo 36;

QU.B. e CE.S.
in qualità di Operai specializzati in violazione dei seguenti articoli del D.Lgs.81/08
Art. 20 c. 1 Art. 20 c. 2 lett.e),
pur a conoscenza che l’area fosse inidonea ad ospitare un luogo di lavoro con quelle caratteristiche (mancanza di apprestamenti di sicurezza) non hanno1 informato il preposto Ta.L., il dirigente Ac.D., l’ing. Tr.M. adottando un comportamento che nell’evento infortunistico può considerarsi colposo.

SI***I SPA


B) illecito dipendente dal reato di cui al capo A), ex artt. 5, comma 1, lett. a)- 6), e 25-septies, comma primo e secondo, (Art. 30 c.l lett. a), b), c) ’ d), e), f), g), h), c.3, c.4) d.lgs. n. 231/2001, per avere consentito la realizzazione dell’evento lesivo e quindi alla commissione del reato di cui al capo A), omettendo di adottare prima della commissione del citato reato, il modello di organizzazione e gestione idoneo alla prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui all’art. 30, d.lgs. n. 81/2008, in particolare adottava un modello di organizzazione e di gestione che consentiva di utilizzare come ambiente di lavoro un’area priva di agibilità ad uso deposito, senza aver effettuato una valutazione dei rischi, senza aver adottato alcuna misura di sicurezza, senza aver fornito un’adeguata informazione circa i rischi residui ai lavoratori, senza aver spiegato le misure di sicurezza adottate e da adottare per una corretta circolazione delle persone e dei mezzi, nonostante dipendenti della sede di Bari e della sede centrale di Milano tra la fine di Aprile 2013 ed inizio di Maggio 2013 erano a conoscenza della dismissione del deposito di Matera e quindi della necessità di individuazione un nuovo sito dove spostare i materiali presenti al deposito di Matera, non attuando comunque efficacemente tale modello, così perseguendo il proprio personale interesse economico, consistente nel risparmio di spesa derivante dalla mancata adozione del richiamato modello organizzativo e gestionale, nonché quella derivante dalla mancanza del sopralluogo presso l’area in cui si è verificato l’infortunio e, di conseguenza, dalla progettazione del luogo di lavoro al fine di renderlo idoneo sotto il profilo della sicurezza sul lavoro e dalla esecuzione della prescritta valutazione dei rischi e degli interventi di adeguamento. Spese di individuazione e allocazione dei soggetti che avrebbero dovuto eseguire l’assistenza a terra ai camion con rimorchio e non, provvedendo alla loro prescritta formazione specifica;
commettendo il fatto, mediante la condotta posta in essere da Lo.S., soggetto in posizione apicale (amministratore unico e legale rappresentante della Società),

Conclusioni pm all’udienza 27/10/20:
P.M. : per Lo. condanna anni 3 di reclusione;
per Tr. condanna anni 3 di reclusione;
per Ac. Ndp per morte imputato;
per Ta. condanna anni 2 mesi 6 di reclusione;
per Ci. condanna anni 3 di reclusione;
per Qu. riconosciute generiche e condanna m 6 di reclusione;
per Ce. condanna anni 1 mesi 6 di reclusione con generiche equivalenti;
per la SI***ISpa sanzione 400 quote ciascuna di 1000,00 euro e interdizione per anni 1 .
conclusioni difese all’udienza 18/5/21:
Difesa Avv L. per Lo.: assoluzione perchè il fatto non sussiste o per non averlo commesso e si riporta alla memoria;
Difesa Avv N. per Tr. e Ci.: si riporta alla memoria e chiede assoluzione con formula ampia per entrambi;
Difesa Avv S. per Ac.: si associa al pm Ndp per morte imputato;
Difesa Avv C. per Ta. e Qu.: assoluzione perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso;
Difesa Avv T. per Ta. e Qu.: si associa all'Avv C. e si riposta alla memoria;
Difesa Avv D.C.a per Ce.: assoluzione perché il fatto non costituisce reato in subordine riqualificarsi in 1° co art 589 cp in estremo subordine minimo pena e benefici di legge;
Difesa Avv P. per SI***I Spa: esclusione dell'illecito amministrativo e qualora il Giudice lo dovesse ritenere sussistente, rigettare richiesta misura interdittiva richiesta " contra legem" e tenere conto del risarcimento del danno, come da documentazione allegata all'ultima udienza tenuta, per la determinazione delle quote.

Fatto

 

Con decreto del 16 dicembre 2016 Lo.S., Tr.M., Ac.D., Ta.L., Ci.R., Qu.B., Ce.S. e SI***I S.p.A. erano rinviati a giudizio dinanzi a questo Tribunale per rispondere dei reati descritti in epigrafe.
All’udienza del 6 giugno 2017 il Got Santoro, dichiarata l’assenza degli imputati, rimetteva il processo dinanzi al Giudice competente. Veniva acquisito atto di costituzione dell’ente ex art. 39 D.lgs. 231/2001.
All’udienza del 28 novembre 2017 il Giudice, dopo l’apertura del dibattimento, ammetteva i mezzi di prova così come richiesti dalle parti.
All’udienza del 6 febbraio 2018 si procedeva all’esame dell’ing. Giuseppe De Leo, consulente tecnico del PM.
All’udienza del 15 maggio 2018 il Giudice disponeva procedersi all’esame dei testi S.F., S.G.e M.V.. Su accordo delle parti, venivano, altresì, acquisiti i verbali di sommarie informazioni testimoniali di S.M. e D.S.F.. Il Giudice, pertanto, revocava le ordinanze ammissive di escussione degli stessi.
L’udienza del 23 ottobre 2018 non veniva celebrata a causa dei problemi di agibilità del Tribunale penale di Bari.
All’udienza del 2 aprile 2019 il Got Santoro rimetteva il processo dinanzi al Giudice competente.
All’udienza dell’8 ottobre 2019 il Giudice acquisiva il certificato di morte di Ac.D., nonché revocava l’ordinanza ammissiva dei testi a discarico chiesti dalla sua difesa. Si procedeva, altresì, all’esame dei testi D.A.P. e G.G..
All’udienza del 3 dicembre 2019 veniva disposto un rinvio, con sospensione dei termini di prescrizione, a causa dell’adesione dei difensori all’astensione di categoria.
All’udienza del 22 gennaio 2020 veniva acquisita, su consenso delle parti, la consulenza del Dott. L.A., al quale, successivamente, venivano poste domande a chiarimento.
All’udienza del 4 febbraio 2020 preliminarmente si procedeva all’esame di Ch.St., consulente SI***I, nonché veniva acquisita la consulenza tecnica dalla stessa redatta.
Si acquisiva, altresì, al solo fine della dimostrazione del fatto storico, la consulenza informatica della società “Digital Forensics Bureau”. Su accordo delle parti, il Giudice revocava l’ordinanza ammissiva di escussione dei consulenti Ca.Ru. e Fa.Gi.. Successivamente, il Pm apportava modifica al capo B) dell’imputazione. Il Giudice - non trattandosi di fatto nuovo, ma di specificazione della mancata adozione del richiamato modello organizzativo e gestionale - disponeva in conformità.
L’udienza dell’11 marzo 2020 non veniva celebrata a causa dell’emergenza COVID 19.
All’udienza del 27 ottobre 2020 veniva acquisito al fascicolo del dibattimento la produzione documentale delle difese e l’imputato Ta.L. rendeva spontanee dichiarazioni. Il Giudice dichiarava chiusa l’istruttoria dibattimentale e il Pm rassegnava le sue conclusioni.
All’udienza del 10 novembre 2020 veniva disposto un rinvio, con sospensione dei termini di prescrizione, su richiesta delle difese alla luce della emergenza sanitaria Covid 19.
All’udienza del 13 aprile 2021 veniva disposto un rinvio, in ossequio ai decreti presidenziali, a causa della emergenza sanitaria Covid 19.
All’udienza del 18 maggio 2021 le difese rassegnavano le rispettive conclusioni e il Pm faceva repliche.
All’odierna udienza, vista l’assenza di repliche delle difese, il Tribunale decideva dando lettura del dispositivo.

Diritto

 

Il procedimento a carico degli odierni imputati trae origine da un infortunio sul lavoro, con esito mortale per De.D., avvenuto il primo agosto 2013 a Gravina in Puglia.
In particolare, il lavoratore De., dipendente della società SI***I Spa moriva travolto da un automezzo utilizzato per trasportare del materiale da un cantiere ad un altro. Come descritto nel capo di imputazione “Ce., capo della squadra che portava il materiale da altro cantiere a quello di Gravina in Puglia di proprietà di Sc.G., conduceva l’autocarro Iveco Magirus con il rimorchio Bertoja Supercondor parcheggiandolo verso il centro del piazzale, dove la sua squadra composta da De. e Sa.F. scaricava il materiale trasportato. Al termine delle operazioni Ce.S. risaliva sull’automezzo e lo spostava, travolgendo De.D. che sostava nei pressi dello stesso”.

L’istruttoria dibattimentale
Dalle dichiarazioni rese in sede dibattimentale all’udienza del 6 febbraio 2018 dall’ing. D.L.G., consulente tecnico del Pubblico Ministero, è emerso che, nominato consulente, procedeva - unitamente allo Spesal ed alla Polizia Municipale - ad effettuare un sopralluogo nell’azienda di proprietà di Sc.G., nei pressi di “Terrasanta”, località sita in Gravina in Puglia, raggiungibile attraverso un cancello carrabile automatico posizionato sull’ex SS 96. Da alcune visure notava che la destinazione urbanistica dell’area su cui insisteva l’azienda dello Sc. era di tipo agricolo (zona destinata alla viabilità), nonché, attesa la particolare disposizione a “L” capovolta dei materiali depositati dalla ditta “SI***I”, rilevava l’assenza di una delimitazione precisa tra l’area “SI***I” (utilizzata come deposito di un escavatore Euromac 500 M, elementi prefabbricati in cemento armato, bobine di cavi in PVC e di cavi elettrici, container, bancali in legno, imballi, cesti in metallo contenenti staffe di ancoraggio, cartelli metallici di segnaletica stradale, vari manufatti in ferro) e l’area “Sc.”, quest’ultima destinata all’attività di lattoneria e a quella agricola, oltre che adibita al deposito di pozzetti prefabbricati in cemento, tubazioni e tubi corrugati. Ha dichiarato che nell’allegato n. 3, foto n. 4 (sopralluogo del 2 ottobre 2013) l’area SI***I era posizionata sulla destra. Ha specificato, altresì, che l’area di proprietà dello Sc. era stata presa in fitto dalla SI***I mediante accordo verbale raggiunto nel mese di luglio 2013, vista l’urgenza della società di trasferirsi entro agosto. Ha sottolineato che nell’“area Sc.” i materiali (ad es., bobine) erano depositati lungo la viabilità, non essendoci neppure recinzioni, salvo quella comprensiva l’intera proprietà, a delimitare le aree di competenza o segnaletiche (orizzontali o verticali) a garantire una idonea percorribilità. Ha precisato che il veicolo per mezzo del quale veniva causato l’evento, un camion con tre assi ed il rimorchio, non era presente durante il suo sopralluogo presso l’azienda, ma successivamente rinvenuto all’interno del deposito del Lo., dove procedeva, posizionandosi all’interno della cabina del mezzo, alla ricostruzione della dinamica dell’incidente. In particolare, focalizzandosi sulla visibilità consentita al conducente dagli specchietti retrovisori, è emerso che dallo specchietto destro tale visibilità risultava, nonostante l’allineamento del rimorchio all’asse del mezzo, minata dalla leggera inclinazione del veicolo parcheggiato. Pertanto, ha aggiunto che, alla luce delle osservazioni effettuate sulla tavola grafica, la posizione della cabina rispetto al rimorchio formava un angolo che impediva di fatto al conducente di ricevere visibilità dallo specchietto destro, sebbene ciò consentisse una limitata visuale, non oltre il cassone, dall’altra parte (parte A). Ha dichiarato che dal sopralluogo notava che l’area oggetto della verifica (area deposito SI***I) era sprovvista di barriere di separazione, la cui presenza avrebbe consentito una circolazione pedonale distinta da quella veicolare ed il conseguente rispetto delle distanze dai pedoni, nonché di individuazione di chiare zone di pericolo. Tale situazione si ripresentava anche all’interno dello spazio adibito al deposito dei materiali della SI***I. Ha specificato, inoltre, che il tracciato, il percorso che si doveva seguire all’interno dell’area delimitata dai materiali per effettuare le manovre di carico e scarico, non era individuato da segnaletica verticale né da barriere. Ha spiegato, altresì, che gli articoli 63 e 64 del d.lgs. 81/2008, prescritte le modalità di organizzazione dei luoghi di lavoro al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, prevedevano nei casi come quello in esame - nel quale all’interno del sito avveniva la circolazione di automezzi di dimensioni importanti - che la manovra dovesse effettuarsi con la presenza di alcuni ausiliari a terra, i quali, trovandosi al di fuori del veicolo, avrebbero consentito al conducente di compiere una corretta traiettoria. Ha aggiunto, inoltre, che l’area era sprovvista di bagni, di cassette di pronto soccorso e di estintori. Ha riferito che per il tramite dello Spesal acquisiva il documento di valutazione dei rischi generale della SI***I, all’interno del quale non rinveniva riferimenti a depositi all’aperto o a procedure particolari concernenti lo spostamento di depositi o l’apertura di nuove unità destinate a deposito, né tantomeno a procedure per le manovre di automezzi (o automezzi con rimorchio) in caso di scarsa visibilità. Ha precisato che Ce.S., colui che guidava l’automezzo, era destinatario di una prescrizione che gli impediva di guidare macchine operatrici (ad. es., pala meccanica, escavatori, ecc ...), nonché lo obbligava, in quanto affetto da problemi uditivi, ad indossare dispositivi di protezione in presenza di rumori superiori a 80 decibel. Ha dichiarato che il Ce. era l’operaio addetto alla guida delle macchine operatrici, poiché l’unico all’interno della squadra di lavoro (composta anche da De.D. e Sa.F.) ad essere in possesso della qualifica per la guida di tali automezzi. Ha aggiunto che tale situazione veniva confermata anche da quanto riferitogli da Sa.F.. Ha specificato, inoltre, che in occasione dell’incidente il Ce., il quale era alla guida del camion, aveva provveduto anche a condurre l’escavatore (indicato con la lettera D nella planimetria) giù dal cassone del medesimo automezzo. Ha dichiarato che nell’anno 2013 in SI***I S.p.A. si erano succeduti due consigli di amministrazione: in particolare, dal 23 dicembre 2010 al 22 luglio 2013 il consiglio di amministrazione era composto di 17 membri e presieduto da Mi.An., il quale era coadiuvato da Lo.S., amministratore delegato, nella governance societaria. Successivamente, a partire dal 22 luglio 2013 (poco prima dell’incidente), il Mi. ed il Lor. venivano riconfermati nelle rispettive cariche all’interno della nuova compagine amministrativa, composta questa volta di 9 componenti: in particolare, Za., Cre., Pes., Cr., Du., Pro.. Ha aggiunto che la ditta nominava, quale procuratore per la struttura operativa SOR Campania, Puglia e Basilicata, l’ing. Tr.M., a cui venivano conferiti gli obblighi non delegabili di datore di lavoro relativamente agli adempimenti in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro, sebbene questi, a propria volta, designasse in data 3 aprile 2009, quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione, l’ing. Ci.R.. Ha riferito che il dott. Ca.Um. emetteva, all’esito della visita medica sostenuta dal Ce. il 14 giugno 2013, un giudizio di idoneità con prescrizioni, nel quale il sanitario rilevava che l’imputato, addetto alla guida di automezzi e mezzi, era stato sottoposto a controllo medico a fronte dei seguenti rischi: polveri generiche, rumore, azioni di movimentazione manuale dei carichi, vibrazione sistema mano braccia e corpo intero, sovraccarico funzionale arti superiori, fasi di lavori in quota ed assunzioni di posture incongrue. Per quanto concerne le aree operative, ha riferito che la SI***I aveva proceduto a suddividere l’intero territorio italiano in cinque macro-aree per ciascuna delle quali veniva nominato un dirigente: in particolare, in Puglia e Basilicata vi era Tr.M., il quale espletava, sulla base delle indicazioni contenute nella nomina, tutte le attività di competenza del datore di lavoro, eccetto quelle non consentite dall’art. 16, d.lgs. 81/08, attinenti all’organizzazione e alla valutazione dei rischi nei luoghi di lavoro. Pertanto, 1’8 febbraio 2010 il Tr. nominava Ac.D. dirigente della SOR Puglia, Basilicata e Campania al fine di dare attuazione alla normativa in materia di sicurezza. Successivamente in data 12 febbraio 2010 nominava preposto Ta.L., delegato alla sorveglianza sul rispetto delle misure di sicurezza dei lavoratori sui cantieri nonché all’individuazione del sito, il cui incarico veniva revocato il 30 marzo 2012. Ha aggiunto, altresì, che il Qu. era l’addetto che materialmente sorvegliava il rispetto delle misure di sicurezza nelle aree di lavorazione. Ha precisato che nel modello di organizzazione e gestione (modello ex d.lgs. 231/2001) previsto dalla società non vi era alcun riferimento alla gestione e alle procedure da adottare - in caso di scelta di un nuovo sito quale luogo di lavoro - in ordine alla valutazione dei rischi e alla rispondenza delle misure di sicurezza alle prescrizioni normative. Nella fattispecie, il Tr. avrebbe dovuto prendere conoscenza del luogo di lavoro (di proprietà dello Sc.) ed informare il Ci. (R.S.P.P.) e il Lor. - in qualità di datore di lavoro - della volontà di occupare l’area. Il Ci., a propria volta, avrebbe, quale R.S.P.P., dovuto visionare i luoghi, effettuare una valutazione dei rischi nonché organizzare l’area al fine di renderla rispondente alle disposizioni normative e, sulla base di quanto rilevato, effettuare unitamente al Lor. (datore di lavoro) la valutazione dei rischi, oltre che trasferire il tutto al Tr., il quale, attraverso propri dirigenti e preposti, avrebbe dovuto procedere materialmente all’organizzazione dell’area di lavoro. Ha aggiunto, inoltre, che nel suddetto modello non erano indicate le misure di sicurezza per la corretta circolazione di persone e mezzi e che sia la mancata adozione del modello organizzativo che la predisposizione del sito in violazione delle norme previste in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro comportavano una riduzione dei costi per la SI***I: in particolare, un risparmio nella spesa per il personale (nel primo caso) e nei costi di messa in sicurezza del luoghi di lavoro (nel secondo). Tuttavia, ha riferito che, nel caso in esame, ciò non avrebbe comportato alcun costo aggiuntivo per la società, in quanto l’utilizzo della sola squadra di lavoro (De.D., Sa.Fi., Acc. e Ce.S.) sarebbe stato sufficiente. Ha affermato che le responsabilità del Lor. discendevano principalmente dalla mancata valutazione dei rischi concernenti il deposito di Gravina, attività questa non delegabile ex art. 16, d.lgs. 81/08, donde scaturivano alcune irregolarità sulla circolazione dei mezzi, sulla segnaletica e sulle strisce in capo al medesimo, aggiungendo, altresì, che il Tr. espletava quasi tutte le funzioni datoriali, eccetto la valutazione dei rischi e la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, mentre l’Ac. ed il Ta., come per deleghe loro assegnate, dovevano vigilare sullo stato dei luoghi di lavoro, nonché sull’attività svolta dai dipendenti. Ha precisato che il Qu. avrebbe dovuto informare il suo diretto superiore, Ta.L., in ordine alla disponibilità dell’area. Ha riferito che se fossero state rispettate le norme relative alla sicurezza, non si sarebbe ragionevolmente verificata la morte del dipendente. Ha riferito che Ce.S. era formalmente dipendente della SI***I. Ha aggiunto, altresì, che la valutazione dei rischi non avveniva per strutture, ma solo per attività standardizzate. Ha dichiarato che non vi era alcuna documentazione elaborata dalla SI***I per magazzini all’aperto. Ha riferito che la sua consulenza si avvaleva della planimetria contenente i rilievi delle posizioni compiuti dalla polizia locale, oltre che dell’esame medico-legale, il quale individuava la causa della morte nello schiacciamento con rotolamento da parte della ruota anteriore destra del rimorchio. Dunque, le rilevazioni effettuate dai vigili urbani nell’immediatezza dei fatti, malgrado perturbanti lo stato dei luoghi, non evidenziavano tracce delle ruote motrici del camion, ma mostravano esclusivamente alcune strisce riferibili al carrellone, modificatesi a seguito della concitazione scaturita dall’evento infortunistico e, pertanto, recanti una discrasia di circa un metro e mezzo rispetto alle originarie posizioni (ante sinistro). Ha chiarito che durante le investigazioni testimoniali affiancava il maresciallo relativamente alla formulazione delle domande attinenti le misure di sicurezza adottate sui luoghi di lavoro. Ha sottolineato che l’acquisizione documentale avveniva attraverso lo Spesai, eccetto la documentazione urbanistica. Ha dichiarato, altresì, che apprendeva dalle sommarie informazioni le circostanze relative al trasferimento di sede del deposito. Ha aggiunto che gli allegati alla sua consulenza erano complessivamente 31: l’allegato n. 1 riguardava il fascicolo Spesal; l’allegato n. 2 la planimetria generale layout materiali al 2 ottobre 2013; l’allegato n. 3 i rilievi fotografici; l’allegato n. 4 i rilievi planimetrici effettuati dai vigili urbani - tavola n. 1; l’allegato n. 5 i rilevi planimetrici svolti dai vigili urbani - tavola n. 2; l’allegato n. 15 l’attestazione urbanistica dell’area; l’allegato n. 16 la visura storica per immobile foglio n. 101, particella 301. Oltre al referto medico-legale, ha spiegato che dalla visione di alcune foto in suo possesso era anche possibile dedurre che De.D. moriva a seguito di schiacciamento per rotolamento della ruota dalla gamba destra all’emifaccia destra. Pertanto, risultava necessario sollevare il rimorchio per estrarre il corpo. Ha specificato che dalle sommarie informazioni rese dai possibili testimoni veniva a conoscenza della circostanza che il mezzo, appena partito nel momento in cui veniva commesso il fatto, procedeva con un’andatura estremamente ridotta.
Le dichiarazioni sopra riassunte sono tutte contenute nella relazione tecnica a firma del De Leo, nella quale viene, altresì, specificato che 1’1 agosto 2013 era il primo giorno in cui la squadra coordinata dal Ce. effettuava operazioni di scarico. E inoltre evidenziato che l’area utilizzata come deposito temporaneo dalla SI***I S.p.A era priva di qualunque misura di sicurezza e, in modo particolare, in violazione dell’art.63, comma 1 e dell’allegato IV del d.lgs. 81/08 punto 1.4.18, il quale prevede che “quando uno o più veicoli sono mossi da un mezzo meccanico il cui conducente non può, direttamente o a mezzo di altra persona sistemata su uno di essi, controllarne il percorso, i veicoli devono essere preceduti o affiancati da un incaricato che provveda alle necessarie segnalazioni per assicurare l’incolumità delle persone”. In riferimento a tale violazione il consulente del P.M. osserva che il rimorchio BERTOJA trainato dall’autocarro IVECO Magirus “nonostante il conducente Ce.S. non potesse direttamente o a mezzo di altra persona sistemata su uno di essi controllarne il percorso, i veicoli non erano stati preceduti o affiancati da un incaricato che avrebbe provveduto alle necessarie segnalazioni per assicurare l’incolumità delle persone presenti... la misura di sicurezza da adottare sarebbe stata quella di predisporre un uomo a terra per permettere la circolazione del mezzo in modo da garantire l’incolumità delle persone presenti. Purtroppo, a causa della mancata valutazione dei rischi, non è stato possibile adottare tale misura, tenuto conto che l’adozione non avrebbe comportato alcun costo aggiuntivo per la società, poiché l’utilizzo degli uomini della sola squadra, De.D., Sa.F. a terra e Ce.S. sull’autocarro, sarebbe stata sufficiente”. Viene, altresì, precisato che dall’analisi di tutta la documentazione della società SI***I emergeva che il deposito di Gravina in Puglia non era stato oggetto di valutazione dei rischi, così in violazione degli artt. 17, co. 1 lett. A), 28 e 29 del d.lgs. 81/08 con conseguente responsabilità del datore di lavoro che in una società di capitali come la SI***I va individuato nell’amministratore delegato, ossia nel Lo.S., che avrebbe dovuto adottare il documento di valutazione dei rischi anche per il deposito di Gravina in quanto l’esecuzione della valutazione dei rischi è adempimento non delegabile. A ciò si aggiunga che lo stesso non ha neanche provveduto a fornire un’adeguata formazione ai dipendenti sulle misure di sicurezza da adottare al fine di prevenire i rischi. Così anche Tr.M., in qualità di diretto dirigente di Lo.S., non ha provveduto a rendere conformi alle disposizioni previste nell’allegato IV del d.lgs. 81/08 il luogo di lavoro costituito dal deposito di Gravina in Puglia. Il consulente attribuisce, altresì, tali inadempienze anche al Ci. e all’Ac. nelle rispettive qualità. Quanto alla posizione del Ta., investito con nomina del 10 maggio 2012 della responsabilità di preposto, evidenzia che “non ha provveduto a segnalare tempestivamente al datore di lavoro la condizione di pericolo presente sul luogo di lavoro... non informando il dirigente Ac.D. e l’ing. Tr.M.. Per quanto riguarda la posizione del Qu. e del Ce. evidenzia che gli stessi pur a conoscenza che l’aria fosse inidonea ad ospitare un luogo di lavoro a causa della mancanza di apprestamenti di sicurezza “non hanno informato il preposto Ta., il dirigente Ac.D. e l’ing. Tr.M. adottando un comportamento che nell’evento infortunistico può considerarsi colposo. Quanto alla società SI***I S.p.A., ha sottolineato che la stessa ha consentito di utilizzare come ambiente di lavoro un’area priva di agibilità ad uso deposito senza aver effettuato una valutazione dei rischi e senza aver adottato alcuna misura di sicurezza, nonostante i dipendenti della sede di Bari e della sede centrale di Milano tra la fine di aprile 2013 e l’inizio di maggio 2013 erano a conoscenza della dismissione del deposito di Matera da effettuarsi entro il 30 agosto 2013, e quindi della necessità di individuare un nuovo sito dove spostare i materiali presenti nel deposito di Matera. Pertanto, afferma che il modello di organizzazione e di gestione ai sensi del d.lgs. 231/01 da parte della società SI***I S.p.A. “non è stato efficacemente attuato in quanto vi è stato un deficit organizzativo e, quindi, l’adozione del modello di organizzazione di cui al d.lgs. 231/01 non si può ritenere esimente per la società ai fini della prevenzione sugli infortuni sul lavoro in relazione all’accaduto (infortunio mortale) anche e soprattutto in riferimento ai requisiti richiesti dall’art. 30 del d.lgs. 81/08”.
Dalle sommarie informazioni rese 1’1 agosto 2013 presso gli uffici del Comando di Polizia Locale di Gravina in Puglia e il 12 novembre 2013 dinanzi alla legione Carabinieri Puglia - Comando Stazione Carabinieri di Gravina in Puglia da D.S.F. è emerso che, in qualità di assistente tecnico della ditta “SI***I”, si occupava della manutenzione delle apparecchiature elettroniche di tutti i gestori dell’area Puglia e della provincia di Matera, nonché della direzione dei lavori eseguiti dalle squadre del suo settore lavorativo. Ha dichiarato che, in virtù di tale mansione, conosceva solo superficialmente Ce.S., De.D. e Sa.F.. Ha aggiunto, altresì, che non sapeva dell’esistenza di un deposito della SI***I sito in Gravina in Puglia. A tal proposito, solamente l’1 agosto 2013 P.D., suo collega, gli riferiva che era in corso un trasloco dal deposito di Matera. Ha specificato che, risultando all’uopo necessaria, per la conseguente restituzione, l’individuazione dei materiali di proprietà della Telecom, si recava presso il deposito di Gravina in Puglia per cernere gli apparecchi radio di marca Huawei. Ivi giunto, riconosceva e salutava Ce.S. prima di provvedere a fotografare le casse contenenti materiale Huawei. Successivamente, ha precisato che, udendo delle urla, notava un uomo investito dalla ruota anteriore destra del carrello appendice. Avvicinatosi - unitamente a Sa.F. - al veicolo per prestare soccorso, intimava all’autista (Ce.S.) di fermarsi. Nonostante i numerosi tentativi diretti a sollevare il carrello per facilitare l’estrazione del corpo del malcapitato (ancora vivo), questi decedeva dopo qualche minuto. Ha chiarito che informava di quanto accaduto il suo superiore, Ac.D.. Ha dichiarato di non aver visto la manovra posta in essere dal mezzo, in quanto intento a fotografare il materiale presente sulle pedane, né tantomeno di essere a conoscenza del modello di organizzazione e gestione ai sensi del d.lgs. 231/2001. Ha aggiunto, altresì, di essere stato nominato preposto, ai sensi del d.lgs. 81/2008, a seguito di un corso di formazione specifica per manutentore e revisore di D.P.I. di seconda e terza categoria per la protezione delle cadute dall’alto. Ha spiegato che la verifica dei dispositivi di protezione veniva eseguita annualmente o - comunque - ogni qualvolta ve ne fosse stata la necessità, sulla base di un prestampato fornito dall’azienda SI***I. Ha aggiunto, altresì, che le verifiche venivano eseguite a vista o provando manualmente i diversi componenti.
Dalle dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni testimoniali il 21 ottobre 2013 alla Legione Carabinieri Puglia - Comando Stazione Carabinieri di Gravina in Puglia da Sc.Mi. è emerso che 1’1 agosto 2013 si trovava nelle vicinanze della sua abitazione, sita in contrada Pendino Alvitino nei pressi dell’attività di lattoneria, allorquando udiva suo padre,
Sc.G., urlare. Giunto sul posto, constatava che un operaio era stato investito dalla ruota anteriore destra del rimorchio, sebbene l’autista fosse già sceso dall’abitacolo. Ha dichiarato, altresì, che nell’immediatezza dei fatti un operaio tentava, senza riuscirci, di rimuovere il Bobcat dal rimorchio per facilitare l’operazione di sollevamento. Successivamente, sollecitato da suo padre, procedeva a sollevare il rimorchio con il muletto, rimasto fermo nei pressi del capannone. Tuttavia, anche questa operazione non andava a buon fine. Pertanto, cercando di sollevare il rimorchio con l’escavatore, si riusciva questa volta ad estrarre il malcapitato dalla ruota. Ha specificato che tali fatti si svolgevano in un arco temporale di circa 5/10 minuti. Ha precisato, inoltre, che era già da qualche giorno che gli operai della SI***I scaricavano del materiale nella area di proprietà di suo padre.
Dalle dichiarazioni rese in sede dibattimentale all’udienza del 15 maggio 2018 da Sc.G., di professione fabbro, è emerso che solitamente si occupava anche della lavorazione artigianale del ferro per conto della SI***I. Ha dichiarato che il terreno, costituito da uno spiazzale ed un capannone per complessivi 20.000 metri quadri, nel quale era avvenuto l’incidente era di sua proprietà. Infatti, ne impiegava generalmente una parte (l’officina) per lo svolgimento della sua professione. Ha aggiunto che nel corso degli anni aveva apportato alcune modifiche al terreno: in particolare, nel 2008, autorizzato dal competente organo comunale, eseguiva su detto terreno una recinzione in cemento. Ha aggiunto che successivamente alcuni rappresentanti della società SI***I, identificati in Qu. e Ta., lo contattavano telefonicamente - all’incirca dieci giorni prima dell’incidente - chiedendogli di poter utilizzare per qualche giorno una parte di codesta area per il deposito di materiali, nonché se la stessa fosse all’uopo munita di apposita autorizzazione amministrativa. Ha riferito che in quell’occasione solo il Qu. si recò in loco al fine di perlustrare detta area. Ha specificato che anche in passato, a titolo di cortesia, aveva consentito alla SI***I di depositare per alcuni giorni (senza una previsa data di scadenza) del materiale sul suo terreno. Ha spiegato che nel giorno dell’incidente l’area utilizzata per il deposito dalla SI***I era delimitata da una fascia gialla. Ha riferito che tutti gli operai della SI***I provvedevano allo scarico dei materiali (inizialmente sostiene che anche Ta. e Qu. partecipavano alle operazioni di scarico, mentre successivamente chiarisce che i due non avevano mai partecipato a tali operazioni che erano effettuate unicamente dagli operai). Ha dichiarato che 1’1 agosto 2013, alle ore 7.30/8.00 circa, giungeva una squadra a bordo di un autocarro della SI***I, che provvedeva a scaricare del materiale, tra cui tombini e pozzetti. Alle 8.30, dopo aver accompagnato sua moglie a lavoro, notava altri operai della ditta scaricare nuovi materiali. Alle 11.00, ora in cui avveniva l’incidente, alcuni dipendenti, tra cui Ce.S. (il camionista), Sa.F. e la vittima, a seguito di un ripensamento, decidevano di spostarsi a Matera per pranzare, giacché in quel deposito di Gravina la loro opera stava per concludersi. Ha precisato che Ce.S. dava disposizioni a ché De.D. rimanesse in loco per fornire assistenza ad un altro camion che sarebbe sopraggiunto dopo poco tempo, mentre lo stesso sarebbe andato via a bordo dell’autotreno, seguito da Sa.F. alla guida dell’autocarro SI***I. Ha spiegato che mentre interloquiva con gli operai, il camion si trovava di traverso, in posizione a “V”, di guisa che non vi era allineamento tra rimorchio e ralla, ma uno sbilanciamento verso sinistra. Ha riferito, altresì, che il Ce., salito a bordo dell’autotreno, iniziava la manovra procedendo in avanti. Ha chiarito che allorquando il mezzo pesante si sposta in avanti, la ralla si raddrizza e, contestualmente, la ruota anteriore si gira in modo tale da consentire l’allineamento. Ha aggiunto che mentre si dirigeva verso la sua macchina posizionata a soli pochi metri (5 metri), la vittima era in cammino, in particolare seguiva il Saliano parallelamente al rimorchio per raggiungere il furgone. Trovatosi nelle vicinanze del camion, in direzione della ralla, il De. veniva colpito alla gamba dalla ruota anteriore destra dell’autotreno, la quale proseguiva la sua corsa fino a raggiungere il torace dell’uomo. Ha dichiarato di aver visto l’uomo mentre cadeva a terra. Al momento del fatto, ha riferito che l’operaio Sa.F. era nel furgone (indicato nella planimetria con la lettera F). Nell’immediatezza dell’accaduto, inoltre, ha precisato che suo figlio tentava, senza riuscirci, di sollevare il rimorchio con il muletto. Pertanto, Ce.S., il conducente dell’autotreno, in un primo momento ignaro della situazione che si stava verificando per via della scarsa visibilità dovuta alla posizione trasversale (a “V”) del camion, provvedeva a sollevare il rimorchio, appesantito dalla presenza di un Bobcat, con l’escavatore. Ha aggiunto che, dopo aver estratto - tirandolo per le scarpe - il corpo dalla ruota, il malcapitato era già deceduto, nonostante il repentino sopraggiungere del servizio di pronto intervento.
Dalle dichiarazioni rese in sede dibattimentale all’udienza del 15 maggio 2018 da Sa.F., operaio, addetto agli scavi della SI***I, è emerso che la sua squadra di lavoro era composta generalmente da 3 persone, tra cui Ce. e De.. Ha dichiarato che il suo datore di lavoro era il Tr., il quale si occupava generalmente della parte amministrativa. Ha precisato, altresì, che il suo caposquadra, Ce.S., solitamente riceveva direttive da Ta. e Qu.. Ha aggiunto che nei giorni precedenti l’incidente, aveva lavorato - unitamente alla sua squadra di lavoro - per circa 17 giorni nei pressi di un cantiere sito in
Nardo. Terminato ivi il lavoro, su disposizione del responsabile, trasferivano i mezzi, gli attrezzi ed i materiali nel cantiere di Gravina. Ha precisato che durante il trasferimento Lecce - Gravina, affiancava il suo collega De., alla guida del furgoncino, mentre Ce. conduceva il camion. Ha specificato che il Ce. sopraggiungeva in loco circa 30 minuti dopo il loro arrivo. Ha spiegato che per entrare in detto cantiere era necessario suonare il campanello, in quanto solo il proprietario dell’area, Sc.G., possedeva le chiavi del cancello automatico. Dopo aver parcheggiato, ha riferito che iniziavano i lavori di scarico del materiale, terminati i quali lui e Ce. si accingevano ad abbandonare l’area, mentre De. sarebbe dovuto rimanere per fornire assistenza allo scarico dei materiali da parte di un altro camion. Dopo aver intrattenuto una breve conversazione nelle vicinanze della cabina del camion con Sc.G., posizionato a solo qualche metro da lui (a metà del mezzo, foto a pagina 22), ha precisato che, percorrendo parallelamente lungo il camion fino all’altezza della ralla, raggiungeva il furgone (distante circa 20 metri) per dissetarsi. Ha riferito, altresì, che mentre beveva, udiva le urla di Sc.G.. In quel momento notava il suo collega De. travolto da una ruota del camion. Ha asserito che in quegli istanti il camion, messo in moto e condotto dal Ce., si spostava presumibilmente di quasi un metro in avanti, attesa la posizione originaria del camion. Ha affermato che De.D. non era al telefono nel momento in cui si verificava l’evento, sebbene avesse notato il cellulare di questi nei pressi della ruota. Ha aggiunto che era il primo giorno in cui la sua squadra di lavoro iniziava l’attività prevista nel deposito di Gravina. Ha dichiarato che il Ce. solitamente si occupava della conduzione dei camion, 150 e 260, nonché, all’occorrenza, anche dell’escavatore. Ha, infine, precisato che al momento dell’incedente avevano finito il lavoro e stavano andando via e per tale motivazione non si spiega il motivo per cui il De. fosse rimasto ancora nelle vicinanze dell’automezzo.
Dalle dichiarazioni rese in sede di istruttoria dibattimentale all’udienza del 15 maggio 2018 da M.V., addetto agli acquisti di materiali e servizi per la SI***I, è emerso che la ditta intratteneva rapporti con lo Sc. per l’acquisto e la fornitura di carpenteria metallica. Ha dichiarato che veniva a conoscenza - per mezzo di comunicazione inviata dalla sede di Milano - della disdetta del contratto di locazione del deposito sito in Matera tra aprile e maggio 2013. Ha aggiunto, altresì, che il rilascio dell’immobile doveva avvenire entro il 30 agosto dello stesso anno. Pertanto, nel mese di luglio si recava personalmente in Matera per eseguire un verbale di riconsegna dell’immobile al proprietario ed effettuare un inventario per gli eventuali danni sopravvenuti durante la locazione. Ha riferito che per verbale di rilascio dell’immobile intendeva la verifica dello stato dei luoghi e degli eventuali danni. Ha spiegato che anticipava la redazione del verbale di constatazione danni nel mese di luglio, allo scopo di rendere possibili eventuali riparazioni ed il successivo ripristino dell’integrità dell’immobile alla riconsegna. Ha precisato che il sito era attivo nel mese di luglio, in quanto erano in corso le operazioni di deposito materiali. Ha affermato che l’ing. M.Tr. era il suo superiore, nonché competente, in accordo con la direzione “Approvvigionamenti”, a stipulare contratti di locazione per immobili e aree di deposito. Ha aggiunto, altresì, che competente all’individuazione di aree da adibire a deposito era il livello operation, di cui faceva parte il Tr.. Ha asserito che Ac.D., subordinato al Tr., era il capogruppo di Ta. e Qu., assistenti tecnici, a loro volta superiori dell’autista Ce.S..
Dalle dichiarazioni rese in sede dibattimentale all’udienza dell’8 ottobre 2019 da D.A.P., gestore di contratti di TELECOM per la SI***I, è emerso che all’epoca dei fatti era responsabile di produzione del cantiere di Nardo, nel quale curava alcune attività per conto della TIM, come l’attivazione di impianti telefonici, la riparazione di guasti, la realizzazione di scavi per l’ampliamento delle reti di telecomunicazioni. Ha dichiarato che a Nardo era stata predisposta un’area destinata al deposito di attrezzature, materiali e mezzi. Ha aggiunto, altresì, che in Puglia, oltre a quello di Nardo, che serviva la provincia di Lecce, la società utilizzava nel 2013 anche un deposito sito in Bari per lo svolgimento di attività nell’omonimo territorio. Dunque, ha spiegato che lo smistamento dei materiali nei suddetti depositi avveniva sulla base di un criterio di prossimità geografica con le zone operative. Ha specificato che in Campania, invece, vi era il deposito di Casandrino (sede principale), nella Città metropolitana di Napoli, oltre a quelli di Battipaglia, Sala Consilina e Benevento. Ha chiarito che solitamente il materiale veniva consegnato direttamente dai fornitori presso la sede. Diversamente accadeva per il trasferimento dei materiali fra le sedi, in cui giocavano un ruolo fondamentale, in funzione anche delle capienze dei magazzini, le figure preposte alla logistica. Ha precisato di essere stato il responsabile del deposito di Nardo e che i suoi superiori gerarchici erano Ac. e Tr.. Ha riferito di non essere mai venuto a conoscenza di un deposito SI***I ubicato in Gravina in Puglia (area Sc.). Ha precisato che l’organigramma previsto per il deposito di Matera, in quanto dipendente dal sito di Bari sottostava gerarchicamente al responsabile del territorio barese, D.Ac., il quale a propria volta era subordinato al Tr., capo SOR (Struttura Operativa Regionale) per il distretto Puglia- Basilicata - Campania. Ha spiegato, altresì, che la scelta - diretta all’individuazione di un sito da destinare a deposito - era di competenza dell’ufficio logistica, ubicato presso la sede di Milano. Ha riferito che, in virtù della sua mansione prettamente operativa nella SI***I, si occupava precipuamente dell’organizzazione delle squadre di lavoro. Ha aggiunto che la società organizzava dei corsi di formazione in materia di sicurezza sul lavoro specifici per le differenti tipologie di personale. Ha specificato che il responsabile della valutazione dei rischi per il deposito di Nardo era individuato come da organigramma societario. Ha puntualizzato che con il termine cantiere deve intendersi il sito presso il quale sono collocati gli uffici, ivi comprese le parte interne ed esterne del sito medesimo, mentre per quanto concerne il deposito, esso deve identificarsi con parte del piazzale esterno in cui vengono ospitati i materiali (ad. es., pali e manufatti) e con la parte interna nella quale è solitamente sistemato altro materiale non adatto alla conservazione all’aperto. Ha chiarito che l’esigenza di utilizzare un nuovo deposito temporaneo poteva sorgere anche dalle segnalazioni provenienti dalla parte operativa; eccetto tuttavia i casi di apertura di depositi temporanei in strutture aziendali non appartenenti alla società, in cui le valutazioni e i relativi adempimenti spettavano alla sede di Milano, restando così esclusa qualsivoglia procedura decisionale interna.
Dalle dichiarazioni rese in sede di istruttoria dibattimentale all’udienza dell’8 ottobre 2019 da G.G., all’epoca dei fatti manager territoriale e responsabile dei cantieri di Sala Consilina - Battipaglia - Benevento - parte di Napoli, è emerso che i depositi SI***I campani solitamente erano funzionali a servire le aree situate all’interno del perimetro regionale, eccetto il conferimento dei materiali di Telecom Italia, per i quali era possibile un flusso interregionale. Ha dichiarato che era prassi che la SI***I si avvalesse di proprie sedi per il deposito di materiali. Ha aggiunto, altresì, che il deposito SI***I sito in Matera era gestito dal management pugliese. Ha precisato che Ac. era suo corrispettivo in grado. Ha spiegato che della ricerca delle sedi se ne occupava un settore apposito della supply chain della SI***I, mentre la valutazione dei rischi era di competenza del “RSSP” (responsabile del servizio di prevenzione e protezione) o, previo conferimento di incarico, dal “SPP” (servizio di prevenzione e protezione). Ha chiarito, altresì, che la scelta di realizzare un nuovo deposito originava dalle peculiari esigenze territoriali, sebbene la fase gestionale venisse demandata alla sede di Milano. Ha specificato che il capo SOR, in funzione di datore di lavoro, aveva il dovere di sorvegliare i luoghi di lavoro, restando ferme, altresì, le responsabilità del “RSSP” e del “SPP”.
Dalle dichiarazioni rese in sede dibattimentale all’udienza del 22 gennaio 2020 da L.A., consulente tecnico di parte nonché specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni, è emerso che, visionati e valutati alcuni documenti, deduceva che il Ce., dipendente della società “SI***I”, si sottoponeva regolarmente (con cadenza annuale) a visite mediche esitanti nella diagnosi di un modesto e lieve deficit uditivo alle alte frequenze bilaterali che non gli impediva di svolgere le mansioni assegnategli. Ha dichiarato, altresì, che vi era la prescrizione di indossare, a tutela della propria incolumità e onde evitare un peggioramento della lieve ipoacusia, alcuni dispositivi di protezione individuale; nonché la controindicazione di guidare macchine operatrici, esclusi i camion. Ha aggiunto, pertanto, che da ciò era possibile trarre una conclusione di tipo clinico, ossia che, la patologia del dipendente, data anche l’età, si inseriva nelle sordità ipoacustiche, maggiormente presenti nei soggetti che lavorano in ambienti rumorosi. Ha chiarito, dunque, che l’udito del Ce. era limitato nella parte più estrema del campo frequenziale, sede delle frequenze più acute (ad. es., trilli, strumenti musicali più acuti), non essendogli, di conseguenza, preclusa la comprensione di messaggi vocali, i quali si collocano generalmente in frequenze più basse (dai duemila ai tremila hertz), fatta eccezione per le vocali e le consonanti “S” e “T”. Pertanto, ha riferito che il succitato stato clinico del dipendente non interferiva in alcun modo nella dinamica dell’incidente, in quanto in presenza di urla, lo spettro frequenziale della persona de quo sarebbe stato in grado di percepirle senza alcun problema. Ha spiegato che con gli esami audiometrici, al fine di stabilire l’idoneità lavorativa, si cerca di indagare le frequenze più acute del campo uditivo, le quali si aggirano intorno ai quattromila fino ai seimila hertz. Ha chiarito che i decibel misurano l’intensità, mentre la frequenza indica la tonalità. Nel caso di specie, il deficit uditivo del Ce. veniva definito come modesto e lieve, tale da non percepire i toni delle frequenze ad un’intensità inferiore di 30 decibel. Ha aggiunto, altresì, che nel dipendente esaminato erano compromesse solo le frequenze più alte (dai quattromila, seimila e ottomila hertz), rientrando, invece, nella normalità quelle più basse, a tal punto da consentirgli, dunque, di essere alla guida di pullman e camion. Per quanto concerne la dinamica dell’incidente, ha dichiarato che la vittima era stata lesionata sull’emiparte destro del corpo, venendo, pertanto, investita dai piedi alla faccia. Ha puntualizzato che la ricostruzione dell’incidente - riportata nell’ultima pagina della sua consulenza - era frutto di sue valutazioni, a seguito di lettura della documentazione fornitagli dal difensore. Sul punto, con riferimento alla situazione che la vittima si stesse muovendo, così come descritto nella sua consulenza, ha chiarito che effettivamente, alla luce degli atti esaminati, non era possibile definire tale aspetto. In ordine alla circostanza che la vittima fosse di spalle, ha spiegato che seguendo un ragionamento di tipo ipotetico controfattuale, si sarebbe verificata una diversa dinamica. Ha precisato, altresì, che il deficit uditivo del Ce. non ha avuto alcuna incidenza nella realizzazione dell’evento, poiché se vi fossero state dell’uria di ammonimento, le avrebbe potute percepire. Con riferimento al punto 4 della sua consulenza, nel quale si afferma l’assenza di un nesso eziologico tra il verificarsi dell’incidente e le carenze organizzative e strutturali in violazione degli artt. 63 - 64 del d.lgs. 81/2008, ha specificato che tale valutazione, seppur non ancorata ad alcuno studio, si doveva alle sue competenze tecniche di medico. Ha chiarito, altresì, che la mancata predisposizione di un piano di valutazione dei rischi non aveva inciso sulla dinamica dell’incidente.
Dalle dichiarazioni rese in sede istruttoria all’udienza del 4 febbraio 2020 da Ch.St., consulente tecnico di SI***I, nonché esperta in materia di crisi di impresa e di modelli 231, è emerso che il suo incarico riguardava principalmente nel controllo della tenuta del sistema 231, con riferimento al d.lgs. 81/2008 in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, da parte di SI***I. Ha dichiarato che il modello 231 applicato in SI***I era dinamico ed efficace, in continua manutenzione e con procedure concrete. Ha aggiunto, altresì, che il modello era stato da poco revisionato e aggiornato, nonché approvato dal Consiglio di amministrazione il 28 gennaio 2013, in concomitanza con l’aggiomamento del documento di valutazione dei rischi. Ha precisato che il modello 231 veniva implementato in SI***I a partire dal 2004, a cui seguiva il compimento di successivi e frequenti aggiornamenti, puntualizzando, inoltre, che l’organismo di vigilanza 2013 era composto dal dott. V., audit, e dagli avvocati R. e G., entrambi penalisti. Ha chiarito che l’organismo di vigilanza (pagina 33 della consulenza) controlla che la società introduca un sistema di prevenzione, un modello costituito di procedure e istruzione operative, atto a prevenire la commissione di reati da parte sia di soggetti posti in posizione apicale che di dipendenti. Tale organismo, inoltre, predispone le ispezioni sul comparto sicurezza, incontrando con cadenza almeno annuale il responsabile della sicurezza. Sul punto, ha riferito di aver verificato che il controllo interno funzionasse. Ha puntualizzato che il R.S.P.P, ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. 81/2008, indiceva periodiche riunioni per la prevenzione e protezione dei rischi con il datore di lavoro. Pertanto, vi allegava (allegato n.15), a titolo esemplificativo, il verbale di una delle riunioni. Ha spiegato che il documento di valutazione dei rischi predisposto da SI***I (di cui all’allegato 3 della consulenza) era molto dettagliato: infatti, erano individuate le aree di attività ed enucleate le diverse funzioni, nonché i relativi rischi. Pertanto, tale documento veniva considerato come un audit super specifico. Per quanto concerne la procedura “risorse e gestione immobili” (allegato 5 della consulenza), ha aggiunto che vi era un ufficio centralizzato deputato al compimento di tutti gli adempimenti, ivi compresa la stesura del documento di valutazione dei rischi sottoscritto e dal responsabile della prevenzione e sicurezza, ing. Ci., e dal datore di lavoro Tr. (per la Puglia il SOR). In particolare, per il deposito di Matera era stata avviata una procedura per la gestione dei depositi che prevedeva il necessario coinvolgimento della funzione “logi”, una funzione centrale svolta da un ufficio, prevalentemente con mansioni amministrative e legali, con sede unicamente in Roma e Milano. Ha puntualizzato che il responsabile della prevenzione e della sicurezza Puglia era un’unica figura, l’ing. Ci., mentre per ogni SOR era nominato un datore di lavoro: nella fattispecie, per le regioni Campania - Puglia - Basilicata veniva nominato l’ing. Tr.. Ha specificato che larga parte dell’attività amministrativa - tra cui la stipulazione e la disdetta di contratti di locazione, la predisposizione del piano di prevenzione e sicurezza - veniva gestita a livello centralizzato, ad eccezione della manutenzione ordinaria e della stipula di contratti di valore inferiore ai 50.000,00 Euro (pagina 27, paragrafo 3 della consulenza), la cui gestione avveniva a livello decentralizzato (direttamente dalla SOR). Ha riferito, altresì, che il contratto di locazione relativo al deposito di Matera, per il quale erano stati valutati i rischi in materia di trasporto, viabilità, salute e sicurezza, veniva stipulato nel 2009 e disdettato nel febbraio 2013, con successivo trasferimento dei materiali (cavi, muletti) nei depositi pugliesi (Bari e Nardo) da compiersi - come da precise indicazioni provenienti dalla funzione centralizzata - entro il 30 agosto 2013. Ha affermato, inoltre, che la riconsegna dell’immobile avveniva in data 6 settembre 2013. Ha aggiunto che la società SI***I era stata una delle prime aziende ad ottenere la certificazione OHSAS, appartenente al tipo ISO, attestante la predisposizione di un sistema di gestione della sicurezza e della salute dei lavoratori adeguato a standard internazionali. Riguardo all’incidente avvenuto l’1 agosto 2013, ha chiarito che le squadre di lavoro di Matera, in vista delle imminenti ferie di ferragosto e considerato il termine ultimo per il trasloco, fissato per il 30 agosto, decidevano di iniziare con qualche settimana di anticipo il trasporto dei materiali nei depositi pugliesi. Sulla specifica procedura aziendale, ha precisato che nella fase di chiusura era stata inviata una mail dalla funzione centralizzata, la quale era stata in precedenza debitamente avvisata, contenente la prescrizione di rilasciare l’immobile entro il 30 agosto senza causare danni. Nonostante ciò, sul finire di luglio, omettendo di attivare le specifiche procedure aziendali (mancato avviso alle funzioni centralizzate O.G., assenza di documento di valutazione dei rischi ad hoc e di contratto di locazione scritto e registrato), l’Ac., unitamente ad altri dipendenti, decideva di conferire pro tempore - in vista del successivo deposito nelle aree di Bari e Nardo - i materiali in area Sc.. Ha asserito che all’epoca dei fatti Lo.S. era amministratore delegato in SI***I, mentre Tr.M., era un dirigente, nonché, ai sensi del d.lgs. 81/2008, datore di lavoro. Dunque, seguendo la catena del d.lgs. 81/2008: Ci. era il R.S.S.P.; Tr.M. era il datore di lavoro; Ac.D. era il dirigente delegato; Ce. (caposquadra scavi) e Ta. (assistente tecnico) erano i preposti. Ha dichiarato che le S.O.R. erano autonome finanziariamente per il compimento di opere di manutenzione non superiori ai 30.00,00 Euro, precisando, altresì, che per spese superiori a tale soglia era necessaria idonea autorizzazione. Ha puntualizzato che il Tr. era datore di lavoro per due S.O.R. (Sicilia e Campania), di conseguenza anche per la vittima De.. Ha riferito che le funzioni centralizzate avevano il compito di adempiere agli obblighi di sicurezza. Nel caso di specie, ha chiarito che la predisposizione del documento di valutazione dei rischi era di competenza del Ci., in quanto R.S.S.P., mentre lo svolgimento delle altre incombenze, afferenti ad impegni di spesa inferiori a 30.000,00 Euro, era demandate al Tr. (capo S.O.R.). Sul punto, ha specificato che il documento di valutazione dei rischi veniva sottoscritto dal Ci. e dal Tr., oltre che dal medico competente. Ha dichiarato, altresì, che, ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. 81/2008, il datore di lavoro (nel caso di specie Tr.) non poteva delegare la valutazione dei rischi, né la designazione del responsabile del servizio di prevenzione. Ha specificato che il contratto di locazione del deposito di Matera - inferiore alla soglia di 50.000,00 Euro - veniva sottoscritto a livello locale da Ti.Ma., uno dei responsabili amministrativi della S.O.R.. Ha dichiarato che nella scheda di valutazione dei rischi (pagina 1 di 5, Allegato 4) erano previste specifiche misure di prevenzione nell’eventualità di investimento delle persone (valutato come rischio medio a probabilità vasta): in particolare, la verifica della visibilità a pieno carico, la delimitazione della zona di transito e la verifica della sua larghezza, il rispetto della segnaletica nonché del segnalatore acustico di manovra. Ha aggiunto che non era stata presa in considerazione la circolazione di un camion con rimorchio. Ha chiarito che per attività propedeutiche (termini che si ritrovano a pagina 28 della consulenza tecnica) si riferiva precipuamente al documento di valutazione dei rischi di Matera, il quale presupponeva lo svolgimento di alcune attività. Ha dichiarato di aver estratto, avvalendosi di una società specializzata nel settore informatico, la “Digital Forensics Bureau”, copia forense delle mail, in entrata ed in uscita, del Tr. ricomprese nel periodo gennaio - luglio 2013, aggiungendo, altresì, che da ciò era possibile dedurre, giacché non oggetto di interlocuzioni via mail antecedenti il giorno dell’incidente, che lo stesso fosse ignaro della presenza di un deposito in Gravina. Ha dichiarato di condividere la conclusione dell’ing. De Leo (pagine 45 e 47 della sua consulenza tecnica), in base alla quale, all’epoca dei fatti, la presenza di uomini a terra non avrebbe determinato costi aggiuntivi per la SIRTL
Nella sua consulenza sottolinea che non vi era alcuna relazione tra la chiusura del deposito di Matera e la necessità di utilizzare in sostituzione di quest’ultimo altri depositi. SI***I, infatti, disponeva di altri due depositi in Puglia, a Bari e Nardo, e lo stoccaggio, sicuramente momentaneo, di alcuni materiali, veniva infatti deciso in autonomia da alcuni dipendenti. Non venivano infatti informati il responsabile della S.O.R. Puglia, cioè il Tr., e il R.S.P.P., ossia il Ci., soggetti questi che avrebbero avuto la responsabilità di verificare l’adeguatezza del deposito temporaneo. La funzione Sicurezza e Prevenzione non essendo a conoscenza dell’esistenza del deposito temporaneo non ha pertanto attivato alcuna procedura per la verifica delle condizioni relative alla sicurezza dell’area di Gravina in Puglia. Al contrario, la SI***I nel momento di messa in funzione del deposito di Matera aveva attivato tale funzione in coerenza con le procedure aziendali per la verifica dei luoghi e per la redazione dello specifico D.V.R. sottoscritto sia dal datore di lavoro che dal R.S.P.P.. Sottolinea, altresì, che nel caso specifico data la dinamica dell’incidente era evidente che l’eventuale redazione di qualsiasi documento sulla sicurezza non avrebbe comunque potuto evitare quanto accaduto. Inoltre, come dichiarato dallo stesso consulente del P.M., l’unica precauzione che avrebbe potuto forse evitare l’incidente sarebbe stato il posizionamento di uomini a terra nel momento della manovra dell’automezzo; precauzione quest’ultima che certamente non avrebbe comportato alcun costo aggiuntivo per la SI***I.
Ta.L., in sede di spontanee dichiarazioni rese in udienza, ha affermato che nei primi giorni di luglio 2013 il dirigente Ac. gli riferiva che era sorta la necessità di liberare il deposito di Matera per cui era necessario individuare un’altra area alternativa nei pressi di Matera alla luce delle commesse di lavoro ancora pendenti per conto della Telecom. Per tali motivazioni Ac. gli suggerì di contattare Sc.G., uno dei fornitori della SI***I, in quanto titolare di un’azienda che aveva un’ampia area che poteva essere adibita a deposto temporaneo. Poiché la persona preposta all’individuazione e alla supervisione di dette aree era il Qu. era stato costui a prendere contatti con lo Sc. per effettuare un sopralluogo. Poco dopo, comunicava ad Ac. della disponibilità dello Sc. circa la concessione delle aree e Ac. gli comunicava che si sarebbe da solo occupato della predisposizione delle misure di sicurezza necessarie a rendere idoneo il luogo di lavoro.


La valutazione delle prove
L’istruttoria dibattimentale ha rivelato che nel luglio 2013 il Ta. (dipendente della SI***I e nominato preposto) - su indicazione dell’Ac. (dirigente della SI***I spa) contattò telefonicamente Sc.G. per chiedere di utilizzare parte della area di proprietà della sua azienda come deposito temporaneo di materiali di proprietà della SI***I. Il Qu., in quanto operaio della SI***I con funzioni di eseguire sopralluoghi ed organizzare lavori nei cantieri per l’approvvigionamento dei materiali, d’intesa con il Ta. e l’Ac., si recava presso il sito dello Sc. per effettuare un sopralluogo e verificare che l’area fosse idonea a contenere i materiali. In data 1 agosto 2013 il Ce.S. e la sua squadra, composta dal de cuius e dal Sa., trasportarono il materiale e le attrezzature del cantiere dell’area di Nardo (presso cui avevano concluso i lavori in data 31 luglio 2013) presso l’area di proprietà dello Sc..
Al termine delle operazioni di scarico, Ce.S., Sa.F., De.D. e Sc.G. si ritrovarono a parlare in prossimità della cabina dell’autocarro IVECO Magirus lato passeggero; Ce.S. dispose che De.D. avrebbe dovuto attendere l’arrivo di un altro carico di materiale mentre il Sa. sarebbe dovuto andare con lui presso il deposito di Matera. A quel punto, Sa.F. si diresse verso il furgone e vi salì sopra per dissetarsi, Ce.S. salì sull’automezzo, Sc.G. raggiunse la sua auto e, mentre saliva a bordo, rivolgendo lo sguardo verso l’autocarro vide il De. travolto dal rimorchio e si mise ad urlare così da attirare l’attenzione del Ce. che fermò immediatamente l’autocarro, ma la ruota anteriore destra del rimorchio aveva già raggiunto il torace e l’emifaccia destra del capo del De..
È, inoltre, emerso dalle dichiarazioni del consulente del P.M. che l’incidente si sarebbe evitato con il posizionamento di un uomo a terra nel momento della manovra dell’automezzo e che tale precauzione non avrebbe avuto alcun costo di implementazione da parte della società. È emerso, altresì, chiaramente, che la decisione di spostare temporaneamente alcuni materiali della SI***I nel deposito di Gravina in Puglia è stata presa da alcuni dipendenti senza avvisare il datore di lavoro Tr. e quindi le funzioni aziendali preposte alla gestione dell’apertura di nuovi depositi e alla sicurezza. Inoltre, è emerso che l’area di proprietà dello Sc. era tale da poter accogliere il materiale della SI***I e che tale materiale veniva accatastato separatamente e delimitato dagli altri materiali presenti. Inoltre, è apparso evidente che le strutture preposte alla gestione dei depositi fossero certamente a conoscenza della decisione di rilascio del deposito di Matera, ma non della necessità di attivare un nuovo deposito in sostituzione di quest’ultimo, in quanto i materiali ben avrebbero potuto essere immagazzinati nei depositi di SI***I già presenti in Puglia e non presso altre aree per cui la società, peraltro, non deteneva alcun titolo di utilizzo. Ne è riprova il fatto che la prima mail avente ad oggetto l’area Sc. è quella inviata da Ac. a Tr. in data 1 agosto 2013, in seguito all’infortunio mortale, mentre nelle date precedenti non vi è alcuna traccia di comunicazione, dell’utilizzo dell’area di Gravina in Puglia, ai vertici della società.

Il reato omissivo colposo
Preliminarmente occorre osservare che l’agire imprudente del lavoratore (più volte invocato dalle difese) può rilevare o nell’ottica dell’elemento oggettivo del reato, sotto il profilo dell’interruzione del nesso causale, oppure dell’elemento soggettivo, sotto il profilo dell’esclusione della colpa del datore di lavoro. Nel caso di specie occorre rilevare come alla condotta pur certamente imprudente del lavoratore, non possa attribuirsi efficacia interruttiva del nesso causale. Il comportamento del lavoratore può, infatti, essere ritenuto abnorme - e dunque tale da interrompere il nesso di condizionamento - allorquando sia consistito in una condotta radicalmente, ontologicamente lontana dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili scelte anche imprudenti del lavoratore nell’esecuzione del lavoro (già Cass. Sez. 4 n. 7267 del 10.11.2009). È, dunque, abnorme soltanto il comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro.
Nel caso in esame il comportamento del De. non appare abnorme in quanto costui si era limitato a fermarsi nel piazzale in cui era collocato il mezzo che poi lo ha travolto in quanto, su disposizione del Ce., stava attendendo l’arrivo di altri camion per coadiuvare le operazioni di scarico dei materiali.
Tale conclusione è del resto del tutto conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui compito del titolare della posizione di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi dell’incolumità fisica intrinsecamente connaturati all’esercizio di talune attività lavorative, anche nell’ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Il garante non può, infatti, invocare a propria scusa, il principio dell’affidamento assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia in quanto il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa. Ne deriva che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata da eventuali responsabilità dei lavoratori.
Da ciò consegue che non può essere ravvisata nel caso di specie la interruzione del nesso causale. L’operatività dell’art. 41 comma 2 c.p. è, infatti, circoscritta ai casi in cui la causa sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima condotta (Cass. Sez. 4 nr. 25689/2016). Non può, pertanto, ritenersi causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento il comportamento imprudente del lavoratore, a meno che quest’ultimo abbia posto in essere una condotta del tutto esorbitante dalle procedure alle quali è addetto ed incompatibili con il sistema di lavorazione; ma abbiamo visto che nel caso in disamina il lavoratore era rimasto nel piazzale in quanto stava attendendo altri camion per coadiuvare le operazioni di scarico delle merci.
Ciò posto, occorre evidenziare che nei reati colposi l’indagine sull’esistenza del nesso di condizionamento deve affrontare un problema di importanza focale: è, infatti, necessario accertare quale sia la regola cautelare violata e se essa abbia o meno cagionato l’evento. L’intera struttura del reato colposo si fonda su questo specifico rapporto tra inosservanza della regola cautelare di condotta ed evento, che viene designato con l’espressione “causalità della colpa”. Questo concetto come è noto si fonda normativamente sul dettato dell’art. 43 c.p., a tenore del quale è necessario che l’evento si verifichi “a causa” di negligenza, imprudenza, imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline. La formulazione della disposizione è imprecisa in quanto la violazione del dovere di diligenza, quale entità concettuale, non può essere considerata effettivamente causa dell’evento in senso fisico-materiale. La causa dell’evento è sempre la condotta materiale la quale, però, nei reati colposi deve essere caratterizzata dalla violazione del dovere di diligenza. Questo, quindi, il significato da attribuirsi alla norma in esame: nel richiedere che l’evento si verifichi “a causa” di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi ecc... essa esige, ai fini del rimprovero a titolo di colpa, la materializzazione del profilo di colpa nell’evento concretamente verificatosi. La verifica se quella specifica violazione della regola cautelare abbia o meno cagionato l’evento (causalità della colpa), in sostanza non è altro che un giudizio controfattuale compiuto in relazione alla violazione della regola di cautela. E nota la nozione di giudizio controfattuale: esso consiste nell’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione, ci si chiede se nella situazione così mutata si sarebbe verificata oppure no, la medesima conseguenza. Esso costituisce, pertanto, il fondamento della teoria della causalità accolta nel nostro codice e cioè della teoria condizionalistica. Come è stato chiarito dalle Sezioni Unite il giudizio controfattuale va compiuto sia nella causalità commissiva che in quella omissiva, ipotizzando nella prima che la condotta sia stata assente e nella seconda che sia stata, invece, presente e verificando il grado di probabilità che l’evento si producesse ugualmente. Bisogna, dunque, chiedersi se, ove quella condotta dell’uomo non fosse stata assente o non fosse stata presente l’evento si sarebbe verificato egualmente oppure no. È chiaro che solo se la risposta è negativa l’evento tipico sarà attribuibile all’agente. Un singolo fattore - e quindi la condotta del reo - potrà non costituire condizione sufficiente nel senso che per il verificarsi dell’evento tipico occorre l’intervento di altri fattori, ma dovrà, comunque, costituire condizione necessaria nel senso che senza di esso l’evento non avrebbe luogo.
Ciò presuppone, naturalmente, l’accertamento della causalità materiale dell’evento e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo che è preliminare alla formulazione del quesito controfattuale perché solo quando sia stata individuata l’origine eziologica dell’accadimento lesivo è possibile accertare la violazione della regola cautelare. In breve, la colpa si configura quando la cautela richiesta avrebbe avuto significative probabilità di successo; quando cioè l'evento avrebbe potuto essere ragionevolmente evitato.
Quanto al profilo soggettivo della colpa deve, inoltre, rilevarsi - come ampiamente esposto dalle Sezioni Unite nella nota vicenda relativa alla ThyssenKrupp - che “esso viene generalmente individuato nella capacità soggettiva dell'agente di osservare la regola cautelare, nella concreta possibilità di pretendere l'osservanza della regola stessa, in una parola nella esigibilità del comportamento dovuto. Si tratta di un aspetto che può essere collocato nell'ambito della colpevolezza, in quanto esprime il rimprovero personale rivolto all'agente: un profilo della colpevolezza colposa cui la riflessione giuridica più recente ha dedicato molta attenzione, nel tentativo di rendere personalizzato il rimprovero personale attraverso l'introduzione di una doppia misura del dovere di diligenza, che tenga in conto non solo l'oggettiva violazione di norme cautelari, ma anche la concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola, valutando le sue specifiche qualità personali. Dunque, in breve, il rimprovero colposo riguarda la realizzazione di un fatto di reato che poteva essere evitato mediante l'esigibile osservanza delle norme cautelari violate”.
Tali accenni mostrano che, da qualunque punto di vista si guardi alla colpa, la prevedibilità ed evitabilità del fatto svolgono un articolato ruolo fondante: sono all’origine delle norme cautelari e sono inoltre alla base del giudizio di rimprovero personale. Come già detto si tratta di identificare una norma specifica, avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che all'epoca della creazione della regola consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti; e di identificare misure atte a scongiurare o attenuare il rischio. L'accadimento verificatosi deve cioè essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, deve costituire la concretizzazione del rischio. Ma il profilo causale della colpa si mostra anche da un altro punto di vista che attiene all'indicato momento soggettivo, quello cioè più strettamente aderente al rimprovero personale. Affermare, come afferma l'art. 43 cod. pen., che per aversi colpa l’evento deve essere stato causato da una condotta soggettivamente riprovevole implica che l’indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) non avrebbe comunque evitato l'evento.
Nel caso di specie è chiaro che: 1. la regola cautelare violata è l’omessa predisposizione di un DVR che prevedesse, per la circolazione di automezzi con rimorchio, che il percorso da effettuare fosse guidato da un uomo a terra che, a sua volta, provvedesse alle necessarie segnalazioni per assicurare l’incolumità delle persone presenti; 2. si è concretizzato esattamente il rischio che quella norma cautelare tendeva a neutralizzare, ossia l’investimento di un lavoratore; 3. l’evento morte era prevedibile in quanto la circolazione incontrollata del mezzo incriminato costituisce di per sé un pericolo in un’area dove si muovono sia mezzi motorizzati che lavoratori; 4. che la morte del lavoratore poteva essere evitata mediante l’esigibile osservanza della norma cautelare violata.
Nel caso di specie bastava che il Sa.o aiutasse il Ce. nella manovra per evitare la morte del De..
Qui di seguito le singole posizioni.

LO.S.
Secondo l’ipotesi accusatoria il Lo. risponderebbe dell’omicidio colposo in quanto in qualità di amministratore delegato della SI***I spa avrebbe omesso di adottare il Documento di Valutazione dei rischi, generale e valido per l’intera società, che contemplasse il rischio connesso alla “realizzazione di nuove unità produttive” ed “agli spostamenti da una unità produttiva ad un’altra con traslazione dei materiali” di pertinenza della SI***I spa, nonché una ulteriore e specifica valutazione delle peculiarità del deposito temporaneo di Gravina in Puglia e dei relativi rischi, ed infine il non aver adeguato tale deposito alle disposizioni di cui all’all. IV del Dlgs 81/08. Risponde, altresì, in quanto nella sua qualità di datore di lavoro del De. avrebbe dovuto redigere il DVR in quanto attività non delegabile.
Tali assunti non hanno trovato riscontro nell’attività istruttoria che ha invece documentalmente provato, attraverso le allegazioni della consulenza della Ch., che la SI***I s.p.a. aveva adottato un DVR sufficientemente esaustivo e aggiornato fino alla data del 28 gennaio 2013.
Lo stesso, infatti, nella Sez. I contiene: la illustrazione delle attività svolte dalla società; i criteri adottati per la valutazione dei rischi; l’analisi dei rischi per ogni Direzione/Divisione e delle SOR della società suddivisa per ciascuna mansione lavorativa; le misure di sicurezza e la programmazione degli interventi; l’elenco delle attività suddivise per ciascuna Direzione/Divisione.
Nella Sez. II contiene la descrizione della Struttura Organizzativa di SI***I ed in particolare delle singole SOR. Tra queste in riferimento a quella che ci interessa (ossia la Sor Campania- Puglia-Basilicata) erano individuate le figure competenti per la sicurezza: Tr. (datore di lavoro), Ci. (RSSP), L***a, B***i, B***à, C***a (medici competenti), E***o, R***o, M***a, D.L***a, C***o, S***i (RLS).
Nella Sez. III per le varie Divisioni/Direzioni venivano specificate le attività oggetto di potenziali rischi. In particolare per la direzione Field Operations, da cui dipendevano le SOR, venivano indicate diciotto schede di valutazione dei rischi per attività specifiche. Venivano, altresì, indicate le attività di “Meccanico” e di “Gestione magazzino” e nelle attività di carico e scarico materiali mediante mezzi di trasporto motorizzati veniva evidenziato anche il rischio di investimento di persone e quali erano le misure di prevenzione da adottare.
Nella sez. IV venivano elencate tutte le procedure aziendali e le istruzioni Operative integrate nel DVR.
Nella sez. V venivano specificate alcune tipologie di attività specifiche e ricorrenti nelle attività svolte dalla Società analizzando i rischi correlati.
È chiaro, dunque, che la SI***I spa avesse provveduto sia alla valutazione del rischio collegato alla movimentazione dei materiali all’interno dei depositi che alla valutazione degli incidenti provenienti dall’uso di mezzi motorizzati, compreso il rischio di investimento di
persone predisponendo un DVR generale adeguato alla realtà aziendale complessivamente intesa. Mentre le specificità relative ai singoli magazzini dovevano essere ovviamente demandate a successive addenda al documento che dovevano essere gestite in loco dalle singole unità operative e dai relativi responsabili che, diversamente dall’amministrazione centrale, avevano diretta percezione delle necessità periferiche della società, delle caratteristiche dei siti a disposizione e delle correlate esigenze di sicurezza e prevenzione.
Si legge, infatti, nel DVR nazionale della SI***I spa che “i compiti di datore di lavoro sono affidati al responsabile di ciascuna SOR che, a sua volta, è autorizzato a delegare a propri subalterni qualificati singole funzioni e relativi poteri di carattere esecutivo”.
È ovvio, dunque, che il compito di elaborare il DVR specifico per il sito di Gravina, peraltro temporaneo, dovesse essere demandato ad un soggetto periferico qualificato e non, come sostenuto dal pm, al Lo. che aveva già elaborato il DVR generale come previsto dall’art. 17 del Dlgs. 81/2008.
All’uopo bisogna sottolineare che l’istruttoria dibattimentale ha mostrato che, all’epoca dell’evento mortale la SI***I spa aveva circa 4.000 dipendenti ed era suddivisa in cinque SOR (Strutture operative regionali), ognuna dotata di autonomia funzionale e sottoposta alla direzione di una figura aziendale cui erano attribuiti ampi poteri decisionali, direttivi e di spesa (all. III del DVR).
Ebbene, la diffusione di organizzazione aziendali complesse, con suddivisione di compiti e responsabilità fra più soggetti, ha indotto il pensiero giuridico ad uno sforzo di conciliazione fra l’obbligo di protezione imposto al datore di lavoro (principio di rango costituzionale) ed il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale, che esclude che taluno risponda penalmente di eventi causati da azioni od omissioni di altri. Ossia, il dato formale che un soggetto rivesta il ruolo di amministratore di una società di capitali non può automaticamente addossare a tale soggetto la responsabilità penale per tutti i reati commessi nell’esercizio dell’impresa, altrimenti ricorrerebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva vietata dalla vigente Costituzione. Di contro, la semplice previsione di una “delega di funzioni” sarebbe un comodo espediente per sfuggire al precetto penale connesso l’esercizio di talune funzioni, in modo da far scomparire, dietro l’organizzazione dell’azienda, le responsabilità dei singoli. Pertanto si è ricorso al principio dell’effettività delle funzioni quale parametro per verificare se la titolarità di determinate funzioni sia o meno idonea all’assunzione delle responsabilità penali connesse. Se taluno è mero titolare di funzioni, non effettivamente proprie ma in concreto esercitate da altri, non risponderà dei reati commessi nell’esercizio di quelle funzioni; ne risponderà, invece, colui che quelle funzioni le esercita per davvero, con pienezza di poteri, di iniziativa e di responsabilità.
Pertanto, l’oramai unanime giurisprudenza di legittimità insegna che in tema di responsabilità penale all’interno di un ente collettivo, perché la delega di funzioni possa considerarsi liberatoria di chi abbia la rappresentanza e la gestione dell’ente, deve avere forma espressa e contenuto chiaro, deve essere attribuita a persona professionalmente idonea e deve garantire al delegato completa autonomia decisionale e capacità di spesa.
Del resto, tale orientamento è stato confermato dalla giurisprudenza di legittimità che ricollega le sanzioni penali proprie del datore di lavoro non al soggetto che formalmente ricopre tale figura, bensì a quello che in concreto esercita i poteri di supremazia e direzione nell’organizzazione dell’azienda, che sono quelli tipici del datore di lavoro. Ma ancor di più è la stessa ratio della disciplina normativa a fondarsi sul binomio che collega all’attribuzione di responsabilità penali la effettiva possibilità anche solo di conoscere l’esistenza di una situazione da cui discendono, in capo a colui il quale riveste la posizione di garanzia, specifici obblighi di prevenzione.
Nel caso di specie il Lo. ha delegato all’ing. Tr. “gli obblighi del datore di lavoro relativamente agli adempimenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui al decreto legislativo 81/08, nonché la delega di tutte le funzioni organizzative direttive, dispositive, di vigilanza e di controllo che competono all’imprenditore in materia di prevenzione infortuni e igiene del lavoro”. La delega risulta da atto scritto, è stata comunicata a tutte le autorità competenti (come risulta dalla documentazione in atti) e vedeva il Tr. quale “responsabile della Struttura operativa Campania, Puglia e Basilicata”.
Né è riprova definitiva il DVR approvato per il deposito di Matera che era, infatti, a firma di Tr. (quale datore di lavoro della SOR), Ci. (quale RSPP) e C***a (quale medico competente).
A ciò si aggiunga, infine, che nel Modello Organizzativo SI***I spa e, in particolare nella parte relativa alla “gestione degli immobili”, era specificamente previsto che nel momento in cui sorgeva la necessità di locare un nuovo immobile, i contratti inferiore a 50.000 euro (come nel deposito di Matera) sarebbero stati gestiti direttamente dalle SOR interessate e sarebbero state firmate dal responsabile della SOR. Dunque, nel caso di specie Ac. e Ta. avrebbero dovuto comunicare al Tr. la necessità di locare l’area “Sc.” e costui avrebbe dovuto firmare il contratto di affitto per il sito di Gravina in Puglia.
Dunque, la semplice lettura della documentazione aziendale, in uno con i dettami normativi e gli orientamenti giurisprudenziali, avrebbe dovuto escludere del tutto la riconducibilità della morte del De. al Lo. sin dalla prima fase in quanto il datore di lavoro era Tr.M..

TR.M. e CI.R.
A medesime conclusioni si giunge, anche se per ragioni diverse, in merito alle posizioni degli imputati Tr. e Ci. in quanto è pacificamente emerso dalla documentazione in atti e dalle prove testimoniali che ad entrambi fosse sconosciuta la disponibilità ed il relativo uso temporaneo del deposito “Sc.” in quanto nessuna interlocuzione era avvenuta in tal senso né da parte dell’Ac. né da parte del Ta..
È la stessa lettura del capo di imputazione a suggerirlo in quanto esso esclude che il Lo., il Tr. e il Ci. fossero stati informati dall’Ac. e dal Ta..
A ciò si aggiunga che l’analisi della casella mail del Tr., con estrazione con copia forense dei messaggi di posta elettronica inviati e ricevuti da quest’ultimo, mostra che la prima mail che riguardava tale sito era quella dell’1 agosto 2013 in cui Ac. informava Tr. dell’accaduto.
Conclude in tal senso anche il consulente del PM il quale a pag. 40 del verbale stenotipico dell’udienza del 18 febbraio 2018 evidenzia, appunto, che non c’era stata alcuna comunicazione tra le diverse figure interessate e delegate in quanto Ce., Qu., Ta. e Ac. non avevano informato i rispettivi superiori.
Né si può in alcun modo sostenere “al di là di ogni ragionevole dubbio” che il Tr. potesse essere a conoscenza della necessità di utilizzare il deposito “Sc.” in quanto come già detto i materiali del sito di Matera ben potevano essere trasferiti fino al 30 agosto 2013 negli altri due depositi pugliesi e il primo agosto nel deposito improvvisato di Gravina la squadra del Ce. portò materiale proveniente dal cantiere di Nardo e non materiale proveniente dal cantiere di Matera. Ma vi è di più anche gli altri dipendenti SI***I operanti in Puglia, quali M. e D.A., non sapevano dell’esistenza del deposito di Gravina in Puglia. Inoltre il teste G. ha specificato che non era tra le prassi SI***I servirsi di depositi temporanei e non autorizzati.
Dunque, l’istruttoria dibattimentale non ha in alcun modo provato che il Tr., in qualità di datore di lavoro, non solo fosse a conoscenza del deposito temporaneo, ma non ha provato neanche la sua incolpevole ignoranza. Di certo non poteva prevedere che i suoi sottoposti, nonostante la presenza di altri due depositi SI***I in Puglia e del funzionamento del deposito di Matera decidessero autonomamente di utilizzare, per qualche giorno, un deposito non autorizzato.
Infatti ciò che è stato accertato è che Ac., Ta. e Qu. avessero deciso di utilizzare l’area di Gravina in Puglia, sulla base di un rapporto di conoscenza personale di alcuni lavoratori con lo Sc., per una questione di comodità ricollegabile alla vicinanza del deposito temporaneo ad un cantiere vicino (dichiarazione Sc.: “Mi hanno detto se li facevo appoggiare perché avevano un lavoro lì vicino e sopra se lo dovevano portare il materiale...loro mi hanno chiesto un favore “Mi fate appoggiare per il momento?” Avevano lì vicino da lavorare...mi hanno detto un giorno, due giorni”).
Né la circostanza che Sc. abbia riferito che in altre occasioni aveva permesso l’utilizzo del suo terreno a SI***I muta il quadro in quanto non è stato in alcun modo chiarito se in passato lo Sc. avesse acconsentito al semplice deposito di quale materiale; né è stato specificato in quali e quante occasioni e con il coinvolgimento di chi ciò sarebbe avvenuto.
Ancora una volta nessun riferimento è stato fatto al possibile coinvolgimento del Tr..
Del resto sul punto si è espressa più volte la giurisprudenza escludendo che possa essere ascritta al datore di lavoro la responsabilità di un evento lesivo o letale per “culpa in vigilando” qualora non venga raggiunta la certezza della conoscenza o conoscibilità da parte sua di prassi incaute, neppure sul piano inferenziale, dalle quali sia scaturito l’evento (Cass. Sez. IV n. 36778 del 3.12.2020; Cass. Sez. IV nr. 32507 del 22 luglio 2019; Cass. Sez. IV nr. 32507 del 16 aprile 2019).
Ciò che, invece, l’istruttoria dibattimentale ha chiarito è che una volta chiuso il deposito di Matera i materiali ivi giacenti ben potevano essere dislocati negli altri depositi SI***I già esistenti in Puglia e, dunque, non si comprende come il Tr. avrebbe potuto immaginare che i suoi sottoposti scegliessero di utilizzare il deposito di Gravina sfruttando non un rapporto tra la SI***I spa e lo Sc., ma il rapporto personale che quest’ultimo aveva con alcuni dipendenti.
Proprio il non conoscibile utilizzo del deposito di Gravina da parte del datore di lavoro Tr. ha impedito al Ci., in qualità di RSPP, di approntare la valutazione dei rischi e tutti gli adempimenti ulteriori poiché nulla sapeva in merito all’utilizzo dell’area Sc..
Dunque, le considerazioni svolte per il Tr. valgono a maggior ragione per il Ci., ma è chiaro che l’attribuibilità soggettiva del fatto è esclusa dal momento che costui non era stato informato dal Tr. della necessità di procedere agli adempimenti di legge per la sicurezza dei luoghi di lavoro, in quanto a sua volta il datore di lavoro non ne era venuto a conoscenza e, dunque, non può essere chiamato a rispondere di fatti che non solo non poteva conoscere, ma neanche immaginare.
Infatti, per costante orientamento giurisprudenziale, volta stabiliti gli accadimenti fattuali, il giudice del merito deve passare all’indagine sul rapporto di condizionamento tra condotta ed evento poiché questo appartiene all’elemento oggettivo della fattispecie di reato, la cui prova consente di riferire a quel dato soggetto (l’accusato) l’accadimento posto in giudizio. Questa ricerca deve precedere quella sull’elemento soggettivo (la colpa) poiché il rimprovero ha senso anche giuridico, oltre che morale, solo in presenza di accadimento imputabile, ''causato”, da quel soggetto. Tale modo di procedere è imposto dalla lettura dell'art. 27 commi 1 e 3 Cost. Invero, secondo l'insegnamento estraibile della sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale, il rispetto del principio di colpevolezza, inteso sotto l’aspetto obiettivo, postula che una persona non possa essere chiamata a rispondere penalmente (e, quindi, non possa formularsi un giudizio di rimprovero), se non per gli effetti di condotte da lui controllabili. A nulla varrebbe, infatti, osservò allora la Corte, "(...) garantire la riserva di legge statale, la tassatività delle leggi, ecc., quando il soggetto fosse chiamato a rispondere di fatti che non può, comunque, impedire”, perché fortuiti o riferibili all’azione di altro soggetto” (in tal senso già Cass. Pen. n. 44206 del 25.09.2001).

AC.D., TA.L., QU.B. e CE.S.
I comportamenti tenuti dagli imputati Ac., Ta., Qu. e Ce. delineano una tipica situazione di cooperazione colposa.
Il dirigente Ac. è il primo indiscusso protagonista, ma attorno a lui si muovono gli altri tre imputati che, all'interno della organizzazione aziendale, cooperano, interagiscono con costui. Come si è visto, essi in vario modo, nell'ambito delle rispettive qualifiche e competenze, hanno contribuito, aderendo alle scelte del loro dirigente, alla causazione dell’evento. Infatti la complessiva condotta cooperante, che tutti coinvolge, costituisce la colposa causa dell’evento e la fonte delle responsabilità individuali. È alla luce della figura della cooperazione colposa che va dunque apprezzata la correttezza giuridica della affermazione di responsabilità degli imputati.
Della cooperazione colposa disciplinata dall'art. 113 cod. pen. si è occupata ripetutamente la giurisprudenza di legittimità; per quel che qui maggiormente interessa, occorre chiarire quale sia la reale portata della norma in questione nell'ambito delle fattispecie d'evento a forma libera come quella di cui all'art. 589 cod. pen.. In proposito in dottrina vengono sostenute, con diverse sfumature, due tesi di fondo. Secondo l'una l'art. 113 cod. pen., eserciterebbe una mera funzione di modulazione di disciplina, nell'ambito di situazioni nelle quali già si configura la responsabilità colpevole sulla base dei principi generali in tema di imputazione oggettiva e soggettiva: orientamento determinato, al fondo, dal timore che applicazioni disinvoltamente estensive possano vulnerare il principio di colpevolezza. L'altra tesi, invece, reputa che la disciplina della cooperazione colposa eserciti una funzione estensiva dell'incriminazione rispetto all’ambito segnato dal concorso di cause colpose indipendenti, coinvolgendo anche condotte atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione, che per assumere concludente significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte. Tale ultimo indirizzo è implicitamente accolto nella giurisprudenza di legittimità. Esso è senz'altro aderente alle finalità perseguite dal codificatore che, introducendo la disciplina di cui si discute, volle troncare le dispute esistenti in quell'epoca, esplicitando la possibilità di configurare fattispecie di concorso anche nell'ambito dei reati colposi. Tale indirizzo interpretativo trova pure sicuro conforto nella disciplina di cui all'art. 113 c.p., comma 2 e art. 114 cod. pen., che prevedono, nell'ambito delle fattispecie di cooperazione, l'aggravamento della pena per il soggetto che abbia assunto un ruolo preponderante e, simmetricamente, la diminuzione della pena per l'agente che abbia apportato un contributo di minima importanza. Tale ultima contingenza, evocando appunto condotte di modesta significatività, sembra attagliarsi perfettamente al caso di condotte prive di autonomia sul piano della tipicità colposa e quindi non autosufficienti ai fini della fondazione della responsabilità colpevole. Riconosciuto il ruolo estensivo dell'incriminazione svolto dall'art. 113 cod. pen., occorre prendere atto che, pur dopo molte dispute, il confine tra la fattispecie di cooperazione colposa e quella in cui si configura il concorso di cause colpose indipendenti è spesso incerto. L'effetto estensivo si configura senz'altro nei reati commissivi mediante omissione, quando vi sia l'apporto di soggetto non gravato dell'obbligo di garanzia. Una situazione analoga si può configurare quando la regola cautelare violata attiene all'obbligo di prevenire altrui condotte colpose: rientrano in tale ambito i casi di scuola dell'affidamento dell'auto a conducente totalmente inesperto e privo di patente; e quello dell'omessa custodia dell'arma carica che, così, viene imprudentemente maneggiata da persona impreparata. In tutti tali casi traspare l'esigenza di una lettura integrata delle condotte colpose, anche per verificare la realizzazione nell'evento del rischio cautelato dalla regola di diligenza. Meno definita appare la vasta area in cui è presente una condotta che, priva di compiutezza, di fisionomia definita nell'ottica della tipicità colposa se isolatamente considerata, si integra con altre dando luogo alla fattispecie causale colposa. Mentre la condotta tipica dà luogo alla violazione della regola cautelare eziologica, quella del partecipe, come ritenuto da autorevole dottrina, si connota per essere pericolosa in una guisa ancora indeterminata. A tali condotte viene solitamente attribuita valenza in chiave agevolatrice. A tale ambito sembrano riferirsi non solo l'intitolazione dell’art. 113 cod. pen., che evoca il concetto di cooperazione colposa distinto da quello di concorso doloso; ma anche i lavori preparatori, quando si parla di scientia malefica, di consapevolezza di concorrere con la propria all'altrui azione, di fascio di volontà cooperanti nel porre in essere il fatto incriminato. Così definito il contesto, si pone il cruciale problema di individuare il fattore che fa per così dire da collante tra le diverse condotte, delineandone la cooperazione. Tale elemento di coesione viene ritenuto di tipo psicologico, tanto dalla dottrina prevalente che dalla giurisprudenza: si tratta della consapevolezza di cooperare con altri. È però discusso se tale consapevolezza debba estendersi sino a cogliere il carattere colposo dell'altrui condotta. Le contrastanti tesi espresse al riguardo presentano il fianco a qualche critica. Semplificando al massimo i termini di un dibattito ricco di sfumature: la tesi della mera consapevolezza dell'altrui condotta sembra implicare il rischio di creare un'indiscriminata estensione dell'imputazione. D'altra parte, richiedere la consapevolezza del carattere colposo dell'altrui comportamento reca il rischio opposto di svuotare la norma e di renderla inutile, giacché una tale consapevolezza ben potrebbe implicare un atteggiamento autonomamente rimproverabile. Secondo quanto enunciato dalle Sezioni Unite (c.d. ThyssenKrupp) l'importanza dell'indicato tratto psicologico (la consapevolezza di cui si è detto) sia stata spesso enfatizzata. Le situazioni nelle quali le condotte in cooperazione non sono concomitanti propongono qualche dubbio in proposito. Di certo, comunque, le preoccupazioni di eccessiva estensione della fattispecie di cooperazione connesse alla mera consapevolezza dell'altrui condotta concorrente non sono certo prive di peso. Esse pare possano essere arginate solo individuando con rigore, sul piano fenomenico, le condotte che si pongono tra loro in cooperazione. Occorre cioè che il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o almeno sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza”. In tali situazioni, spiega la Corte, l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio giustifica la penale rilevanza di condotte che, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano, si compenetrano con altre condotte tipiche. In tutte tali situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui. Si genera così un legame ed un'integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell'azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Tale pretesa d'interazione prudente individua il canone per definire il fondamento ed i limiti della colpa di cooperazione. La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell'idea di cooperazione colposa.
Tale ordine di idee si rinviene, ad esempio, in alcune prese di posizioni della giurisprudenza di legittimità, che hanno tratteggiato le ragioni che, in nome della cooperazione come modello di doveroso accrescimento dell'efficienza delle cautele, possono giustificare il coinvolgimento anche di soggetti che, nell’ambito di una determinata organizzazione, svolgono un ruolo subalterno e meno qualificato e che, conseguentemente, facilmente svolgono nei fatti un ruolo meno significante. È stata così enunciata, ad esempio, la necessità di un rapporto reciprocamente critico-dialettico tra primario ed assistente ospedaliero, nonostante la posizione subordinata e meno qualificata di quest'ultimo, che ha comunque il dovere di manifestare l'eventuale dissenso rispetto alle scelte terapeutiche.
Orbene, alla luce di quanto sin qui esposto non vi sono dubbi sulla colpevolezza dell’Ac. (nei confronti del quale si procederà ai sensi dell’art. 531 c.p.p. visto il decesso dell’imputato) in quanto l’istruttoria ha ampiamente provato che è stato lui a chiedere al Ta. di verificare la disponibilità del sito di Gravina in Puglia per adibirlo a deposito temporaneo dei materiali SI***I senza poi, una volta ottenuta la risposta positiva in seguito al sopralluogo del Qu., in qualità di dirigente della società per azioni SI***I segnalare al dirigente con funzioni di datore di lavoro, il Tr., la esistenza del deposito Sc., così impedendo di fatto a quest’ultimo e al Ci. di rendere il nuovo luogo di lavoro conforme alla disciplina antinfortunistica. Né tantomeno informava autonomamente i lavoratori circa il rischio di investimento presente nell’area di lavoro e delle misure di sicurezza da adottare, così di fatto violando gli artt. 18 e 20 del D.lgs 81 del 2008 e di fatto determinando colposamente la morte del De., in quanto se avesse attivato i canali giusti, così come previsto nel DVR generale SI***I, sarebbe stato disposto che l’automezzo incriminato si potesse muovere solo alla presenza di uno o più uomini a terra e il lavoratore sarebbe ancora vivo.
Pur se le responsabilità maggiori dell’evento infausto sono riconducibili senza alcun dubbio all’Ac. e alla omessa attivazione di tutta la procedura prevista nel DVR generale della SI***I spa, che avrebbe consentito l’affitto dell’immobile e la predisposizione delle procedure di sicurezza, non può non evidenziarsi che parimenti responsabili sono il Ta. e il Qu., sebbene solo un preposto e un operaio specializzato, in quanto sono stati loro a verificare la disponibilità dell’area e, ritenendolo idonea, hanno autorizzato la squadra del Ce. a farvi ingresso pur essendo perfettamente consapevoli che, per la stessa, non fosse stato attuato alcun adattamento alla normativa antinfortunistica.
È indubbio, dunque, che le condotte operative dei tre abbiano cooperato nella determinazione dell’infortunio mortale perché se solo uno dei tre avesse azionato la procedura corretta e prevista dal DVR generale della loro società, il De. sarebbe ancora vivo. Al contrario il Ta. e il Qu. hanno inviato la squadra del Ce. presso un luogo che non era stato valutato preventivamente, in termini di sicurezza sul lavoro, da parte delle funzioni a questo preposte. Sono stati proprio il Qu. e il Ta. a non impedire che la squadra del Ce. facesse ingresso nel sito di Gravina e a non segnalare, vista la totale e colpevole inerzia dell’Ac., le criticità della situazione al Tr.. Avrebbero, invece, dovuto richiedere l'osservanza delle misure per il controllo delle situazioni di rischio e segnalare tempestivamente al datore di lavoro sia le deficienze dei mezzi e delle attrezzature, sia tutte le altre condizioni di inevitabile pericolo vista la totale assenza dell’attuazione della normativa antinfortunistica in quel luogo, che non poteva essere loro sconosciuta alla luce della formazione ricevuta.
Ed ecco che l’intreccio cooperativo degli imputati, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio giustifica la penale rilevanza delle loro condotte che, sebbene di semplice partecipazione, si coniugano, si compenetrano con altre condotte tipiche quali quelle dell’Ac.. Del resto Ta.L. era stato delegato alla sorveglianza sul rispetto delle misure di sicurezza dei lavoratori sui cantieri nonché all’individuazione del sito e il Qu. era l’addetto che materialmente sorvegliava il rispetto delle misure di sicurezza nelle aree di lavorazione.
Dunque, proprio alla luce di tali competenze avrebbero potuto evitare l’evento mortale.
A medesime conclusioni si giunge in riferimento al Ce. che con condotta assolutamente imprudente ha azionato l’autocarro, pur in assenza di un manovratore a terra e nella consapevolezza che a causa della dimensione del mezzo che guidava non aveva una visibilità sufficiente a coprire ogni punto della traiettoria del rimorchio e del camion stesso.
Nel caso di specie, tenendo conto di tutte le circostanze di fatto della concreta situazione in cui si è trovato il caposquadra, l’investimento del De. con conseguente decesso dello stesso rientrava senz’altro nel novero degli eventi prevedibili di un lavoratore con l’esperienza del Ce. e mediamente avveduto. Va sottolineato, tra l’altro, che il Ce. sapeva che il De. era ancora sul piazzale perché era stato proprio lui a chiedergli di restare. Non vi è dubbio che un comportamento conforme, quantomeno a regole di prudenza, avrebbe senz’altro evitato il verificarsi dell’evento lesivo. Si ripete ancora una volta, bastava che il Ce. chiedesse ad uno dei suoi uomini di guidarlo per evitare la morte del suo collega o bastava che lo stesso informassi i suoi superiori circa la totale assenza di attuazione della normativa antinfortunistica.
I tre dipendenti della SI***I, quindi, svolgevano la loro attività lavorativa in disprezzo di qualsiasi regola che tutelasse la propria e l’altrui sicurezza.
Del resto è propria la normativa antinfortunistica a prevedere che ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle proprie azioni o omissioni, segnalando i deficit di misure di sicurezza al proprio datore di lavoro.
Di qui la colpevolezza anche del Ce. per colpa specifica, oltre che per colpa generica come su descritta.
Giova, infine, precisare - solo per completezza espositiva - che l’istruttoria dibattimentale ha dimostrato che nessuna efficacia causale e nessun legame con l’infortunio sul lavoro ha avuto il problema del deficit uditivo del Ce.. È proprio la formulazione dubitativa del capo di imputazione a suggerire la soluzione, nonché la memoria depositata dal PM (pag. 25). Del resto è stato ampiamente provato che il Ce. ha effettuato pochi metri in avanti, arrestando la sua marcia una volta udite le urla dello Sc.. Si tratta sicuramente di pochi metri perché se il Ce. non avesse immediatamente arrestato la marcia avrebbe superato la vittima e non ci sarebbe rimasto sopra con l’automezzo da lui condotto. A ciò si aggiunga che non è in contestazione che il Ce. potesse guidare camion, in quanto non sono macchine operatrici e che il deficit uditivo del Ce., valutato dal medico competente della SI***I, rilevava solo in riferimento alle macchine operatrici e aveva determinato una lieve ipoacusia priva di rilievo causale sull’investimento di De. poiché relativa a frequenze alte per cui “se ci fossero state delle grida sarebbero state nello spettro frequenziale che il soggetto sarebbe stato in grado di percepire naturalmente, senza nessun problema” (ud. 22 gennaio 2020 dott. Lenzi) e, infatti, il Ce. ha udito le urla dello Sc. arrestando immediatamente l’autocarro.
Si sottolinea, inoltre, che dalle dichiarazioni dei vari testi escussi (es. teste M.) è emerso chiaramente che non vi era alcun motivo per depositare i materiali nell’area “Sc.” in quanto il deposito di Matera era ancora attivo e funzionante e vi erano altri due siti SI***I in Puglia e che, nella mattina incriminata, la squadra del Ce. non trasportò nell’area Sc. materiale proveniente dal deposito di Matera, bensì materiali relativi ad un cantiere di Nardo e non perché non fosse possibile depositarlo negli altri siti SI***I, assolutamente regolari, ma perché il terreno Sc. era “più comodo” per i lavoratori in quanto più vicino al cantiere di Nardo.
Affermata, dunque, la penale responsabilità degli imputati, quanto al trattamento sanzionatorio, valutati i criteri di cui all’art. 133 c.p. (con particolare riferimento alla gravità dei fatti e all’intensità della colpa) si stima equa la condanna di:
- Ta.L., riconosciute le circostanze attenuanti generiche (visto il ruolo minore rispetto alla condotta maggiormente colpevole dell’Ac.) equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di anni uno mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali;
- Qu.B. e Ce.S., riconosciute le circostanze attenuanti generiche (visto il ruolo minore rispetto alla condotta maggiormente colpevole dell’Ac. e la loro qualifica di operai), alla pena di anni uno di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.
Ai sensi dell’art. 163 si ritiene di concedere, alla luce dello stato di incensuratezza degli imputati e dell’efficacia deterrente del presente procedimento, il beneficio della sospensione condizionale della pena.

Sulla responsabilità dell’Ente
L’ipotizzata condotta colpevole della SI***I Spa per assumere rilevanza ai sensi del D.lgs. 231/2001 richiede che il reato sia stato commesso “nel suo interesse o a suo vantaggio”.
Com’è noto, infatti, ai sensi dell’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 in tema di responsabilità penale degli enti per poter attribuire l’illecito alla persona giuridica è necessario che questo sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso.
L’interesse o il vantaggio a cui mira l’ente si pone come presupposto indefettibile, tanto che lo stesso articolo 5 all’ultimo comma prevede che l’ente non possa subire alcuna conseguenza penale nel caso in cui l’autore materiale del reato abbia agito “nell’interesse proprio o di terzi”.
A livello terminologico è stato più volte osservato come il concetto di “interesse” indichi genericamente una connessione teleologica tra il reato e il risultato che attraverso il medesimo ci si propone di conseguire, e il “vantaggio”, invece, debba essere inteso semplicemente come il beneficio che l’ente ha direttamente o indirettamente ottenuto dalla commissione del reato.
A questo proposito può essere esplicativo richiamare la statuizione delle Sezioni Unite della Cassazione nel caso ThyssenKrupp, secondo cui: “In tema di responsabilità da reato degli enti, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 all’«interesse o al vantaggio», sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile “ex ante”, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile “ex post”, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito
Tuttavia con l’entrata in vigore dell’articolo 25 septies del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 relativo ai reati di natura colposa commessi in violazione delle norme in tema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, sono emersi in dottrina e in giurisprudenza forti dubbi sulla materiale possibilità di coordinare l’intenzione dell’ente di cui all’articolo 5 Decreto Legislativo n. 231 del 2001 con quei reati caratterizzati proprio dalla mancanza d’intenzione. Dunque, mentre nessuna criticità è stata mai rilevata in relazione all’ontologico legame che intercorre tra i concetti di “interesse” e di “vantaggio” e i reati presupposto di natura dolosa, non si è giunti alle stesse pacifiche conclusioni in riferimento ai reati colposi.
Ci si è chiesto, infatti, quale vantaggio può trarre un’impresa dalla morte o dalle lesioni di un proprio operaio, o addirittura quale interesse può coltivare in prospettiva della realizzazione dell’evento di danno.
Sul punto si sono succedute numerose teorie atte a determinare una plausibile congiunzione tra l’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 e l’articolo 25-septies del medesimo decreto, e la più corretta è sicuramente quella che facendo leva su un’interpretazione puramente oggettiva della norma, si è soffermata esclusivamente sull’analisi della condotta dell’agente poiché considerata unico elemento idoneo a integrare un beneficio in favore dell’ente. Viene, così, abbandonato ogni aspetto “soggettivo” che invece è tipico dei reati dolosi.
Tale tesi è sicuramente quella che ha trovato il maggior numero di consensi sia in dottrina che in giurisprudenza, in quanto riconosce effettivamente come il vantaggio ottenuto dall’ente sia esclusivamente di carattere oggettivo, consentendo pacificamente di incardinare il percorso di ascrizione della responsabilità della persona giuridica in piena conformità con l’art. 5, Decreto Legislativo n. 231 del 2001.
In effetti, il richiamo preciso che l’articolo 25 septies del citato decreto fa alla violazione di norme antinfortunistiche, e quindi delle regole cautelari pertinenti, impone necessariamente di considerare la predetta violazione come il fondamento della responsabilità.
In altri termini, l’interpretazione complessiva delle norme citate (art. 25-septies e art. 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001) richiede necessariamente all’interprete di concentrarsi sul vantaggio che l’ente ha tratto, non dall’evento lesioni o morte, bensì dalla violazione della disciplina antinfortunistica che ha dato causa l’evento.
È chiaro che la responsabilità penale delle persone giuridiche in tema di delitti colposi in riferimento alla tematica degli infortuni sul lavoro trovi il proprio presupposto esclusivamente nella condotta consistente nella volontaria violazione delle norme antinfortunistiche (o perché espressione di una politica di impresa o perché ha comportato un risparmio di spesa).
Tale soluzione è stata sposata anche dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che nel caso c.d. ThyssenKrupp hanno osservato come l’interpretazione letterale dell’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, condurrebbe a dei risultati assurdi e incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, obbligando l’interprete a scegliere l’unica alternativa: i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico.
Così ragionando non emerge alcuna difficoltà interpretativa: è possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio.
L’unica differenza - ricorda sempre la Corte nella pronuncia richiamata - tra la disciplina della responsabilità penale delle persone giuridiche per i reati dolosi e per i reati colposi concerne solamente l’oggetto di valutazione, che non è l’evento bensì la sola condotta, che ha dato origine alle lesioni o alla morte.
Occorre, pertanto, affermare come i delitti colposi delle persone giuridiche si connotino per una commistione fra dolo e colpa. Infatti, la violazione delle norme antinfortunistica deve essere sempre cosciente e volontaria (in caso contrario non si potrebbe determinare il perseguimento di un interesse o di un vantaggio), ma l’evento non può essere mai voluto (altrimenti il delitto sarebbe doloso).
La Suprema Corte ha recentemente ribadito alcune indicazioni sulle nozioni di interesse e vantaggio di cui al D.Lgs. n. 231/2001 (Cassazione Sez. IV n. 28097/2019). Nel caso affrontato dalla S.C., il datore di lavoro veniva condannato per lesioni colpose in relazione all’infortunio occorso ad un lavoratore durante l’utilizzo di un macchinario. Si accertava in particolare che l’attrezzo era stato manomesso di modo che operasse in continuo e non attraverso un pedale di volta in volta azionato. In relazione alla vicenda, la società veniva chiamata a rispondere dell’illecito amministrativo di cui agli artt. 5, comma 1, lett. a), e 25- septies, comma 3, D.Lgs. n. 231/2001. Secondo la difesa, la modifica apportata allo strumento utilizzato dal dipendente non aveva prodotto alcun vantaggio per l’impresa, poiché l'attività lavorativa svolta non traeva beneficio dal ciclo continuo. Gli Ermellini hanno invece confermato la condanna a carico della società evidenziando che il macchinario era stato illecitamente manomesso per ridurre i tempi di lavorazione e, dunque, i costi di produzione: l’utilizzo dell’attrezzo non costituiva, pertanto, una scelta isolata del lavoratore ma una strategia aziendale. Da ciò, il conseguente vantaggio per l’impresa.
Infatti, ricordano i giudici, "in tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento commessi in violazione della normativa antinfortunistica, i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio (...) ricorrono allorquando l'autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l'ente, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento, o qualora abbia violato sistematicamente le norme antinfortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l'ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso".
È, dunque, necessario che le persone fisiche che hanno causalmente contribuito al verificarsi dell’evento lo abbiano fatto per assicurare un vantaggio all’ente, mentre nel caso in cui la violazione della normativa antinfortunistica nasca dal comportamento negligente di un dipendente che non perseguiva alcun obiettivo identificabile nel profitto o nel risparmio di spesa per la società, la persona fisica potrà essere ritenuta responsabile di omicidio colposo, ma ciò non determinerà una conseguente responsabilità amministrativa dell’Ente.
Nel caso di specie deve premettersi che il fatto che alcuni dipendenti della SI***I abbiano scelto un sito dalle caratteristiche non idonee ad un deposito, come già detto, non è posto in alcun rapporto causale con l’incidente occorso in quanto l’unica violazione in rapporto causale con la morte del De. è quella di non aver disposto che il mezzo condotto dal Ce. si muovesse solo in presenza di un uomo a terra e non certo aver scelto un sito temporaneo non autorizzato.
Ebbene, circa tale violazione è lo stesso consulente del PM - il quale ha più volte spiegato che la morte si sarebbe evitata posizionando uno o più uomini a terra in quanto si era in presenza di un mezzo meccanico trainante un veicolo a causa della ridotta visibilità posteriore - ad affermare che l’adozione di tale misura “non avrebbe comportato alcun costo aggiuntivo per la società, perché l’utilizzo degli uomini della squadra presenti, il De. e il Sa. a terra e il Ce. sull’autocarro, sarebbe stata sufficiente”.
Ne consegue che la previsione di manovratori a terra non avrebbe avuto per la SI***I alcun aggravio di spese e, dunque, non si registra alcun tipo di vantaggio o di interesse in quanto gli uomini che avrebbero potuto guidare il Ce. da terra erano presenti.
Né si può in alcun modo sostenere la sussistenza di un’attitudine consapevole e volontaria, da parte di alcuno, a evitare che il deposito di Gravina fosse stato scelto sulla base di un orientamento gestionale finalizzato ad evitare l’attuazione della misura impeditiva, in quanto, come già detto è lo stesso consulente del PM ad aver specificato che tale misura poteva essere attuata utilizzando le risorse umane già presenti sul luogo di lavoro.
Inoltre, l’istruttoria dibattimentale ha escluso che la SI***I avesse fatto in passato scelte gestionali “illecite” preordinate al guadagno.
A ciò si aggiunga che, anche qualora le norme cautelari fossero state altre, deve ancora una volta evidenziarsi che la scelta di utilizzare un deposito temporaneo è stata fatta solo ed autonomamente da Ac., con la collaborazione di Ta. e Qu., senza interpellare i vertici societari e per una questione di “comodità” per alcuni dipendenti. Tra l’altro la SI***I aveva in essere i depositi di Bari e Nardo, nonché era ancora funzionante quello di Matera.
Dunque, risulta difficile ipotizzare che la scelta di depositare a Gravina in Puglia il materiale di cui trattasi, assunta a livello locale e verosimilmente non comunicata né al responsabile della SOR (Tr.) né al RSPP (Ci.) molto probabilmente a causa della natura assolutamente temporanea dell’esigenza di depositare alcuni materiali presso tale area e collegata ad una questione di comodità degli stessi lavoratori, possa aver recato un vantaggio all’ente.
Tra l’altro, come diffusamente detto, la SI***I aveva predisposto un valido modello organizzativo, di gestione e di controllo ex d.lgs. 231/2001 il quale non si è attivato per un difetto di comunicazione dei dipendenti SI***I con il Tr. il quale, probabilmente ignaro di tutto, non procedeva a contattare e a coinvolgere, come da procedura aziendale né la funzione Lo-Gi per l’attivazione di un potenziale contratto di utilizzo (locazione o comodato), così come previsto dalla procedura aziendale, né la funzione prevenzione e protezione rischi per l’eventuale adeguamento di tale area agli standard di sicurezza previsti.
Del resto la concreta applicazione delle azioni previste dalle specifiche procedure aziendali in relazione al modello 231 ha trovato conferma sia nella fase di apertura che in quella di chiusura del deposito di Matera, dove invece i vertici societari erano stati correttamente informati.
Tali considerazioni escludono la responsabilità amministrativa dell’ente.
Il concomitante e gravoso carico di lavoro impedisce il deposito contestuale della motivazione. 

 

P.Q.M.

 

 

Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p. dichiara TA.L., QU.B. e CE.S. responsabili del reato loro ascritto e condanna:
- Ta.L., riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di anni uno mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali;
- Ce.S. e Quattromi Beniamino, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di anni uno di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.
Letto l’art. 163 c.p. ordina che la pena resti sospesa nei termini e alle condizioni di legge per i tre imputati.
Letto l’art. 531 c.p.p. dichiara non doversi procedere nei confronti di AC.D. in ordine al reato a lui ascritto perché estinto per intervenuta morte dello stesso.
Letto l’art. 530 cpv c.p.p. assolve TR.M. dal reato a lui ascritto per non aver commesso il fatto.
Letto l’art. 530 c.p.p. assolve LO.S. e CI.R. dai reati loro ascritti per non aver commesso il fatto.
Letto l’art. 66 del D.lgs 231/01 dichiara l’esclusione della responsabilità dell’ente SI***I SPA perché l’illecito amministrativo ad esso contestato non sussiste.
Giorni 30 per il deposito della motivazione.

Bari, 1 giugno 2021

Il Giudice
Dott.ssa Antonietta Guerra