Cassazione Penale, Sez. 4, 06 settembre 2021, n. 32899 - Incidente ferroviario di Viareggio. Applicabilità delle norme antinfortunistiche in caso di terzi non soggetti ai rischi propri della lavorazione. Non applicabilità aggravante ex artt. 589-590 c.p..


 

 

 

INDICE
RITENUTO IN FATTO
1. La vicenda ricostruita nelle sentenze di merito e le imputazioni

2. La sentenza di primo grado
3. La sentenza della Corte di appello di Firenze
4. Ricorso nell'interesse di KR.UW.
5. Ulteriore ricorso per KR.UW.
6. Ricorso nell'interesse di BR.HE.
7. Ricorso nell'interesse di SC.AN.
8. Ricorso nell'interesse di LE.JO.
9. Motivi nuovi per LE.JO.
10. Ricorso nell'interesse di LI.PE.
11. Ricorso nell'interesse di KO.RA.
12. Ricorso nell'interesse di MA.RO.
13. Ricorso nell'interesse di MA.JO.
14. Ricorsi nell'interesse di G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germany GmbH e Ju***l Waggon GmbH, quali enti condannati per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001
15. Ricorsi nell'interesse di G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germany GmbH e Ju***l Waggon GmbH, quali responsabili civili
16. Ricorsi nell'interesse di PI.PA. e G.F.D.
17. Ricorso nell'interesse di Ci***Ri*** s.p.a., responsabile civile
18. Ricorsi nell'interesse di CA.MA. e SO.VI.
19. Ricorso nell'interesse di Mer*** Logistics s.p.a. (già FLog*** s.p.a., già Ca*** Che*** s.r.l.), responsabile civile
20. Ricorso nell'interesse di MA.EM.
21. Motivi aggiunti per MA.EM.
22. Ricorso nell'interesse di Tre*** s.p.a. quale ente condannato per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. 231/2001
23. Ulteriori motivi per Tre*** s.p.a., ente condannato per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001
24. Motivi nuovi per Tre*** s.p.a. quale ente condannato ex art. 25-septies
25. Ricorso nell'interesse di Tre*** S.p.a., responsabile civile
26. Ricorso nell'interesse di Mer*** Rail s.r.L, quale ente condannato ai sensi dell'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001
27. Ulteriori motivi per Mer*** Rail s.p.a. quale ente condannato ex art. 25-septies
28. Motivi nuovi per Mer*** Rail s.r.l.
29. Ricorso nell'interesse di FA.FR.
30. Memoria nell'interesse di FA.FR.
31. Ricorso nell'interesse di El.M.[M.]
32. Motivi nuovi per El.M.[M.]
33. Il ricorso nell'interesse di MO.MA. a firma dell'avv. F.C.
34. Il ricorso nell'interesse del Mo.[MA.] a firma degli avv. F.C. e V.A. D.A.
35. Motivi aggiunti per MO.MA.
36. Ricorso nell'interesse di R***I s.p.a, quale ente condannato per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001
37. Ricorso nell'interesse di R***I s.p.a., quale responsabile civile
38. Ricorso nell'interesse di Fe***I*** S.P.A., responsabile civile
39. Il ricorso del Procuratore Generale della Corte di appello di Firenze
40. Ricorso delle parti civili patrocinante dagli avv. A., C., D.L., M.
41. Il ricorso del Comune di Viareggio e dei signori P.
42. Memorie degli imputati e delle parti civili non ricorrenti
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La violazione del principio di precostituzione del giudice e la conseguente nullità ex art. 178, lett. c) cod. proc. pen.

2. Precisazioni preliminari in ordine ai concetti di 'posizione di garanzia', 'norme di dovere', e 'regole cautelari'; condotta attiva e condotta omissiva
3. Le 'norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro' nel contesto degli artt. 589, co. 2 e 590, co. 3 cod. pen.
4. La valenza causale della trasgressione alla regola prevenzionistica
5. Analisi delle disposizioni richiamate nelle contestazioni
6. Esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. e conseguenti statuizioni: a) la prescrizione dei reati di omicidio colposo
7. Segue: b) la carenza di legittimazione attiva delle organizzazioni sindacali
8. Segue: c) l'insussistenza dell'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 e la giurisdizione nazionale sugli enti esteri
9. La richiesta degli operatori stranieri di rinvio pregiudiziale alla CGUE
10. Il ricorso di KR.UW.
11. Il ricorso di BR.HE.
12. Il ricorso di SC.AN.
13. Il ricorso di LE.JO.
14. I ricorsi di KO.RA. e di Li.Pe.
15. Il ricorso di MA.RO.
16. Il ricorso di MA.JO.
17. I ricorsi di PI.PA., G.F.D. e della responsabile civile Ci***Ri*** s.p.a.
18. La struttura del giudizio della Corte di appello quanto al Ca.[MA.], al So.[VI.], all'El.[M.M.], al Mo.[MA.]
19. Colpa generica e colpa specifica. Preesistenza della regola cautelare 'acquisizione di informazioni sulle manutenzioni'
20. Colpa generica e normativa eurounitaria
21. L'accertamento della conoscibilità del rischio di frattura degli assili per difetto di manutenzione
22. La causalità della colpa e la evitabilità dell'evento mediante il comportamento alternativo lecito
23. I ricorsi di CA.MA. e della responsabile civile Mer*** Logistics s.p.a.
24. I ricorsi di CA.MA. quale Direttore della Divisione Cargo di Tre*** e di SO.VI.
25. Il ricorso di MA.EM.
26. Il ricorso di FA.FR.
27. I ricorsi di El.M.[M.] e di MO.MA., quali A.d. di R***I s.p.a. e di R***I s.p.a. quale responsabile civile
28. I ricorsi di MO.MA. quale A.D. di Fe***I*** s.p.a. e di Fe***I*** s.p.a. quale responsabile civile
29. I motivi di ricorso concernenti le statuizioni civili
31. I ricorsi del P.G. e delle parti civili. Il detettore di svio
32. Riepilogo delle statuizioni
DISPOSITIVO

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sui ricorsi proposti
dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Firenze nei confronti di:
CA.MA. ***
CO.GI. ***
D.M.G. ***
FA.FR. ***
FU.AL. ***
MA.EM. ***
MA.GI. ***
MA.EN. ***
SO.VI. ***
dagli imputati:
FA.FR. ***
PI.PA. ***
G.F.D. ***
MO.MA. ***
BR.HE. *** 
E.M.M. ***
CA.MA. ***
SO.VI. ***
LI.PE. ***
MA.JO. ***
KO.RA. ***
MA.EM. ***
MA.RO. ***
KR.UW. ***
SC.AN. ***
LE.JO. ***
dalle parti civili:
ORSA FERROVIE SEGRETERIA PROVINCIALE LUCCA
ORSA FERROVIE SEGRETERIA REGIONE TOSCANA
B.I.
M.G.
A.M.G.
M.C.
F.S.
G.M.
P.A.
C.F.
M.A.
ASS. SIND CUB TRAS.
C.V.
D.A.D.
P.G.
COMUNE DI VIAREGGIO
P.R., M. E L.
PROVINCIA DI LUCCA
R.D.
dai responsabili civili:
Fe***I*** SPA
Tre*** SPA
Ci***Ri*** SPA
Mer*** LOGISTIC SPA
G***x RAIL AUSTRIA GMBH
G***x RAIL GERMANY GMBH
JU***L WAGGON GMBH
REI R***I SPA
dagli enti amministrativamente responsabili:
Tre*** SPA
Ci***Ri*** SPA
Mer*** LOGISTIC SPA
G***x RAIL AUSTRIA GMBH
G***x RAIL GERMANY GMBH
JU***L WAGGON GMBH
R***I R***I SPA
avverso la sentenza del 20/06/2019 della CORTE APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere SALVATORE DOVERE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore PASQUALE FIMIANI che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio quanto all'assoluzione di CO.GI. e D.M.G. ed alla condanna di FA.FR. e di MO.MA. e dei responsabili civili R***I e Fe***I***; rigetto di tutti gli altri ricorsi.
È presente l'avv. C.R. del foro di LUCCA in difesa di M.C. che illustra i motivi di ricorso e deposita conclusioni e note spese.
È presente l'avv. C.G.M. del foro di GENOVA in difesa di M.G. che illustra i motivi di ricorso e deposita nota spese e conclusioni.
È presente l'avvocato M.G. del foro di LUCCA in difesa del COMUNE DI VIAREGGIO, P.M., P.L. e P.R. che illustra i motivi dei ricorsi, deposita conclusioni e nota spese.
È presente l'avvocato M.E. del foro di LUCCA in difesa delle parti civili ricorrenti R.D. e PROVINCIA DI LUCCA e della parte civile non ricorrente CROCE VERDE VIAREGGIO. Il difensore presente illustra i motivi dei ricorsi, deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
È presente l'avvocato B.F. del foro di FIRENZE in difesa di REGIONE TOSCANA E TRASPORTI TOSCANI che deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta
È presente l'avvocato C.R. del foro di LUCCA in difesa di Sindacato Ugl Federazioni Trasporti Autoferrotranvieri Toscana, Sindacato Unione Territoriale Del Lavoro Utl Dell'unione Gen. Del Lavoro Ugl Provincia Lucca che deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
È presente l'avvocato D.C.M. del foro di LUCCA in difesa di R.S. e S.C.. Il difensore deposita originale di rinnovazione di costituzione di parte civile a seguito di subentro di nuovo difensore già in atti.
È presente l'avvocato D.D.C. del foro di NAPOLI in sostituzione dell'avv. D.C.M. per CGIL CON SEDE IN ROMA. Il difensore presente deposita nomina scritta ex art. 102 c.p.p., nota spese e conclusioni a cui si riporta.
È presente l'avv. G.A. del foro di Biella in sostituzione dell'avv. G.M. per O.V.M.. Il difensore presente deposita nota spese e conclusioni e a cui si riporta.
È presente l'avvocato G.A. del foro di BIELLA in difesa di P.M. che deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
È presente l'avvocato M.S. del foro di ROMA in difesa di CITTADINANZA ATTIVA ONLUS che deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
È presente l'avv. M.L. del foro di BUSTO ARSIZIO in difesa di MEDICINA DEMOCRATICA - MOVIMENTO DI LOTTA PER LA SALUTE ONLUS che deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
È presente l'avvocato M.R. del foro di Roma in sostituzione dell'avv. M.A. per N.W. L. E. e P.A., che deposita nomina ex art. 102 c.p.p. e conclusioni a cui si riporta.
È presente l'avvocato F.N. del foro di LUCCA in difesa Di Cgil Regione Toscana, Cgil Provincia Lucca Filt (Federazione Italiana Lavoratori Trasporti) E Cgil Provincia Di Lucca. Il difensore deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
È presente l'avvocato B.F. del foro di LUCCA in difesa di P.F. e P.C. Il difensore deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
È presente l'avvocato D.L.G. del foro di LUCCA in difesa di C.F., G.M., P.G., C.V., P.A., F.S., M.A., Associazione Sindacale Cub Trasporti. Il difensore illustra i motivi dei ricorsi, si riporta alla memoria già in atti e deposita conclusioni e nota spese.
È presente l'avvocato G.A. del foro di ROMA in difesa di D.A.D.. Il difensore illustra i motivi di ricorso e deposita conclusioni e nota spese.
È presente l'avv. A.F. del foro di LUCCA per M.G., B.I., OR.S.A FERROVIE, SEGRETERIA REGIONE TOSCANA, OR.S.A. FERROVIE SEGRETERIA PROVINCIALE LUCCA, A.M.G., OR.S.A. FERROVIE ORGANIZZAZIONE SINDACATI AUTONOMI E DI BASE DEL SETTORE. Il difensore presente illustra i motivi di ricorso, deposita conclusioni e nota spese.
L'avv. A.F. del foro di LUCCA è altresì presente in sostituzione dell'avv. C.S. per OR.S.A. FERROVIE ORGANIZZAZIONE SINDACATI AUTONOMI E DI BASE DEL SETTORE FERROVIE. Il difensore presente deposita conclusioni e nota spese.
È presente l'avvocato M.E.P. del foro di PISA in difesa di ASSOCIAZIONE DOPOLAVORO FERROVIARIO DI VIAREGGIO. Il difensore deposita conclusioni e nota spese.
È presente l'avvocato N.T. del foro di LUCCA in difesa di O.A.. Il difensore deposita conclusioni e nota spese.
È presente l'avvocato B.A.A. del foro di LUCCA in difesa di R.R. e R.S.. Il difensore si riporta alla memoria già in atti, deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
È presente l'avvocato P.T. del foro di LUCCA in difesa di ASSOCIAZIONE "COMITATO MATTEO VALENTI". Il difensore deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
È presente l'avvocato D.C.M. del foro di LUCCA in difesa di R.S. per la quale deposita conclusioni e nota spese; l'avvocato D.C.M. non conclude per S.C..
È presente l'avvocato P.T. del foro di PISA in difesa di G***x RAIL AUSTRIA GMBH e G***x RAIL GERMANIA GMBH. Il difensore illustra i motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento.
È presente l'avvocato M.F. in difesa degli imputati ricorrenti KO.RA., LI.PE., MA.JO.. Il difensore illustra i motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento.
È presente l'avv. R.A. del foro di MILANO in difesa di MA.RO.. Il difensore illustra i motivi di ricorso chiedendone l'accoglimento. 
È presente l'avv. R.U.F.P. A. del foro di TIVOLI in difesa di KR.OW. e di SC.AN.. Il difensore illustra i motivi di ricorso ed insiste per l'accoglimento.
È presente l'avv. P.C. del foro di PAVIA in difesa di KR.OW., SC.(SC***)AN.. Il difensore illustra i motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento.
È presente l'avvocato D.E. del foro di MILANO in difesa di BR.HE.. Il difensore illustra i motivi di ricorso e chiede l'annullamento della sentenza impugnata.
È presente l'avvocato F.A. del foro di PISA in difesa del responsabile civile ricorrente Ju***l WAGGON GMBH. Il difensore illustra i motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento.
È presente l'avvocato L.C. del foro di NAPOLI in difesa di SOCIETÀ G***x RAIL AUSTRIA GMBH, SOCIETÀ G***x RAIL, GERMANY GMBH, SOCIETÀ Ju***l WAGGON GMBH. Il difensore si riporta alle proprie conclusioni e ne chiede l'accoglimento.
È presente l'avv. C.F.C. del foro di ROMA in difesa di MO.MA..
Il difensore illustra i motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento.
È presente l'avvocato S.P. del foro di MILANO in difesa di LE.JO.. Il difensore illustra i motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento.
È presente l'avvocato C.F. del foro di MILANO in difesa di G.F.D. e PI.PA.. Il difensore presente illustra i motivi di ricorso ed insiste per l'accoglimento. L'avv. C.F. è altresì presente in sostituzione dell'avv. G.F.M. per il responsabile civile SOCIETÀ Ci***Ri*** per il quale chiede l'accoglimento dei motivi di ricorso.
È presente l'avv. P.V.R. del foro di PAVIA quale sostituto processuale dell'avv. A.R.M. Il difensore presente illustra i motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento.
È presente l'avv. PI.C. del foro di FIRENZE in difesa di MA.EM..
Il difensore illustra i motivi del ricorso e ne chiede l'accoglimento.
È presente l'avvocato S.L. del foro di BOLOGNA in difesa di CO.GI.I, FU.AL. e MA.GI.. Il difensore illustra le proprie argomentazioni riportandosi anche alla memoria in atti.
È presente l'avvocato G.L. del foro di LUCCA in difesa del responsabile civile Mer*** LOGISTICS S.P.A.. Il difensore illustra i motivi di ricorso insistendo per l'accoglimento.
È presente l'avv. M.A. del foro di TORINO in difesa di CA.MA. e SO.VI.. Il difensore illustra i motivi di ricorso concludendo per l'accoglimento.
Sono presenti l'avv. A.E. e l'avv. C.G., entrambi del foro di MILANO per FA.FR.. I difensori illustrano i motivi di ricorso e ne chiedono l'accoglimento.
È presente l'avvocato M.M. del foro di ROMA in difesa di Mer*** RAIL S.R.L.. Il difensore in accoglimento dei motivi di ricorso conclude per l'annullamento della sentenza impugnata; in subordine, in accoglimento della richiesta formulata in conclusione al motivo VI del ricorso, rinviare gli atti alla Corte di Giustizia Europea perché si pronunci in via pregiudiziale; in ulteriore subordine, annullare la sentenza impugnata con riferimento alla sanzione pecuniaria irrogata a Tre*** s.p.a..
È presente l'avv. F.A. del foro di ROMA in difesa del responsabile civile Tre*** S.P.A. e del responsabile amministrativo SOCIETÀ' Tre*** S.P.A. Il difensore illustra i motivi dei ricorsi e ne chiede l'accoglimento; in subordine chiede la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia Europea.
È presente l'avv. M.C. del foro di ROMA, anche per l'avv. S.A., in difesa di E.M.M.. L'avv. M.C. è altresì presente quale sostituto processuale ex art. 102 c.p.p. dell'avv. S.A. del foro di Napoli per la SOCIETÀ R***I "R***I" S.P.A. giusta nomina pervenuta a mezzo p.e.c. in data 26.11.20. Il difensore presente illustra i motivi dei ricorsi e conclude per E.M.M. chiedendo l'annullamento della sentenza per non aver commesso il fatto; per il responsabile civile SOCIETÀ R***I R***I S.P.A. chiede l'accoglimento dei ricorsi di EL.[M.M.], MO.[MA,], FA.[FR.] e del responsabile civile R***I nonché il rigetto dei ricorsi del procuratore generale e delle parti civili.
È presente l'avvocato G.A. del foro di ROMA in difesa degli imputati non ricorrenti D.M.G. e MA.EN.. Il difensore conclude per entrambi gli imputati non ricorrenti per l'inammissibilità del ricorso del procuratore generale e dei ricorsi delle parti civili, in subordine per il rigetto di detti ricorsi.
È presente l'avvocato D.A.V.A. del foro di BOLOGNA in difesa di MO.MA. e SOCIETÀ Fe***I*** S.P.A.. Il difensore illustra i motivi dei ricorsi e conclude per l'annullamento senza rinvio per entrambe le parti difese.
È altresì presente l'avv. P.S. per R***I - R***I SPA che illustra i motivi di ricorso concludendo per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

RITENUTO IN FATTO

1. La vicenda ricostruita nelle sentenze di merito e le imputazioni
La sentenza oggetto di impugnazione dinanzi a questa Corte è stata emessa all'esito del giudizio di appello celebrato nell'ambito del procedimento penale scaturito da tragici fatti occorsi il 29 giugno 2009 nel Comune di Viareggio.
Essi sono stati ricostruiti dai giudici di merito in termini che, per quanto concerne la dinamica di quanto si svolse nel perimetro della stazione ferroviaria di quel Comune e nell'area circostante, trovano a grandi linee concordi tutte le parti del processo (nel prosieguo si indicheranno I temi per i quali si registrano i dissidi di maggior rilievo).
Secondo tale ricostruzione, in quel giorno, intorno alle ore 23,48, il treno merci n. 50325, composto dalla locomotiva e da 14 carri cisterna trasportanti GPL, che procedeva sulla tratta Trecate-Gricignano, mentre transitava alla velocità di circa 100 Km/h sul quarto binario della stazione di Viareggio, sviava con il primo carro cisterna e successivamente con altri quattro carri. In particolare, lo svio riguardò un assile (n. 98331) del primo carrello del primo carro (n. 33807818210-6), nel momento in cui transitava in adiacenza del marciapiede fra il terzo ed il quarto binario, il cui cordolo venne colpito dal carrello sviato. Dopo aver incontrato nella sua corsa un attraversamento a raso, si verificava lo svio anche dell'altro asse del primo carrello e questo sormontava il cordolo del marciapiede, con successivo ribaltamento del primo carro e, a seguire, degli altri quattro sul fianco sinistro. Nella fase di strisciamento sulla sede ferroviaria il primo carro impattava con un elemento di acciaio, che provocava uno squarcio nella cisterna, con conseguente fuoriuscita del gas trasportato che invadeva la sede ferroviaria e le aree circostanti. Dopo pochi minuti si verificava una potente deflagrazione che interessava tutta l'area limitrofa. Il vasto incendio che ne derivava provocava trentadue morti, lesioni gravi a numerose persone, la distruzione o il grave danneggiamento di innumerevoli veicoli e di numerose abitazioni adiacenti la stazione ferroviaria di Viareggio.
La causa dello svio è stata identificata dai giudici di merito nel cedimento dell'assile del primo carro, identificato dal numero 98331, determinato dal suo stato di corrosione. È stato altresì accertato che l’assile in questione era stato montato sul carro, in proprietà di G***x Rail Austria GmbH e da questa noleggiato a Ca*** Che*** s.r.L, poi divenuta FLog*** s.p.a., presso la Ci***Ri*** s.p.a. di Bozzolo, nella cui azienda era stato eseguito un intervento di manutenzione nel marzo 2009; ed ancora, che l’assile fornito dalla G***x Rail Austria era stato sottoposto a revisione conclusa il 28.11.2008 presso l'officina Ju***l Waggon GmbH, di Hannover, la cui proprietà faceva capo a G***x Rail Germania GmbH; che il trasporto dei carri merci era stato eseguito per conto della Ca*** Che*** s.r.l. (e poi di FLog*** s.p.a.) da Tre*** s.p.a. e che l'infrastruttura ferroviaria faceva capo a R***I s.p.a.
Dei gravissimi eventi erano state chiamate a rispondere trenta persone fisiche (And.Sa., BR.HE., CA.MA., CO.GI., D.M.G., D.Ve.Ca., El.M.M., Far.Gi., FA.FR., FU.AL., Ga.Gil., G.F.D., Ko.Uw., KO.RA., KR.UW., LE.JO., LI.PE., MA.EM., Ma.Joh., MA.GI., MA.EN., MA.RO., MO.MA., Pac.Gi., Pe.Ang., PI.PA., SC.AN., SO.VI., Tes.Ma., Vi.Ma.), e sette società di capitali (G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germania GmbH, Ju***l Waggon GmbH, Fe***I*** s.p.a., Tre*** s.p.a., FLog*** s.p.a., R***I s.p.a.).
Alle prime è stato ascritto di aver cagionato il disastro ferroviario, l'incendio e le morti e le lesioni che scaturirono dal deragliamento, avendo assolto ai rispettivi compiti con negligenza, imprudenza, imperizia e con violazione di norme nazionali e comunitarie, dettagliatamente indicate nelle rispettive imputazioni.
In particolare, limitatamente a ciò che qui rileva, può rammentarsi che, accertato che il 28.11.2008 l’assile 98331 era stato sottoposto a controlli non invasivi presso l'officina Ju***l, veniva contestato a KR.UW., che aveva materialmente eseguito il controllo ad ultrasuoni, di aver operato con colpa generica ed inoltre non osservando le prescrizioni UNI EN 583, la VPI 04 2° edizione, appendice 27, l’art. 8 d.lgs. n. 162/2007 e gli artt. 2043, 2050 c.c., con l'effetto di non rilevare la presenza della cricca di circa 11 mm. presente sull'assile, all'origine del successivo cedimento.
A BR.HE., quale Responsabile Officina sale della Ju***l, si rimproverava di aver operato con colpa generica ed inoltre di non aver osservato l’art. 8 d.lgs. n. 162/2007 e gli artt. 2087 c.c., 18, co. 1 lett. q) e 23, co. 1 in relazione all'allegato V parte I par. 3.2. del d.lgs. n. 81/2008, le prescrizioni UNI EN 583 e la VPI 04 2° edizione, appendice 27, avendo consentito che venisse omessa la stesura di istruzioni operative particolari per i diversi tipi di assile, non avendo impartito la formazione al personale addetto, avendo omesso la verifica del rispetto della prescrizioni concernenti le competenze per la stesura delle predette istruzioni e in sostanza avendo omesso la gestione ed il controllo delle attività e consentito l'utilizzo di strumentazione priva di corretta taratura e non avendo sottoposto l’assile a controllo magnetoscopico nella sua interezza, con l'effetto di permettere che l’assile superasse il controllo.
A SC.AN., nella sua qualità di tecnico di secondo livello e di sostituto supervisore dell'officina in parola, veniva contestato di aver svolto il proprio compito, oltre che con negligenza, imprudenza ed imperizia, altresì trasgredendo gli artt. 8 d.lgs, n. 162/2007, 2043 e 2050 c.c.; di aver violato l'art 23, comma 1 in relazione all'allegato V parte I Par. 3.2 del d.lgs. n. 81/2008, con l'effetto di non rilevare che la sala aveva restituito all'esame un rumore di fondo superiore al 10% che ne avrebbe dovuto determinare la sottoposizione ad altro tipo di esame (magnetoscopico), che avrebbe permesso di rilevare la cricca.
A LE.JO., che con riferimento al medesimo ambito ricopriva il ruolo di supervisore, si era contestata la negligenza, l'imperizia e la violazione dell'art. 8 d.lgs. n. 162/2007 e degli artt. 2043, 2050 c.c., dell'art. 18, comma 1 lett. q) e 23, comma 1 in relazione all'allegato V Par. I Par. 3.2 del d.lgs. n. 81/2008, avendo omesso la stesura e la validazione di istruzioni operative particolari per i diversi tipi di assili e la conseguente formazione ed istruzione del personale e così permettendo che il controllo venisse eseguito in un tempo inidoneo (12 minuti).
A LI.PE., nella qualità di responsabile del sistema di manutenzione della G***x Rail Europe e quale diretto responsabile dell'elaborazione delle regole interne per la manutenzione delle sale e dei carrelli, veniva contestata la negligenza, l'imperizia e l'inosservanza di regole della tecnica nonché dell'art. 8 d.lgs. n. 162/2007 e dell'art. 2050 c.c.; di aver violato l'art. 23, comma 1 in relazione all’allegato V Parte I Par. 3.2 del d.lgs. n. 81/2008, le prescrizioni UNI EN 583 e la VPI 04 2° edizione, appendice 27, avendo consentito che l'officina operasse nella manutenzione delle sale a livello IS2 nonostante le carenze organizzative ed avendo omesso il controllo e l'emanazione di istruzioni tecniche, necessarie a garantire certezza ed efficacia dei controlli manutentivi delle sale; pertanto, fornendo alla Ci***Ri*** un assile lacunosamente mantenuto e quindi non rispondente a disposizioni legislative e regolamentari.
A KO.RA., nella qualità di amministratore delegato della G***x Rail Germania, di direttore generale dell'officina Ju***l e di responsabile delle operazioni tecniche della G***x Rail Europe, di aver cagionato il sinistro per negligenza, imperizia ed inosservanza delle riconosciute regole della tecnica nonché degli artt. 8 d.lgs. n. 162/2007, 2043, 2050 e 2087 c.c., 23, comma 1 in relazione all'allegato V Parte I Par. 3.2 del d.lgs. n. 81/2008. In sintesi, al Ko.[RA.] veniva imputato di aver omesso di esercitare i compiti attribuitigli e quindi consentito che l'officina operasse nella manutenzione delle sale di livello IS2 nonostante le carenze organizzative accertate, e quindi fornito alla Ci***Ri*** una sala che pur non conforme alle previsioni normative e tecniche aveva superato il controllo.
A MA.RO., quale Responsabile manutenzione della flotta carri merci di G***x Rail Austria si imputava la violazione degli artt. 8 d.Lgs. n. 162/2007, 2043, 2050 c.c., 23, comma 1 in relazione all'allegato V Parte I Par. 3.2 del d.lgs. n.
81/2008, avendo omesso qualsiasi controllo sull'officina Ju***l, non essendosi adoperato affinché presso la G***x Rail Austria fosse previsto un sistema di deleghe e controlli adeguati ed efficaci ai fini dell'accertamento della regolarità delle operazioni eseguite presso l'officina incaricata della manutenzione dei propri carri ed avendo fornito a Ci***Ri*** il carro non conforme.
A MA.JO., quale amministratore delegato di G***x Rail Europe e di G***x Rail Austria veniva contestata la violazione degli artt. 8 d.lgs. n. 162/2007, 2043, 2050 e 2087 c.c., 23, comma 1 in relazione all'allegato V Parte I Par. 3.2 del d.lgs. n. 81/2008, avendo omesso di adottare o far adottare per G***x Rail Austria un sistema di deleghe, formazione, istruzioni e controllo adeguato ed efficace ai fini dell'accertamento della regolarità delle operazioni eseguite presso le officine incaricate della manutenzione dei carri di proprietà della società G***x e avendo noleggiato a Ca*** Che*** s.r.l. - poi FLog*** s.p.a - un'attrezzatura di lavoro non conforme alle prescrizioni in materia di sicurezza.
Come già esposto, l’assile revisionato dall'officina tedesca veniva fornito dalla proprietaria G***x Rail Austria alla Ci***Ri*** s.p.a. che aveva fatto richiesta di sostituzione di una sala ritenuta non idonea all'uso in sede di revisione del carro merci 33807818210-6. L'assile 98331 fornito da G***x Rail Austria veniva quindi montato sul carro in questione. Per tale motivo a PI.PA. e a G.F.D., nelle rispettive qualità di capo commessa del settore carri e responsabile tecnico del reparto sale e di responsabile tecnico e responsabile commessa carri della Ci***Ri*** s.p.a., veniva contestata la violazione degli artt. 2043, 2050 e 2087 c.c., 24 d.lgs. n. 81/2008 e delle disposizioni tecniche VPI in materia di controllo visivo delle sale, e quindi di avere omesso il controllo visivo dell'assile, di rilevare lo stato di ossidazione nel colletto dello stesso nonché gli altri difetti che questo presentava e così di aver determinato la circolazione del carro cisterna munito di assile non conforme alle prescrizioni di sicurezza.
Veniva tratto a giudizio, inoltre, CA.MA., quale amministratore delegato di Ca*** Che*** s.r.l. e poi di B.U. Industria Chimica e Ambiente di FLog*** s.p.a, che avendo ricevuto il carro in questione lo aveva fornito a Tre*** s.p.a. per il trasporto del GPL dalla sede della Raffineria Sarpom alla sede dell'Aversana Petroli s.p.a., destinataria della merce trasportata.
In particolare, al Ca.[MA.] veniva contestato di aver violato gli artt. 8 e 10 d.p.r. n. 753/1980, 2043, 2050, 2051 e 2087 c.c., l'art. 8 d.lgs. n. 162/2007, l'art. 1 del decreto n. 1/2009 dell'ANSF, gli artt. 6, co. 1 e 2 e numerose altre disposizioni del d.lgs. n. 626/1994, diverse disposizioni del d.lgs. n. 81/2008 e la procedura operativa R***I TGCS PR PO 02 002 A dell'8.7.2003 (altrimenti menzionata come 'procedura di cabotaggio'), e ciò per aver utilizzato il predetto carro nonostante fosse un'attrezzatura di lavoro non correttamente manutenuta, montando esso la sala gravemente criccata; per aver omesso di far verificare l'avvenuta esecuzione dei controlli necessari ad evitare la messa in esercizio di un prodotto gravemente difettoso; per aver omesso di verificare o far verificare l'adeguatezza o meno dei controlli effettivamente eseguiti sul medesimo ad opera dell'officina Ju***l e dell'azienda Cima e per non aver previsto nel contratto di noleggio del carro l'adozione di standard di manutenzione equivalenti a quelli stabiliti per i carri immatricolati in Italia anche se non di proprietà di Tre*** e quindi per aver fornito al personale di condotta del treno merci - quale direttore della divisione Cargo di Tre*** e perciò di datore di lavoro - il carro cisterna costituente attrezzatura pericolosa.
SO.VI. veniva tratto a giudizio, per contro, sia in qualità di presidente del consiglio di amministrazione e responsabile della BU Industria Chimica e Ambiente di FLog*** s.p.a. e quindi di noleggiatario dalla società G***x Rail Austria del carro cisterna, sia come amministratore delegato di Tre*** s.p.a., società utilizzatrice del carro cisterna. Le imputazioni elevate nei confronti del So.[VI.] gli ascrivevano, tra l'altro, di aver noleggiato ed utilizzato il carro omettendo di far verificare l'avvenuta esecuzione dei controlli necessari ad evitare la messa in esercizio di un prodotto difettoso, quale era l’assile 98331; di aver omesso di far verificare l'adeguatezza dei controlli eseguiti sull'assile affidati all'officina Ju***l e l’esecuzione dei controlli ad opera della Ci***Ri***; gli attribuivano di non aver previsto nel contratto di noleggio del carro l'adozione di standard di manutenzione equivalenti a quelli stabiliti per i carri immatricolati in Italia anche se non di proprietà di Tre***; di aver fornito al personale di Tre*** s.p.a. un'attrezzatura di lavoro non sicura. Inoltre gli ascrivevano di aver omesso di richiedere l'esecuzione della procedura di cabotaggio e di aver omesso la valutazione dei rischi specifici inerenti alla sicurezza di esercizio in relazione al trasporto di merci pericolose, nonché di non aver adottato un dispositivo quale il detettore di svio.
A MA.EM., quale responsabile dell'unità produttiva direzione ingegneria, sicurezza e qualità di sistema di Tre*** s.p.a. veniva ascritto di non aver proposto e segnalato come necessario, o comunque determinante ed utile ai fini della sicurezza del trasporto di merci pericolose, l'installazione del detettore di svio, così non garantendo il funzionamento sicuro della parte di sistema affidata all'impresa ferroviaria.
A FA.FR. veniva ascritto, nella sua qualità di responsabile dell'istituto sperimentale facente parte della Direzione tecnica di R***I s.p.a. e poi di responsabile di altra unità pure facente parte della medesima
Direzione tecnica, di aver omesso di valutare e proporre e comunque di segnalare la necessità dell'installazione del detettore di svio, dispositivo determinante o utile ai fini della sicurezza del trasporto di merci pericolose, e altresì di non aver emanato o concorso ad emanare prescrizioni riduttive della velocità di attraversamento di stazioni come quella di Viareggio; ed, ancora, di non aver proposto o segnalato la necessità della sostituzione dei picchetti di tracciamento con altri sistemi meno pericolosi di riferimento del binario.
Ad El.M.M., nelle qualità di amministratore delegato di R***I s.p.a. dal 2006 e in precedenza quale responsabile della SO Armamento prima e della direzione tecnica di R***I s.p.a., poi, veniva ascritto di aver omesso di valutare e proporre e comunque di segnalare l'installazione del detettore di svio, e altresì di non aver emanato o concorso ad emanare prescrizioni riduttive della velocità di attraversamento di stazioni come quella di Viareggio; ed, ancora, di non aver proposto o segnalato la necessità della sostituzione dei picchetti di tracciamento con altri sistemi meno pericolosi di riferimento del binario; di non aver proceduto alla valutazione dei rischi e segnatamente del rischio di fuoriuscita incontrollata e di spargimento di merci infiammabili a seguito di svio e di non aver segnalato la necessità di tenere adeguatamente separata la sede ferroviaria dalle contigue abitazioni civili; di non aver proceduto, quale datore di lavoro, alla valutazione di tutti i rischi relativi alla salute e alla sicurezza dei lavoratori.
A Mo.Ma. veniva contestato, nella qualità di amministratore delegato di R***I s.p.a., di aver omesso di valutare e proporre e comunque di segnalare l'installazione del detettore di svio e altresì di non aver emanato o concorso ad emanare prescrizioni riduttive della velocità di attraversamento di stazioni come quella di Viareggio; ed, ancora, di non aver proposto o segnalato la necessità della sostituzione dei picchetti di tracciamento con altri sistemi meno pericolosi di riferimento del binario; di non aver proceduto alla valutazione dei rischi e segnatamente del rischio di fuoriuscita incontrollata e di spargimento di merci infiammabili a seguito di svio e di non aver segnalato la necessità di tenere adeguatamente separata la sede ferroviaria dalle contigue abitazioni civili.
Tali condotte omissive venivano attribuite al Mo.[MA.] anche nella qualità di amministratore delegato di Fe***I*** S.p.a., società capogruppo controllante Tre*** s.p.a. e R***I s.p.a., in ragione del fatto che egli si era concretamente ingerito nella gestione delle predette società.
Venivano altresì tratti a giudizio le persone giuridiche Tre*** s.p.a., R***I s.p.a., G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germania GmbH, Officina Ju***l Waggon GmbH, Fe***I*** s.p.a., FLog*** s.p.a. e Ci***Ri*** S.p.a., alle quali veniva contestato l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 in relazione alle lesioni personali colpose e agli omicidi colposi, aggravati dalla violazione di norme per la prevenzione degli infortuni, commessi dagli imputati rispettivi esponenti.

2. La sentenza di primo grado
Con sentenza emessa il 31 gennaio 2017 il Tribunale di Lucca dichiarava i predetti imputati, e Ko.Uw., Pac.Gi., And.Sa., CO.GI., D.M.G., FU.AL., MA.GI., MA.EN., responsabili dei reati di disastro ferroviario colposo, di incendio colposo, di omicidio colposo plurimo e di lesioni colpose plurime, loro rispettivamente contestati, e li condannava alle pene ritenute per ciascuno eque, nonché al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, con condanna in solido delle società responsabili civili.
Dichiarava, altresì, Tre*** s.p.a., R***I s.p.a., G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germania GmbH e l'officina Ju***l Waggon GmbH responsabili dell'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 e le condannava alla pena per ciascuna ritenuta equa.
Assolveva invece D.Ve.Ca., Far.Gi., il Ga.[Gil.], il Le.[JO.] ed il Mo.[MA.] (limitatamente ai reati a lui ascritti nella qualità di amministratore delegato dal 21.4.2007 di Fe***I*** s.p.a.), Pe.Ang., il So.[VI.] (limitatamente ai reati a lui ascritti nella qualità di Presidente del C.d.A. di FLog*** s.p.a.), Tes.Ma. e Vi.Ma..
Assolveva, altresì, Fe***I*** S.p.a., FLog*** s.p.a. e Ci***Ri*** s.p.a., in relazione all'illecito di cui al menzionato art. 25-septies.
Il Tribunale riteneva confortata dalle acquisizioni probatorie la ricostruzione offerta dall'accusa. In particolare, il gravissimo sinistro era stato determinato dal cedimento strutturale dell’assile numero 98331, uno dei due che alcuni mesi prima erano stati sostituiti a quelli originari. L'intervento di sostituzione era terminato il 2 marzo 2009 ed era stato eseguito presso la Ci***Ri*** s.p.a.. Dopo la revisione il carro aveva compiuto dodici viaggi sulla tratta Gricignano-Trecate ed altri due da Novara ad Orbassano, percorrendo un totale di 22.525 km. L'assile 98331 era stato oggetto di revisione nel corso del 2008 presso l'Officina Ju***l, di Hannover, dopo essere stato rimosso da un altro carro a causa di zone appiattite e per la presenza di sfaccettature. Il 28 novembre 2008 la predetta officina aveva comunicato alla società G***x Rail Austria di avere completato la revisione delle due sale e che esse erano state sottoposte a verifica ad ultrasuoni e magnetoscopica in conformità a quanto prescritto dal manuale VPI 04. Di conseguenza le due sale erano state depositate in magazzino e poi, munite di targhetta identificativa W1, spedite alla società Ci***Ri*** per essere montate sul carro ferroviario. Il 21 gennaio 2009, infatti, il carro era stato inviato presso Ci***Ri***, quale officina più vicina al luogo di transito, per un intervento di revisione del tipo G4.8 disposto dalla proprietaria. Nel corso della revisione era stato rilevato che due sale non erano regolari e che dovevano essere scartate; conseguentemente la società proprietaria aveva inviato quelle in sostituzione. Dopo il montaggio il carro era stato restituito a FLog*** s.p.a in ragione del contratto di noleggio stipulato tra la società Kesselwagen KVG, poi acquisita dalla società G***x Rail Austria, e la società Ca*** Che*** s.r.l. (poi fusa per incorporazione in FS Cargo s.p.a., successivamente trasformata in FLog*** s.p.a), e da questa consegnato a Tre*** s.p.a. per essere nuovamente adibito al servizio di trasporto, a partire dal 2 marzo 2009. Il trasporto doveva svolgersi in virtù di un contratto stipulato tra la Aversana Petroli s.r.l. e la Ca*** Che*** s.r.l.. Dalla data dell'11 gennaio 2005 fino alla data del disastro il carro era sempre stato utilizzato per il trasporto di GPL sulla tratta Trecate-Gricignano, percorrendo una media annuale di circa 24 viaggi.
Il cedimento dell'assile è stato ricondotto ad una 'rottura per fatica', determinatasi a causa di una cricca presente nel cd. collarino, ovvero nella zona di raccordo esterna alle ruote, posta tra la portata di calettamento ed il fusello.
Ad avviso del Tribunale, tale cricca era sicuramente rilevabile al momento del controllo presso l'officina tedesca. L'affermazione veniva fondata sulla disamina dei numerosi contributi esperti che erano stati acquisiti al giudizio. In particolare, per il Collegio territoriale dall'esame dei vari consulenti emergeva l'importanza di una formulazione matematica definita legge di Paris, che consente l'analisi del processo di avanzamento della frattura in relazione all'intensificazione degli sforzi, stabilendo una correlazione matematica tra le due grandezze. Rilevava il Tribunale che alla stregua delle affermazioni del professor Ton., consulente del pubblico ministero, risultava acquisito che il cedimento del materiale lascia sulla supeR***Icie di frattura tracce visibili di tre fasi distinte: la fase di incubazione, che riguarda il punto di innesco della frattura, la quale si sviluppa con estrema lentezza in un periodo lungo ma non facilmente determinabile; la fase dell'avanzamento stabile, durante la quale la frattura si propaga sulla base di una velocità pressoché costante; la fase della rottura di schianto, durante la quale la velocità cresce in modo rapido e si determina la rottura del pezzo con separazione delle due supeR***Ici della cricca.
Nel caso di specie la sezione dell'assile mostrava le impronte tipiche dello sviluppo di una frattura per fatica con la presenza di un monoinnesco delle dimensioni di 90 mm., derivante da fatica a flessione rotante a bassa sollecitazione prevalente. La cricca, secondo il Tribunale, al tempo della revisione operata nel novembre del 2008 aveva avuto una profondità di circa 11 mm.; ovvero una dimensione rilevabile con una probabilità pari al 100% (definita in base ai dati elaborati secondo le probability of detection - POD) con la tecnica ultrasonora prescritta dalla regolamentazione VPI. Secondo i periti la frattura si era innescata a partire da un unico punto, costituito da un cratere di corrosione presente sul raccordo tra portata di calettamento e fusello. Le conclusioni del Tribunale erano nel senso che esisteva un collegamento specifico tra il singolo punto d'innesco, il cratere di corrosione e la frattura. In tal modo i giudici respingevano la tesi di uno sviluppo istantaneo della cricca e di un difetto del processo di fabbricazione dell'assile quale origine della stessa.
La rottura dell'assile aveva determinato lo svio del carro, il ribaltamento per la presenza di un passaggio a raso, il conseguente strisciamento del carro sul suo fianco sinistro sull'infrastruttura ferroviaria, l'impatto con un elemento dell'infrastruttura e il conseguente sfondamento del mantello del serbatoio con la fuoriuscita del GPL.
Ad avviso del Tribunale si era trattato di un evento non imprevedibile, anche in considerazione del manifestarsi anticipato di diversi segnali di allarme. Nessuno dei fattori che avevano avuto un qualche ruolo causale rispetto all'accadimento veniva reputato di assorbente rilievo ai fini della interruzione della relazione eziologica tra l'evento e la condotta ascrivibile agli imputati.
In particolare, tra quanti avevano operato in veste di esponenti o di dipendenti della Officina Ju***l venivano distinti coloro che avevano eseguito la manutenzione dell'assile violando la normativa vigente e quanti avevano omesso di esercitare correttamente i doveri di controllo e di direzione. Al Kr.[UW.] veniva rimproverato di non aver effettuato alcun controllo visivo sull'assile; se effettuato esso avrebbe permesso di identificare i diversi difetti presenti sul medesimo, dalle anomalie della verniciatura all'imponente stato di ossidazione nella zona del collarino. Inoltre, il controllo ultrasonoro eseguito dal Kr.[UW.] era stato svolto con modalità non conformi alle prescrizioni tecniche, che imponevano di eseguire la prova su supeR***Ici perfettamente pulite e levigate, dalle quali erano stati completamente rimossi il rivestimento, la ruggine ed eventuali danni meccanici e sulle quali avrebbe dovuto essere poi apposto un nuovo strato uniforme di vernice. Non essendo state compiute tali preliminari operazioni, il controllo era divenuto inaffidabile e inidoneo a rilevare la cricca presente nel collarino, pur identificabile ove esso fosse stato condotto a regola d'arte. Il Kr.[UW.] non aveva neppure rilevato la presenza di rumore di fondo superiore al 10% dello schermo dell'apparecchio ad ultrasuoni nell'esecuzione dell'esame con sonde piane angolari della scala e quindi l'invalidità dell'esame UT; ed aveva eseguito detto esame nonostante la mancanza del disegno dell'assile, utilizzando un apparecchio con taratura scaduta, in un tempo insufficiente alla sua esecuzione a regola d'arte.
Nel pervenire a tale giudizio il Tribunale superava le tesi difensive attinenti allo stato della verniciatura dell'assile una volta uscito dall'officina Ju***l e quindi alle operazioni che ivi erano state svolte (in particolare la sabbiatura e la verniciatura).
Il Tribunale giudicava eseguito in violazione delle regole dell'arte anche il controllo magnetoscopico condotto dal Br.[HE.], in ipotesi accusatoria neppure consentito a livello IS2. Ma in ogni caso anch'esso era stato eseguito senza la preliminare preparazione delle supeR***Ici dell'assile; operazione che, ove eseguita, avrebbe permesso la rilevazione dello stato di ossidazione del collarino e di avviare l'assile al superiore livello di controllo IS3, in esito al quale sarebbe stata individuata la cricca.
Con riferimento agli imputati aventi ruoli direttivi o di vigilanza, il Tribunale individuava quale causa della mancata decisione di scartare l'assile o di inviarlo al controllo IS3 un deficit organizzativo concernente il procedimento di manutenzione, ricorrente nonostante un'ordinanza dell'EBA (l'Agenzia Federale di Sicurezza Ferroviaria della Repubblica Federale di Germania) del 10.7.2007 avesse segnalato le rilevanti criticità emerse per alcuni assili di costruzione risalente nel tempo (come era quello fratturatosi a Viareggio). La carente organizzazione veniva individuata in ragione della omessa predisposizione dei piani di prova dell'assile, ovvero dei disegni tecnici che ne definiscono la tipologia e che sono necessari ai fini dell'esame UT; dell'inadeguatezza dei tempi di esecuzione del controllo UT, contratto in soli dodici minuti; dell'utilizzo per il controllo UT di un apparecchio la cui taratura era stata effettuata con strumentazione di calibrazione munita di certificazione scaduta; dell'assenza di autorizzazione ad eseguire attività di manutenzione di sale montate con controllo magnetoscopico.
Tali carenze venivano ascritte dal Tribunale in primo luogo allo Sc.[AN.], sostituto supervisore e addetto alla sorveglianza sull'esecuzione delle prove, al quale si rimproverava di aver omesso qualsiasi controllo sull'esecuzione dei controlli svolti dal Kr.[UW.].
Ritenendo l'equipollenza dei ruoli, il Tribunale mandava quindi assolto il Le.[JO.], soggetto esterno all'organigramma della Ju***l ma ad essa legato da un contratto quale supervisore per gli esami non distruttivi e presente del tutto occasionalmente nell'officina e comunque assente il 28.11.2008.
Il rimprovero veniva esteso anche ai soggetti che operavano nell'interesse di G***x Rail Austria e G***x Rail Germania, la prima perché in quanto proprietaria e noleggiataria del carro a Ca*** Che*** s.r.l., prima, e a FLog*** s.p.a., poi, aveva assunto l'obbligo di fornire carri in buono stato; la seconda in quanto, come proprietaria dell'officina Ju***l, aveva l'obbligo di controllare che questa svolgesse correttamente il servizio di manutenzione, attraverso la previsione di procedure adeguate a fronteggiare il rischio. Il Tribunale rimarcava che presso l'officina mancavano specifiche istruzioni in materia di collaudo, mancavano i piani di prova, non venivano redatti verbali dettagliati dei controlli non distruttivi eseguiti, verbali di collaudo finale, mancavano i banchi di prova automatizzati e le sonde necessarie ad un corretto controllo UT. La società proprietaria avrebbe dovuto garantire che fossero disponibili tutte le informazioni tecniche riguardanti la storia del materiale rotabile, invece mancanti. Veniva anche ascritto di non aver colposamente riconosciuto il rischio poi concretizzatosi nell'evento viareggino nonostante esso fosse stato segnalato con l'ordinanza dell'EBA già menzionata - e a tal proposito il Tribunale riteneva non decisiva la circostanza che il provvedimento fosse stato impugnato - e quindi omesso di adottare le misure che l'ordinanza medesima suggeriva.
Con particolare riferimento alle posizioni del Ko.[RA.], A.D. di G***x Rail Germania e D.G. della Ju***l, e del Li.[PE.], Responsabile del settore manutenzione avente, che con il Ko.[RA.] condivideva il compito di elaborare le regole interne della manutenzione di sale e carrelli, il Tribunale evidenziava che ad essi competeva l'adozione di adeguate istruzioni tecniche interne, le cd. TFA, per adeguare i processi manutentivi presso l'officina alle indicazioni dell'ordinanza EBA. Tali doveri erano rimasti inadempiuti, nonostante sin dal 2007 essi fossero in possesso di informazioni che imponevano di affrontare la situazione di rischio segnalata dall'ordinanza EBA.
Quanto al Ma.[RO.], Responsabile della manutenzione flotta carri merci, e al Ma.[JO.], A.D. della G***x Rail Austria, per il Tribunale essi avrebbero dovuto ovviare al grave deficit organizzativo riscontrabile nell'area dei servizi di manutenzione di competenza di G***x Rail Austria ed in particolare alla grave carenza di informazioni in merito alle revisioni, alle modalità di effettuazione della revisione del novembre 2008, ai requisiti di sicurezza del carro; ed un ulteriore profilo di colpa veniva individuato nella scelta della Ju***l quale officina incaricata della specifica manutenzione, nonostante essa fosse priva delle necessarie autorizzazioni.
Il giudice di primo grado giudicava responsabile anche Ko.Uw., in posizione paritaria rispetto al Ko.[RA.] e che come questi aveva omesso di verificare l'adeguatezza della revisione e della manutenzione dell'assile.
Mandava invece assolti il Carl. ed il Bar., che pure avevano avuto ruoli dirigenziali all'interno del gruppo G***x.
Il Tribunale riteneva autori di condotte colpose eziologicamente rilevanti rispetto al sinistro verificatosi a Viareggio anche alcuni tra gli imputati tratti a giudizio quali esponenti della Ci***Ri***, ovvero il Pi.[PA.] ed il G.F.[D.]. Accertato che presso tale azienda non era stato eseguito il controllo visivo delle sale giunte in sostituzione, il Tribunale ha ritenuto che esso fosse doveroso alla luce delle disposizioni VPI, dell'ordinanza EBA e delle condizioni nelle quali si presentava l’assile 98331, sul quale era apposta la targhetta W1 che segnalava la presenza di alveoli di corrosione senza informazioni in merito alle modalità del trattamento degli stessi. Ove eseguito tale controllo sarebbero emersi i difetti dell’assile (presenza di due diverse fasce di colore applicate sull'assile, di segni esteriori del fenomeno corrosivo sul collarino, di differenti colorazioni delle due sale), da considerare unitamente all'assoluta carenza di informazioni sull'assile.
Più in dettaglio, il Pi.[PA.] aveva materialmente provveduto al montaggio della sala provvista dell’assile 98331, senza eseguire il controllo visivo dello stesso ed una verifica documentale.
Il G.F.[D.], ritenuto addetto alla supervisione di tutte le operazioni di manutenzione delle sale, veniva giudicato responsabile per non aver mai emanato disposizioni finalizzate ad introdurre il controllo visivo come prova necessaria per ogni sala entrata in officina e per non aver disposto ed operato il controllo sulla documentazione della sala.
A Pac.Gi., A.D. della società, veniva fatta risalire la carente organizzazione del sistema di gestione di manutenzione dei carri.
Mentre Vi.Ma., capo squadra reparto carri, veniva assolto in quanto ritenuto che non avesse avuto conoscenza di elementi rappresentativi dello scorretto comportamento del Pi.[PA.] e che non vi fosse prova che egli avesse avuto compiti di sorveglianza sulle modalità di esecuzione della revisione del carro.
Per ciò che concerne FLog*** s.p.a., rammentato che essa (come in precedenza Ca*** Che*** s.r.l.) aveva noleggiato il carro da G***x Rail Austria per dare adempimento al contratto di spedizione concluso con l'Aversana Petroli s.r.l., il Tribunale ha ritenuto la responsabilità del Ca.[MA.], avendo egli, nelle qualità apicali che gli erano proprie, assunto contrattualmente obblighi in funzione dell'assicurazione del perfetto stato di conservazione e di efficienza dei carri noleggiati, pur nei limiti determinati dal rispetto delle competenze della società proprietaria; ed egli nei confronti di Tre*** si poneva come fornitore del carro, il che lo obbligava a garantirne la sicurezza.
Da simili premesse e in forza di una pluralità di referenti normativi, il Tribunale faceva discendere l'obbligo di acquisire informazioni sulle regole e sulle procedure applicate dalla G***x Rail Austria nell'area della manutenzione. Obbligo che qualora adempiuto avrebbe condotto allo scarto del componente e quindi a non fornirlo a Tre***.
Il Tribunale mandava invece assolti SO.VI. e Ga.Gil., rispettivamente presidente del C.d.A. e A.D. di FLog*** s.p.a., ritenendo quanto al primo che almeno sul piano dell'elemento soggettivo del reato, per il fatto di non aver altro che compiti di rappresentanza, non gli era rimproverabile di non essersi attivato per governare la fonte di rischio costituita dall'assile, tenute conto altresì dell'assenza di segnali di allarme a lui noti.
Quanto al Ga.[Gil.], il Tribunale reputava rilevante la brevità del periodo di svolgimento delle funzioni, l'accentramento nella persona del Ca.[MA.] dei compiti concernenti i rapporti contrattuali con G***x Rail Austria e la presenza di delega specifica a favore del Ca.[MA.] medesimo.
Con riferimento agli imputati esponenti di Tre*** s.p.a. il Tribunale individuava una pluralità di posizioni di garanzia; una prima radicata nel loro essere esponenti di un'impresa ferroviaria, con il corredo di norme che definiscono i compiti ed i doveri di questa; l'altra nella loro qualità di datori di lavoro, con i conseguenti obblighi di sicurezza definiti dal d.lgs. n. 81/2008 e dall'art. 2087 c.c.; una terza posizione d'obbligo veniva derivata dall'esercizio di attività pericolosa (art. 2050 c.c.).
Con riferimento alla qualità di impresa ferroviaria, escluso che sulla stessa gravasse il compito di eseguire la manutenzione di carri esteri circolanti sulla rete italiana marcati RIV (ovvero il Regolamento Internazionale Veicoli, emanato nel 1922 dall'U.I.C. - l'Unione Internazionale delle Ferrovie), il Tribunale però riteneva che in forza della Fiche 433 (punto 3.3.1.3), delle CUU punto 7.2. e 7.3.; degli artt. 8 e 10 d.lgs. n. 162/2007, del punto 2 dell'allegato a) e dell'allegato 1b) della disposizione 13/2001 di R***I, gravasse sull'impresa utilizzatrice il controllo sull'adeguatezza dei processi manutentivi pur se gestiti dal detentore del carro, come d'altronde ripetutamente affermato anche dall'Agenzia Nazionale per la Sicurezza delle Ferrovie (d'ora in avanti indicata come ANSF; il riferimento è a quanto dichiarato dal teste Chiov., escusso in qualità di direttore dell'Agenzia). Tale obbligo di controllo comportava l'acquisizione di tutta la documentazione a ciò necessaria e quindi la acquisizione di un dossier di sicurezza comprendente il piano di manutenzione, analogamente a quanto era previsto per i rotabili di proprietà di Tre*** dalla disposizione del gestore dell'infrastruttura n. 23/2004. Piano di manutenzione che, come specificato nella disposizione R***I n. 1/2003, consisteva nella documentazione relativa al programma di manutenzione, ovvero al ciclo di interventi da eseguire a determinati intervalli di tempo o di percorrenza per tutta la vita del rotabile, all'elenco delle operazioni, e cioè all'indicazione delle attività di manutenzione da svolgere per ciascuna tipologia di intervento, e il riferimento alle istruzioni tecniche ossia alle procedure che indicano le modalità di esecuzione delle operazioni di manutenzione. Ad avviso del Tribunale tutto ciò era funzionale ad assicurare la tracciabilità dei rotabili ed il pieno controllo da parte dell'impresa ferroviaria sugli stessi. L'inadempimento di tale obbligo aveva determinato per l'impresa ferroviaria datrice di lavoro la fornitura ai lavoratori di un’attrezzatura di lavoro non sicura, in quanto installato sul carro trainato un assile gravemente criccato. Erano quindi state violate le prescrizioni di cui agli articoli 69, 70 e 71, co. 1 d.lgs. n. 81/2008. Qualora l'obbligo fosse stato adempiuto il carro non sarebbe stato riammesso alla circolazione. Il Tribunale faceva riferimento anche alla procedura di cabotaggio, la quale prevede il rilascio di una specifica autorizzazione alla circolazione da parte del gestore dell'infrastruttura nell'ipotesi di carri trasportanti merce pericolosa sulla rete ferroviaria nazionale. Questa procedura non era stata eseguita né nel 2005 né nel 2009 ed il Tribunale ha ritenuto che la normativa che la prevedeva non fosse stata abrogata né superata dalla concorrente normativa comunitaria fondata sul principio di libera circolazione dei carri RIV.
Il Tribunale riteneva anche che fosse stata omessa una puntuale ed efficace valutazione del rischio, facendo riferimento tanto ai rischi generici connessi al trasporto ferroviario - ed in particolare al rischio di deragliamento derivante da inconvenienti del materiale rotabile -, sia ai rischi specifici connessi al tipo di trasporto in concreto effettuato e alle particolari condizioni in cui l'attività veniva svolta (ovvero l'attraversamento di un centro abitato caratterizzato da abitazioni prossime alla sede ferroviaria, in assenza di idonea separazione). Si trattava, per quel giudice, di rischio ampiamente prevedibile; in particolare, il rischio di deragliamento per rottura di un elemento del materiale rotabile era collegato ad una casistica ben nota. Alla omessa valutazione di tali rischi era conseguita la mancata individuazione e predisposizione di idonee misure preventive o mitigatrici; misure di carattere tecnico e organizzativo identificate nella riduzione della velocità di transito, nella costruzione di barriere o di altri elementi di separazione tra la sede ferroviaria e l'ambiente circostante, nella rimozione dei picchetti di riferimento, nell'adozione di un dispositivo rilevatore di svio o deragliamento. Con particolare riferimento all'adozione del detettore di svio, il Tribunale riteneva accertato che qualora questo fosse stato installato sul carro l'evento non si sarebbe verificato perché il convoglio non avrebbe avuto energia cinetica sufficiente per raggiungere il punto in cui aveva impattato contro l'elemento dell'infrastruttura (non identificato con precisione) che aveva provocato la foratura della cisterna. In tal modo il Tribunale respingeva la prospettazione difensiva fondata sul contributo del consulente tecnico ing. Resta, secondo il quale la velocità del convoglio all'altezza del passaggio a raso sarebbe stata comunque superiore a 60 km/h e il ribaltamento non sarebbe stato evitato, così come non sarebbe stato evitato che il carro giungesse sulla cosiddetta zampa di lepre - che il medesimo consulente riteneva essere l'elemento perforante che aveva causato la rottura del serbatoio - con una velocità di circa 20 km/h.
Quanto alle singole posizioni individuali il So.[VI.], quale amministratore delegato di Tre***, veniva identificato come datore di lavoro pur tenendo presente le deleghe di funzioni rilasciate ad altri soggetti. Permaneva infatti in capo al delegante il compito di vigilare sulla complessiva politica di sicurezza dell'azienda e a lui facevano capo le scelte aziendali di livello più alto in materia di organizzazione del lavoro, mentre non era delegabile la valutazione dei rischi, esclusiva del datore di lavoro. La responsabilità dell'amministratore delegato, pur alla luce delle deleghe rilasciate al Ma.[EM.] e al Ca.[MA.] si ricollega, secondo l'avviso del Tribunale, ai difetti strutturali permanenti non sottoposti ad adeguata valutazione nell'ambito della complessiva gestione del rischio da parte della organizzazione che faceva capo all'imputato.
Il Collegio territoriale rimarcava come tanto il gestore dell'infrastruttura quanto l'ANSF avessero evidenziato l'esistenza di aree di criticità ed emanato note, aventi valore di prescrizione, con le quali venivano operati numerosi rilievi in materia di sicurezza. Tali indicazioni imponevano all'impresa ferroviaria, e quindi all'amministratore delegato della stessa, di attivarsi al fine di eliminare le criticità; invece, nessuna azione specifica era stata intrapresa in funzione del controllo dei processi manutentivi dei carri diversi da quelli di proprietà della stessa Tre***, anche se continuativamente utilizzati per il trasporto di merci pericolose.
Quanto alla posizione del Ma.[EM.], responsabile dell'unità produttiva Direzione ingegneria, sicurezza e qualità di sistema, questi veniva identificato come titolare di una posizione di garanzia in riferimento alle problematiche in materia di manutenzione del materiale rotabile e di applicazione di dispositivi frenanti di emergenza, nonché in riferimento al controllo dei processi manutentivi posti in essere dal detentore estero sui carri utilizzati da Tre***. In tale veste avrebbe dovuto adottare quelle misure che venivano identificate dal Tribunale come richieste da una corretta gestione del rischio, mentre i dossier di sicurezza di Tre*** non contenevano alcun riferimento ai carri diversi da quelli facenti parte della flotta propria dell'ente. In sostanza il Ma.[EM.] avrebbe dovuto segnalare la necessità di adottare misure preventive.
Per ciò che concerne la posizione del Ca.[MA.], quale responsabile della divisione Cargo, ovvero della struttura aziendale di Tre*** titolare della gestione del trasporto merci ed utilizzatrice del carro cisterna che provocò il disastro, egli è stato qualificato datore di lavoro del personale di condotta del treno e siccome egli era stato anche responsabile della BU Industrie Chimiche Ambiente di FLog*** SPA, per il Tribunale la sua posizione di garanzia traeva origine da più fonti. Egli aveva l'obbligo di attivarsi al fine di assicurare il controllo del rischio derivante dall'attività di trasporto ed era quindi a lui riferibile la violazione degli obblighi di un controllo in merito all'attività manutentiva e di adozione del rivelatore di svio o di analogo dispositivo.
La posizione dell'And.[Sa.] non riveste interesse in questa sede essendo egli deceduto nelle more del giudizio.
Per quanto concerne la posizione degli imputati esponenti di R***I s.p.a., gestore dell'infrastruttura nazionale, il Tribunale riteneva che essi fossero responsabili di alcune omissioni, facendo capo al gestore dell'infrastruttura l'obbligo di garantire la sicurezza della circolazione ferroviaria e dell'esercizio ferroviario. Le condotte dal Tribunale ritenute doverose e tuttavia non tenute sono state identificate essenzialmente:
- nell'aver consentito la circolazione sulla R***I di carri di proprietà estera adibiti al trasporto di merci pericolose benché mancasse qualsiasi evidenza in ordine ai processi manutentivi relativi a detti rotabili ed essi non fossero stati sottoposti alla procedura operativa di cabotaggio. Nel formulare tale giudizio il Tribunale escludeva che la avvenuta attribuzione all'Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria delle competenze previste dal d.lgs. n. 162/2007 avesse fatto venir meno l'obbligo di controllo sui processi di manutenzione dei carri esteri da parte di R***I. Ciò perché in sede di prima applicazione all'Agenzia erano stati estesi soltanto alcuni compiti di vigilanza sulle imprese ferroviarie e alcune competenze in ordine al materiale rotabile e in materia di certificati di sicurezza, mentre ancora facevano capo al gestore dell'infrastruttura specifici compiti di controllo dei processi di manutenzione, alla stregua dell'art. 8 del citato decreto 162. Né vi era stato un passaggio di competenze al gestore all'Agenzia in materia di merci pericolose. Rispetto alla prospettazione accusatoria il Tribunale ha ritenuto che effettivamente i soggetti imputati quali esponenti di R***I avessero omesso di emanare prescrizioni per la riduzione della velocità di attraversamento di stazioni come quella di Viareggio. Per contro, ha escluso che potesse essere rimproverato a R***I di non aver valutato il fattore di rischio rappresentato dalla presenza dei picchetti di tracciamento e ciò essenzialmente perché non si era giunti ad avere certezza dell'identità dell'elemento perforante la cisterna e in secondo luogo perché non era stata accertata la prevedibilità del carattere pericoloso del picchetto in rapporto al carro cisterna e, di conseguenza, la configurabilità di un dovere di rimozione dello stesso. Anche in relazione alla mancata realizzazione di strutture di contenimento o di confinamento che separassero la sede ferroviaria dalle abitazioni e comunque dai luoghi o da persone estranee all'esercizio ferroviario, il Tribunale riteneva che non vi fossero elementi idonei ad affermare che la costruzione di muri pieni dell'altezza di 4-5 mt. potesse essere individuata come una misura di cautela che il gestore dell'infrastruttura era tenuto ad adottare, anche perché l'esistenza di simili muri e di barriere avrebbe comportato rischi di altra natura e di difficile valutazione.
Con specifico riferimento alle singole posizioni, il Tribunale ha ritenuto che il Mo.[MA.] e l'El.[M.M.], succedutisi nella carica di amministratore delegato di R***I, avessero avuto in quanto tali una posizione di garanzia non venuta meno per effetto dell'articolazione predisposta all'interno dell'ente con il ricorso a comunicazioni organizzative, ordini di servizio e deleghe. Ciò in quanto permane a carico dell'imprenditore delegante il residuo non delegabile dovere di vigilanza riguardo al corretto esercizio delle funzioni e la complessiva gestione dei rischi connessi all'attività di impresa. Inoltre, non è delegabile la valutazione dei rischi. Nel caso di specie, affermava il primo Collegio, poiché l'evento è stato il risultato di violazioni direttamente connesse all'organizzazione dell'impresa e dell'attività lavorativa nel suo complesso, la responsabilità del sinistro fa capo anche agli organi apicali. Viene in considerazione, infatti, la generalizzata mancata valutazione dei potenziali rischi derivanti dal trasporto di merci pericolose a mezzo di carri esteri la cui manutenzione non era in alcun modo tracciabile. A tal riguardo il Tribunale riteneva non sufficienti i documenti di valutazione del rischio elaborati dalle singole unità produttive; esponeva che l'amministratore delegato avrebbe dovuto disporre il divieto di circolazione di quei carri di proprietà estera che erano stabilmente utilizzati da Tre*** in assenza di tracciabilità dei processi manutentivi. Nonostante l'esistenza di specifici studi che fra il 2001 ed il 2005 erano stati svolti per la società medesima, le concrete misure poste in essere si erano tradotte soltanto nell'indicazione di far viaggiare i treni trasportanti merci pericolose prevalentemente nelle ore notturne e nell'evitare alcuni nodi di maggiore importanza. Il fatto che gli imputati in parola non rivestissero più la carica al tempo del disastro veniva ritenuto non rilevante in ragione delle regole che governano la successione nel tempo dei garanti.
Il Tribunale prendeva inoltre in considerazione i compiti della Direzione tecnica e dell'istituto sperimentale, articolazioni interne alla struttura organizzativa di R***I, identificando quello di definire il quadro regolamentare e normativo ai fini della sicurezza della circolazione ferroviaria ed altresì quello di emanare la normativa tecnica e gli standard organizzativi per il trasporto di merci pericolose. Tali compiti non erano stati correttamente assolti e di ciò il Tribunale faceva rimprovero a CO.GI., D.M.G. e allo stesso El.M.M., in quanto responsabili della Direzione tecnica o dell'istituto sperimentale.
Il Tribunale riteneva la responsabilità anche di MA.GI., quale responsabile della struttura organizzativa Sistema di Gestione Sicurezza Circolazione Treni ed Esercizio Ferroviario, una delle strutture organizzative dirigenziali nelle quali era articolata la Direzione tecnica. In particolare, al Margherita spettava il controllo sull'intero sistema integrato di gestione della sicurezza di R***I e sui sistemi di gestione delle imprese ferroviarie per la parte relativa alla sicurezza della circolazione dei treni.
Anche MA.EN., responsabile della struttura organizzativa Direzione norme, standard, sviluppo e omologazione, struttura organizzativa parte della Direzione tecnica, veniva ritenuto responsabile per condotta colposa che aveva determinato l'evento, in quanto nessuna valutazione dei pericoli e dei rischi connessi ai trasporti di merci pericolose risultava effettuata dal medesimo.
FA.FR. e FU.AL., che si erano alternati nei ruoli di responsabile della Cesifer, ovvero della struttura Certificazione Sicurezza Imprese Ferroviarie, e della struttura Istituto Sperimentale di R***I, venivano ritenuti responsabili perché avendo il compito di assicurare il supporto alle strutture di direzione tecnica in materia di fissazione e verifica degli standard tecnici di interoperabilità e garantire il supporto tecnico scientifico alle altre strutture societarie nei settori specialistici di competenza erano venuti meno al l'obbligo di valutare gli specifici rischi connessi al trasporto di merci pericolose, tanto che ancora nel febbraio del 2009 la specifica procedura di cabotaggio emanata proprio da R***I in materia di trasporto di merci pericolose e facente capo alla struttura Cesifer non era stata eseguita.
Il Tribunale mandava invece assolti Ros.St., Far.Gi. e Tes.Ma., responsabili della struttura organizzativa Armamento, ed anche Pe.Ang. e D.Ve.Ca., direttori compartimentale infrastruttura di Firenze in successione temporale tra loro.
Quanto all'ulteriore posizione di garanzia identificata dall'accusa in capo al Mo.[MA.], per essere questi A.D. di Fe***I*** s.p.a., società holding controllante Tre*** s.p.a. e R***I s.p.a., il Tribunale riteneva che non fosse stato sufficientemente accertato che questi avesse esercitato poteri di controllo e si fosse ingerito nella gestione di tali società, assumendone il ruolo di amministratore di fatto, e pertanto assolveva l'imputato dagli addebiti che si riferivano a tale qualità.
Alla condanna delle persone fisiche alle pene ritenute di giustizia, determinate previo riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 3 cod. pen., si accompagnava la condanna delle medesime e degli enti responsabili civili (G***x Rail Austria, G***x Rail Germania, Officina Ju***l, Ci***Ri*** s.p.a., FLog*** s.p.a., Tre*** s.p.a. e R***I s.p.a.) al risarcimento dei danni in favore delle parti civili; danni che per talune il Tribunale provvedeva a liquidare mentre per altre demandava la quantificazione al giudice civile. Il Tribunale disponeva anche il pagamento di provvisionali.
Infine, la sentenza di primo grado riconosceva gli enti G***x Rail Austria, G***x Rail Germania, Officina Ju***l, Tre*** e R***I responsabili dell'illecito di cui all'art. 25-septies decreto 231/2001 e condannava quelli di diritto straniero ognuno alla sanzione pecuniaria di 400 quote del valore di 1.200 euro ciascuna e quelle di diritto italiano ognuno alla sanzione di 700 quote del valore di 1.000 euro ciascuna; applicava a tutte la sanzione interdittiva prevista dall'art. 9, co. 2 lett. e) d.lgs. n. 231/2001, per la durata di mesi tre.
Come già esposto, escludeva la responsabilità amministrativa di Fe***I*** s.p.a., Ci***Ri*** s.p.a. e FLog*** s.p.a.
Dopo aver rammentato che G***x Rail Europe GmbH era stata esclusa dal processo con ordinanza del 9.12.2013, il Tribunale riteneva che la responsabilità amministrativa degli enti morali, quale definita dal decreto 231/2001 fosse applicabile anche alle persone giuridiche di diritto straniero non aventi in Italia alcuna sede, principale o secondaria che sia. In tal modo, sulla scorta di una pluralità di riferimenti normativi, assunti in una interpretazione sistematica, rigettava la tesi secondo la quale dall'autonomia dell'illecito attribuibile all'ente e dalla assenza di espresse previsioni fondative debba dedursi la non applicabilità della giurisdizione nazionale a soggetti giuridici che conformano il proprio modello organizzativo alle normative del Paese di appartenenza. Accertata la commissione del reato presupposto dell'illecito di cui all'art. 25-septies e giudicando che esso era stato commesso nell'interesse e/o vantaggio dell'ente di appartenenza, il Tribunale concludeva come sopra rammentato. R***I e Tre*** avevano adottato Modelli di organizzazione e gestione non reputati idonei a prevenire reati della stessa specie di quelli commessi dai rispettivi esponenti; le società estere venivano ritenute prive di ogni Modello di organizzazione coerente alle previsioni degli artt. 6 e 7 decreto 231.
La responsabilità di Fe***I*** s.p.a. veniva negata per non essere stata dimostrata la commissione del reato presupposto da parte del suo A.D.; quella di Ci***Ri*** s.p.a. veniva esclusa non venendo ravvisata la commissione della condotta da parte dei suoi esponenti nell'interesse o a vantaggio dell'ente in parola; quella di FLog*** s.p.a. veniva esclusa sia perché l'imputazione nei confronti della stessa era venuta a mutare rispetto alla originaria imputazione senza una regolare contestazione della stessa (dall'interesse della società all'interesse del gruppo Fe***I***); sia per aver dato dimostrazione di aver adottato ed efficacemente attuato prima della commissione del reato un Modello di organizzazione e di gestione.

3. La sentenza della Corte di appello di Firenze
Tutti gli imputati, le società condannate ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 ed i responsabili civili proponevano appello. Inoltre, proponeva appello Mer*** Rail s.p.a., che era divenuta beneficiaria del ramo di azienda denominato "Cargo" in forza di atto di scissione parziale di Tre*** s.p.A. intervenuto il 21.12.2016, ovvero prima della pronuncia della sentenza di primo grado. Anche il pubblico ministero e le parti civili Regione Toscana, Provincia di Lucca, Dopolavoro Ferroviario di Viareggio, UGL Trasporti Regione Toscana, UGL-UTL Provincia di Lucca, ORSA Ferrovie, ORSA Regionale, ORSA Provinciale, R.D., M.C., C.F., G.M., D.A.D., P.G., P.A., C.V., F.S., M.A., M.G., B.I., A.M.G. adivano il giudice di secondo grado.
Il quale, con la sentenza riportata in epigrafe, in accoglimento degli appelli dell'accusa pubblica e privata, ha dichiarato responsabili dei reati loro rispettivamente ascritti il Le.[JO.] ed il Mo.[MA.], quale A.D. di R***I s.p.a., eccezion fatta per i reati di cui agli artt. 590 cod. pen. e 423, 449 cod. pen., che dichiarava estinti per prescrizione; ha condannato pertanto il Le.[JO.] alla pena di sette anni e tre mesi di reclusione, previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 3 cod. pen. e il riconoscimento della continuazione tra i reati, ed il Mo.[MA.] alla pena complessiva di sette anni di reclusione, previo riconoscimento delle attenuanti generiche valutate equivalenti all'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen.
La Corte di appello, inoltre, ha assolto da tutti i reati loro rispettivamente contestati il Ko.[Uw.], il Ma.[EN.], il Pac.[Gi.], il Fu.[AL.], il Co.[GI], il D.M.[G.] ed il Ma.[GI.], per non aver commesso il fatto; ha dichiarato estinti i reati ascritti all'And.[Sa.] e al Farneti per morte dei medesimi; ha dichiarato estinti per prescrizione i reati di cui rispettivamente agli artt. 590 cod. pen. e 423-449 cod. pen. nei confronti del Br.[HE.], del Ko.[RA.], del Kr.[UW.], del Li.[PE.], del Ma.[JO.], del Ma.[RO.], dello Sc.[AN.], del Pi.[PA.], del G.F.[D.], del Ca.[MA.], dell'El.[M.M.], del Fa.[FR.], del Ma.[EM.] e del So.[VI.], ai quali ha ridotto la pena, dopo aver altresì escluso l'aggravante di cui all'art. 61 n. 3 cod. pen. e riconosciute le attenuanti generiche al Pi.[PA.], al G.F.[D.], al Ca.[MA.], all'El.[M.M.], al Fa.[FR.], al Ma.[EM.], al So.[VI.].
La Corte distrettuale ha modificato altresì le statuizioni civili pronunciate dal Tribunale, conformandole alle modificate statuizioni penali.
Quanto agli enti già condannati, la Corte di appello ha revocato per tutte le sanzioni interdittive ed ha ridotto la sanzione pecuniaria irrogata alle società G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germania GmbH, Officina Ju***l Waggon GmbH al numero di 333 quote dell'importo già stabilito di euro 1.200 per ciascuna quota.
Ha confermato le restanti statuizioni del giudice di primo grado.
Dopo aver rigettato l'eccezione sollevata dalle difese di alcuni imputati ed enti che investiva la sentenza di primo grado nella sua interezza, per essere stata pronunciata da un giudice non precostituito per legge ma scelto per ragioni di mera opportunità, e quella avanzata dall'imputato El.[M.M.], relativa alla nullità della sentenza per non essergli stata notificata la modifica delle imputazioni di cui ai numeri 34, 35 e 36 relative al coimputato Mo.[MA.], disposta dal PM all'udienza del 22.1.2014 (ulteriori eccezioni di carattere processuale, pure citate dalla Corte di appello, non assumono rilievo ai fini che qui occupano), il Collegio di secondo grado ha esplicato le ragioni per le quali ha ritenuto che sussista l'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen., assumendo che essenziale al riguardo è che l'evento si verifichi nello svolgimento di attività lavorativa, mentre non ha valore dirimente né il luogo ove l'evento si verifica né il non essere il soggetto passivo un lavoratore. Peraltro, le norme la cui violazione comporta l'applicazione di tale aggravante non sono solo quelle speciali dettate dal legislatore a tutela del lavoro ma sono anche quelle del codice civile che pongono obblighi cautelari in capo all'imprenditore.
Nel caso di specie il deragliamento e quel che ne seguì avvenne nel corso dello svolgimento dell'attività lavorativa del trasporto per ferrovia del GPL e un simile evento costituisce rischio tipico che l'imprenditore ferroviario è tenuto a governare, a tutela non solo dei propri dipendenti e di coloro che sono direttamente coinvolti nella circolazione del treno ma anche di quanti si trovano legittimamente nei pressi del treno nel momento del deragliamento. Né può distinguersi, ha aggiunto la Corte di appello, la sicurezza sul lavoro dalla sicurezza della circolazione per limitare la posizione di garanzia dell'impresa ferroviaria, essendo unica ed indubitabilmente lavorativa l'attività svolta.
In tale contesto tematico la Corte distrettuale ha respinto l'ulteriore assunto difensivo della inapplicabilità al trasporto ferroviario delle disposizioni di cui al d.lgs. n. 81/2008, facendo perno sull'interpretazione dell'art. 3, co. 1, 2 e 3 di tale testo; e quello che rappresentava l'inapplicabilità della normativa antinfortunistica ai soggetti operanti esclusivamente all'estero in quanto legittimamente non a conoscenza delle norme del diritto italiano. A tal ultimo riguardo, la Corte di appello ha richiamato l'art. 6, co. 2 cod. pen., rimarcando come i soggetti esteri avessero tenuto una parte della condotta in Italia consegnando l’assile alla Ci***Ri*** s.p.a.; l'art. 23 d.lgs. n. 81/2008 e la circostanza che essi devono essere reputati fornitori; l'art. 8, co. 2 d.lgs. n. 162/2007, rilevante in quanto i soggetti in parola si fecero fornitori di servizi di manutenzione, o comunque furono addetti alla manutenzione (Ju***l) o enti appaltanti (G***x Rail Austria e G***x Rail Germania); alcune norme del contratto stipulato con FLog*** s.p.a. ed infine l'art. 4, co. 1 del Regolamento europeo n. 864/2007.
Conseguentemente ha rigettato l'istanza di rinvio pregiudiziale alla CGUE ai sensi dell'art. 267 del TFUE formulata proprio a riguardo del tema.
Venendo alle singole posizioni, la Corte di appello ha affrontato dapprima i rilievi che gli appellanti avevano mosso alle statuizioni concernenti gli imputati che avevano operato per le imprese estere, confermando i giudizi espressi dal Tribunale pur all'esito della analisi delle approfondite difese.
Preliminarmente la Corte di appello ha definito il quadro fattuale rilevante, ovvero le condizioni dell’assile al momento in cui era stato sottoposto ai controlli presso l'officina Ju***l. Sulla scorta del contributo reso dai periti, la Corte di appello ha ritenuto accertato che le dimensioni della cricca fossero state al tempo tra 10 e 12 millimetri.
A tal proposito, la Corte di appello ha rigettato la tesi difensiva, sostenuta con il conforto degli esperti della difesa, prof. Fre. e ing. Bin., secondo la quale l'impronta lasciata sulla supeR***Icie fratturata dell'assile consentirebbe di determinare l'ampiezza della frattura iniziale e pertanto di calcolare la misura della propagazione della cricca a partire dal 28.11.2008. Ad avviso della Corte distrettuale, la tesi recata dai cc.tt. degli imputati non è confortata dagli altri esperti sentiti in giudizio; a tal proposito essa ha valorizzato in particolare la deposizione dell'ing. Ghi., teste reputato indipendente. Ha ritenuto infondata anche la tesi di una frattura avente aspetti assolutamente anomali, comprovanti l'esistenza di una sollecitazione straordinaria, produttiva di una velocità di propagazione della frattura essa stessa fuori dalla norma; e così la tesi di una particolare inclinazione della cricca rispetto al piano ortogonale che avrebbe impedito la sua rilevazione all'esame UT; nonché quella di una eccezionalità della collocazione della frattura nel raccordo tra portata di calettamento della ruota e fusello (altrimenti detta collarino); ed infine quella di una collocazione del punto di innesco della cricca in una zona diversa dal collarino.
La Corte di appello ha poi condiviso il giudizio del Tribunale secondo il quale, al tempo della revisione, l’assile presentava numerose irregolarità della verniciatura nonché tracce diffuse di corrosione anche sul corpo, respingendo le tesi difensive secondo le quali l’assile aveva riportato dei danni a seguito dell'incidente e del successivo incendio, con conseguenze in ordine alla possibilità di accertarne lo stato presente quando venne revisionato presso la Ju***l. In particolare, la Corte di appello ha ritenuto di ribadire che l’assile non era stato sottoposto a sabbiatura e a verniciatura integrale in tale occasione e che il progresso dell'ossidazione successivo all'incidente non aveva inciso sullo stato del collarino, che era stato adeguatamente protetto, e sulle craterizzazioni da corrosione
localizzate nella zona di innesco della cricca.
Ancora sul piano generale, la Corte di appello ha respinto l'assunto difensivo di una errata impostazione dell'accertamento del nesso causale ad opera del Tribunale, il quale avrebbe posto a termine della relazione causale un unico macro-evento in luogo di tre eventi tipici diversi: il disastro ferroviario, l'incendio, le lesioni e le morti delle persone. Secondo la tesi delle difese, una corretta impostazione avrebbe escluso l'esistenza del nesso causale tra le attività manutentive e l'incendio, determinato unicamente dall'impatto della cisterna con un corpo perforante. La Corte di appello, all'inverso, ha sostenuto che è da escludere che gli eventi successivi allo svio si siano verificati in ragione di un fattore causale che ha introdotto un rischio nuovo, tale da interrompere la relazione eziologica facente capo ai manutentori.
Con riferimento alle singole posizioni, la Corte di appello ha ribadito che il Kr.[UW.] aveva eseguito con negligenza ed imperizia il controllo non distruttivo dell'assile e per tal motivo non si era avveduto della cricca di 10-12 mm. presente sul collarino dell'assile, nonostante la medesima fosse rilevabile. Inoltre, il Kr.[UW.] non aveva registrato il rumore di fondo superiore al 10% e così non aveva posto termine al controllo ad ultrasuoni, non aveva coinvolto il supervisore e in ultima analisi non aveva reso possibile l'esame magnetoscopico prescritto in casi siffatti. Tali condotte avevano quindi cagionato l'incidente perché la condotta alternativa lecita avrebbe determinato la rilevazione della cricca e quindi lo scarto dell'assile in questione.
Al Br.[HE.] ha rimproverato di aver eseguito il controllo MT nonostante l'officina non fosse autorizzata a compierlo e peraltro di averlo compiuto senza ispezionare l'intero assile e quindi anche l'area del collarino e del fusello, diversamente da quanto richiesto da specifiche regole tecniche (rinvenute nel Manuale VPI) ma anche da regola di comune diligenza, posto che l'esame magnetoscopico richiedeva la preparazione della supeR***Icie di prova. Sicché anche nella zona del collarino dovevano essere rimosse le sbollature della vernice e verificato il metallo sottostante.
Per lo Sc.[AN.] la Corte di appello ha ribadito l'attribuzione di un comportamento omissivo, avendo egli mancato di sorvegliare l'esecuzione del controllo da parte dell'operatore Kr.[UW.]; sorveglianza che doveva essere spiegata pur in assenza di una segnalazione di criticità da parte del Kr.[UW.], anche tenuto conto del tipo di apparecchiatura in dotazione allo stesso. La Corte di appello ha dato atto che il giudice di primo grado era incorso in errore nell'affermare che Sc.[AN.] aveva sottoscritto il 2 dicembre 2008 il documento attestante lo svolgimento della prova UT nel tempo di 12 minuti; ma ha ritenuto che ciò non privasse di rilievo la circostanza che egli non era stato presente al controllo ultrasonoro effettuato dal Kr.[UW.] e che quindi non aveva potuto percepire la presenza di 'segnali di allarme', in particolare per quanto concerne la tempistica di esecuzione dell'esame da parte di questi. Replicando a specifico motivo di appello, la Corte distrettuale ha puntualizzato che la decisione di sottoporre l’assile ad un livello di manutenzione superiore che prevedesse il controllo magnetoscopico sull'intero corpo, e a maggior ragione la decisione di scartare l’assile, non competevano al supervisore per i controlli non distruttivi (o a colui che lo sostituiva); ma questi aveva il dovere di rendersi conto della invalidità dell'esame ultrasonoro, per la presenza di anomalie che minavano la affidabilità del controllo.
Infine, lo Sc.[AN.] aveva i medesimi compiti del Le.[JO.] e quindi era in grado e tenuto a fare quanto sopra descritto.
La Corte di appello si è invece distaccata dall'avviso del Tribunale nella valutazione della posizione del Le.[JO.]. Accogliendo il ricorso del P.M. essa ha ritenuto che il Le.[JO.] fosse tenuto ad organizzare le attività di controllo; ciò nonostante, egli non aveva messo a disposizione degli addetti agli esami ultrasonori né il disegno dell’assile né istruzioni tecniche specifiche relative all'esame. Per la Corte territoriale, l'elencazione dei compiti dell'addetto alla sorveglianza sui controlli non distruttivi comprende sia compiti di 'alta sorveglianza' e formazione del personale sia compiti che attengono alla sorveglianza e validazione dei singoli controlli e alla decisione tecnica di controllo in caso di dubbio. Il Le.[JO.] non aveva adempiuto a tali doveri, non rinvenibili anche in capo allo Sc.[AN.], avente qualificazione professionale non coincidente.
Per quanto concerne il Li.[PE.] e il Ko.[RA.], la Corte di appello ha ribadito, con il Tribunale, che presso l'officina Ju***l esistevano strutturali manchevolezze dell'organizzazione delle attività manutentive: erano assenti i piani di prova per i diversi tipi di assile, mancava la documentazione tecnica relativa alle precedenti attività manutentive svolte sull'assile n. 98331, del quale non si disponeva neppure di un disegno tecnico, vi erano gravi deficit organizzativi nella supervisione dei controlli non distruttivi. L'ordinanza EBA del 10 luglio 2007 aveva evidenziato la necessità urgente del perfezionamento di determinate procedure che riguardavano la ricognizione delle sale e quelle relative al pericolo legato alla corrosione della supeR***Icie degli assili e alle frequenti anomalie della verniciatura. I due imputati, titolari della facoltà di redigere ed approvare le istruzioni tecniche per le manutenzioni da eseguire presso l'officina Ju***l su sale di proprietà G***x non avevano adottato alcuna disposizione. Una più puntuale classificazione degli assili - corrispondente a quanto dopo il sinistro viareggino era stato disposto - avrebbe portato ad un livello di sicurezza notevolmente più -elevato e l’assile n. 98331 non avrebbe potuto essere classificato 'W1' ma sarebbe stato classificato di categoria 4, con conseguente scarto.
La valutazione complessiva delle istruzioni tecniche emanate dopo il sinistro di Viareggio evidenziava che queste contengono rilevanti correzioni e perfezionamenti delle tecniche di manutenzione che, se realizzati tempestivamente, avrebbero avuto efficacia impeditiva. In particolare, quanto al Li.[PE.], la Corte di appello ha precisato che la sua responsabilità va affermata in quanto diretto responsabile, unitamente al Ko.[RA.], dell'elaborazione delle regole interne della manutenzione delle sale e carrelli (c.d. TFA) inoltrate alle tre società del gruppo e dotate di efficacia vincolante e prevalente rispetto alle norme VPI.
Per quanto concerne il Ma.[RO.] ed il Ma.[JO.], la Corte di appello ha respinto il comune assunto difensivo di carenza di una loro competenza quanto a poteri organizzativi e di controllo sulla manutenzione effettuata presso l'officina Ju***l. In primo luogo, la Corte di appello ha ritenuto che G***x Rail Austria GmbH avesse svolto un duplice ruolo: società immediatamente operativa nel settore del commercio di carri ferroviari e società svolgente funzioni di 'capogruppo1. Il sistema di gestione degli investimenti delle varie società G***x prevedeva sempre un intervento del vertice amministrativo a livello europeo, appunto il Ma.[JO.], quando non anche della società americana alla quale quelle europee facevano capo. La Corte di appello escludeva anche che i compiti del Ma.[JO.] si esaurissero nell'attività commerciale. Ad avviso del Collegio distrettuale, all'epoca delle condotte contestate agli imputati operanti nel “gruppo G***x”, il Ma.[JO.] svolgeva funzioni di unico vertice amministrativo di G***x Rail Austria GmbH la quale, oltre ad avere una propria attività operativa a livello territoriale svolgeva anche le funzioni sostanziali di indirizzo, coordinamento e controllo delle altre società G***x operative in ambito europeo (G***x Germania e G***x Polonia), rappresentandole anche all'esterno, e non solo sul mercato, con la denominazione di G***x Rail Europe, benché questa non corrispondesse ad un soggetto giuridico distinto. Al predetto imputato spettavano compiti di intervento e vigilanza anche nel settore della manutenzione svolte dalle tre società G***x Rail europee sicché la Corte di appello gli ha ascritto le relative carenze strutturali. Inoltre, la sua qualità di amministratore di G***x Rail Austria, con competenza in tutti i settori compresa la Divisione Tecnica, gli attribuiva una posizione di garanzia quale proprietario e fornitore del carro-cisterna noleggiato a FLog*** e l'obbligo di fornire una "macchina" sicura e correttamente manutenuta, derivante dagli artt. 23 d.lgs. n. 81/2008, 8, co. 2 d.lgs. n. 162/2007 e 2087 c.c.
Quanto al Ma.[RO.], la Corte di appello ha ritenuto di dover escludere la sua responsabilità per non avere adeguato il sistema di manutenzione vigente in G***x Rail Austria. Nel ruolo di responsabile della manutenzione della flotta carri merci di tale società, questi operava a livello territoriale e non europeo. Pertanto egli non poteva modificare un sistema di gestione dell'attività manutentiva che era unitario per tutte le società del "gruppo G***x".
Tuttavia, la responsabilità gli è stata ascritta nelle qualità di direttore tecnico all'interno di G***x Rail Austria, referente del Maintenance Management Team responsabile per l'assistenza nella manutenzione periodica di tutti i carri G***x; in tale qualità egli aveva un dovere di vigilanza sull'operato dei componenti del Team e di verifica della correttezza degli interventi manutentivi effettuati dalle officine esterne a G***x Rail Austria e in particolare della qualità della manutenzione delle cisterne di proprietà.
Egli aveva uno specifico dovere di controllo sul livello manutentivo della cisterna di proprietà di G***x Rail Austria e noleggiata a FLog*** spa.
L'imputato Ma.[RO.] aveva omesso di controllare se la Ju***l Waggon possedeva o meno le autorizzazioni necessarie per svolgere quel lavoro di revisione. Il controllo avrebbe potuto e dovuto mettere in allarme il Ma.[RO.] nel richiedere alla stessa la fornitura dell'assile da utilizzare su un carro destinato al noleggio. Comunque, in difetto di una attestazione della piena idoneità dell'officina Ju***l all'esecuzione di tutte le operazioni di manutenzione sugli assili, l'imputato avrebbe dovuto direttamente sincerarsi del possesso di quei requisiti. Quale responsabile del Team di gestione della manutenzione (MMT) di G***x Rail Austria, il Ma.[RO.] ben sapeva che i controlli eseguiti presso l'officina Ju***l non comportavano anche l’effettivo accertamento della corretta esecuzione delle operazioni.
La Corte di appello - che ha assolto il Pac.[Gi.] perché come direttore generale non aveva avuto compiti di natura tecnica o di gestione dei processi manutentivi e come A.D. aveva assunto il ruolo solo dopo il montaggio della sala - ha condiviso il giudizio del Tribunale secondo il quale il G.F.[D.], in qualità di responsabile della organizzazione delle attività manutentive di Ci***Ri***, aveva omesso di prevedere delle disposizioni operative contemplanti l'ispezione delle sale giunte presso la società e la verifica della documentazione della sala e della revisione eseguita presso la Ju***l. Nel fare tale affermazione la Corte di appello ha ritenuto che, per la posizione di questo imputato, non venisse in considerazione una posizione datoriale e che egli fosse il soggetto tenuto a pianificare il lavoro di manutenzione e ad adottare disposizioni per la corretta esecuzione del controllo visivo. La Corte di secondo grado ha poi escluso che vi fosse stata una illegittima immutazione della contestazione, per essere stata attribuita al G.F.[D.] una condotta commissiva (l'aver messo in circolazione il carro) a fronte di una contestazione che gli rimproverava esclusivamente condotte omissive.
Quanto al Pi.[PA.], capo commessa del settore carri, che eseguì la revisione G4.8 sul carro e scartò le due sale e poi montò quelle inviate in sostituzione, a questi è stato ascritto di aver omesso il controllo visivo, dovuto sia per l'assenza di documentazione circa la revisione eseguita presso Ju***l, sia per lo stato dell'assile, sia perché questo non era di nuova fabbricazione. Anche per il Pi.[PA.] si è escluso che egli fosse stato un datore di lavoro; ma le sue conoscenze gli rendevano doveroso il riconoscimento dei segnali di allarme.
Con riferimento al Ca.[MA.], la Corte di appello ha in primo luogo precisato che egli, nelle diverse qualità nel tempo assunte, aveva avuto il ruolo di fornitore a Tre*** di carri per il trasporto di GPL. In questo modo la Corte ha respinto le osservazioni difensive secondo le quali Ca*** Che*** e FLog*** avevano
stipulato solo un contratto di spedizione del gas o un contratto con Tre*** per assicurarsi il servizio di trazione dei carri. La Corte di Appello ha svolto un'analisi dei contratti stipulati evidenziando che nel contratto di spedizione l'interessato consegna la merce allo spedizioniere il quale organizza il trasporto con i propri mezzi e in piena libertà; nel caso di specie, invece, il trasporto avveniva con carri scelti, controllati e riempiti dallo stesso richiedente la spedizione. La qualità di fornitore discendeva anche dall'espressa previsione dell'articolo 19.1.3 del contratto stipulato con Tre***. Il medesimo contratto poi prevedeva unicamente l'offerta di un servizio di trasporto senza prevedere l'impiego di carri che fossero già nella disponibilità di Tre***. In sostanza, Ca*** Che*** prima e FLog*** poi avevano concesso in uso i carri a Tre***, da considerarsi attrezzature di lavoro secondo la definizione di cui all'articolo 69 del d.lgs. n. 81/2008. Un ulteriore referente normativo per l'identificazione di un obbligo di garanzia in capo al Ca.[MA.] è stato indicato nell'art. 2050 c.c., poiché è stata ritenuto esercizio di un'attività pericolosa il trasporto di merci infiammabili per centinaia di chilometri. Pertanto Ca*** Che*** prima e FLog*** poi avevano l'obbligo di curare l'organizzazione nel modo più corretto e diligente possibile per tutta la durata del trasporto. In tal modo la Corte distrettuale ha disatteso il rilievo difensivo secondo il quale al più le due società dovevano ritenersi responsabili della sicurezza nella fase del carico e scarico del gas e nel perimetro della raffineria Sarpom.
Anche la previsione dell'art. 6.2. del contratto stipulato con il proprietario locatore del carro è stata ritenuta fonte di una posizione di garanzia del Ca.[MA.] quale amministratore di Ca*** Che***, giacché essa prevedeva che il locatario fosse responsabile per tutti i danni provocati a terzi dal carro e dal trasporto e che questi sollevasse il locatore dall'obbligo di soddisfare i reclami di terzi, nella misura in cui il locatore non ha colpa. Il precedente articolo 4, poi, prevedeva che il locatore dovesse spedire il vagone in perfette condizioni, mentre il locatario doveva accertarsi che il vagone fosse in condizioni ineccepibili e in totale conformità con quanto previsto nel contratto.
La Corte d'appello ha infine ritenuto che l'evento fosse prevenibile ed evitabile mediante l'acquisizione della documentazione e quindi soddisfacendo l'obbligo di tracciabilità identificato in capo alla società fornitrice.
Trattando delle posizioni degli esponenti di Tre*** s.p.a., la Corte di appello ha identificato la fonte dell'obbligo di operare un controllo in ordine alla vita del carro innanzitutto nelle norme che impongono al datore di lavoro di dotare i lavoratori di attrezzature di lavoro sicure.
In secondo luogo, ha affermato che il dovere di assicurare la tracciabilità deriva innanzitutto dalla norma CEI-EN 50126 che stabilisce la formazione di un dossier di sicurezza senza distinguere tra rotabili di proprietà o noleggiati, immatricolati in Italia o all'estero.
Altra fonte è stata individuata nell'art. 14 del d.lgs. n. 162/2007 che, in rapporto all'art. 10, comma 2 lett. b) della direttiva CE 49/2004, stabilisce che il certificato di sicurezza contiene l'autorizzazione a mettere in servizio il materiale rotabile usato dall'impresa ferroviaria, indipendentemente dal suo utilizzo a titolo di proprietà o di noleggio; quella certificazione è basata sulla documentazione trasmessa all'impresa ferroviaria ai sensi dell'allegato IV. L'impresa deve fornire la prova che il materiale rotabile è conforme alle specifiche tecniche di interoperabilità (STI) o alle norme nazionali, e che è stato debitamente certificato. Secondo la Corte di appello quella documentazione deve contenere tutte le informazioni relative alla storia manutentiva dei carri.
Ancora, il secondo giudice ha fatto riferimento all'art. 9 del d.lgs. n. 162/2007, con il quale si è data attuazione all'articolo 14 della menzionata direttiva; la Corte distrettuale ha evidenziato come per l'utilizzo di carri omologati in altro Stato membro, e segnatamente in Germania, che siano stati in tale Paese già autorizzati alla messa in servizio, l'impresa ferroviaria Tre*** avrebbe dovuto presentare all'ANSF e prima ancora al gestore dell'infrastruttura un fascicolo tecnico contenente tutte le informazioni relative al materiale rotabile in parola. Tre*** non era in possesso di tale fascicolo, non lo aveva mai richiesto al suo fornitore FLog*** né al proprietario del carro.
La Corte di appello ha poi richiamato alcune norme dell'ordinamento interno; la disposizione n. 13/2001 di R***I che all'art. 4 stabiliva che le imprese ferroviarie dovevano presentare al gestore dell'infrastruttura un dossier di sicurezza il quale doveva anche contemplare la considerazione dei rischi derivanti dall'interfaccia tra le proprie attività e quella dei propri fornitori. Ha citato anche l'art. 4.3.1, lett. b), precisando che esso si riferiva al solo materiale rotabile omologato e immatricolato presso il gestore italiano; ma ha soggiunto che il capo c) precisava che doveva essere dichiarata la conformità del materiale rotabile relativamente ad attestazioni di omologazione ed immatricolazione dei rotabili trasmesse all'atto della richiesta del certificato di sicurezza, in cui dovevano essere compresi anche i rotabili omologati all'estero. Ha citato ancora, della medesima disposizione, il punto 4.3.5, il cui capo n) specificava che nel dossier dovevano essere indicati i criteri di selezione dei fornitori e data evidenza che tutti i dati relativi alla sicurezza erano resi disponibili all'impresa ferroviaria per i controlli di congruità e che tutti i controlli su impianti, prodotti utilizzati, servizi erogati dai fornitori erano stati effettuati, onde verificare che non fossero introdotte condizioni di rischio non controllato all'interno dell'infrastruttura ferroviaria. La Corte territoriale ha rimarcato che tale previsione era in vigore nel 2005 ma che essa non è mai stata applicata da Tre***.
Ha poi citato la disposizione di R***I n. 1/2003 la quale stabiliva per il materiale rotabile nuovo che non ha mai circolato sulla R***I - la Corte ha chiosato che tale era il carro nel gennaio del 2005 - senza distinguere in base alla proprietà o alla provenienza dall'estero o alla marcatura RIV, l'esistenza di una documentazione da produrre per la verifica della compatibilità tecnica e della congruenza normativa agli standard di sicurezza, facendo espressa richiesta di un dossier tecnico "descritto come fascicolo in cui sono raccolti a) i documenti riguardanti un rotabile o parti specifiche di esso; b) la documentazione relativa ai processi di omologazione delle apparecchiature e/o dei componenti per le quali è richiesta".
La Corte di appello ha anche menzionato la disposizione n. 23/2004 emessa da R***I 1'8 giugno 2004 che riguardava anche il materiale rotabile impiegato dalle imprese ferroviarie sulla infrastruttura ferroviaria nazionale, e pertanto non solo quello da esse immatricolato, e imponeva alle imprese ferroviarie di conservare la documentazione della registrazione scritta delle operazioni di manutenzione effettuate su ogni rotabile utilizzato e di garantire la disponibilità della rintracciabilità delle operazioni di manutenzione effettuate, delle modalità di intervento, dell'indicazione degli operatori che avevano effettuato gli interventi, di copie originali dei piani di manutenzione.
La Corte ha osservato che la stessa Tre*** nella 'Modifica alla comunicazione per il certificato di sicurezza .... revisione B del 3 Marzo 2004', contenente la procedura per le immatricolazioni dei rotabili delle divisioni di trasporto di Tre***, al punto 4.1 relativo ai rotabili nuovi, stabiliva l'immatricolazione del materiale rotabile da parte del Cesifer senza distinguere tra carri di proprietà o meno e, soprattutto, al punto 4.2 relativo ai rotabili già circolanti stabiliva che in caso di modificazione della proprietà o della destinazione d'uso, se trattasi di rotabili marcati RIV o RIC, acquistati e/o affittati o noleggiati da amministrazioni straniere o da privati già ammessi a circolare sulla rete in virtù della marcatura di cui sopra, la divisione di trasporto doveva fornire a CESIFER anche i piani di manutenzione tradotti in lingua italiana.
La conclusione della Corte è che era previsto quindi dalla stessa impresa ferroviaria Tre*** l'obbligo di acquisire e depositare presso il CESIFER i piani di manutenzione anche per i rotabili marcati RIV e quindi un obbligo di tracciabilità delle procedure di manutenzione benché tali carri potessero circolare senza essere sottoposti a controlli di natura tecnica.
Tra le fonti la Corte distrettuale ha incluso anche la procedura operativa R***I TCCS PR PO 02002, risalente all'8 luglio 2003, la cosiddetta procedura di cabotaggio, che a suo avviso presupponeva la disponibilità dell'impresa ferroviaria di un dossier tecnico, dovendo la stessa, nel richiedere l'autorizzazione al gestore alla messa in servizio di carri cisterna conformi RIV/RID immatricolati su reti di paesi appartenenti all'Unione europea da utilizzare in servizio interno per il trasporto di merci pericolose di cui al RID classe 2, sottoscrivere l'impegno di fornire ogni altro documento o informazione eventualmente richiesti in corso di esame della documentazione stessa.
La Corte d'appello ha anche preso in considerazione i rilievi difensivi che rappresentavano come tale procedura non fosse più vigente una volta introdotto il sistema dell'interoperabilità perché con questo incompatibile, respingendo l'assunto sia evocando l'assenza di atti formali che ne sancissero il venir meno sia richiamando le dichiarazioni del Chi.i e del LaSp..
In conclusione, la Corte di appello ha ritenuto l'omessa effettuazione della procedura di cabotaggio rilevante perché anch'essa ha determinato l'inadempimento dell'obbligo di acquisire informazioni supplementari in ordine al carro; inoltre, la sua omissione ha dimostrato che Tre*** mise in circolazione il carro senza rispettare nessuna delle norme e delle procedure che imponevano di fornire al gestore della rete la documentazione e le informazioni rilevanti per la sicurezza con riferimento a tutti i componenti del carro medesimo.
Quindi, venendo alle singole posizioni, la Corte di appello ha ritenuto, per quel che concerne il Ma.[EM.], infondati i motivi di appello che attenevano in generale alla ritenuta omessa valutazione del rischio, all'omesso controllo sulla tracciabilità e alla omessa adozione del detettore di svio e poi il motivo, specifico per il Ma.[EM.], di una sua estraneità al ruolo di datore di lavoro, avendo egli compiti puramente intellettuali e non operativi, mentre la procura conferitagli era stata inefficace o nulla perché non accettata e avente ad oggetto materie non delegabili.
La Corte distrettuale ha replicato che il datore di lavoro era da individuarsi nell'A.D. So.[VI.] e non nei responsabili delle singole unità produttive territorialmente competenti benché nominati tali. Ma le Direzioni centrali, in uno con l'A.D., avevano il compito di elaborare le normative interne e di adottare decisioni rilevanti per l'intera organizzazione e le sue articolazioni. Per il Ma.[EM.], dalla qualifica di responsabile della DISQS e dalla procura del 5/9.2.2007, emerge che egli era titolare di specifiche competenze per la implementazione della sicurezza. Egli era datore di lavoro perché tutti i testi avevano riferito che i vertici di Tre*** avevano attribuito tale qualifica a tutti i responsabili delle Unità produttive, tra cui la DISQS; peraltro, la sua responsabilità non derivava dalla mancata elaborazione del DVR ma dalla mancata rilevazione ed eliminazione di deficit organizzativi in tema di sicurezza (come la non tracciabilità del materiale in parola). Inoltre, la procura non presentava i vizi dedotti dall'appellante. Quanto alla conoscenza da parte sua dell'ordinanza EBA, la Corte territoriale ha reputato non credibile che il Ma.[EM.] non ne avesse avuto conoscenza; comunque, in relazione ai suoi doveri, egli avrebbe dovuto avere conoscenza non già del provvedimento quanto dei fatti che questo prendeva in considerazione, ovvero "i non rari incidenti causati dalla rottura di assili e di altri componenti dei carri, verificatisi in Italia ma anche all'estero".
Proprio al Ma.[EM.] spettava di indicare alle altre Direzioni quale fosse l'interpretazione da dare alle norme, sicché non lo esimeva da responsabilità il fatto che le altre unità produttive non avevano rilevato criticità in tema di sicurezza nella circolazione dei carri esteri trasportanti merci pericolose. D'altronde egli era a conoscenza che Tre*** utilizzava siffatti carri, avendo seguito nel 2005 un progetto per la realizzazione di un parco carri di tale tipologia.
Venendo alla trattazione delle posizioni degli esponenti di R***I s.p.a., la Corte di appello ha confermato la condanna del Fa.[FR.] limitatamente al ruolo di responsabile del Cesifer, mentre ha accolto l'appello quanto alla affermazione di responsabilità per violazioni commesse come responsabile dell'istituto sperimentale e ciò in ragione del breve tempo durante il quale egli aveva ricoperto la carica.
Quale responsabile del Cesifer, invece, la Corte di appello ha ritenuto:
a) che dovendo essere eseguita la procedura di cabotaggio nel 2005, egli era responsabile della omessa esecuzione;
b) che della mancata esecuzione egli era a conoscenza o comunque avrebbe dovuto avere conoscenza perché al Cesifer era demandato il compito di detenere i rapporti con le imprese ferroviarie ai fini del rilascio, rinnovo, modifica e revoca del Certificato di sicurezza e di verificare la persistenza della conformità agli standard di sicurezza definiti da parte delle imprese ferroviarie certificate mediante attività ispettiva, audit e monitoraggio nonché mediante analisi dei manuali, delle procedure, dei dossier e dei piani di sicurezza elaborati dalle imprese ferroviarie stesse. Il Cesifer aveva interlocuzioni continue con l'impresa ferroviaria e avrebbe dovuto verificare periodicamente se tutti i carri utilizzati erano conformi agli standard di sicurezza e quindi se erano accompagnati dal dossier di sicurezza o dal dossier tecnico o comunque dalla documentazione prescritta per la tracciabilità. Per la Corte di appello ciò rende non credibile che il Fa.[FR.] non avesse saputo per tre anni, dal 2005 al 2008, che Tre*** stava eseguendo trasporti di GPL con carri non omologati in Italia privi di documentazione. Se davvero lo avesse ignorato sarebbe stata una negligenza colpevole. La Corte di appello ha poi citato due certificati rilasciati a Tre*** nel 2006, il n. 74 ed il n. 76, per le tratte Salone-Gricignano e Bivio Stura-Bivio Novara Ovest, che a suo avviso dimostrano che al Fa.[FR.] erano arrivate le richieste di rilascio dei certificati sicché a questi si imponeva "di verificare il deposito del dossier di sicurezza per tutto il materiale rotabile impiegato su quelle tratte". Inoltre la conoscenza della circolazione di carri cisterna adibiti al trasporto di merci pericolose si traeva dal fatto che Tre*** non aveva tale tipologia di carri.
A riguardo dell'El.[M.M.], la Corte di appello ha circoscritto l'affermazione di responsabilità pronunciata dal Tribunale, avendo escluso che egli dovesse rispondere della omessa adozione del detettore di svio e della omessa predisposizione di barriere di delimitazione dell'area ferroviaria a protezione dell'ambiente esterno. Ha confermato la affermazione di responsabilità per non aver disposto, quale A.D. di R***I s.p.a., che venisse controllata la tracciabilità di tutti i rotabili circolanti e che Tre*** depositasse il dossier di sicurezza o una documentazione equipollente, in assenza del quale egli avrebbe dovuto disporre la riduzione di velocità dei carri privi di tracciabilità e sinanche il divieto di circolazione degli stessi. Trattandosi di scelte di alta amministrazione non influiva sulla titolarità di tali poteri-doveri il rilascio di deleghe alle Direzioni sottordinate. Egli però era stato anche Responsabile della Direzione tecnica che aveva quale missione la definizione del quadro regolamentare e normativo per la circolazione dei treni e l'esercizio ferroviario, il rilascio del certificato di sicurezza alle imprese ferroviarie e le ispezioni nel campo della sicurezza, oltre altre incombenze. In tale ruolo aveva anche la competenza ad emettere i provvedimenti di riduzione di velocità limitati a singoli rotabili, singole tratte o periodi temporali. L'assunzione di competenze da parte di ANSF non aveva inciso in modo decisivo sui compiti rilevanti ai fini che occupano perché ”i provvedimenti di cui è contestata l'omissione a R***I spa e al suo Amministratore Delegato avrebbero dovuto essere stati già assunti in precedenza"; segnatamente, "il controllo sul mancato deposito del 'dossier di sicurezza' avrebbe dovuto essere compiuto nel 2005 ... e avrebbe dovuto essere di nuovo compiuto nel 2006, quando sono stati rilasciati a Tre*** spa due nuovi certificati di sicurezza anche la procedura di cabotaggio avrebbe dovuto essere eseguita nel 2005 e solo ripetuta nel 2009. Invece erano rimasti di competenza di R***I i provvedimenti di riduzione della velocità dai contenuti sopra specificati.
La Corte di appello ha invece escluso che all'El.[M.M.] dovesse essere rimproverato di non aver revocato il certificato di Tre***, assumendo rilievo la mancata adozione dei provvedimenti di riduzione di velocità o di divieto di circolazione dei singoli convogli non tracciabili.
Infine, quanto al Mo.[MA.], la Corte di appello ha ritenuto che quale amministratore delegato di R***I fino al 25 settembre 2006 egli fosse stato autore di una precisa politica aziendale che, probabilmente diretta a limitare gli impegni di spesa relativi al trasporto delle merci, aveva deciso di non investire nella realizzazione di una flotta di carri merci di proprietà e di utilizzare carri di proprietà di terzi e di non impegnare il personale e denaro per sottoporre questi a controlli particolarmente attenti. Deliberatamente, quindi, il quadro normativo incentrato sulla interoperabilità e sui regimi internazionali RIV e CUU era stato interpretato come un'autorizzazione ad omettere qualunque controllo e a non pretendere dai fornitori degli stessi di assicurare la medesima qualità manutentiva cui erano sottoposti i carri di proprietà di Tre***. D'altro canto, non era neppure necessario che fino alla data del 25 settembre 2006 fossero registrabili dei campanelli di allarme, come gli incidenti e le segnalazioni pervenute dopo il 2007, poiché la criticità consisteva proprio nell'assenza di informazioni e di documentazione circa le vicende pregresse di tali rotabili e circa il livello e la storia della loro manutenzione, essendo comunque nota la probabilità di incidenti causata dalla rottura dei singoli componenti, se non correttamente manutenuti. Peraltro, la stessa R***I, ha aggiunto la Corte di Appello, aveva emanato il 10 aprile 2006 la nota n. 283 con la quale aveva segnalato alle imprese ferroviarie di avere rilevato delle criticità in materia di manutenzione del materiale rotabile di tracciabilità dell'omologazione del materiale rotabile in servizio omologato al di fuori delle procedure di certificazione di sicurezza affidata al gestore dell’infrastruttura italiano. Anche il Mo.[MA.], nell'audizione al Senato della Repubblica del 2 luglio 2009, aveva confermato che dopo la liberalizzazione del settore ferroviario si erano determinate prassi interpretative diversificate tra gli Stati membri; come affermato nella medesima sede anche dal Chiov., secondo il quale le modalità manutentive nei diversi paesi membri, in particolare in Germania, erano diverse da quelle italiane sì che non poteva farsi affidamento sul fatto che quelle manutenzioni fossero eseguite in modo conforme a quanto stabilito per i rotabili italiani. Per quanto riguarda il periodo successivo al 25 settembre 2006, la Corte di Appello ha rimarcato il ruolo che il Mo.[MA.] aveva assunto nell'ambito della holding, del quale si parlerà a breve. Quanto alla omessa valutazione del rischio, la Corte di appello ha ribadito che non poteva escludersi il relativo obbligo distinguendo la sicurezza del lavoro dalla sicurezza della circolazione ferroviaria, dal momento che la circolazione costituisce l'attività lavorativa dei dipendenti del gestore delle infrastrutture e delle imprese ferroviarie; la posizione di garanzia dei rispettivi datori di lavoro copre tale unica attività. Nè era fondata l'osservazione difensiva di un'autonomia decisionale delle Direzioni facenti capo alla figura dell'amministratore delegato, perché quest'ultimo era comunque tenuto a vigilare sul loro operato ed era stato autore di quella prassi interpretativa ed operativa della quale si è fatta menzione.
Con riferimento alla posizione del Mo.[MA.], quale A.D. di Fe***I*** s.p.a., (poi denominata Fe***I*** s.p.a.), la Corte di appello ha riformato la sentenza di primo grado ritenendo che il Tribunale avesse operato una valutazione parcellizzata di tutte le prove raccolte nel corso del dibattimento e che, all'inverso, una loro valutazione complessiva conducesse a ritenere accertata un'attività del Mo.[MA.] in tale qualità non riconducibile tanto all'ipotesi di ingerenza quanto proprio ad un'ipotesi di gestione operativa delle stesse controllate. La Corte di appello ha inteso dimostrare la fondatezza di questo giudizio considerando che la holding era stata costituita fin dall'inizio per svolgere attività di gestione di più società aventi business strategicamente interdipendenti; mettendo in evidenza come sin dalla sua nascita il gestore dell'infrastruttura decidesse formalmente di perseguire come obiettivo il risanamento dell'intero gruppo, facendosi anche carico di eventuali problemi finanziari delle altre società, dalle quali, dal punto di vista formale, avrebbe dovuto rimanere indipendente. R***I aveva anche accettato di sottoporre le proprie scelte fondamentali e i propri interventi alla capogruppo e di subordinare la richiesta di finanziamenti alle analisi e quindi all'approvazione della capogruppo stessa, alla quale l'amministratore delegato doveva sottoporre il contratto di programma prima ancora che fosse presentato al consiglio di amministrazione della propria società.
La Corte d'appello ha identificato l'esistenza di una cogestione con la capogruppo che era stata addirittura esplicitata con la disposizione di gruppo n. 29 del 23 novembre del 2004 e con la disposizione n. 100 del 17 maggio 2007. Ha ulteriormente rimarcato che anche gli investimenti non rilevanti per il gruppo erano monitorati dalla capogruppo che poteva fermare qualsiasi investimento ove raggiunti costi che superavano oltre il 10% della previsione di spesa. La Corte di appello ha dato rilievo alla esistenza di una tesoreria centrale con un unico conto corrente intersocietario, secondo il sistema del cash pooling, la cui unica finalità era, a suo avviso, quella del controllo sulla gestione economico finanziaria delle controllate. Vi era stata una pesante ingerenza nelle scelte in tema di investimenti da parte delle controllate anche per quanto concerne specificamente l'ambito della sicurezza. Secondo quanto riferito dal teste DiPa., era riferibile direttamente al Mo.[MA.] la scelta di non investire nel trasporto merci nonostante egli non fosse mai stato amministratore di Tre***. La Corte ne ha tratto che fin dal 21 settembre 2006, quando il Mo.[MA.] venne nominato amministratore delegato della capogruppo FS, questi impose alle controllate i suoi progetti, quali che fossero quelli precedentemente elaborati. Sotto tale profilo la Corte di Appello ha evidenziato come le risorse destinate alla sicurezza da R***I fossero state fortemente ridotte a partire dal 2006; riduzione che, se non può dirsi deliberata o imposta dalla capogruppo, certamente fu dalla stessa approvata e non contrastata. La Corte d'appello ha quindi ritenuto che l'obbligo giuridico di gestire anche i rischi propri alle attività delle controllate fosse in capo alla holding in ragione del fatto che essa stessa si era attribuito il potere di intervento, dando
disposizioni in ordine agli investimenti delle controllate e alla sicurezza ed assumendo un potere-dovere di controllo sulle società operative. La Corte di Appello ha citato, al riguardo, anche la disposizione 113 del 1 Aprile 2008 che attribuiva alle direzioni della capogruppo precisi poteri di controllo ispettivo sulle controllate anche in tema di sicurezza ed ha evidenziato come il gestore dell'infrastruttura fosse all'epoca privo di una struttura di audit propria e come non risultassero attività di audit fatte svolgere da enti esterni. La conclusione che ne ha tratto è che era la direzione centrale della controllante a svolgere ispezioni periodiche sulla propria controllata. Anche per quanto concerne Tre***, su base testimoniale la Corte di Appello ha affermato che la capogruppo aveva il potere dovere di effettuare attività di audit sulla controllata in parola anche per quanto attiene il settore della sicurezza del lavoro, sicché non risultando che queste attività fossero state svolte ne conseguiva che non era rispettato nei confronti di Tre*** il compito di controllo che ricadeva sulla capogruppo quanto meno nel settore della sicurezza. La Corte d'appello ha fatto anche riferimento alla direzione centrale risorse umane e organizzazione che il 29 giugno 2009 veniva indicata come aver responsabilità nel settore della sicurezza del lavoro, anche con compiti di ispettorato oltre che con compiti di definizione delle modalità di applicazione della normativa in materia di sicurezza del lavoro, tanto per la capogruppo che per le società controllate prive di un servizio specializzato, ed il compito di verificarne l'attuazione. Tali compiti per la Corte di appello risultano comprovati dalla comunicazione organizzativa di Tre*** n. 296 del 3 marzo 2009 e il Collegio distrettuale ha evidenziato che nella comunicazione si prevede un intervento della capogruppo in una fase intermedia della procedura approvata in tema di sicurezza, rimarcando come questo intervento fosse sostanzialmente una forma di controllo. Citando la deposizione del teste Bra., la Corte di Appello ha ricordato che la capogruppo dava periodicamente indicazioni a tutte le società operative, con gli obiettivi di decremento del fenomeno infortunistico, obiettivi il cui raggiungimento veniva poi dalla capogruppo controllato. E il forte condizionamento svolto dalla capogruppo nei confronti delle società controllate è stato ritenuto dimostrato dalla Corte di appello anche per le molte operazioni che, pur riguardando esclusivamente una delle società controllate, vedevano però coinvolto lo stesso Mo.[MA.]; nonché per la circostanza che questi si presentava come se fosse stato l'amministratore delle controllate, in particolare di Tre***. Come accadeva per la contrattazione con le Regioni per il trasporto locale. La Corte distrettuale ha ritenuto significativo anche il fatto che il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti riconoscesse alla capogruppo Fe***I*** una diretta responsabilità sulle attività di trasporto ferroviario, in specie nell'ambito della sicurezza, anche per interventi di competenza delle società che gestivano l'infrastruttura o i rotabili, evidenziando come le fossero sollecitate attività operative che società controllate autonome ed indipendenti avrebbe dovuto attuare senza la necessità di direzione da parte di una controllante e che d'altro canto avrebbero potuto essere loro richieste direttamente senza il tramite della capogruppo.
La Corte di appello ha altresì confermato l'impianto delle statuizioni civili pronunciate dal Tribunale. In particolare ha rigettato gli appelli che investivano la legittimazione dei responsabili civili, in particolare quello che contestava la possibilità della condanna dell'ente quale responsabile civile in dipendenza della condanna dell'amministratore delegato e lamentava la mancata considerazione dell'adozione di idoneo modello organizzativo e di gestione nonché l'omessa valutazione di memoria depositata il 23.11.2016; ha rigettato le eccezioni che investivano la legittimazione attiva di diverse tra le parti civili costituite. In particolare, quanto alle organizzazioni sindacali, tali eccezioni attenevano all'insussistenza di violazioni alla normativa antinfortunistica o alla mancata prova di un loro scopo inerente le questioni trattate nel procedimento, di un loro radicamento nel territorio e di un'attività in concreto svolta ovvero del danno subito; all'irrilevanza ai fini dell'autonomo diritto al risarcimento delle articolazioni delle diverse organizzazioni. Quanto alle associazioni, alla mancata prova della sussistenza di uno o più dei requisiti consistenti nella corrispondenza o forte prossimità tra interesse leso e scopo dell'ente, nell'unicità di esso rispetto ad altri fini tutelati dall'ente, nella concretezza e stabilità del vincolo tra gli associati, nella rappresentatività dell'interesse leso, nella stabile presenza dell'ente sul territorio ove si è verificato l'evento, nella continuità dell'azione di tutela degli interessi statutari, nella rilevanza del contributo dato dall'ente alla tutela di tali interessi.
Quanto alle persone fisiche, alla mancata prova dell'an debeatur e, per le persone diverse dai congiunti delle persone offese, alla mancata prova del danno da perdita del legame affettivo.
Ciò posto, la Corte di appello ha pronunciato la condanna di Fe***I*** s.p.a., quale responsabile civile per MO.MA.; ha revocato le statuizioni civili rese in favore delle parti civili soddisfatte o per le quali era intervenuta revoca, rinuncia o morte; ha riformato la decisione del Tribunale in relazione alle parti civili S.C. e R.P., quali esercenti la potestà sui figli minori, V.M., B.G., R.M.R., Croce Verde Viareggio, per le quali ha ritenuto di revocare le statuizioni civili per essere stato raggiunto un accordo transattivo ed ha limitato la domanda del Comune di Viareggio ai soli danni non patrimoniali.
Ha rigettato i motivi di appello che investivano l'ammontare dei danni liquidati e gli appelli proposti dalla Regione Toscana e dalle organizzazioni sindacali UGL Trasporti Regione Toscana e UGL- UIL Provincia di Lucca.
Con riferimento alle posizioni degli enti morali condannati per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001, la Corte di appello ha condiviso con il Tribunale che:
- la disciplina dettata dal decreto 231 si applica anche agli enti morali esteri che non hanno in Italia una sede, sia essa principale o secondaria; la tesi è stata sostenuta in forza di una interpretazione sistematica che recluta gli artt. 1, 4, 34, 36 del decreto, e che trova nella circostanza che risulta commessa in Italia parte della condotta degli esponenti delle società estere un elemento rilevante. Infatti, la consapevolezza di operare in Italia fornendo il proprio materiale rotabile imponeva alle predette società di uniformarsi alle leggi italiane e di preoccuparsi di conoscerne il contenuto. Né la residenza in altro Stato rende impossibile il giudizio sulla adozione ed efficace attuazione di un idoneo modello di organizzazione e gestione pur nella diversità delle previsioni nazionali perché può addivenirsi o ad una valutazione dell'idoneità del modello organizzativo adottato dalla società straniera secondo la legge del luogo ove si è determinata la colpa di organizzazione o ad una valutazione della concreta idoneità ed adeguatezza del MOG ad evitare la commissione del reato, prescindendo da aspetti formali.
La Corte di appello, che ha anche ritenuto ricorrenti l'interesse ed il vantaggio pretesi dall'art. 5 del decreto, ha optato per questa seconda interpretazione, giudicando non resa la prova dell'adozione di un idoneo MOG.
Sono stati invece accolti gli appelli in relazione al mancato riconoscimento dell'attenuante dell'art. 12, co. 2 lett. a) e alle sanzioni interdittive, riformando di conseguenza la sentenza impugnata.
Con riferimento a Tre*** e a R***I, la Corte ha respinto tutti i motivi di appello, salvo quello concernente le sanzioni interdittive.
Ha poi respinto il ricorso del P.m. nei confronti di FLog*** s.p.a. (divenuta Mer*** Logistic s.p.a), di Fe***I*** s.p.a. (divenuta Fe***I*** s.p.a.).
Avverso la decisione appena sintetizzata hanno proposto ricorso per la sua cassazione tutti gli imputati condannati e le società che, sia come responsabili civili che come enti tratti a giudizio per rispondere dell'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001, sono risultati condannati; nonché il Procuratore generale presso la Corte di appello di Firenze e talune delle parti civili, in relazione all'assoluzione di CO.GI., D.M.G., FU.AL., MA.GI. e MA.EN., e all'esclusione di uno dei profili di colpa contestati al Ca.[MA.], al So.[VI.], al Ma.[EM.] e al Fa.[FR.].
I motivi di ricorso, in taluni casi particolarmente analitici e diffusi, verranno riportati tenendo presente la prescrizione dettata dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

4. Ricorso nell'interesse di KR.UW.
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza KR.UW., a mezzo del difensore avv. C.E.P..
4.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione degli artt. 6 CEDU, 25 e 111, co. 2, Cost., nonché 5 del d.lgs. n. 155/2012 e 33 cod. proc, pen., e la nullità dell'ordinanza emessa dalla Corte di appello il 19.12.2018 nonché di quella emessa dal Tribunale di Lucca 1'8.1.2014, del decreto del Tribunale di Lucca n. 15 del 21 marzo 2013, del decreto del Presidente della sezione penale del Tribunale di Lucca in data 12 aprile 2013, del decreto che dispone il giudizio e della sentenza di primo grado, oltre che di quella impugnata in questa sede.
Ad avviso dell'esponente l'assegnazione del presente procedimento al Terzo Collegio del Tribunale di Lucca non concreta unicamente una violazione delle regole tabellari ma integra una designazione extra ordinerei idonea a determinare la nullità degli atti ai sensi dell'art. 178, co. 1 lett. a) cod. proc, pen., sanzionata ai sensi dell'art. 179, co. 1 cod. proc. pen.
Rammentata la cronologia dei fatti pertinenti, l'assunto è sostenuto dai seguenti rilievi:
- il provvedimento di assegnazione del processo è stato adottato dal Presidente della sezione penale in palese violazione delle disposizioni intertemporali contenute nel d.lgs. n. 155 del 7 settembre 2012 ("Nuova organizzazione dei tribunali ordinari e degli uffici del pubblico ministero, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148"), nel decreto di Variazione Tabellare n. 15/2013 e nel decreto emesso dal Presidente del Tribunale di Lucca. Secondo il dettato normativo, le soluzioni organizzative predisposte dal Presidente della sezione penale (e dal Presidente del Tribunale di Lucca) prima della data prevista per la soppressione delle sedi distaccate avrebbero potuto acquisire efficacia soltanto dopo l'operatività della soppressione delle sedi distaccate di Tribunale e cioè dal 13 settembre 2013; l'anticipazione dell'assegnazione del processo era subordinata alla circostanza che si attivasse la procedura di cui all'art. 48-quinques O.G. e che si trattasse di processi per i quali non era stata ancora fissata la prima udienza; non vi era quindi la possibilità di anticipare gli effetti del decreto n. 15/2013;
- i criteri enunciati dal decreto di Variazione Tabellare n. 15/2013, e quelli contenuti nel provvedimento del Presidente della sezione penale risultano essere stati violati nell'assegnazione dei procedimenti ai Collegi e comunque la circostanza che i (nuovi) criteri tabellari abbiano trovato applicazione soltanto per il processo de quo corrobora la tesi che per l'assegnazione di tale processo è stato seguito un procedimento volto alla costituzione di un giudice ad hoc per la trattazione della vicenda;
- ricorre la violazione dell'art. 111, co. 2 Cost, e dell'art. 6 Cedu, sotto il profilo della mancanza di apparenza di imparzialità del giudice assegnatario, stante le dedotte irritualità e il fatto che il Collegio designato era costituito ex novo da giudici che, fino a quel momento, avevano esercitato la funzione di tribunale monocratico esclusivamente presso il luogo in cui si è verificato il fatto.
4.2. Con il secondo motivo si denuncia il vizio motivazionale, sub specie di contraddittorietà e manifesta illogicità, per aver la Corte di appello rimproverato al Kr.[UW.] al contempo di aver eseguito l'esame UT in luogo di quello MT e altresì di aver eseguito negligentemente il controllo UT.
L'esponente rileva in primo luogo quella che definisce l'aporia di base del percorso motivazionale delle sentenze di merito, ovvero l'aver affermato al contempo che i tecnici avevano le competenze e gli strumenti adeguati a svolgere correttamente i loro compiti sull'assile e però anche la esistenza di deficit organizzativi, la cui presenza, invece, escluderebbe la responsabilità di chi era mero esecutore.
In secondo luogo, evidenzia che la stessa individuazione della condotta tipica attribuibile al Kr.[UW.] è rimasta incerta, poiché al medesimo si rimprovera di non aver segnalato la necessità di procedere ad esame al magnetoscopio essendo stato riscontrato un rumore di fondo superiore al 10%; aver condotto l'esame UT in soli 12 minuti; averlo eseguito pur non essendo stato dotato di disegno dell'assile.
È contraddittorio addebitare la mancata segnalazione della necessità di esame MT e la scorretta esecuzione dell'esame UT; infatti, se si afferma che questo secondo non era idoneo a rivelare la cricca non si può contestare che non sia stato eseguito correttamente. Per l'esponente ne consegue che non è possibile individuare quale tra le condotte contestate abbia assunto per i giudici una reale efficacia causale rispetto al sub-evento 'mancata individuazione della cricca'.
L'esponente osserva che al Kr.[UW.] è stato ascritto anche di non aver valutato lo stato complessivo dell'assile e quindi di non aver fatto intervenire i tecnici competenti. Si tratta di una condotta non oggetto di contestazione ed incompatibile con quelle già menzionate.
Il ventaglio di ipotesi alternative definito dalla Corte di appello sfocia nella assoluta mancanza di motivazione in punto di ricostruzione della causalità reale e della causalità normativa, come emblematicamente rivelano, per l'esponente, i seguenti passi della sentenza impugnata:
"In altri termini l'indagine in merito alle situazioni di fatto che hanno reso altamente insicuro l'esame ultrasonoro eseguito sull'assile n. 98331 è certamente rilevante ai fini della valutazione complessiva della condotta di KR.[UW.] (e degli altri operatori dell'officina Ju***l, nonché dei soggetti aventi responsabilità di direzione o organizzazione dell'attività manutentiva), anche a prescindere dal fatto che si dimostri, in termini rigorosi, che uno specifico fattore causale è all'origine della mancata rilevazione della cricca da parte dei verificatore. L'insieme dei fattori che hanno determinata l'irregolarità dei controlli ultrasonori consente di affermare che la mancata detezione della cricca sicuramente non deriva da circostanze incolpevoli, bensì dalla negligenza e trascuratezza con cui i controlli sono stati eseguiti (stante la già indicata p.o.d. prossima al 100% di una cricca di tali dimensioni)…” .
"Per quanto riguarda l'imputato KR.[UW.] l'efficacia causale dell'azione doverosa si collega alla mancata rilevazione della cricca non dovuta a fattori incolpevoli. La prova certa, oltre ogni ragionevole dubbio del 'motivo specifico' di tale mancata rilevazione sarebbe per l'accusa in concreto impossibile da fornire..."
Rileva l'esponente che la Corte di appello ha posto a carico del Kr.[UW.] condotte che essa stessa definisce non causali (l'omessa rilevazione del rumore di fondo, perché non è possibile dire che in assenza dello stesso la cricca sarebbe stata certamente rilevata), salvo poi contraddittoriamente affermare che con l'UT la cricca sarebbe stata rilevata e ancor di più in assenza di rumore di fondo.
Anche a riguardo della omessa sabbiatura e della mancanza dei piani di prova l'esponente rileva una contraddittorietà della motivazione, poiché si afferma la natura colposa della condotta del Kr.[UW.] ma poi se ne esclude la rilevanza causale. Sicché, si ripete, in merito all'individuazione della condotta doverosa la motivazione è contraddittoria e in relazione alla efficacia impeditiva delle condotte doverose è meramente apparente. Al Kr.[UW.] si è finito per ascrivere una colpa generica in rapporto alla omessa detezione della cricca, la cui rilevabilità costituisce mero postulato.
4.3. Il terzo motivo investe proprio la motivazione in ordine alla probabilità di rilevamento della cricca, lamentando la manifesta illogicità e la contraddittorietà della stessa.
L'esponente osserva che la possibilità di ritenere colposa la mancata detezione della cricca dipende dalla disponibilità di una legge scientifica in forza della quale poter affermare che la corretta esecuzione dell'esame UT permette nel 100% dei casi la individuazione della cricca. Poiché si tratta in ogni caso di legge probabilistica vi è sempre una residuale probabilità che l'evento non si verifichi (id est: che la cricca non sia rilevata). In secondo luogo, tale legge è predittiva e non esplicativa e ciò ne rappresenta un limite interno. In terzo luogo, la legge probabilistica presuppone una determinata evidenza e non può essere applicata ad una classe di eventi disomogenea rispetto a quella di riferimento. È poi noto che occorre accertare anche la causalità individuale.
Orbene, rileva l'esponente che la cd. curva POD assunta dalla Corte di appello ha un livello di confidenza del 50%, secondo quanto esplicitamente asserito dal c.t. del P.M. Bon.; ciò significa che essa è inaffidabile nella misura del 50%.
Vi è poi la cd. incertezza di misura, legata allo strumento di rilevazione; le stesse norme EN 17025 e EN 14253-1 prescrivono di tenerne conto. Ciò nonostante, nessuno dei consulenti dell'accusa ha tenuto conto di tale fattore. Si tratta di censure proposte alla Corte di appello, che però non ha reso motivazione al riguardo. Contraddittoriamente la Corte di appello conviene con la difesa sulla possibilità di errore in astratto insita nell'analisi di tipo statistico ma poi sostiene che non è logico affermare che tutti i CND sono dotati di una efficacia limitata, stante gli elevati margini di errore. In modo circolare la Corte territoriale sostiene che le POD sono valide perché la cricca era di dimensioni elevate, laddove si tratta di motivare in ordine ai limiti tecnici della legge scientifica adottata, dovuti alla metodologia, e non all'oggetto dell'indagine.
Passando ad un ulteriore profilo, ovvero l'inclinazione della cricca, l'esponente considera che le POD sono definite sulla base di osservazioni di cricche ideali ovvero perfettamente perpendicolari rispetto al piano di frattura, laddove nel caso di specie è indiscusso che la cricca era inclinata. La difesa aveva quindi argomentato sulla inapplicabilità al caso concreto delle POD. La Corte di appello ha respinto tale tesi perché essa implicherebbe l'inadeguatezza dell'intero sistema delle ispezioni degli assili ferroviari e perché l'assenza di studi scientifici sulle cricche inclinate non dimostra che esse non sono rilevabili agli ultrasuoni.
La prima argomentazione concreta una motivazione meramente apparente. La seconda contrasta con le risultanze processuali che hanno acquisito l'esistenza di uno studio scientifico, quello elaborato dal dr. Posc., a sua volta suffragato da specifica letteratura.
Nella relazione depositata il 24.6.2016 il citato consulente della difesa ha dato conto delle ragioni per le quali l'inclinazione della cricca non ne permette la rilevazione e degli studi che si sono occupati del fenomeno. Non è quindi vero che non ci sono studi scientifici sull'applicabilità delle POD alle cricche inclinate.
In conclusione, la POD non poteva essere applicata alla cricca in questione.
Ma anche ad ammettere la tesi opposta, secondo l'esponente si è data dimostrazione con il c.t. che la residuale probabilità di mancata rilevazione della cricca può coincidere proprio con i casi di cricca inclinata.
In ogni caso, la Corte di appello ha ritenuto di poter superare una tesi scientifica evocando l'uso del fatto notorio; si rinviene quindi una motivazione apparente,
peraltro in contrasto con gli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità in merito alla gestione della prova scientifica. Ma la Corte di appello ha anche omesso il percorso giustificativo idoneo a sostenere la pertinenza dell'informazione probabilistica nel passaggio dalla causalità generale a quella individuale ed ha violato l'art. 533 cod. proc. pen.
4.4. Con il quarto motivo si deduce la violazione degli artt. 191, 192 e 228, co. 2 cod. proc, pen., per aver la Corte di appello fondato il giudizio in ordine alla percepibilità del rumore di fondo sulle sole dichiarazioni dell'ing. Can., inutilizzabili.
L'esponente osserva che nel giudizio, dopo che le verifiche condotte nell'incidente probatorio avevano dato un risultato equivoco in merito all'esistenza del rumore di fondo, in quanto i certificati che attestano l'esito della prova con le sonde rilevanti non presentano traccia di rumore al di sopra del 10% e la parte descrittiva del report 10/11 è contraddittoria, si sono contrapposte due tesi, quella per la quale era percepibile un rumore di fondo superiore al 10% e una che negava tale evenienza. La prima tesi è stata sostenuta dalla Corte di appello sulla base della sola dichiarazione del teste Can., ausiliario del perito; per l'esponente si tratta di dichiarazione inutilizzabile perché solo il perito può esprimere valutazioni. Ma tale tesi è stata sostenuta anche in contrasto con le emergenze processuali posto che nessun altro esperto l'ha sostenuta. Inoltre, la Corte di appello ha ritenuto attendibile il teste perché privo di interesse personale nel processo, laddove avrebbe dovuto valutare l'attendibilità della tesi scientifica, anche alla luce del contributo esperto recato dal c.t. della difesa, mai menzionato nella motivazione sul punto. Peraltro, la prova scientifica non può essere surrogata da una testimonianza. La Corte di appello non ha poi motivato in ordine alla circostanza che l’assile aveva superato l'esame UT presso altra officina nel 2002. Viene anche dedotto il travisamento della prova documentale costituita dai video relativi alle operazioni peritali, dai quali la Corte di appello ha tratto l'identificabilità del rumore, diversamente dal vero.
4.5. Vengono lamentati, altresì, la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. e il vizio della motivazione, perché la Corte di appello ha rimproverato al Kr.[UW.] di non aver correttamente valutato lo stato complessivo dell’assile e non aver, di conseguenza, interrotto l'esame UT, nonostante tale condotta sia antitetica rispetto a quanto contestato con l'originaria imputazione. L'esponente osserva che in tal modo la contestazione nei confronti del Kr.[UW.], originariamente incentrata sulla violazione di definite norme a contenuto cautelare e quindi descritta come colpa specifica, è venuta a consistere in una colpa generica, in realtà tratta dalla circostanza dell'essersi verificato il sub-evento 'mancata detezione della cricca'. Si tratta, peraltro, di una mutazione che già aveva operato il Tribunale e che era stata oggetto di motivo di appello; la Corte distrettuale nel replicare, da un canto ha affermato che l'omesso esame visivo non rientra nella contestazione, e che non vi è stata violazione del principio di correlazione perché l'affermazione di responsabilità è fondata altrimenti; dall'altro ha ascritto al Kr.[UW.] la negligente esecuzione dell'esame visivo dell'assile. Ad avviso dell'esponente ciò non sottrae la sentenza alla denunciata violazione dell'art. 521 cod. proc. pen.
4.6. Viene poi denunciata la violazione degli artt. 192 e 533 cod. proc. pen. e il vizio della motivazione per aver la Corte di appello ritenuto fondata la tesi della omessa sabbiatura e verniciatura dell'assile, in contrasto con le prove documentali, dichiarative e scientifiche.
L'esponente rileva che per la stessa Corte di appello l'omessa sabbiatura e verniciatura dell'assile non ha avuto incidenza sulla corretta esecuzione del controllo UT del collarino (zona in cui era la cricca) e quindi non ha avuto efficienza causale rispetto alla mancata detezione della cricca; ciò nonostante, la Corte territoriale ha attribuito alla circostanza la valenza di indice del negligente controllo. In ciò due vizi: aver utilizzato la logica probabilistica per un fatto che deve essere accertato con certezza (l'omessa sabbiatura e verniciatura) ed aver ribaltato l'onere probatorio, avendo ritenuto accertato il fatto non perché positivamente dimostrato dall'accusa ma per il 'fallimento della tesi difensiva' (della avvenuta sabbiatura e verniciatura); mentre anche se ciò fosse vero non sarebbe ancora dimostrato quanto in tesi accusatoria. Secondo la stessa Corte di Appello è stato provato che era vigente a partire dal marzo 2008 solo presso la Ju***l la regola manutentiva in merito alla sabbiatura e verniciatura con vernice epossidica di colore blu del corpo dell'assile; l'effettuazione di tali attività trovava corrispondenza nel report dell'attività manutentiva eseguito presso l'officina. È stato accertato dalle analisi peritali che l'assile è stato sottoposto a sabbiatura e verniciatura con vernice epossidica di colore blu; tale vernice era indicata nelle regole manutentive ed è stata prodotta solo a partire dal febbraio 2008. Non vi è traccia nei documenti dei precedenti interventi manutentivi della sabbiatura e/o della verniciatura dell'assile. Ciò nonostante, la Corte di merito ritiene provata oltre ogni ragionevole dubbio la mancata effettuazione delle attività manutentive di cui trattasi. Per giungere a tale conclusione la Corte di merito formula mere congetture a partire dalla presenza di ritocchi. Il risultato del ragionamento della Corte d'appello è comunque la formulazione di un'ipotesi ed è per questo motivo che il giudice di secondo grado ricorre alla cd. falsificazione implicita, ovvero scredita la tesi difensiva, peraltro sulla base di mere illazioni.
4.7. Si denuncia ancora il vizio della motivazione e la violazione dell'articolo 533 cod. proc, pen., per avere la Corte d'appello ritenuto dimostrata l'esecuzione dell'esame ultrasonoro nel tempo di 12 minuti unicamente sulla base del documento denominato 'foglio di lavorazione', nonostante la stessa Corte abbia accertato che tale documento non era stato compilato dagli addetti ai controlli non distruttivi ed aveva una funzione meramente amministrativa. Oltre a quanto appena esposto, la difesa aveva anche dimostrato che la tempistica per l'esecuzione dei controlli sull'assile era condizionata dal tempo necessario per la cosiddetta tornitura delle ruote, sicché l'accelerazione dei controlli ultrasonori non avrebbe avuto effetto sui tempi complessivi necessari per lo svolgimento dell'attività manutentiva, e quindi sulla produttività dell'azienda. Inoltre, non è mai stato imposto un determinato intervallo di tempo per l'esecuzione del controllo, che non veniva mai svolto in un tempo inferiore a venti minuti, secondo quanto dichiarato dal teste Ben. e dallo stesso ricorrente. I tempi indicati sul predetto foglio di lavoro erano puramente indicativi. Dal momento che la tesi difensiva ha trovato tale riscontro probatorio si ritiene violata la regola di giudizio di cui all'articolo 533 cod. proc. pen.
4.8. Si deduce violazione degli artt. 43 e 589 cod. pen. e il vizio della motivazione in relazione a l'individuazione ex post della regola cautelare salvifica. Nella sentenza impugnata non è rintracciabile alcun giudizio controfattuale relativo alle condotte ritenute concretare colpa ed anzi si trova a pagina 554 una contestabile affermazione, secondo la quale si potrebbe prescindere dal fatto che venga dimostrato in termini rigorosi uno specifico fattore causale all'origine della mancata rilevazione della cricca da parte del verificatore, perché sarebbe sufficiente che la mancata detezione della cricca non derivi da circostanze incolpevoli bensì dalla negligenza e trascuratezza con cui i controlli sono stati eseguiti, stante la rilevabilità con una probabilità prossima al 100% di una cricca di tali dimensioni all'esito di un controllo correttamente eseguito. Anche il passaggio in cui la Corte di Appello afferma che la rilevanza causale della condotta impeditiva non presuppone che sia individuato con certezza il fattore che ha determinato l'omessa detezione della cricca risulta censurato dal ricorrente. Ad avviso dello stesso l'assenza dei singoli giudizi controfattuali all'esito di due gradi di giudizio determina una forte incertezza nell'individuazione delle condotte che avrebbero impedito l'evento e quindi anche nell'individuazione della regola cautelare. L'esponente ripete che la Corte di appello, escludendo la rilevanza causale delle condotte specificamente descritte come colpose dalla imputazione e attribuendo ad esse unicamente la valenza di indici di un contesto supeR***Iciale o trascurato, ha surrettiziamente by-passato la verifica dell'efficacia impeditiva della condotta doverosa, trasformato la colpa specifica in colpa generica, nonostante la alternatività dei due paradigmi, finendo con l'adottare un principio secondo il quale, non dimostrata la colpa specifica allora vi è colpa generica; ha omesso di valutare la cosiddetta misura soggettiva della colpa, perché una volta elevato nei confronti del Kr.[UW.] un rimprovero da ingerenza o forse meglio da mancata astensione dal fare, a prescindere dalle regole formalizzate proprie della sua funzione, così come esercitata nello specifico contesto, ha finito per attribuirgli una condotta indefinita, perché non è sufficiente sostenere che un controllo diligente avrebbe consentito di evitare il sinistro ma va individuata la specifica condotta che risultava ex ante adeguata nel caso specifico. Pertanto, la Corte d'appello ha omesso di identificare il preciso contenuto della regola cautelare, finendo per far coincidere la condotta che ex ante il Kr.[UW.] avrebbe dovuto tenere con quella che ex post ha determinato l'evento e cioè la omessa rilevazione della cricca. La indebita sovrapposizione del piano dell'accertamento della condotta ex ante doverosa e di quello della condotta rivelatasi ex post salvifica concretizza la fallacia argomentativa nota come 'affermazione del conseguente' e determina la manifesta illogicità della motivazione perché questa non esplicita i passaggi logici intermedi che hanno condotto alla conclusione della responsabilità dell'imputato. Si ribadisce il rilievo della contraddittorietà interna fra gli addebiti, laddove si rimprovera da un lato la negligente esecuzione del controllo demandato a Kr.[UW.], dall'altro la mancata attivazione di un diverso controllo come quello magnetoscopico, stante la inefficacia del primo. In conclusione, nessuna delle regole specifiche contestate nell'imputazione al Kr.[UW.] è stata accertata; di alcune di esse è stata espressamente esclusa l'efficacia tipizzante, anche per non incidenza sul piano causale; l'addebito di colpa specifica è stato arbitrariamente sostituito da un addebito di colpa generica, senza che ciò abbia significato identificare il comportamento alternativo doveroso connesso alla specifica funzione del Kr.[UW.].
4.9. Si denuncia poi violazione agli articoli 41, 43, 439, 449 e 589 cod. pen., per avere la Corte d'appello ritenuto la responsabilità del ricorrente in relazione ad eventi che costituiscono la concretizzazione dei rischi che le norme cautelari a lui riferibili non miravano a prevenire. L'esponente rammenta che nella vicenda in esame il macro-evento può essere distinto in tre diverse classi di sub-eventi tipici, ovvero il disastro ferroviario, il disastro incendio, le lesioni e le morti. Ciascuno di questi concretizza un rischio diverso e rispetto a ciascuno di essi doveva essere ricostruita la rilevanza eziologica delle regole cautelari asseritamente violate dal ricorrente.
L'assunto dell'esponente è che non possa essere ascritto al Kr.[UW.] la violazione di una regola cautelare che si rapporta ad un rischio che non è a lui assegnato per la relativa gestione; in particolare non fanno capo al Kr.[UW.] l'area di rischio implicata dalla gestione della rete, l'area di rischio implicata dalla gestione dei convogli e dei loro elementi costitutivi, l'area di rischio implicata dalla gestione del GPL e del suo trasporto come merce pericolosa. Al Kr.[UW.], quindi, poteva essere, ed era stata dall'originaria imputazione, riferita solo la violazione delle regole cautelari che sovrintendono alla corretta esecuzione del controllo UT. Ciò è tanto vero che la stessa Corte distrettuale, in relazione al picchetto, ha ritenuto insussistente la cosiddetta causalità della colpa, perché non era ex ante prevedibile che in caso di deragliamento e ribaltamento di un treno, una sua carrozza potesse essere danneggiata e perforata da un picchetto. Solo una valutazione ex post ha fatto sì che il picchetto potesse apparire una potenziale fonte di rischio. Se ciò ha condotto ad escludere la responsabilità dei dirigenti di R***I, a maggior ragione deve essere vero a riguardo del manutentore dell'assile. Insomma, non è possibile stabilire un nesso di causalità, intesa come copertura del rischio tipico pertinente all'agente manutentore, fra le condotte ascrivibili al Kr.[UW.] e l'evento incendio, nella misura in cui questo è stato esclusivamente determinato dall'antecedente necessario 'foratura della cisterna'. Il rischio foratura, per come è stato provato nel giudizio, è esclusivo della cisterna e non della struttura portante del carro di cui l’assile è componente essenziale; e l'evento incendio si è concretizzato per l'impatto della cisterna con un corpo perforante, condizione estranea a tutte le possibili conseguenze normali di deragliamento a seguito di rottura dell'assile. Di conseguenza, esorbitano dall'aspetto causale irradiante dallo schermo cautelare specifico delle condotte manutentive i successivi eventi omicidiari e lesionistici, in quanto causati esclusivamente e indipendentemente dall'evento incendio.
4.10. Con il decimo motivo si rileva l'intervenuto decorso del termine di prescrizione dei delitti di omicidio colposo plurimo in quanto al Kr.[UW.] non è stata contestata l'aggravante di cui al secondo comma dell'articolo 589 cod. pen., di talché non può applicarsi la regola del raddoppio dei termini di prescrizione previsto dal comma 6 dell'articolo 157 cod. pen.
Si svolgono alcune considerazioni a dimostrazione del fatto che in rapporto al Kr.[UW.] non è mai stata contestata né è stata accertata la circostanza aggravante in parola, che peraltro non potrebbe essergli riferita, sia perché si tratta di una circostanza soggettiva, riferibile al solo datore di lavoro, sia perché non ricorre un'ipotesi di concorso di persone nel reato.
4.11. Si deduce la nullità della sentenza per violazione della legge processuale in relazione alle norme dell'unione europea nonché il vizio di motivazione in merito alla applicabilità all'attività svolta in Germania di disposizioni italiane. Si sostiene che non può essere applicata la normativa infortunistica alle società G***x e che in merito alla posizione del ricorrente la Corte di Appello non ha espresso alcuna motivazione a riguardo dell'applicabilità della normativa italiana. Ammettendo in via di ipotesi che la Corte abbia inteso riferire al ricorrente le argomentazioni utilizzate per le società del gruppo G***x, l'esponente muove alcune censure. In primo luogo, sostiene che le direttive eurounitarie pongono obblighi unicamente in capo agli Stati membri e non possono essere fonte autonoma di obbligo per i soggetti privati. Affermando che le attività di operaio addetto al controllo ad ultrasuoni del Kr.[UW.] dovessero svolgersi secondo lo standard di diligenza del diritto italiano, la sentenza si pone in contrasto con le direttive eurounitarie relative alla libera circolazione delle merci e dei servizi in ambito ferroviario, nonché alle disposizioni del TFUE in materia di libera circolazione delle merci, libera prestazione dei servizi e libertà di stabilimento. Infatti, l'applicazione dei parametri italiani di valutazione della condotta, piuttosto che del parametro di diligenza previsto dalla legislazione tedesca, è incompatibile con l'impianto normativo del Trattato e delle direttive europee, segnatamente della direttiva 2004/49/CE, ed anche dell'articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali Ue e dell'articolo 7 della Cedu. La complessiva disciplina è volta ad eliminare gli ostacoli alla libera circolazione dei beni e dei servizi derivanti da norme nazionali pur aventi la funzione di tutelare esigenze legittime, quali la protezione dell'incolumità delle persone. Proprio per questo motivo interviene la normativa di armonizzazione, eliminando in radice la possibilità per gli Stati membri di imporre le loro esigenze e le normative nazionali alla condotta di operatori situati in altri Stati membri; e ciò anche nel caso che operatori situati in altri Stati membri sappiano che i beni e i servizi da loro prodotti sono destinati ad altro Stato membro. È poi inconferente il richiamo fatto dalla Corte di appello all'articolo 4, co. 1 del regolamento CE n. 864/2007, che in realtà interviene in materia di diritto internazionale privato. In secondo luogo, l'esponente rileva un vizio motivazionale proprio perché il tema è stato affrontato in relazione alle società ma non in relazione alla specifica posizione del Kr.[UW.].
Infine, l'esponente avanza istanza di remissione di questione pregiudiziale ex articolo 267 del TFUE alla Corte di giustizia Ue, formulando proposta di quesiti e rappresentando che quando vengono sollevate questioni di diritto dell'unione le Corti, avverso le cui decisioni non può essere proposto un ricorso giurisdizionale di diritto interno, hanno l'obbligo di chiedere l'interpretazione delle norme suddette alla Corte di giustizia Ue. Non risulta una pregressa giurisprudenza della Corte di giustizia in merito all'interpretazione della menzionata direttiva Ue e sui rapporti tra la stessa ed il regolamento 864/2007; le questioni che si pongono sono complesse, nuove ed hanno trovato risposte difformi dalle corti di merito. Tutto ciò giustifica il ricorso pregiudiziale. Di seguito i quesiti proposti:
1) La direttiva 2004/49/CE permette ad uno Stato membro (in prosieguo 'Stato Membro di Destinazione') sul territorio nel quale circolino carri ferroviari omologati, immatricolati, detenuti e/o manutenuti in altro Stato membro (in prosieguo 'Stato Membro di Origine'), di applicare proprie norme nazionali volte a garantire la sicurezza ferroviaria e/o l'incolumità delle persone, inclusi i lavoratori, p diverse ed ulteriori rispetto a quelle dello Stato Membro d'Origine (quali ad esempio il d.lgs. 162/2007, e/o il d.lgs. 81/2008 e/o il d.lgs.231/2001 e/o gli articoli 2043, 2050 e 2087 del codice civile italiano) nei confronti di soggetti che svolgono la propria attività di locazione, ovvero di manutenzione di carri ferroviari e/o loro parti di ricambio nello Stato Membro d'Origine?
2) In particolare, è compatibile con il diritto dell'unione Europea e segnatamente con le direttive 2004/49/CE e 2001/16/CE che lo Stato Membro di Destinazione richieda che le attività di detenzione, locazione e manutenzione siano svolte nel rispetto di standard tecnici e/o di diligenza diversi da quelli applicabili secondo la normativa dello Stato Membro d'Origine e la costante e consolidata giurisprudenza dello Stato Membro di Origine in cui si svolge l'attività di detenzione, locazione e/o manutenzione del veicolo e/o delle parti di ricambio?
3) In caso di risposta positiva alla prima o alla seconda questione, può lo Stato Membro di Destinazione richiedere che le attività di manutenzione siano svolte nel rispetto di proprie disposizioni nazionali ovvero norme tecniche o di diritto diverse da quelle applicabili secondo la normativa dello Stato Membro d'Origine e la costante e consolidata giurisprudenza dello Stato Membro di Origine in cui si svolge l'attività di manutenzione del veicolo e/o delle parti di ricambio quando ai momento nel quale tale attività di manutenzione veniva svolta non era noto quale sarebbe stato lo Stato Membro di Destinazione nel quale il veicolo o la parte di ricambio sarebbero stati successivamente utilizzati?
4) L'eventuale applicazione del regolamento (CE) n. 864/2007 alle azioni relative al risarcimento dei danni occorsi nello Stato Membro di Destinazione il 29 giugno 2009 ed in periodo successivo può implicare una deroga alle norme del TFUE in materia di libera circolazione di beni e servizi e delle direttive 2004/49/CE e 2001/16/CE? In caso di risposta affermativa, tale deroga riguarda solo le azioni risarcitone ovvero anche la liceità della condotta del danneggiante in ambito penale e/o amministrativo?
5) In caso di applicazione del regolamento (CE) n. 864/2007 alle azioni relative al risarcimento dei danni occorsi nello Stato Membro di Destinazione il 29 giugno 2009 e in periodo successivo, sulla base di quali norme di sicurezza e di condotta deve valutarsi la condotta del presunto responsabile dell'illecito che ha avuto luogo nello Stato Membro di Origine, in particolare quando tale condotta abbia avuto luogo prima dell'11 gennaio 2009, data di applicazione del suddetto regolamento?
4.12. Si denuncia nullità della sentenza per vizio di motivazione e per violazione dell'articolo 133 cod. pen. con riferimento al trattamento sanzionatorio, determinato dalla Corte di appello senza considerare le doglianze poste al riguardo con l’atto di appello. Si reputano poi inadeguate le considerazioni autonomamente svolte sul tema dalla Corte distrettuale.
Nell'ambito del medesimo orizzonte tematico si denuncia anche il vizio motivazionale della sentenza impugnata nonché la violazione degli articoli 133 e 62 bis cod, pen., in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, giacché non sono state prese in considerazione la condotta collaborativa dell'imputato non solo nella fase delle indagini ma anche nel corso dell'istruttoria dibattimentale, la condotta riparatoria pressoché integralmente satisfattiva nei confronti delle vittime, e l'incensuratezza del Kr.[UW.].

5. Ulteriore ricorso per KR.UW.
Con atto datato 25.6.2020 è stato proposto ulteriore ricorso nell'interesse del Kr.[UW.], a firma dell'avv. F.P.R.A., con il quale si articolano i seguenti motivi:
5.1. Vizio della motivazione e violazione dell'art. 533 cod. proc. pen. in relazione alla motivazione concernente le dimensioni della cricca al 28.11.2008. A tal riguardo l'esponente denuncia che la Corte di appello ha ignorato o travisato il compendio probatorio che dimostra come per posizione e giacitura non vi fosse certezza circa la rilevabilità della cricca attraverso l'esame ad ultrasuoni, anche condotto secondo le regole dell'arte. La sentenza avrebbe dovuto necessariamente accertare con alto grado di affidabilità logica e scientifica che la cricca avesse una profondità di almeno 10 mm. e che essa fosse certamente rilevabile. Orbene, i consulenti tecnici prof. Fred. ed ing. Bin. hanno al proposito offerto un contributo conoscitivo che è stato trascurato dalla Corte di appello; in particolare in relazione al tema della corrispondenza tra le marcature della supeR***Icie di frattura riscontrate in sede di incidente probatorio ed i viaggi del convoglio lungo la tratta Trecate-Gricignano; in relazione al tema che esistesse una marcatura di profondità pari a 17,3 mm.; in ordine all'applicazione della formula di Paris al caso di specie.
In relazione a tale contesto tematico il ricorrente denuncia un vizio di travisamento della prova laddove la Corte di Appello ha affermato che nessuno degli esperti ha mai associato le marcature a specifici viaggi. Rispetto a tale affermazione si contesta che la Corte d'appello non abbia valutato il contributo degli esperti approfondendone la validità euristica essendosi limitata a verificare che non vi fossero voci discordi fra essi. Al riguardo la sentenza opera un radicale travisamento della prova; inoltre, essa non rende esplicito l'iter logico posto a sostegno della preferenza accordata ad alcuni dei consulenti intervenuti, con ciò confliggendo con i criteri che la giurisprudenza di legittimità ha enucleato per la valutazione della prova scientifica. Il travisamento della prova viene colto in particolare laddove la Corte d'appello afferma che nessuno degli esperti ha mai associato le cosiddette marcature a specifici viaggi. Si rammentano al riguardo -
e si riportano nel corpo del ricorso - le dichiarazioni del consulente tecnico del pubblico ministero prof. Ber. e quelle del c.t. di parte civile prof. Bon.. Per l'esponente la Corte d'appello ha anche erroneamente valutato la testimonianza resa dall'ing. Ghi., tecnico del laboratorio Lucchini, in riferimento al rapporto tra i concetti di marcature, linee di spiaggia e linee di arresto.
Ad avviso dell'esponente queste ultime sono state confuse dalla Corte di appello con le cosiddette sottolineature, o microlinee o striature piccole, laddove la distinzione tra linee microscopiche generate da ciascun ciclo di applicazione del carico e le marcature macroscopiche dovute all'interruzione della propagazione nei viaggi a carico ridotto era stata illustrata dal consulente tecnico della difesa prof. Die.. Detta testimonianza è stata ignorata tanto dal Tribunale che dalla Corte di appello. Questa distinzione compare anche nella deposizione dell'ing. Ghi., ma il relativo passaggio testimoniale è stato oggetto di travisamento ad opera della Corte di appello.
In conclusione, una corretta valutazione della prova avrebbe condotto a rilevare che non risponde al vero che nessuno degli esperti abbia mai associato la marcatura a specifici viaggi. Al contrario, risulta pacifica la circostanza che le marcature si produssero in corrispondenza dei viaggi a vuoto.
L'esponente inoltre contesta l’affermazione della Corte di appello secondo la quale sussisterebbe tra i consulenti della difesa e dell'accusa una differenza di impostazione in merito al significato delle marcature sulla supeR***Icie di frattura e della loro corrispondenza con i viaggi di ritorno, citando al riguardo quanto sostenuto dal consulente tecnico del pubblico ministero prof. Ber.. In realtà la differenza di approccio è nel metodo di calcolo utilizzato per stimare la velocità di propagazione della frattura; mentre i consulenti dell'accusa hanno proceduto a calcolarla utilizzando la formula di Paris, i consulenti Fred.i e Bin.e hanno utilizzato dati direttamente rilevabili sulla supeR***Icie dell'assile. La Corte di appello ha ritenuto di poter negare la maggiore attendibilità dell'approccio cosiddetto sperimentale negando la correlazione tra viaggi e marcature, ma ciò ha fatto sulla scorta del travisamento menzionato ovvero rappresentando che nessuno degli esperti aveva sostenuto la possibilità di correlare le marcature ai viaggi.
L'esponente censura ulteriormente la motivazione impugnata perché la Corte di appello avrebbe individuato l'esistenza di marcature intermedie tra quelle prese in considerazione dai consulenti della difesa e le marcature evidenziate nella perizia, senza che una simile linea di arresto risulti ipotizzata o riconosciuta dai diversi esperti utilizzati nel giudizio, ed anzi nonostante l'esclusione di tale linea di arresto da parte dell'ing. Ghi.. Eppure, proprio sulla esistenza di questa linea di arresto 'intermedia' la Corte di Appello ha fondato il giudizio di inattendibilità del modello elaborato dal prof. Fred. e dall'ing. Bin.. Peraltro, ove la Corte di Appello avesse ritenuto necessario accertare la presenza della linea di arresto intermedia, avrebbe dovuto disporre la rinnovazione istruttoria. In definitiva, l'esponente rimprovera alla Corte d'appello di aver preteso di constatare la presenza di una marcatura non mappata alla profondità di 17,3 mm. sulla scorta di una diretta e autonoma valutazione delle immagini fotografiche, in assenza di indicazioni a supporto da parte dei molti esperti intervenuti, addirittura in presenza di conclusioni contrarie provenienti dall'ing. Ghi., con ciò violando quel ruolo di metodologo ed epistemologo che l'ordinamento assegna al giudice di merito.
A riguardo della regolarità o meno dell'incremento di supeR***Icie delle aree di propagazione incluse tra ciascuna successiva marcatura, ove avesse ritenuto la mappatura eseguita dall'ing. Ghi. insufficiente o inattendibile, la Corte di appello avrebbe dovuto riaprire l’istruttoria eventualmente procedendo anche alla verifica dei dati osservabili sulla supeR***Icie di frattura dal lato fusello.
Viene ravvisata manifesta illogicità della motivazione laddove la Corte di appello giustifica la valutazione di maggiore attendibilità delle conclusioni dei consulenti di accusa rispetto a quelle del Fred. e del Bin. sostenendo che questi ultimi hanno estrapolato la curva di propagazione a partire dal dato misurabile sulla supeR***Icie di frattura per applicarla alla parte di cricca non misurabile; ebbene, anche gli altri tecnici hanno estrapolato una curva di propagazione ottenuta su un'altra porzione dell'assile per applicarla alla propagazione della cricca reale.
Con riferimento alle affermazioni fatte dalla Corte distrettuale a proposito del consenso registrabile tra gli esperti in ordine alla legge di Paris, l'esponente rileva che la motivazione risulta sul punto meramente apparente; in particolare, laddove asserisce che tutti i consulenti diversi da quelli del gruppo G***x avrebbero basato le loro valutazioni applicando la legge di Paris sui dati ottenuti in sede di incidente probatorio. L'esponente sviluppa l'analisi dei diversi apporti onde dimostrare che la affermazione della Corte di Appello non risponde al dato probatorio. Mentre rileva che i consulenti Fred. e Bin. hanno effettuato anche dettagliati calcoli applicando proprio l'equazione di Paris.
Viene censurato anche che la Corte d'appello abbia accolto il modello multilineare proposto dal prof. Ber., unico tra tutti gli esperti ascoltati, perché tale modello non trova fondamento in letteratura e perché la Corte d'appello ha omesso di valutare le evidenze rappresentate dal Fred. e dal Bin., in ordine al fatto che la curva multilinea realizzata dal Ber. applica la legge di Paris al di fuori del range di validità della stessa. Più in generale, si censura che la Corte d'appello non abbia considerato le critiche mosse dai consulenti Fred. e Bin..
La motivazione della Corte di appello sarebbe viziata anche per aver pretermesso le osservazioni critiche che i predetti consulenti e inoltre il Posc. avevano mosso ai procedimenti di calcolo utilizzati dai consulenti dell'accusa. A riguardo ancora del metodo di calcolo delle dimensioni iniziali della cricca, l'esponente osserva che la Corte di Appello ha omesso di considerare gli effetti della compressione che l’assile subisce ad ogni ciclo di carico, effetti che erano stati evidenziati dal prof. Bon. e che in ultima analisi erano stati ammessi anche dal prof. Ber., tanto che questi riteneva adeguato considerare nel calcolo di propagazione della cricca il 20% della compressione che si esercita realmente sulla cricca stessa; ciò portava a stimare la dimensione iniziale della frattura in 8 mm. Osserva l'esponente che è innanzitutto arbitrario non tenere conto integralmente degli effetti della compressione riscontrabili nella realtà e che comunque lo stesso Ber. aveva ridotto la sua stima della dimensione iniziale della cricca ad 8 mm.
5.2. Un ulteriore motivo di ricorso ha ad oggetto la ritenuta manifesta illogicità della motivazione ed altresì il travisamento della prova, in relazione alle risultanze processuali relative alla giacitura della cricca. In primo luogo, l'esponente rileva che la affermazione della Corte d'appello secondo la quale il solo dottor Posc. avrebbe ipotizzato che l'inclinazione avrebbe avuto un effetto sulla rilevabilità della cricca nel controllo ad ultrasuoni non risponde al vero poiché lo stesso prof. Fred. si era espresso per la correlazione fra un'inclinazione della fessura e la sua visibilità con gli esami ad ultrasuoni. In ogni caso, se la Corte d'appello avesse nutrito dubbi in merito, avrebbe dovuto accogliere la specifica istanza di rinnovazione istruttoria presentata dalla difesa. Si contesta poi che, in ordine al carattere eccezionale o meno dell'inclinazione della cricca, la Corte d'appello si sia assunta un ruolo di creatore del sapere esperto e che essa abbia travisato le deposizioni del Bon. e del Fred.. La Corte di Appello travisando il dato processuale attribuisce al prof. Ber. una stima di 10 mm di profondità. L'esponente censura che la Corte di Appello abbia motivato il minor credito accordato al contributo offerto dal Fred. e dal Bin., che pure fondava su un metodo sperimentale (ovvero a partire dai dati reali), non affrontando il merito dei contenuti di tali attività ma rilevando che si era trattato di un'attività svolta in assenza di contraddittorio tra le parti. Anche per questo aspetto la valutazione della prova esperta da parte della Corte di appello contraddice i principi posti dalla giurisprudenza di legittimità. Ciò ha condotto i giudici di merito a tralasciare le rilevanti obiezioni che il Fred. ed il Bin. avevano formulato a riguardo dei metodi utilizzati dai consulenti dell'accusa pubblica e privata. In definitiva, la Corte di Appello ha trascurato di considerare il carattere sperimentale del metodo adottato dai consulenti della difesa, il quale garantisce che la spiegazione scientifica da essi proposta abbia un' attitudine esplicativa sensibilmente maggiore rispetto agli altri modelli.
L'esponente ravvisa nel percorso motivazionale della Corte di appello un paralogismo consistente nel ritenere che essendo stato effettuato un controllo ad. ultrasuoni senza rilevare la cricca, il controllo era stato effettuato con negligenza. Affermazione che non considera che una cricca in presenza di determinate caratteristiche dimensionali e di inclinazione può con elevato grado di probabilità sfuggire al controllo ad ultrasuoni; tanto che nella successiva prassi ferroviaria è stata adottata una modifica della normativa tecnica di riferimento. Si cita in particolare il provvedimento adottato dall'ANSF il 24 gennaio 2020.
5.3. Con altro motivo si censura l'affermazione della Corte di appello secondo la quale poiché l'evento reato è occorso in Italia, l'attività di manutenzione svolta dal Kr.[UW.] doveva svolgersi secondo lo standard di diligenza imposto dal diritto italiano; tale affermazione si pone in contrasto con le direttive comunitarie relative alla libera circolazione delle merci e dei servizi in ambito ferroviario nonché con le disposizioni del Trattato sul funzionamento dell'unione europea in materia di libera circolazione delle merci, liberalizzazione dei servizi e libertà di stabilimento. La motivazione che la Corte d'appello rende per superare le obiezioni della difesa sono infondate; in specie nella parte in cui si fa richiamo all'articolo 4, comma 1 del Regolamento 864 del 2007.
In conclusione viene fatta richiesta di rimessione alla Corte di giustizia dell'unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'unione europea, di questione pregiudiziale avente ad oggetto la compatibilità alla direttiva 2004/49/CE e alla direttiva 2001/16/CE dell'applicazione della normativa nazionale (si indicano a titolo di esempio il d.lgs. n. 162/2007, il d.lgs. n. 81/2008, il d.lgs. n. 231/2001 e gli artt. 2043, 2050 e 2087 c.c.) a soggetti che svolgono nello Stato membro di appartenenza la propria attività di locazione o di manutenzione di carri ferroviari o loro parti di ricambio circolanti in Italia; in particolare se sia compatibile che venga richiesta l'esecuzione di tali attività nel rispetto di standard tecnici e/o di diligenza diversi da quelli applicabili secondo la normativa dello Stato membro di origine; ovvero, in caso di risposta affermativa, se ciò valga anche quando al momento nel quale l'attività di manutenzione veniva svolta non era noto in quale Stato membro il veicolo o una sua parte di ricambio sarebbe stato utilizzato; se implichi una deroga alle norme del TFUE e alle direttive 2004/49/CE e 2001/16/CE l'applicazione del regolamento CE n. 864/2007 alle azioni relative al risarcimento dei danni occorsi nello Stato membro di destinazione il 29.6.2009 e successivamente e, in caso di risposta affermativa, se tale deroga riguarda solo le azioni risarcitone o anche la liceità della condotta del danneggiarne in ambito penale e/o amministrativo e sulla base di quali norme deve valutarsi la condotta del presunto responsabile dell'illecito che sia anteriore all'll.1.2009, data di applicazione del menzionato regolamento.

6. Ricorso nell'interesse di BR.HE.
Br.He. ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, avv. E.D., articolando otto motivi.
6.1. Il primo motivo attiene alla asserita nullità dell'ordinanza pronunciata dalla Corte di appello il 19 dicembre 2018 e concernente la formazione del Collegio di primo grado e l'attribuzione ad esso del procedimento. Si lamenta la violazione degli artt. 25, comma 1 e 111, comma 2 Cost, nonché l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento agli artt. 178, comma 1, lettera a) e 179 cod. proc, pen.; si denuncia anche il vizio della motivazione.
Dopo una breve sintesi delle premesse di fatto pertinenti, l'esponente lamenta che si sia verificata "una vera e propria elusione delle regole tabellari, o meglio ancora che la determinazione dei Giudici avvenne senza meccaniche applicazioni di tabelle" con ciò determinandosi la violazione della garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge. Infatti, la stessa Corte di appello ammette che "l'assegnazione in discussione certamente non derivò dall'applicazione automatica di meccanismi tabellari, ma da ragionate considerazioni di opportunità, dipendenti da valutazioni di incompatibilità effettuate addirittura a priori o di redistribuzione dei carichi di lavoro fra Giudici secondo criteri non meccanici".
Oltre alle norme costituzionali, risultano violate le norme internazionali in tema di terzietà ed imparzialità del giudice, tra le quali assume particolare rilievo l'art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali.
6.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione delle norme dell'unione Europea nonché la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in merito all'applicabilità all'attività svolta in Germania di disposizioni italiane. Nel contesto del motivo si propone istanza di remissione di questione pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'unione europea, ai sensi dell'articolo 267 del TFUE.
6.3. Si deduce, poi, la nullità della sentenza per vizio di motivazione e per violazione dell'art. 43 cod. pen., in riferimento all'individuazione della norma cautelare in ipotesi violata dall'imputato.
La sentenza ascrive al Br.[HE.] di aver eseguito l'esame magnetoscopico nella parte centrale e nella gola di scarico dell'assile, senza rilevare le anomalie connesse alle condizioni in cui esso si presentava. Nel fare questa affermazione, in primo luogo la Corte d'appello ritiene che l'imputato abbia omesso di procedere ad attività idonee a rilevare lo stato di ossidazione del collarino. Osserva l'esponente che la censura non ha alcuna attinenza all'individuazione delle aree da indagare. Tuttavia, è sempre la Corte di Appello che in un altro passo assume che la limitazione dell'esame magnetoscopico al corpo centrale si presentava illogica e in contrasto con elementari regole di prudenza. L'esponente ravvisa in tali affermazioni un'intrinseca contraddizione perché la Corte di Appello dapprima considera conforme a norma un determinato comportamento - segnatamente l'esecuzione dell'esame magnetoscopico sul solo tratto dell'assile compreso tra le ruote - e immediatamente dopo sconfessa siffatta valutazione giudicando dovuto invece l'opposto comportamento, ovvero l'esame sull'intero assile. Si tratta di condotte che non possono essere ritenute contemporaneamente dovute perché l'una si pone nel contesto di una revisione di livello IS2 e l'altra nel contesto di una revisione IS3 e solo la prima era tecnicamente realizzabile presso la Ju***l. Ciò determina la radicale incertezza su un elemento costitutivo della fattispecie, incertezza strutturalmente incompatibile con la regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio.
La Corte di Appello non è stata in grado di individuare in modo univoco la condotta diligente; è quindi mancante un passaggio motivazionale imprescindibile al fine della pronuncia di responsabilità.
Scendendo nella disamina delle singole affermazioni della Corte d'appello, l'esponente osserva che il difetto di diligenza per il giudice di secondo grado sarebbe da porsi in relazione alla TFA 2.12.01 del 31 marzo 2008 e al manuale VPI, la cui corretta applicazione avrebbe imposto che l’assile venisse completamente sverniciato prima dell'esame magnetoscopico mediante un procedimento di sabbiatura e che si rimuovessero eventuali difetti supeR***Iciali che fossero stati ritenuti tali da impedire la prova. La Corte di appello rimprovera la non corretta esecuzione delle attività di preparazione della prova ma anche soprattutto l'estensione di tale attività; ciò a partire dalla identificazione della zona nella quale essa avrebbe dovuto essere effettuata, che la Corte d'appello ha ritenuto essere l’assile nella sua interezza, ancorché abbia poi affermato che doveva interessare unicamente la zona compresa tra le ruote. Il parametro normativo viene identificato dalla Corte d'appello nella rammentata istruzione operativa della TFA e nel manuale VPI.
Ma, sostiene l'esponente, nessuna indicazione espressa circa l'area da sottoporre a preparazione si rinviene nella prima. La regola tecnica che ricorre nel punto 3.4 della TFA 2.12.01 non attiene all'estensione dell'area da sverniciare ma all'accuratezza dell'attività di eliminazione della vernice. Quindi, l’ambito di esecuzione della prova rimane affidata in via esclusiva al primo paragrafo del punto denominato "Esecuzione", individuato nel livello manutentivo IS2, che implica l'esecuzione della magnetoscopia esclusivamente nella parte centrale dell'assile.
Pertanto, l'obbligo di trattare l’assile nella sua interezza non può essere dedotto da tale dato normativo, che la Corte di Appello ha travisato. Anche il manuale VPI non pone un siffatto obbligo, atteso che le relative disposizioni precisano che dovevano essere trattate solo le supeR***Ici dell'assile sottoposte ad esame. Indicazioni operative che trovano conferma nell'espresso divieto in forza del quale la prova su sezioni non sufficientemente pulite non è ammessa. Quindi non vi era obbligo di intervenire in zone che non dovevano essere sottoposte ad esame magnetoscopico.
Ad avviso della Corte d'appello le norme positive esaminate però non esaurirebbero il dovere di diligenza richiesto all'imputato; osserva l'esponente che l'individuazione di una fonte ulteriore dell'obbligo di intervenire su un area diversa da quella che sarebbe stata oggetto di esame magnetoscopico viene posta in relazione alla circostanza che durante la revisione del novembre del 2008 fu sottoposta ad esame magnetoscopico anche la gola di scarico dell'assile; se ne fa derivare che era ragionevole che anche nell'adiacente area del collarino dovesse essere rimosso il rivestimento di vernice, eseguendo una verifica dello stato del metallo sottostante; verifica che senza dubbio avrebbe rilevato i crateri di corrosione. Osserva l'esponente che il richiamo alla ragionevolezza è senz'altro evocativo del paradigma della colpa generica, la quale però deve essere declinata con particolare attenzione, ancor più quando si pretende di trarne norme comportamentali da applicarsi in ambiti altamente specializzati e fortemente normati, quale quello dei controlli non distruttivi. Se non va aprioristicamente esclusa l'esistenza di cautele non cristallizzate in specifiche disposizioni, pure occorre aver cura che il richiamo di generiche misure cautelari non diventi il grimaldello artificiosamente utilizzato per consentire l'individuazione a posteriori della norma cautelare; ciò che strutturalmente confligge con il principio di legalità. Anche l'eventuale norma derivante dal generale obbligo di diligenza che la Corte ha inteso porre a carico dell'imputato deve pertanto essere interpellata alla luce della presunta situazione di pericolo che ne avrebbe dovuto suscitare l'applicazione. Va quindi verificato quale spazio residui per il generico richiamo a cautela. Questa verifica va fatta secondo due parametri; da un lato, quanto alla prevedibilità, si dovrà verificare alla luce dell'apparato cautelare positivizzato, in ipotesi carente, se il caso di specie manifesti peculiarità tali da determinare una particolare esposizione a pericolo non contemplata dalle prescrizioni esistenti. Nel caso di specie, il rischio da scongiurare consisteva in quello che una inadeguata esecuzione della prova dovuta alla presenza di impurità sulla supeR***Icie da esaminare precludesse la detezione di difetti. Ora, osserva il ricorrente, in tale prospettiva non si comprende quale sarebbe il particolare rischio, derivante dalla particolarità del caso di specie, che si vorrebbe presidiare estendendo l'applicazione della norma positiva appena citata ad un'area limitrofa ma diversa da quella oggetto di esame delle particelle magnetiche. Dall'altro lato, quanto all'esigibilità del surplus di diligenza, è necessario esaminare lo specifico contesto per verificare se esso doveva indurre l'imputato a non fare affidamento sugli standard già predefiniti. Su tale versante è senz'altro dirimente la circostanza che egli operasse in un processo produttivo caratterizzato dalla suddivisione del lavoro in fasi successive, affidate a operatori diversi, e che la zona del collarino dovesse essere oggetto di esame ultrasonoro ad opera del collega Kr.[UW.]. Tale circostanza rende non esigibile un innalzamento degli standards che trovi fondamento nello sconfinamento della colpa specifica in quella generica, a partire da qualsivoglia segnale in ipotesi sintomatico di maggior rischio proveniente dalla zona del collarino, la quale era già positivamente previsto che sarebbe stata oggetto di una specifica attività di indagine dotata di indiscussa efficacia impeditiva se eseguita a regola d'arte; cosa sulla quale l'imputato poteva legittimamente fare affidamento.
In effetti il giudizio di prevedibilità che la Corte pretende dall'imputato consiste non già in una valutazione sulla peculiare esposizione al rischio generata dalle ipotizzabili inefficienze dei presidi di matrice normativa, bensì in una previsione sulla possibilità di fallimento della cautela già esistente. Si tratta di una valutazione, tuttavia, che esula dal novero di quelle che possono essere sottese all'applicazione del paradigma della colpa generica. Inoltre, la natura residuale di questa impedisce di farne oggetto di contestazione all'operatore in sistemi in cui l'attività di quest'ultimo e la connessa area di rischio sono strutturalmente presidiate da altro soggetto specificamente preposto, al quale unicamente potranno essere demandati tali giudizi. Si tratta peraltro di circostanza di cui del tutto contraddittoriamente la Corte territoriale è consapevole, tanto da rimproverare all'imputato Sc.[AN.] il deficitario adempimento degli obblighi di sorveglianza. Peraltro, nel giudizio volto a valutare se si potesse pretendere dall'imputato l'individuazione di una cautela ulteriore, si amplifica la rilevanza delle competenze dell'agente, nel caso di specie assai modeste, in quanto addetto ad attività meramente operativa quale tecnico di livello 1, che rendono non esigibile l'esercizio della supplenza normativa pretesa dalla Corte distrettuale.
Tale considerazione introduce un ulteriore profilo di contraddittorietà della motivazione, in quanto il giudice di seconde cure ha affermato che l'operatore di livello 1 è necessariamente un mero fruitore di norme tecniche; nel provvedimento si legge: "le normative tecniche debbono possedere un grado elevato di precisione, essendo rivolte anche ad operatori di primo livello che hanno il compito di applicare regole tassativamente definite, non avendo compiti diversi da quelli esecutivi"; ed anzi la Corte di appello stima inammissibile che si demandino "all'operatore di primo livello valutazioni di tipo normativo che non gli competono". Quindi, per la stessa Corte d'appello è evidente che non potesse essere preteso dall'imputato l'ampliamento del novero delle cautele oltre quelle positivizzate. Concludendo sul punto, l'esponente asserisce che neppure attraverso l'evocazione della colpa generica è possibile identificare condotte colpose del Br.[HE.].
Con riferimento al rimprovero per aver effettuato l'esame magnetoscopico solamente nella parte centrale dell'assile, l'esponente rileva che la regola scritta applicabile al caso di specie viene individuata in uno specifico passo della TFA n. 2.12.01, laddove si scrive che il controllo non distruttivo dell'assile deve essere eseguito mediante magnetoscopia MT in conformità con la VPI 04 appendice 28. L'estensione della prova, quindi, non è indicata espressamente dalla norma cautelare ma viene ad essere identificata indirettamente per il tramite del rinvio all'appendice 28 del manuale VPI che, ad avviso della Corte d'appello, stabilisce espressamente che la zona di prova si estende sull'intero assile. In realtà l'individuazione dell'area da indagare rimane affidata all'istruzione operativa per il tramite del riferimento al livello di manutenzione indicato nel capoverso rubricato "Esecuzione", cioè al percorso IS2 e ai limiti operativi a questo connaturali, che non consentivano di scalettare le ruote ed intervenire nella zona del fusello. Circostanza quest'ultima che dava certezza all'operatore in ordine ai passaggi operativi da realizzare. E la stessa Corte di Appello, nel passo dedicato all'esame delle autorizzazioni di cui era in possesso l'officina, evidenzia le novità introdotte dalle istruzioni operative in argomento e precisa che "il controllo magnetoscopico del corpo dell'assile nell'ambito della manutenzione IS2 sarebbe stato introdotto nel Marzo 2008 con la TFA e poi inserito nel manuale VPI". È quindi lo stesso giudice di secondo grado ad accertare che la zona da sottoporre a controllo in forza della TFA del marzo del 2008 era esclusivamente quella compresa tra le ruote. Mentre in epoca precedente le linee guida del manuale VPI non prevedevano l'esame magnetoscopico sul corpo dell'assile nel livello di manutenzione IS2.
Il fatto che la Corte di appello affermi che la tesi della difesa è ben argomentata e che essa tutt'al più fa insorgere qualche perplessità è per l'esponente la dimostrazione della elevata razionalità della lettura alternativa proposta dalla difesa e la sua piena compatibilità con i dati normativi; pertanto, l'assunto della Corte di appello è in contrasto con la regola di cui all'art. 533, comma 1 cod. proc. pen.
Che la Corte di appello cerchi di supplire alla debolezza delle proprie argomentazioni con l'evocazione della colpa generica, per cui le condizioni dell'assile avrebbero richiesto di non limitare l'esame magnetoscopico al corpo centrale, conduce l'esponente a ribadire quanto già esposto affrontando il medesimo tema sotto la diversa prospettiva dell'ulteriore condotta colposa ascritta al ricorrente; ovvero la strutturale impossibilità, nel settore in esame, di andare .. p. oltre il perimetro del giudizio di prevedibilità ed evitabilità cristallizzato in norme I / tecniche, tanto più in forza dell'attività creativa di un soggetto avente caratteristiche professionali e competenze esclusivamente operative.
Il richiamo fatto dalla Corte di appello al punto 23 del manuale VPI non è al riguardo pertinente poiché il paragrafo medesimo è dettato in materia di riparazione delle sale montate, attività diversa da quella di revisione delle sale, di competenza dell'imputato. È per questo che la Corte territoriale non ravvisa la diretta applicabilità della norma di cui al paragrafo 23 all'attività del Br.[HE.]; ma con procedimento logico-giuridico errato, il giudice di seconde cure tenta di trarre da una norma positiva rivolta ad altro operatore addetto ad attività diversa dagli esami non distruttivi il paradigma cui l'imputato avrebbe dovuto conformarsi in virtù di un generico obbligo di diligenza. Il provvedimento impugnato trascura però di considerare che i peculiari segnali di allarme che avrebbero eventualmente potuto giustificare il passaggio dal paradigma della colpa specifica a quello della colpa generica erano già presidiati da apposita figura professionale e dal supervisore; e quei poteri e oneri sono stati riconosciuti dalla sentenza stessa in ragione della complessiva conformazione del sistema dei controlli non distruttivi.
La norma in esame potrà divenire rilevante anche per l'operatore che si occupa di esami magnetoscopici (solo) per il tramite delle valutazioni dell'addetto alla sorveglianza e solamente qualora egli ritenga di fornire a quest'ultimo specifiche istruzioni. Ne consegue che una motivazione che ne esiga invece l'osservanza diretta dall'imputato viola da un lato le regole dell'addebito colposo e dall'altro priva della necessaria coerenza interna l'apparato argomentativo.
6.4. Con il quarto motivo si denuncia il vizio della motivazione e la violazione degli articoli 192 e 533 cod. proc, pen., in relazione a quanto ritenuto dalla Corte di appello a riguardo delle condizioni dell'assile al momento della manutenzione e per avere la Corte territoriale ritenuto omesse la sabbiatura e la verniciatura. Secondo la Corte di Appello lo stato del collarino avrebbe dovuto fungere da segnale di allerta. È però affermato dalla stessa Corte di merito che qualunque anomalia non avrebbe avuto alcuna incidenza sulla corretta esecuzione del controllo ultrasonoro perché le sonde sarebbero state posizionate nell'area del fusello, non coperta da rivestimento e non soggetta a corrosione. L'omessa sabbiatura del corpo dell'assile avrebbe invece avuto rilevanza diretta in relazione alla corretta esecuzione dell'esame magnetoscopico; al riguardo l'esponente rileva un primo vizio nell'aver la Corte di appello utilizzato la logica probabilistica per la ricostruzione della condotta. Il secondo vizio viene identificato nel rovesciamento dell'onere della prova poiché la Corte di Appello si è accontentata di criticare la tesi difensiva senza provare però la fondatezza dell'assunto accusatorio. La Corte di Appello, pur avendo confermato la validità degli elementi posti a fondamento della ricostruzione difensiva in merito all'avvenuta sabbiatura e verniciatura dell'assile durante il controllo manutentivo presso l'officina, giunge del tutto contraddittoriamente a ritenere provata oltre ogni ragionevole dubbio la mancata effettuazione delle attività manutentiva e ciò fa per una serie di congetture a partire dalla presenza di ritocchi che sarebbero stati eseguiti presso l'officina, i quali escluderebbero che ivi era stata effettuata la sabbiatura. Pertanto, la mancata sabbiatura durante la manutenzione presso l'officina è rimasta una ipotesi non suffragata da elementi di fatto e sostenuta unicamente dalla tecnica della cosiddetta falsificazione implicita.
6.5. Con il quinto motivo si deduce il vizio della motivazione in relazione all'efficienza impeditiva della condotta omessa. La Corte di Appello ha ritenuto, tanto con riferimento agli esami ultrasonori che agli esami magnetoscopici, che una loro corretta esecuzione avrebbe portato con certezza a rilevare una discontinuità di profondità stimata di 10-12 mm. La motivazione è in realtà espressamente sviluppata con riferimento agli esami ultrasonori ma poi è estesa anche a quelli magnetoscopici, peraltro senza particolari integrazioni. Su questa premessa l'esponente osserva che i rilievi difensivi che concernono le peculiarità fattuali che rendono inadeguato il ricorso a generalizzazioni elaborate su base probabilistica (in particolare l'inclinazione della cricca) ed i limiti strutturalmente connessi ad una spiegazione probabilistica (la soglia di inaffidabilità intrinseca di ciascuna delle misurazioni utilizzate) sono state affrontate attraverso valutazioni di matrice non scientifica né giuridica, semplicemente evocando la irragionevolezza di una tesi che incrinerebbe la validità del sistema di controllo elaborato su quelle basi. Ma tale impostazione risulta concretizzare una motivazione solo apparente e peraltro illogica.
6.6. Con il sesto motivo si lamenta la violazione degli artt. 23, 69, comma 1, 70, comma 1 del d.lgs. n. 81/2008 e dell'articolo 2087 c.c., nonché il vizio della motivazione. La sentenza ha confermato la configurabilità della circostanza aggravante della violazione di norme cautelari in materia di salute e sicurezza sul lavoro attribuendo alle società del gruppo G***x e agli imputati operanti in esse la qualità di fornitori di un'attrezzatura di lavoro; tale essendo stato ritenuto il carro munito dell'assile numero 98331. La sentenza è pervenuta a tale soluzione omettendo di considerare le argomentazioni che la difesa aveva sviluppato circa l'inapplicabilità dell'articolo 23 con riferimento all’assile. La qualificazione di questo come attrezzatura di lavoro è errata; si tratta di un singolo componente meccanico di un impianto la cui rilevanza si deve ad una modifica legislativa risalente al decreto legislativo n. 106/2009, incidente sull'art. 69 del d.lgs. 81/2008. Secondo la Corte di Appello il carro cisterna e il relativo assile sono rispettivamente una macchina ed un componente di essa e quindi un'attrezzatura di lavoro e la modifica dell'art. 69, comma 1 lettera a) avrebbe avuto unicamente la funzione di specificare il concetto di impianto, sicché anche nella formulazione originaria il carro e l’assile erano macchina e componente di essa. Ad avviso dell'esponente il ragionamento della Corte è viziato dalla mancata considerazione della previsione dell’art. 70, comma 1; l'art. 69, infatti si connette all'art. 70, comma 1 che definisce la disciplina cautelare applicabile con riferimento alle attrezzature di lavoro con il rinvio alle specifiche disposizioni legislative regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto. Orbene, la direttiva comunitaria di prodotto recepita con il d.p.r. n. 459/1996, all'art. 1, comma 5, stabilisce che sono esclusi dal campo di applicazione del regolamento i mezzi di trasporto aerei, stradali e ferroviari. Ne deriva, secondo l'esponente, che il carro cisterna è una macchina che in quanto mezzo di trasporto ferroviario è espressamente esclusa dal campo di applicazione della relativa direttiva comunitaria di prodotto. I requisiti di sicurezza che lo riguardano non sono rilevanti nell'ambito della salute e sicurezza del lavoro ma nell'ambito della sicurezza del trasporto ferroviario. L'articolo 70, comma 1, infatti, regola l'intersezione tra ambito della tutela delle condizioni di sicurezza del prodotto e campo di tutela della salute e sicurezza sul lavoro. La norma assoggetta al decreto n. 81/2008 i prodotti se e in quanto disciplinati da specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto. Per stabilire se un prodotto sia qualificabile come attrezzature di lavoro e soggiaccia alla relativa disciplina è necessario verificare se esso rientra o meno nel campo di applicazione delle disposizioni legislative regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto. Nel caso di specie la direttiva comunitaria di prodotto è la cosiddetta Direttiva macchine e la normativa regolamentare interna di recepimento è il menzionato decreto n. 459/1996. Come si è visto, questo stabilisce delle esclusioni dall'ambito di applicazione della disciplina armonizzata che attengono tra l'altro ai mezzi di trasporto ferroviari. Il comma 2 lett. e) n. 5 dell'art. 1 del decreto legislativo n. 17/2010, che ha sostituito il decreto 459/1996, conferma espressamente l'esclusione dal campo di previsione normativa armonizzata dei mezzi di trasporto ferroviario. Né in contrario può valere il richiamo al secondo comma dell’articolo 70, che in via residuale consente l'applicazione dell'allegato V del d.lgs. n. 81/2008 nella parte concernente i requisiti generali di sicurezza, ma solo al ricorrere di due condizioni alternative: l'assenza di una disciplina interna di recepimento di una direttiva comunitaria di prodotto in relazione a determinate attrezzature di lavoro; l'assenza di una disciplina armonizzata di prodotto applicabile ratione temporis. Come a dire che l'applicazione in via residuale dell'allegato V presuppone l'evidenza di una lacuna che non sussiste nel caso di specie.
Quanto al richiamo dell'art. 2087 c.c., la Corte di appello ha ritenuto che la norma si riferisca non solo al datore di lavoro ma ad ogni imprenditore nell'esercizio dell'impresa. Osserva l'esponente che il concetto di imprenditore ai sensi dell'articolo menzionato deve essere inteso in un'accezione lavoristica, anche in ragione della collocazione topografica della norma. Dal canto suo, il prestatore di lavoro non è un generico creditore di sicurezza ma rappresenta il soggetto destinatario di quella specifica tutela che l'ordinamento riserva per la sua posizione asimmetrica rispetto al garante. Il tentativo di dissociare l'imprenditore dall'ambito di competenza sul rischio normativamente definito contrasta con la disposizione. In conclusione, l'articolo 2087 c.c. non costituisce una norma cautelare; esso fissa una posizione di garanzia e definisce le fonti da cui il garante prima ed il giudice dopo sono abilitati a trarre precise regole cautelari, strumentali alla tutela dell'incolumità dei lavoratori.
6.7. Con il settimo motivo si denuncia la violazione di legge in relazione all'art. 133 cod. pen. ed il vizio della motivazione con riferimento al trattamento sanzionatorio. Ad avviso dell'esponente la sentenza è del tutto priva di confronto con ciascuna delle doglianze che erano state formulate con l'atto di appello a riguardo della commisurazione della pena. Sono anche inadeguate le considerazioni svolte dalla Corte di appello. Si reputa inaccettabile l'impostazione generalizzante, che procede per gruppi di imputati, omettendo di disegnare la misura della colpa del singolo agente sulle sue peculiari caratteristiche. L'approccio adottato è solo all'apparenza comparativo, perché un raffronto presupporrebbe individuati i termini dell'operazione; cosa che nel caso di specie è del tutto pretermessa. Stride l'equiparazione della posizione del ricorrente con quella dello Sc.[AN.], che aveva certamente una responsabilità maggiore. Del tutto carente è anche la esplicitazione dei criteri adottati nella definizione della pena base oltre che degli aumenti determinati per effetto della continuazione con altri reati.
6.8. Si lamenta, infine, il vizio della motivazione e la violazione degli artt. 133 e 62-bis cod. pen., con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche. La Corte d'appello riconosce le attenuanti generiche sia agli imputati operanti nell'ambito del trasporto ferroviario sia a quelli dipendenti della Ci***Ri*** s.p.a. benché i primi, non diversamente dagli imputati di area tedesca, operino in un settore caratterizzato da una particolare pericolosità ed i secondi, non diversamente dal ricorrente, si siano occupati dell'assile svolgendo attività non meno delicata ed efficiente. È quindi manifestamente illogica la motivazione con la quale la Corte di Appello ha ritenuto di giustificare il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche. Inoltre, la Corte di Appello tralascia di esaminare la circostanza che nel corso del giudizio sono state risarcite numerosissime persone offese.

7. Ricorso nell'interesse di SC.AN..
L'imputato ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza a mezzo del difensore di fiducia avv. E.M.P., articolando sette motivi.
7.1. Nullità dell'ordinanza del 19 dicembre 2018 della Corte di appello di Firenze, in relazione all'ordinanza dell'8 gennaio 2014 del Tribunale di Lucca, in merito alla formazione del Collegio di primo grado e all'attribuzione ad esso del procedimento, per violazione di legge, con riferimento agli articoli 25, comma 1 e 111, comma 2 Costituzione, nonché inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento all'articolo 178, comma 1 lett. a) e all'articolo 179 cod. proc. pen. ed altresì per vizio della motivazione. L'esplicazione delle ragioni a sostegno della censura sono tal quali quelle esposte riproducendo l'analoga doglianza proposta dal Kr.[UW.].
Il ricorrente rileva che allorquando il giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Lucca dispose il rinvio a giudizio dinanzi al Tribunale di Lucca in composizione collegiale, fece specifica indicazione dei componenti del collegio. Tale indicazione nominativa rappresenta un'anomalia e per altro il Collegio in questione era di nuova composizione e destinato ad essere formato da magistrati che in quel momento svolgevano la funzione di giudici monocratici presso la sezione distaccata di Viareggio, soppressa con il decreto legislativo n. 155/2012, con efficacia solo dal 13 settembre 2013. Tali magistrati, quindi, al tempo del rinvio a giudizio non erano ancora assegnati al Tribunale di Lucca, sede centrale. Per il ricorrente ne consegue che necessariamente non fu l'applicazione di criteri tabellari prefissati a determinare l'assegnazione del procedimento al Collegio III del Tribunale, ma, come ammette la stessa Corte di Appello, essa dipese da valutazioni di opportunità in relazione a possibili situazioni di incompatibilità future o di redistribuzione dei carichi di lavoro. Si è quindi verificata una vera e propria elusione delle regole tabellari o quantomeno queste non sono state meccanicamente applicate, nonostante rappresentino il concreto strumento attraverso cui il rispetto del principio naturale di precostituzione del giudice viene garantito nel nostro sistema giudiziario. Oltre alle norme costituzionali citate risultano violate le norme internazionali in tema di terzietà e imparzialità del giudice e segnatamente l'art. 6, par. 1 della C.e.d.u.
7.2. Vizio di motivazione in relazione alla affermata posizione di garanzia dell'imputato. Dopo aver premesso alcune considerazioni sulla struttura delle originarie imputazioni, rimarcando che sono risultate contestate condotte commissive e condotte omissive, ma che la Corte di appello ha infine ridotto l'addebito alla sola omissione di sorveglianza - per essere stato lo Sc.[AN.] assente all'esecuzione dell'esame, pur dovendo essere presente -, il ricorrente rileva che la Corte di appello è incorsa nel vizio di contraddittorietà interna, avendo svolto affermazioni a riguardo degli imputati Le.[JO.] e Kr.[UW.] che configgono con quanto poi ritenuto a riguardo dello Sc.[AN.]. In particolare, avendo la Corte di appello sostenuto che il quadro normativo non imponeva al supervisore la presenza accanto all'operatore durante l'esecuzione dell'esame sull'assile; che secondo la procedura manutentiva in uso presso la Ju***l gli operatori di primo livello eseguivano gli esami UT e MT in assenza dell'addetto alla sorveglianza, che interveniva solo in caso di segnalazione di problemi; che non rientrava nelle competenze dello Sc.[AN.] stabilire o modificare le regole manutentive; che nessuna criticità era stata segnalata allo Sc.[AN.] né poteva dallo stesso essere percepita sulla base dei documenti da lui visionati, la stessa ha svolto affermazioni incongrue laddove ha sostenuto che l'imputato avrebbe dovuto essere fisicamente presente all'esecuzione dell'esame da parte dell'operatore di livello 1 e che ciò si rendeva necessario alla luce della inadeguatezza strutturale del procedimento manutentivo, che però per la stessa Corte territoriale non era imputabile allo Sc.[AN.].
7.3. Violazione degli artt. 40 cpv. e 43 cod. pen. Il ricorrente rileva che in origine gli addebiti gli attribuivano violazioni di regole cautelari che davano vita ad ipotesi di colpa specifica; all'esito dei giudizi si è pervenuti ad individuare una colpa generica dello Sc.[AN.], al quale si rimprovera di non aver assicurato una sorveglianza appropriata, come imposto dalla sua posizione di garanzia. Nulla si dice, tuttavia, a riguardo della condotta che sarebbe risultata appropriata, salvo la pleonastica evocazione della imprudenza e della negligenza. Ad avviso del ricorrente, l'operazione svolta dalla Corte di appello, oltre a negare il rapporto di totale alterità strutturale tra colpa specifica e colpa generica, sì che non è possibile ritenere che se non è provata la colpa specifica allora c'è colpa generica (come, si sostiene, avrebbe fatto la Corte di appello), espone al rischio insito nella colpa generica, rappresentato dalla creazione a posteriori della regola cautelare da parte del giudice, con l'impossibilità del consociato di conoscere ex ante la regola cautelare da osservare.
Nel caso di specie, dopo aver trasformato l'addebito in colpa generica la Corte di appello non è stata in grado di individuare concretamente la regola di condotta da osservare; e quando la definisce, sostenendo che l'addetto alla sorveglianza avrebbe dovuto assicurare 'una presenza apprezzabile' che gli consentisse di controllare direttamente lo stato degli assili da esaminare, finisce con l'indicare una regola che non era riferibile allo Sc.[AN.], per il quale la stessa Corte di appello ha escluso l'obbligo di presenza continua. Ad avviso del ricorrente ciò significai imputare allo Sc.[AN.] di aver operato in un quadro normativo inadeguato e inefficiente senza reagire ad esso; ma si tratta di una pretesa che esorbita dalla conoscenza e dalla esperienza dello stesso.
Quanto alla posizione di garanzia, la Corte di appello ha omesso di individuarla o comunque lo ha fatto in modo contraddittorio, alla luce di quanto ritenuto a proposito del Le.[JO.].
7.4. Si denuncia poi la violazione degli artt. 41, 43, 439, 449 e 589 cod. pen. Dopo aver premesso alcune considerazioni concernenti la giurisprudenza di legittimità in tema di area di rischio, rimarcando come da essa derivi la necessità di identificare l'area di rischio affidata a ciascun gestore, l'esponente asserisce che in forza dei principi evocati la Corte di appello avrebbe dovuto indagare specificamente se lo statuto cautelare dello Sc.[AN.] - ovvero il sistema delle regole cautelari che erano sue proprie - era finalizzato a coprire il rischio concretizzatosi nell'evento verificatosi. Ad avviso dell'esponente la Corte di appello non ha operato una simile valutazione; si è occupata dell'eccentricità del rischio ribaltamento solo nell'ambito del tema della causalità materiale. Si rimarca che la Corte di appello ha ritenuto, con il Tribunale, che non sussiste la causalità della colpa in quanto non prevedibile ex ante che in caso di deragliamento e ribaltamento di un treno una sua carrozza possa essere danneggiata e perforata da un picchetto; si considera che se ciò è vero per il gestore dell'infrastruttura lo è anche per chi, totalmente avulso dal contesto dei diversi rischi implicati, sia chiamato all'effettuazione dei soli controlli manutentivi sull'assile.
Ad avviso dell'esponente, la Corte di appello è incorsa in un errore di fondo, rappresentato dall'aver impostato il tema della causalità della colpa come se il 'disastro di Viareggio' fosse un unico macro-evento; diversamente, si tratta di tre diversi eventi tipici, ciascuno rappresentato nelle imputazioni, e segnatamente il disastro ferroviario, il disastro incendio e le lesioni e morti. In specie i primi due lasciano intravedere ulteriori sub-eventi: il deragliamento, scomponibile nello svio e nel ribaltamento; la deflagrazione e la morte e le lesioni; ma nella catena causale si collocano anche la rottura dell'assile, la foratura da impatto della cisterna con un corpo esterno, la espansione del gas infiammabile, l'accensione del materiale. La rottura dell'assile e il conseguente svio hanno quali antecedenti i deficit di controllo; il ribaltamento ha quale antecedente causale il passaggio a raso; il ribaltamento e la foratura della cisterna vedono nel ruolo di antecedente la presenza del picchetto n. 24. Vi è poi la velocità del convoglio. In forza di tale analisi l'esponente afferma che poiché il settore ferroviario è espressione di un macro-rischio che ingloba al suo interno una pluralità differenziata di sfere di azione, siamo in presenza di un rischio unitario e globale ma composito e compartimentato. Si individuano nella complessiva area di rischio alcune altre, più specifiche, ripartite in base alle competenze precipue di ciascun garante; rischio da gestione dei convogli, rischio da gestione delle stazioni e rischio da gestione del personale (oltre altre). Su tali premesse l'esponente ritiene che la Corte di appello avrebbe dovuto interrogarsi in ordine alla possibilità di ritenere quali tra gli eventi tipici costitutivi dei reati contestati risulta concretizzazione del rischio specifico e personale dello Sc.[AN.]. Alla stregua di quanto premesso, l'esponente asserisce che al ricorrente avrebbe potuto ascriversi al più, sul piano della causalità della colpa, il solo disastro ferroviario, giacché le regole cautelari pertinenti all'attività dello Sc.[AN.] sono finalizzate esclusivamente alla corretta esecuzione del controllo ad ultrasuoni. Di ciò l'esponente rinviene conferma nel fatto che la Corte di appello ha ritenuto insussistente per i gestori della rete la causalità della colpa in relazione alla azione perforante del picchetto. Ma ciò non può che valere anche per i soggetti tenuti alla sola manutenzione dell'assile. Quindi non è possibile stabilire un nesso di causalità (della colpa) tra le condotte ascritte allo Sc.[AN.] e l'evento incendio e gli eventi omicidiari e lesionistici.
7.5. Si denuncia, ulteriormente, la violazione degli artt. 157 e 589 cod. pen. in relazione alla mancata declaratoria di estinzione dei reati di omicidio colposo perché prescritti.
L'esponente considera che lo Sc.[AN.] è stato condannato per la fattispecie di omicidio colposo plurimo non circostanziata. Si tratta di una disposizione che contempla un'ipotesi di concorso formale con unificazione quoad poenam, sicché il dies a quo del termine di prescrizione va individuato per ciascuno degli eventi omicidiari in esso ricompresi. Nel caso di specie la regola conduce a rinvenire nel 22.6.2017 il termine di estinzione dei reati. L'esponente rimarca che al ricorrente non è stata contestata l'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen., che importa il raddoppio del termine di prescrizione. La contestazione contiene un unico riferimento a norma in materia di prevenzione degli infortuni; si tratta dell'art. 23, co. 1 d.lgs. n. 81/2008, che tuttavia può trovare applicazione solo nei confronti del datore di lavoro. Coerentemente l'aggravante, di natura soggettiva, è stata contestata dall'accusa ai soli soggetti ricoprenti ruoli apicali; e in nessun passo della sentenza impugnata si fanno affermazioni di diverso senso, tanto meno nel delineare il trattamento sanzionatone.
7.6. Vengono poi denunciati la violazione delle norme dell'unione europea ed il vizio della motivazione, in relazione alla ritenuta applicabilità all'attività svolta in Germania di disposizioni italiane.
In primo luogo, l'esponente rileva che la Corte di appello si è occupata del tema solo trattando dell'applicabilità della normativa antinfortunistica alle società del gruppo G***x, peraltro contraddittoriamente, affermando dapprima che la condotta degli imputati stranieri non era stata valutata secondo le norme del diritto italiano ma poi ritenendo applicabili la direttiva 2004/49/CE, il d.lgs. n. 162/2007, il d.lgs. n. 81/2008, gli artt. 2043, 2050 e 2087 c.c.
Comunque, non si è occupata specificamente del tema dell'applicabilità del diritto italiano in materia di prevenzione degli infortuni all'imputato Sc.[AN.].
In secondo luogo, ponendosi a confronto con quanto dalla Corte di appello esposto per le società G***x, l'esponente ravvisa una violazione dell'art. 288, co. 3 TFUE nell'aver la Corte di appello ritenuto che la menzionata direttiva possa essere fonte di responsabilità penale per il ricorrente. Le discipline che traspongono le direttive nei diversi ordinamenti nazionali possono variare e i soggetti di ciascun Stato membro sono tenuti a rispettare la legislazione nazionale di trasposizione. L'applicazione di parametri di valutazione della condotta italiani piuttosto che del parametro di diligenza previsto dalla legislazione tedesca è incompatibile con l'impianto normativo del TFUE, della direttiva 49 e con l'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali UE e l'art. 7 CEDU. È con riferimento agli ostacoli astrattamente legittimi alla libera circolazione dovuti a norme nazionali che perseguono altri interessi rilevanti che interviene la normativa di armonizzazione, eliminando la possibilità per gli Stati membri di imporre le loro esigenze, anche quando gli operatori esteri sappiano che i beni e i servizi da loro prodotti siano destinati ad altro Stato membro. Il richiamo all'art. 4, co. 1 del regolamento CE n. 864/2007 è inconferente perché esso detta solo regole di diritto internazionale privato in merito alla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali inter alia derivanti da fatto illecito; e peraltro esso non è applicabile ratione temporis allo Sc.[AN.] perché applicabile dall'11.1.2009.
Il vizio della motivazione consiste nell'aver la Corte di appello, come già rammentato, omesso di valutare il tema in relazione alla specifica posizione dello Sc.[AN.].
Si conclude il motivo avanzando istanza di remissione di questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di giustizia UE, formulando ipotesi di quesito non difformi da quelle formulate per il Kr.[UW.].
7.7. Con il settimo motivo si lamenta la violazione dell'art. 133 cod. pen. e il vizio della motivazionale, per aver la Corte di appello omesso di motivare in ordine alle doglianze avanzate con l'atto di appello al trattamento sanzionatorio determinato dal Tribunale. In ogni caso la Corte di appello ha adottato una impostazione generalista, omettendo di disegnare la misura della colpa sul singolo agente. Infine, la pena inflitta a titolo di aumento per la continuazione tra reati è stata determinata in modo indipendente dalla pena base.

8. Ricorso nell'interesse di LE.JO.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per la sua cassazione LE.JO., a mezzo del difensore avv. P.S., articolando tredici motivi.
Dopo aver riassunto l'incedere delle decisioni di merito, contrastanti a riguardo della posizione del Le.[JO.], l'esponente ha posto le censure che qui vengono sintetizzate.
8.1. Violazione dell'art. 143 cod. proc. pen. e vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta insussistenza della nullità dell'atto di appello del P.M. per essere stata omessa la sua traduzione in lingua tedesca, non avendo l'imputato conoscenza della lingua italiana.
L'eccezione era stata formulata in sede di appello e la Corte territoriale l'ha respinta sull'assunto che l'art. 143 cod. proc. pen. contempla il diritto alla traduzione solo in rapporto alla partecipazione all'udienza e al contenuto dell'accusa, laddove l'atto di impugnazione del P.M. non costituisce l'accusa ma mera istanza, essendo stata la sentenza di primo grado tradotta in lingua tedesca.
Ad avviso dell'esponente, la Corte di appello non ha considerato quanto previsto dal terzo comma dell'art. 143 cod. proc, pen., dal quale si ricava che la traduzione scritta è obbligatoria sia per gli atti di cui al comma 2 della disposizione sia per gli atti essenziali per consentire all'imputato di conoscere le accuse a suo carico. Il legislatore, con la modifica della disposizione imposta dagli obblighi di conformazione ai principi comunitari, ha inteso assicurare all'imputato non solo di conoscere il testo originario dell'imputazione, ma anche gli sviluppi e le argomentazioni a sostegno delle accuse in ogni fase del giudizio e nei successivi stati e gradi. La interpretazione riduttiva della Corte distrettuale si pone in contrasto con i principi in materia di diritto all'assistenza linguistica di cui all'art. 6 par. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo; viola la clausola di non regressione prevista dall'art. 8 della Direttiva CE n. 64/2010, che impone all'interprete di conformarsi al gradiente di tutela più elevato eventualmente già riconosciuto all'imputato; si pone in contrasto con l'indicazione data dalla Corte costituzionale di conferire alle norme che contengono le garanzie dei diritti di difesa in ordine all'esatta comprensione dell'accusa un significato espansivo, diretto a rendere concreto ed effettivo tale diritto (C. cost. n. 10/1993).
La Corte di appello è incorsa anche nel vizio della motivazione, poiché con l'atto di appello si è delineato il perimetro accusatorio del giudizio di secondo grado e chiesta la condanna dell'imputato; non è pertinente il richiamo alla traduzione della sentenza di primo grado, che è stata di assoluzione; neppure nel decreto di citazione in appello (tradotto) era stato descritto il quadro accusatorio afferente al secondo grado di giudizio. In sintesi, l'atto di impugnazione del P.M. costituisce un atto essenziale ai sensi dell'art. 143, co. 3 cod. proc, pen.; la mancata
traduzione determina una nullità (generale a regime intermedio) ai sensi dell'art. 178, lett. c) cod. proc, pen., venendo compromesso l'esercizio effettivo del diritto di difesa, come emerge altresì dai Considerando 14, 17, 30, 32 e 33 della Direttiva n. 64/2010. Si profila, inoltre, la violazione dell'art. 111 Cost, laddove esso impone che la persona accusata di un reato disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la difesa; disponibilità non assicurata dalla mera partecipazione dell'imputato all'udienza del giudizio di appello.
Si osserva, poi, che se alcune pronunce del giudice di legittimità hanno escluso la ricorrenza di una causa di nullità, esse hanno però concesso la restituzione in termini; che era stata richiesta nel presente procedimento e che è stata negata.
8.2. Con il secondo motivo il ricorrente ha denunciato la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione, assumendo che la Corte di appello ha affermato la penale responsabilità del ricorrente sulla scorta di condotte che non erano descritte nella originaria imputazione e che anzi con questa sono incompatibili; aggiungendo che si è trattato di una modifica con condotte mai emerse nel corso del giudizio di primo e di secondo grado.
In particolare, il ricorrente osserva che il Tribunale lo aveva mandato assolto dall'accusa di aver omesso la stesura e la validazione di istruzioni operative particolari per i diversi tipi di assile e la conseguente formazione del personale nonché di aver consentito l'esecuzione del controllo della sala 98331 in soli 12 minuti, insufficienti a valutare la correttezza dell'operazione; nonché da quella di aver omesso di verificare l'apparecchiatura per i CND, tarata con macchinari scaduti di validità. Profili di colpa che, al di là del generico richiamo alla negligenza ed imperizia, davano vita a colpa specifica, essendo state individuate dall'imputazione le norme tecniche in ipotesi violate. La Corte di appello ha invece da un canto ritenuto che il Tribunale si fosse pronunciato in piena aderenza alla contestazione; quindi, ha affermato la responsabilità del ricorrente per aver questi omesso di fare quanto gli imponeva il suo ruolo di supervisore degli esami non distruttivi e in particolare di svolgere quella attività di alta sorveglianza doverosa alla luce delle norme tecniche e nell'espletamento della quale non poteva essere sostituito dallo Sc.[AN.]. Egli avrebbe omesso di eliminare carenze strutturali delle procedure seguite in officina nei CND, afferenti al troppo breve tempo di esecuzione degli esami magnetoscopici, alla mancanza di segnalazione dell'assenza di piani di prova, alla mancata preparazione delle sale da ispezionare, alla inadeguata sorveglianza e convalidazione delle prove effettuate. Tanto concreta un radicale cambiamento dell'impianto accusatorio, introducendo elementi fattuali nuovi e contraddicendo la logica dell'accusa originaria, senza che ciò trovi corrispondenza nelle domande formulate in giudizio dall'accusa e nella stessa impugnazione del P.M. La Corte di appello ha anche contraddittoriamente affermato che il Tribunale aveva motivato in termini contrastanti con l'accusa e che il primo giudice aveva correttamente riassunto l'accusa.
Osserva il ricorrente che le condotte omissive contestate costituiscono la specificazione dei doveri insiti nel ruolo di supervisore, sicché non vi è possibilità di ritenere che il richiamo a tale ruolo valga quale contestazione in fatto dell'omessa alta sorveglianza. Inoltre, la Corte di appello ha erroneamente ritenuto che al Le.[JO.] fosse stato contestato l'omesso esame visivo dell'assile 98331. Il fatto che nei confronti dei coimputati Ko.[Uw.], Kr.[UW.] e Ma.[JO.] la Corte di appello abbia evidenziato che talune violazioni non rientravano nella contestazione rispettivamente elevata, e che abbia puntualizzato che l'aggravante di cui all'art. 61 n. 3 cod. pen. non era stata contestata a tutti gli imputati, fa emergere con ancora maggior evidenza l'immutazione realizzata per il Le.[JO.]. Mai è emerso il tema della implicazione nei compiti di supervisore dell'alta sorveglianza e della non delegabilità della stessa allo Sc.[AN.] e quel che viene ascritto al ricorrente non è coerente con quanto rimproverato al Ko.[RA.].
Osservato che il gravame del P.M. avrebbe dovuto essere ritenuto inammissibile per genericità, il ricorrente rimarca che il vizio denunciato trova dimostrazione nelle domande formulate dall'accusa e nelle conclusioni orali in fase di appello, poste a disposizione di questa Corte con le relative allegazioni documentali. Né si tratta di tema introdotto in chiave difensiva dal ricorrente medesimo, come, ancora una volta, dimostrano i documenti allegati al ricorso. Il richiamo fatto in sentenza ad un passo della deposizione del prof. Ton. non è idoneo ad integrare una contestazione implicita. D'altro canto, si ripete, il novum introdotto dalla Corte di appello è la negazione dell'imputazione originaria e quindi non può essere contenuto in essa.
8.3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell'art. 40 cod. pen., in relazione alle norme tecniche EN 583-1, DIN EN 473, DIN 27201-7 e al manuale VPI 01 appendice 17.
Si assume che la Corte di appello è incorsa in errore di diritto nella interpretazione della menzionata normativa, traendo da essa una posizione di sovraordinazione del Le.[JO.] rispetto allo Sc.[AN.] e una diversità di compiti che non vi trova riscontro. In particolare, la VPI 01, appendice 17, al punto 3.3. precisa che per l'effettuazione dei CND sugli assili, sulle sale e sulle ruote è necessario che il personale addetto abbia una qualificazione nel settore industriale 9, ovvero nel settore ferroviario; per gli altri componenti è sufficiente una certificazione nel cd. multisettore. Il Le.[JO.] era divenuto supervisore in forza dell'acquisizione del Livello III nel multisettore e della certificazione UTl nel settore ferroviario; per la funzione di supervisore dei CND, definite dal punto 2.3. dell'appendice 17, da leggersi in uno al punto 3.5., è necessaria una certificazione nel settore industriale 9 di secondo livello nella procedura specifica. Lo Sc.[AN.] aveva assunto la qualifica di supervisore in quanto UT di secondo livello nel settore della manutenzione ferroviaria.
Ciò posto, osserva il ricorrente che la Corte di appello è incorsa in errore di diritto traendo da tale quadro normativo la distinzione tra compiti di alta sorveglianza e compiti di bassa sorveglianza; la VPI 01 appendice 17 non opera tale distinzione, le funzioni non sono ripartite per priorità o competenze. D'altro canto, la motivazione della Corte di appello sul punto è meramente assertiva. Peraltro, nella normativa una differenziazione dei compiti (tra il Le.[JO.] e lo Sc.[AN.]) non è individuabile neanche alla luce della minore o maggiore presenza in officina dell'uno o dell'altro; ed anche la lettera di incarico del 27.8.2008 autorizzava i due a svolgere il medesimo incarico.
Anche la direttiva 907.0001, art. 2.6, previgente alla VPI, pure richiamata dalla Corte di appello, ammette come sostituto del supervisore un esaminatore di secondo livello e non prevede un minus di competenze in capo al sostituto (la cui nomina, peraltro, era prevista come obbligatoria).
Ad avviso del ricorrente la Corte di appello ha frainteso il significato delle certificazioni dei due imputati in parola, ritenendole omogenee mentre non lo sono, ancorché entrambe sufficienti a conferire loro la medesima funzione in officina.
L'assunto del ricorrente è che le certificazioni del Livello (II o III) non sono assimilabili alla figura del supervisore. Le prime attengono a un grado nei CND entro un dato settore industriale; il supervisore è un addetto al CND entro lo specifico settore ferroviario. Tanto che Le.[JO.] era sì di livello III ma per divenire supervisore aveva dovuto acquisire la certificazione UT1 nel settore ferroviario. Lo Sc.[AN.] era invece UT di livello II nel settore ferroviario.
Entrambi erano supervisori, per quanto il primo ai sensi dell'allegato D della DIN 27201-7 ed il secondo in base alla VPI 01. Sicché la Corte di appello cade in contraddizione quando attribuisce al ricorrente una posizione di primazia pur riconoscendo che la sua certificazione nel settore ferroviario non era di alto livello.
Dopo aver svolto alcune considerazioni a dimostrazione che la Corte di appello è incorsa in errore di diritto anche nel ritenere che la comprovata esperienza nella manutenzione ferroviaria, di cui al par. 6.1. della DIN 27201-7, richieda una esperienza almeno quinquennale (tali considerazioni sono svolte nella consapevolezza della loro ininfluenza ai fini dell'annullamento della sentenza impugnata, ma per la capacità di evidenziare la scarsa accuratezza della stessa), il ricorrente denuncia alcuni travisamenti della prova, ovvero:
a) della nomina del 27.8.2008, perché la Corte di appello vi ha tratto che la sostituzione tra i due non potesse avere carattere di continuità nonostante il tenore del documento indichi che non era stabilita alcuna differenziazione di competenze, che il Le.[JO.] non era sovraordinato allo Sc.[AN.], che non erano previsti compiti non delegabili, che non era prevista la necessaria presenza del Le.[JO.] in loco, che era prevista come ordinaria la discontinua presenza di questi in officina;
b) dei due verbali dell'audit della DB Systemtechnik (del 12.1.2006 e del 19.3.2007), avendo la Corte di appello desunto dal primo che supervisore e suo sostituto non sono sullo stesso piano e che era stata imposta la nomina scritta di un supervisore munito di certificazione di terzo livello in conformità a quanto previsto sia dalla DIN 27201-7 che dalla normativa precedente al VPI; per contro dall'atto emerge solo che la nomina doveva essere aggiunta al contratto scritto con indicazione dei nomi; d'altronde la DIN venne approvata nel giugno 2006 e quindi non era in vigore nel gennaio 2006; ed emerge che l'autorizzazione fu negata perché mancava la qualifica del sostituto del supervisore, poiché colui che rivestiva il ruolo al tempo, Wi.Th., non aveva certificazione nel settore ferroviario (richiesta dal regolamento DB 907.0001).
Infatti, il secondo audit si concluse con il rilascio dell'autorizzazione perché lo Sc.[AN.] avrebbe acquisito entro l'agosto 2007 la qualifica del sostituto del supervisore ai sensi di tale direttiva.
c) del contratto tra GSI-SLV e Ju***l Waggon GmbH del 17.3.2005, per aver ritenuto che da esso si ricavi che la ragione per la quale le parti convennero di stipularlo fosse la necessità di nominare il Le.[JO.] perché mancante il solo supervisore; per contro, il contratto venne concluso perché mancava anche un soggetto che potesse assumere il ruolo di sostituto. Insomma, non perché mancasse un Livello III ma perché non vi era alcun supervisore dei CND.
In conclusione: poiché il contrasto tra le due decisioni di merito risiede proprio nella interpretazione dei ruoli rispettivi del Le.[JO.] e dello Sc.[AN.], i menzionati errori sono decisivi, risultando la sentenza impugnata caducata di un essenziale presupposto della affermazione di responsabilità del ricorrente.
8.4. Vizio di motivazione viene rilevato laddove la Corte di appello sostiene che il Le.[JO.] fosse non sostituibile dallo Sc.[AN.] e che il suo incarico era puramente formale.
Il ricorrente rimarca che la Corte di appello, trattando della posizione dello Sc.[AN.], ha affermato che questi, con la stipula del contratto del 2008, aveva accettato di sostituire il Le.[JO.] in sua assenza, assolvendo i medesimi compiti a questo attribuiti secondo le disposizioni VPI e che lo Sc.[AN.] sapeva che il ruolo del Le.[JO.] era meramente formale. Osserva che simili affermazioni sono incompatibili con quanto sostenuto dalla Corte di appello a proposito della responsabilità del Le.[JO.]; con la ritenuta impossibilità che Sc.[AN.] sostituisse integralmente Le.[JO.]; con l'affermazione che la nomina di questi era meramente formale.
8.5. Ancora il vizio di motivazione viene dedotto per asserito travisamento della prova. La Corte di appello ha sostenuto che compito precipuo del supervisore è l'alta sorveglianza e la formazione del personale; ma in tal modo ha omesso di considerare il verbale di un corso formativo tenuto dallo Sc.[AN.] ai tecnici Bend., Kr.[UW.] e Krau. il 24.4.2008, avente ad oggetto 'esercizi e compiti relativi all'esame ad ultrasuoni'. Il documento dimostra che i compiti del Le.[JO.] e dello Sc.[AN.] erano i medesimi e che la formazione non era compito peculiare che segnalava una specificità del ruolo di supervisore.
8.6. Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 43 cod. pen. e vizio della motivazione. La sentenza impugnata opina che, se la insufficiente esperienza di Le.[JO.] nel campo ferroviario non gli consentiva di redigere i piani di prova e di approvarli, non di meno egli avrebbe dovuto segnalare la loro assenza in officina. Ad avviso della Corte territoriale, l'operatore di primo livello non avrebbe dovuto eseguire l'esame in assenza delle istruzioni tecniche che nel 2008 la normativa VPI prevedeva come obbligatorie e il Le.[JO.] avrebbe dovuto assicurare che gli esami UT venissero eseguiti utilizzando piani di prova specificamente approvati in relazione al tipo di assile da esaminare. Tuttavia, già il giudice di primo grado aveva messo in dubbio che l'omessa stesura del piano di prova avesse avuto rilevanza causale rispetto al sinistro. Infatti, risultava documentato che l'operatore aveva comunque utilizzato la sonda ad ultrasuoni con un'angolazione a 45°, idonea a rilevare la cricca laddove si era formata. Anche la Corte territoriale ha convenuto su questo punto, escludendo che la mancanza del disegno di prova fosse stata determinante per impedire all'operatore di rilevare il difetto presente nell'assile. A pagina 517, in particolare, si afferma: "non vi è la dimostrazione che la mancanza del piano di prova relativo all'assile del tipo di quello che ha provocato lo svio abbia avuto una decisiva rilevanza causale rispetto alla mancata rilevazione della cricca presente nel collarino". L'errore di diritto della Corte distrettuale è quindi quello di aver ritenuto sussistente la causalità della colpa sulla base di un generico rimprovero connesso alla violazione di un divieto, nonostante la violazione medesima non abbia concretizzato il rischio che la norma cautelare violata mirava a prevenire e non abbia avuto efficienza causale nella produzione dell'evento. La regola cautelare che la Corte di Appello assume violata, ovvero l'evidenziazione di un rumore di fondo della struttura dell'assile e la conseguente impermeabilità agli ultrasuoni, presuppone comunque l'avvio della scansione ultrasonora dell'assile come previsto dalla VPI; e dunque, anche avviata senza piano di prova, avrebbe imposto misure precauzionali sufficienti ad evitare il sinistro.
Anche con riferimento ai disegni tecnici dell'assile, poiché questi hanno la funzione di permettere la valutazione della geometria del componente evitando di confondere i riscontri dovuti a difetti con i riscontri cosiddetti geometrici, non si tratta di violazione - la loro mancanza - avente efficienza causale, perché la stessa pronuncia non afferma che la cricca poteva confondersi con la forma geometrica del componente da controllare. Peraltro, aggiunge il ricorrente, il fatto che in officina non è stato trovato lo specifico disegno dell'assile 98331 non significa che lo stesso non fosse stato eseguito e poi non conservato in officina. Per questo motivo, ovvero per l'assenza di rilevanza causale della specifica violazione ascritta al Le.[JO.], si finisce per rimproverare la scorretta prassi osservata in officina, tuttavia desunta proprio dall'assenza del piano di prova. A questo punto il ricorrente svolge alcune considerazioni relative alla motivazione in punto di peculiarità morfologica dell'assile 98331. L'assunto del ricorrente è che tale assile non corrispondeva se non parzialmente ad una tipologia già classificata e che questo avrebbe reso necessaria la stesura di un piano di prova ad hoc; la stesura di tali istruzioni ma anche la segnalazione che il piano di prova di questo peculiare assile mancasse, presupponeva la presenza del Le.[JO.] in officina o comunque che costui fosse a conoscenza dell'esistenza del componente e quindi che fosse stato messo in grado di assumere qualche iniziativa al riguardo. Nonostante abbia più volte rimarcato che la presenza del Le.[JO.] era quanto mai rarefatta, la Corte di appello opera un salto logico: benché fosse presente un sostituto e l’assile avesse peculiarità morfologiche, essa conclude che il Le.[JO.] avrebbe dovuto segnalare la mancanza di istruzioni inerenti a quello specifico assile.
Tale vizio non è superato dalla motivazione che la Corte di appello rende a riguardo della VPI 09, dalla quale ricava la necessità di istruzioni relative a sei diversi tipi di assile; e questo perché tra tali tipi di assile non vi è quello corrispondente al numero 98331.
Per altro aspetto il ricorrente rinnova la denuncia di travisamento degli audit del 2006 e del 2007, nella parte in cui la sentenza afferma, a fronte di rilievo difensivo secondo il quale negli audit non era stata evidenziata la carenza o l'assenza di piani di prova, che essi non sarebbero stati rilevanti al proposito perché eseguiti in regime normativo antecedente alla prima edizione del manuale VPI e che comunque da essi non si evince che fosse stata effettuata una valutazione dei piani di prova. In realtà, già al tempo del primo audit si era tenuta presente la circolare VPI, come risulta dal documento medesimo nel riquadro "osservazioni sull’aggiornamento, disposizione sul posto di lavoro"; anche nel successivo audit si indicava come non sopraggiunte variazioni rispetto alla verifica già svolta nel 2006. Da ciò il ricorrente ricava che le procedure erano state verificate come presenti in officina e che non era stata segnalata la necessità di piani di prova. Peraltro, nel corso del primo audit risultava eseguito anche l'esame UT su assili di sale; se davvero fossero stati mancanti i piani di prova quel test non avrebbe potuto essere svolto o non sarebbe stato superato. La Corte di Appello ha affermato che la direttiva dalla quale è scaturita la VPI richiedeva la stesura di un piano di prova non solo per assili speciali ma anche per assili non speciali, quale quello che qui interessa, perché ciò corrispondeva al migliore stato dell'arte. Ma se questo fosse stato vero l’audit avrebbe dovuto a maggior ragione rilevare la carenza dei piani di prova; cosa non accaduta, come documentato dal verbale dell'audit. Ed è poi contraddittoria la conclusione alla quale perviene la Corte di Appello, secondo la quale negli audit non risulta effettuata alcuna valutazione dei piani di prova, poiché, se essi erano indispensabili per l'esecuzione dei controlli UT, non si comprende come mai la certificazione venne rilasciata all'officina. Sempre in merito alla non necessità dei piani di prova, il ricorrente rileva che neppure in sede di incidente probatorio fu steso uno di essi per la scansione obliqua dell'assile 98331 e neppure venne tracciato il disegno tecnico di quest'ultimo; tuttavia, ciò non impedì di eseguire i test sul componente. Il ricorrente contesta la fondatezza di quanto asserito dal consulente tecnico del pubblico ministero prof. Ton., secondo il quale il piano di prova non sarebbe stato necessario perché presso il laboratorio Lucchini i test erano stati eseguiti da personale di livello II della manutenzione ferroviaria con la supervisione di un livello III esperto. E ciò perché secondo il manuale VPI la necessità di stendere il piano di prova non è condizionata dal livello dell'operatore a cui il test è affidato. Peraltro, l'ipotesi contrasta con quanto ritenuto dalla Corte di appello, perché se è vero che sarebbe stata sufficiente la presenza alla prova del supervisore per escludere la necessità del piano di prova, se si afferma che il supervisore avrebbe dovuto assistere alla prova non vi è necessità di alcun piano di prova. Da tutto ciò il ricorrente deduce un riscontro logico alla circostanza che, anche se necessaria la stesura del piano di prova in base alle regole tecniche, la sua mancanza non ha avuto alcuna incidenza causale sul sinistro.
Il ricorrente ravvisa poi un difetto di motivazione laddove la Corte di Appello ha ritenuto che il Le.[JO.] dovesse segnalare i deficit strutturali nell'operatività dell'officina senza tener conto della specifica formazione ed esperienza del medesimo, nonostante, secondo la prospettazione del ricorrente, questa fosse necessaria premessa della segnalazione. In questa prospettiva il ricorrente osserva che nell'acquisire il certificato di livello III multisettore, il Le.[JO.] non aveva dovuto redigere un piano di prova; e non aveva dovuto redigerli neppure nell'acquisire una certificazione specifica per la manutenzione ferroviaria. La redazione dei piani di prova era richiesta solo per l’acquisizione del livello III nello specifico settore, secondo la previsione della DIN EN 473. Pertanto, la Corte d'appello ha attribuito all'imputato competenze estranee al suo percorso formativo senza chiedersi se egli fosse in grado di valutare le carenze procedurali che i giudici di appello gli hanno addebitato.
Un simile rilievo era stato formulato nella memoria conclusiva di primo grado per escludere che Le.[JO.] avesse la competenza per redigere o validare piani di prova e il Tribunale aveva aderito all'impostazione difensiva. Nel mutare del rimprovero, la Corte di Appello non ha reso motivazione sul punto.
Sotto altro profilo, il ricorrente rileva che la sentenza ha ascritto al direttore generale Ko.[RA.] la consapevolezza e la responsabilità per la mancanza dei piani di prova avendone diretta scienza. Anche in capo al Ma.[JO.] e al Ma.[RO.] la Corte distrettuale pone il rimprovero della mancanza del piano di prova in officina, postulando una presa di contezza autonoma e prescindendo dalla figura di Le.[JO.]. Ne consegue che la omissione della segnalazione da parte di questi non avrebbe avuto alcuna efficienza causale, poiché tutti i sovraordinati avevano già conoscenza della circostanza. Tale dato è peraltro avvalorato dal fatto che tutte le officine europee della G***x erano prive dei piani di prova ed anzi alcun piano di prova per la verifica dell'assile 98331 era esistente in generale prima dell'incidente.
In conclusione, secondo il ricorrente la condotta imputatagli non ha avuto incidenza causale sul sinistro; la peculiarità dell'assile avrebbe reso necessario il contatto fisico con il manufatto, la stesura di un piano di prova o un disegno ad hoc e quindi la presenza dell'imputato in officina, laddove la presenza di questi era sporadica secondo le previsioni del contratto; il rimprovero fondato sull'introduzione successiva all'incidente della VPI 09 non ha fondamento logico perché l’assile in questione non corrispondeva a nessuna delle tipologie classificate; gli argomenti utilizzati dalla Corte territoriale per confutare il fatto che nel corso degli audit non fosse stata rilevata l'assenza dei piani di prova sono illogici.
Quanto al secondo comportamento ascritto al Le.[JO.], ovvero la mancata rimozione di prassi manutentive illegittime, il ricorrente contesta in primo luogo la motivazione nella parte in cui desume dalle carenze individuate con riferimento alla specifica sala 98331 l'esistenza di una prassi ripetuta e costante.
La motivazione sul punto è apodittica. È poi erroneo sul piano logico-giuridico ricavare dal fatto che nessuno degli imputati abbia riferito di particolari circostanze che avessero inciso sull'esecuzione della revisione dell'assile 98331 che quanto avvenuto nel corso di quella revisione non fosse occasionale. Il ricorrente contesta che dalla mancata confessione del riscontro di anomalie nel pezzo possa farsi derivare l'esistenza di una prassi costante di carente manutenzione. Ulteriore salto motivazionale viene ravvisato laddove dall'esistenza della prassi scorretta si passa alla sua attribuzione al Le.[JO.]. La Corte di Appello ha omesso di considerare che nel corso delle verifiche degli audit erano stati eseguiti degli specifici esami sullo svolgimento dei test UT sugli assili delle sale e che questi avevano avuto esito positivo già nel 2006. Ciò contraddice l'ipotesi di prassi illegittime costantemente seguite in officina; peraltro, stante la pacifica sporadica presenza del Le.[JO.], non si può escludere che quando egli fu presente gli esami furono svolti in modo corretto. La Corte di Appello ha omesso qualsiasi motivazione nonostante il Tribunale avesse fatto un'affermazione in tal senso.
La Corte d'appello è incorsa in errore laddove ha valorizzato il risalire del rapporto di Le.[JO.] con l'officina al 2005, perché non ha considerato che il manuale VPI era entrato in vigore nella sua prima edizione nel luglio 2007 e nella versione oggetto delle violazioni contestate al personale dell'officina nell'agosto 2008. Quindi non vi poteva essere una prassi difforme da tali istruzioni risalente al 2005.
Con riferimento ad un altro degli aspetti rimproverati, ovvero l'inadeguatezza della procedura di sorveglianza sugli esami ultrasonori e magnetoscopici perché eseguiti senza la presenza fisica del supervisore e validati solo ex post, il ricorrente ravvisa un ulteriore vizio logico affermando che la sottoscrizione di report di prova cumulativi per più assili non necessariamente documenta che il supervisore non aveva assistito alla prova; ma soprattutto essa era una procedura prevista dalla stessa VPI. Ancor più significativo è che, nella prospettazione della Corte di appello, il supervisore Le.[JO.] avrebbe dovuto sorvegliare l'operato del supervisore. Si osserva che tale obbligo non è previsto da alcuna delle norme tecniche pertinenti e che tale impostazione non è coerente con il giudizio concernente Sc.[AN.] per il fatto che, come già ricordato, la figura del supervisore è autonoma e non soggetta a ratifica da parte dell'altro supervisore.
Con riferimento all'ulteriore difetto operativo rappresentato dall1 esecuzione dell’esame sugli assili in un tempo insufficiente, pari a 12 minuti, la Corte d'appello è incorsa in vizio logico laddove, dopo aver dato atto che tale circostanza emerge da un documento che ha natura amministrativa e non tecnica perché sostanzialmente destinato a permettere la fatturazione dei lavori, ha comunque ritenuto che il Le.[JO.] ne avesse avuto conoscenza. La Corte di Appello non spiega perché un simile documento - che non coincide con i report previsti dal manuale VPI - dimostri la conoscenza della circostanza da parte dell'imputato. In motivazione si parla di un prestampato per l’esame UT dal quale risulta un tempo standard di lavoro, ma si tratta di una errata classificazione del documento in parola. Pertanto, la Corte di Appello non ha saputo dar conto del modo in cui l’imputato, addetto al CND e non all'amministrazione dell'officina, fosse venuto in \ possesso o comunque a conoscenza di quel documento. Vizio peraltro esaltato ' dalla circostanza che, invece, nella valutazione della posizione del coimputato Ko.[Uw.], responsabile in officina e anche del 'centro costi 140', si assume che l'atto non poteva essergli contestato perché egli non lo aveva sottoscritto. Si osserva che anche il Le.[JO.] non aveva sottoscritto l'atto e che, per di più, non era responsabile del 'centro costi 140'.
8.7. Il vizio di motivazione viene denunciato anche, sub specie di travisamento del contratto stipulato tra Ju***l e GSI-SLV il 17.3.2005, per aver la Corte di appello illogicamente valutato il dato della sporadica frequenza dell'officina da parte del Le.[JO.] e ciò anche in forza della erronea lettura del contratto e delle relative fatture. La Corte territoriale ha dedotto dalla occasionale presenza la titolarità di compiti di alta sorveglianza. Per contro, se essa avesse tenuto conto di quanto specificamente pattuito, avrebbe rilevato che la presenza di un supervisore nella persona del Le.[JO.] oltre ad un sostituto non era dovuta alla distinzione tra alta e bassa sorveglianza ma alla necessità di assicurare effettività alla funzione di supervisore, dato che i compiti assegnati al Le.[JO.] dal contratto erano da svolgere su base documentale e a campione. Compiti che nemmeno la Corte di appello ha ritenuto inevasi o malamente svolti.
8.8. Si lamenta poi la violazione dell'art. 43 cod. pen. ed il vizio della motivazione per travisamento della documentazione concernente i corsi di formazione tenuti dal Le.[JO.] presso la Ju***l.
Ad avviso dell'esponente, se la stessa Corte territoriale ha evidenziato che l'imputato ha fatto formazione agli operatori, constatato che dalla documentazione in atti emerge che tale formazione, somministrata tra gli altri al Kr.[UW.], aveva avuto riguardo proprio agli aspetti della manutenzione che, ben governati, avrebbero consentito di individuare il difetto, la valutazione della posizione dell'imputato avrebbe dovuto prendere atto della assenza di colpa del medesimo, che aveva tenuto condotte volte a impedire l'evento.
8.9. Con il nono motivo si denuncia il vizio della motivazione sub specie di travisamento di atti del processo. L'esponente rammenta che l'ipotesi degli inquirenti era che l'officina, al momento del controllo, avesse utilizzato una macchina ad ultrasuoni di dubbia efficienza e funzionalità, in quanto calibrata mediante strumenti non più validi e dunque non in grado di assicurare un esame efficace dell'assile. Nel corso dell'incidente probatorio lo strumento utilizzato si era invece dimostrato perfettamente efficiente, tarato e idoneo ad eseguire il test ultrasonoro sugli assili. La pronuncia di primo grado aveva escluso la rilevanza penale di quanto contestato, perché l'accertato funzionamento dello strumento eliminava ogni possibile efficienza causale della condotta descritta dall'accusa, pur emergendo una scarsa cura dell'officina nell'archiviazione della documentazione relativa ai CND. La Corte di Appello ha concordato sul punto con il primo giudice ma, ciò nonostante, ha rimarcato l'evidente mancanza della dovuta attenzione da parte del personale della Ju***l e comunque un difetto organizzativo di non poco conto, che ha fatto sì che il duplicato del certificato di taratura fosse archiviato senza il benché minimo controllo, nonostante l'importanza del documento. Si fa riferimento alla erronea collazione del documento medesimo da parte della società General Electric, all'origine di un fraintendimento che aveva portato l'accusa ad imputare l'omessa taratura. Rispetto a tali premesse, l'esponente rileva che per quanto la sentenza di secondo grado non abbia ascritto specificamente all'imputato l'omesso controllo del documento incriminato, questi ha comunque interesse ad impugnare la relativa statuizione. Infatti, la Corte di Appello, attribuendo alla circostanza una valenza sintomatica della mancanza di diligenza e della scarsa cura organizzativa all'interno della Ju***l, ha enfatizzato proprio quei profili di inefficienza che, sia pure in relazione ad altre circostanze, ha ritenuto dovessero essere sanati dal Le.[JO.] nello svolgimento delle sue funzioni di alta sorveglianza. Ciò posto, l'esponente ravvisa nella motivazione resa sul punto dalla Corte di appello un travisamento delle prove orali e documentali e segnatamente della deposizione dell’ing. Can. e del certificato di calibratura, oltre ad una palese illogicità. Infatti, l’ing. Can. aveva chiarito che, agli occhi di un tecnico della manutenzione, nei certificati di taratura della macchina ultrasonora ha rilevanza solo il frontespizio che attesta la calibratura e non gli ulteriori allegati. Onde per cui, la discrasia documentale della quale si parla non solo non ha avuto alcuna efficienza causale, ma neppure è di per sé rimproverabile. Peraltro, la deposizione del Can. ha trovato riscontro nello stesso documento di cui trattasi che reca, appunto nel frontespizio, la certificazione dello strumento e ogni altra indicazione necessaria ed utile. Ne consegue l'irrilevanza della seconda pagina; non è quindi corretta la valutazione fatta dalla Corte di appello della importanza del documento in questione; importanza che per un tecnico era tutta racchiusa nella prima pagina dello stesso. Ma la motivazione della Corte territoriale è anche illogica perché l'officina disponeva del documento nella sua forma corretta prima dell'incendio che l'aveva distrutto nel 2009 (circostanza che è all'origine della richiesta di nuovo invio del documento alla General Electric). Ciò determina, ad avviso dell'esponente, che per gli operatori dell'officina era logico che la General Electric avesse inviato lo stesso identico documento già presente in officina e che quindi esso fosse stato archiviato senza ricontrollarlo riga per riga. Né la Corte di appello ha spiegato come il Le.[JO.], che non era quasi mai presente in officina, avrebbe potuto ragionevolmente avvedersi o nutrire sospetti circa la correttezza del documento.
8.10. Con il decimo motivo si lamenta la violazione dell'articolo 129, comma 2 cod. proc, pen., perché le ragioni indicate nei motivi precedenti assumono tale evidenza che il giudice d'appello avrebbe dovuto pronunciare sentenza assolutoria nel merito anziché dichiarare estinti per prescrizione i reati di cui agli articoli 590 cod. pen. e 423, 449 cod. pen.
8.11. Si lamenta, ancora, la violazione dell'articolo 603, comma 3-bis cod. proc. pen. ed il vizio della motivazione, in relazione al fatto che la Corte territoriale ha ribaltato il giudizio assolutorio pronunciato dal Tribunale nei confronti del Le.[JO.] sulla scorta di una diversa valutazione delle dichiarazioni dibattimentali del consulente tecnico dell'accusa, prof. Ton., senza tuttavia procedere alla doverosa rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. Secondo l'esponente, nonostante la Corte di Appello si sia premurata di affermare che la sua valutazione trae origine da una diversa interpretazione dei dati normativi e documentali, sicché non si profila una rilevanza della prova dichiarativa del Ton. ai fini del giudizio di condanna e non è necessaria la rinnovazione dibattimentale, questo non risponde al vero perché in realtà la Corte di Appello ha specificamente fatto riferimento alle dichiarazioni dibattimentali dell'esperto, in modo particolare a pagina 599 della sentenza, e ne ha fatto un utilizzo che rende decisivo tale apporto dichiarativo. Infatti, il ragionamento sviluppato dal secondo giudice circa l'esistenza di distinti compiti di alta sorveglianza in capo al supervisore esterno nasce proprio da una rivisitazione dei verbali delle dichiarazioni rese in primo grado dal consulente tecnico del pubblico ministero. Per l'esponente, i giudici di appello hanno assegnato alle conclusioni del consulente tecnico un risultato probatorio diverso da quello ritenuto dal Tribunale. Tutto ciò contrasta con le acquisizioni della giurisprudenza di legittimità (si menziona, al proposito, la decisione delle Sezioni unite n. 14426/2019).
I giudici di secondo grado hanno sostenuto la marginalità dei richiami operati alle valutazioni del prof. Ton.; ma la giustificazione di aver svolto una propria autonoma ricostruzione normativa, più corretta di quella del primo giudice, non è soltanto illogica, nella parte in cui esclude appunto la decisività dell'apporto conoscitivo dell'esperto, ma è anche contraddetta dai richiami testuali alle dichiarazioni operati a pagina 599 della sentenza e peraltro anche dalla manifesta mancanza di puntuali riferimenti normativi e documentali che supportino la nuova tesi accusatoria dei doveri di alta sorveglianza, in sostanza coniata dal secondo giudice.
Sotto diverso ma connesso profilo, viene osservato che il pubblico ministero appellante aveva posto a fondamento della propria richiesta di riforma della sentenza assolutoria anche la consulenza tecnica del prof. Ton. ed il suo esame, per sostenere che i piani devono esistere in officina e che il Le.[JO.] doveva provvedere affinché venissero resi disponibili all’operatore. Dunque, c'è un'evidente connessione tra l'impugnazione del pubblico ministero e la rivalutazione della prova dichiarativa del prof. Ton. in sede di appello; non vi sono dubbi, quindi, che questa sia stata decisiva per il Tribunale prima e per la Corte d'appello poi.
Si osserva infine che il Le.[JO.], a causa dell'omessa traduzione dell'atto di appello del pubblico ministero, non era stato messo nella condizione di apprezzare le criticità delle argomentazioni tecniche sviluppate laddove, in sede di nuova escussione del prof. Ton., avrebbe potuto rappresentare ai giudici quanto necessario a porre il dubbio ragionevole sulla propria colpevolezza.
Inoltre, anche ad ipotizzare che il Tribunale aveva completamente trascurato le conclusioni del Ton. circa la necessaria sorveglianza in merito all'applicazione di piani di prova presso l'officina, la nuova audizione dell'esperto sarebbe stata comunque obbligatoria stante il principio giurisprudenziale secondo il quale la doverosità della rinnovazione istruttoria si pone anche quando sia stato dato rilievo ad una prova dichiarativa trascurata dal primo giudice.
Anche ove si ritenga che la riforma della sentenza sia avvenuta sulla base di una rivalutazione meramente cartolare delle dichiarazioni dell'esperto, la sentenza dovrebbe essere annullata perché ulteriore principio giurisprudenziale è che in caso di ribaltamento del giudizio assolutorio in assenza di elementi probatori sopravvenuti, la sentenza di riforma deve presentare una motivazione rafforzata, che nel caso di specie l'esponente non ravvisa; anzi questi rimarca l'esistenza di un ragionamento probatorio meramente alternativo, viziato da profili di illogicità e contraddittorietà, e come tale inidoneo a scardinare l'impianto argomentativo dimostrativo della prima sentenza.
8.12. Si lamenta poi la violazione dell'articolo 62-bis cod. pen. ed il vizio di motivazione in relazione all'omesso riconoscimento delle attenuanti generiche. Si svolgono alcune considerazioni a riguardo della giustificazione resa dalla Corte di appello per il riconoscimento delle attenuanti generiche agli altri imputati dipendenti dalle società italiane per affermare come, del tutto irragionevolmente, non sia stata presa in considerazione la circostanza che il Le.[JO.] aveva svolto la sua attività presso la Ju***l per una somma di denaro irrisoria e che pertanto la situazione nella quale l'imputato in questione si era trovato ad operare era del tutto singolare. Ed è proprio questa singolarità che la Corte d'appello avrebbe dovuto considerare per meglio commisurare la pena, senza aprioristiche ed astratte differenziazioni. Avrebbe poi anche dovuto considerare che l'imputato si era presentato all'incidente probatorio fornendo per quanto possibile il suo contributo.
8.13. Con l'ultimo motivo si denuncia la erronea applicazione dell'articolo 133 cod. pen. ed il vizio di motivazione, osservando che è stata inflitta al Le.[JO.] una pena più elevata rispetto a quella inflitta agli altri operatori della Ju***l ed inferiore a quella inflitta ai vertici delle società tedesche. In questo modo tuttavia si è venuta nuovamente a contraddire la realtà effettuale accertata dal processo, che non vedeva nel Le.[JO.] un soggetto sovraordinato allo Sc.[AN.]; la motivazione è peraltro anche contraddittoria perché la stessa Corte di Appello, da un canto, aveva riconosciuto che il Le.[JO.] non aveva certificazione per il settore ferroviario di livello elevato e, dall'altro, ha giustificato la maggiore pena base richiamando una sua maggiore competenza professionale. È anche illogico che il Le.[JO.] sia stato inserito, ai fini sanzionatori, nell'organizzazione aziendale come se fosse stato in pianta organica tra la dirigenza e gli operatori. In ogni caso, anche a voler ammettere la fondatezza della motivazione sul punto, resta il fatto che essa è contraddittoria con il resto della sentenza, laddove si era ascritto al Le.[JO.] il cattivo funzionamento del reparto dei controlli non distruttivi e la disapplicazione del manuale VPI. Pertanto, la sentenza deve essere annullata anche sotto questo riguardo.

9. Motivi nuovi per LE.JO.
Il 12.11.2020 sono stati depositati 'Motivi nuovi ex art. 585 comma 4 e 611 c.p.p.' nell'interesse del Le.[JO.].
Con essi si ribadiscono le argomentazioni relative alla denunciata violazione del principio di correlazione, ulteriormente sviluppando l'assunto secondo il quale la Corte di appello non si sarebbe limitata a delle specificazioni nel perimetro di quanto già contestato all'imputato ma avrebbe aggiunto condotte del tutto estranee a quello, in quanto temporalmente precedenti e contenutisticamente differenti. Tali nuove condotte non sono mai state contestate all'imputato nel corso dell'istruttoria dibattimentale.
Per altro ma contiguo profilo si osserva che la nuova posizione di garanzia creata in capo al Le.[JO.], comportante compiti di alta vigilanza, non trova conferma nella normativa tecnica tedesca richiamata nella sentenza, né in altro testo normativo, mentre la previsione di un sostituto supervisore è obbligatoria e non prelude ad una differenziazione di compiti ma tende ad assicurare la continuità del servizio di supervisione. Si ribadisce che il Le.[JO.] non era in posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto allo Sc.[AN.]. La tesi secondo la quale il Le.[JO.], non abilitato a redigere i piani di prova, avrebbe dovuto trovare un redattore abilitato, contrasta con il quadro normativo.
La documentazione che comprova che lo Sc.[AN.] aveva svolto attività di formazione contrasta con la tesi della Corte di appello secondo la quale la formazione rientrava nei compiti di alta vigilanza riservati al Le.[JO.]. Compiti che gli sono stati impropriamente attribuiti, assimilandolo ad un datore di lavoro, laddove egli certamente non lo era.

10. Ricorso nell'interesse di LI.PE.
L'imputato ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza a mezzo dei difensori di fiducia avv. F.M. e avv. L.M., articolando sette motivi.
10.1. Nullità dell'ordinanza del 19 dicembre 2018 della Corte di appello di Firenze, in relazione all'ordinanza dell'8 gennaio 2014 del Tribunale di Lucca, in merito alla formazione del Collegio di primo grado e all'attribuzione ad esso del procedimento, per violazione di legge, con riferimento agli articoli 25, comma 1 e 111, comma 2 Costituzione, nonché inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento all'articolo 178, comma 1 lett. a) e all'articolo 179 cod. proc. pen. ed altresì per vizio della motivazione.
Il ricorrente rileva che allorquando il giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Lucca dispose il rinvio a giudizio dinanzi al Tribunale di Lucca in composizione collegiale, fece specifica indicazione dei componenti del Collegio. Tale indicazione nominativa rappresenta un'anomalia e per altro il Collegio in questione era di nuova composizione e destinato ad essere formato da magistrati che in quel momento svolgevano la funzione di giudici monocratici presso la sezione distaccata di Viareggio, soppressa con il decreto legislativo 155 del 2012, con efficacia solo dal 13 settembre 2013. Tali magistrati, quindi, al tempo del rinvio a giudizio non erano ancora assegnati al Tribunale di Lucca, sede centrale. Per il ricorrente ne consegue che necessariamente non fu l'applicazione di criteri tabellari prefissati a determinare l'assegnazione del procedimento al Collegio III del Tribunale, ma, come ammette la stessa Corte di Appello, essa dipese da valutazioni di opportunità in relazione a possibili situazioni di incompatibilità future o di redistribuzione dei carichi di lavoro. Si è quindi verificata una vera e propria elusione delle regole tabellari o quantomeno queste non sono state meccanicamente applicate, nonostante rappresentino il concreto strumento attraverso cui il rispetto del principio naturale di precostituzione del giudice viene garantito nel nostro sistema giudiziario. Oltre alle norme costituzionali citate risultano violate le norme internazionali in tema di terzietà e imparzialità del giudice e segnatamente l'art. 6, par. 1 della C.e.d.u.
10.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla affermata applicabilità all'attività svolta in Germania di disposizioni italiane e istanza di remissione di questione pregiudiziale alla Corte di giustizia UÈ ai sensi dell'art. 267 TFUE.
Le direttive UE generano obblighi soltanto in capo agli Stati membri ed ai loro organi e non possono essere autonoma fonte di obblighi per soggetti privati (cittadini e/o imprese). Nel ritenere la direttiva 2004/49/CE fonte di obblighi la cui violazione può essere causa di responsabilità penale per l'odierno ricorrente l'impugnata sentenza viola quindi l'articolo 288, comma 3 TFUE. Inoltre, tenuto conto dei margini di apprezzamento che sono riconosciuti agli Stati membri nell'attuazione delle direttive, è da ritenere che i soggetti di ciascuno Stato membro siano tenuti a rispettare nella propria attività professionale (solo) la legislazione di trasposizione della direttiva del proprio Stato. Pertanto, la direttiva 2004/49/CE non autorizza l'Italia - quale Stato membro di destinazione dei beni e servizi - ad imporre requisiti di sicurezza ulteriori o diversi rispetto a quelli dello Stato membro in cui tali beni e servizi sono prodotti e/o prestati. Inoltre, la decisione 2006/861/CE4 permette esplicitamente la libera circolazione ai sensi della normativa comunitaria dei carri quali quelli per cui è processo e delle loro parti di ricambio. La sentenza impugnata, nel ritenere che l'attività del Li.[PE.] dovesse svolgersi secondo lo standard di diligenza derivante dal diritto italiano, si è posta in contrasto con le direttive UE relative alla libera circolazione delle merci e dei servizi in ambito ferroviario, nonché alle disposizioni del TFUE in materia di libera circolazione delle merci, libera prestazione dei servizi e libertà di stabilimento.
Dal contesto e dai considerando delle direttive pertinenti emerge che esse sono volte a eliminare gli ostacoli alla libera circolazione dei beni e dei servizi derivanti da norme nazionali, indirizzate a tutelare esigenze legittime, quali la protezione dell'incolumità delle persone. Ove le norme nazionali non perseguissero tali interessi legittimi nel rispetto del principio di proporzionalità, esse sarebbero ipso facto inapplicabili per violazione delle norme in materia di libera circolazione del TFUE. È quindi proprio con riferimento agli ostacoli astrattamente legittimi alla libera circolazione dovuti a norme volte al perseguimento di altri interessi definiti dalla giurisprudenza "esigenze imperative", quali l'incolumità delle persone, che interviene la normativa di armonizzazione precludendo agli Stati membri di imporre esigenze e normative nazionali alla condotta di operatori situati in altri Stati membri: ciò che vale anche qualora i beni ed i servizi da loro prodotti siano destinati ad altro Stato membro. Il richiamo all'articolo 4, co. 1 Regolamento (CE) 864/2007 da parte della Corte d'appello è inconferente.
Si riviene poi un vizio motivazionale laddove la Corte di appello valuta la questione della compatibilità della pretesa normativa affermata dal giudice italiano con il diritto dell'unione Europea in riferimento alla posizione delle società, senza proporre alcuna valutazione in merito alla specifica posizione del ricorrente.
Si formulano poi i quesiti per i quali si sollecita la sottoposizione alla CGUE mediante il mezzo del rinvio pregiudiziale (che si sostiene essere obbligatorio per il giudice di ultima istanza):
"1) La direttiva 2004/49/CE permette ad uno Stato membro (in prosieguo 'Stato Membro di Destinazione') sul territorio nel quale circolino carri ferroviari omologati, immatricolati, detenuti e/o manutenuti in altro Stato membro (in prosieguo 'Stato Membro di Origine'), di applicare proprie norme nazionali volte a garantire la sicurezza ferroviaria e/o l'incolumità delle persone, inclusi i lavoratori, diverse ed ulteriori rispetto a quelle dello Stato Membro d'Origine (quali ad esempio il d.lgs. 162/2007, e/o il d.lgs. 81/2008 e/o il d.lgs.231/2001 e/o gli articoli 2043, 2050 e 2087 del codice civile italiano) nei confronti di soggetti che svolgono la propria attività di locazione, ovvero di manutenzione di carri ferroviari e/o loro parti di ricambio nello Stato Membro d'Origine?
2) In particolare, è compatibile con H diritto dell'unione Europea e segnatamente con le direttive 2004/49/CE e 2001/16/CE che lo Stato Membro di Destinazione richieda che le attività di detenzione, locazione e manutenzione siano svolte nel rispetto di standard tecnici e/o di diligenza diversi da quelli applicabili secondo la normativa dello Stato Membro d'Origine e la costante e consolidata giurisprudenza dello Stato Membro di Origine in cui si svolge l'attività di detenzione, locazione e/o manutenzione del veicolo e lo delle parti di ricambio?
3) In caso di risposta positiva alla prima o alla seconda questione, può lo Stato Membro di Destinazione richiedere che le attività di manutenzione siano svolte nei rispetto di proprie disposizioni nazionali ovvero norme tecniche o di diritto diverse da quelle applicabili secondo la normativa dello Stato Membro d'Origine e la costante e consolidata giurisprudenza dello Stato Membro di Origine in cui si svolge l'attività di manutenzione del veicolo e/o delle parti di ricambio quando ai momento nel quale tale attività di manutenzione veniva svolta non era noto quale sarebbe stato lo Stato Membro di Destinazione nel quale il veicolo o la parte di ricambio sarebbero stati successivamente utilizzati?
4) L 'eventuale applicazione del regolamento (CE) 864/2007 alle azioni relative al risarcimento dei danni occorsi nello Stato Membro di Destinazione il 29 giugno 2009 ed in periodo successivo può implicare una deroga alle norme del TFUE in materia di Ubera circolazione di beni e servizi e delle direttive 2004/49/CE e 2001/16/CE?
In caso di risposta affermativa, tale deroga riguarda solo le azioni risarcitone ovvero anche la liceità della condotta del danneggiente in ambito penale e/o amministrativo ?"
10.3. Vengono poi denunciati il vizio della motivazione e la violazione degli artt. 40 cpv. e 43 cod. pen. in relazione alla posizione di garanzia del Li.[PE.].
Gli esponenti rammentano che per la Corte di appello la rottura dell'assile si è determinata a causa della propagazione della cricca, già presente al momento dell'effettuazione dei controlli presso l'officina Ju***l; ove l'esame ultrasonoro fosse stato condotto nel rispetto del manuale VPI, con elevata credibilità razionale può affermarsi che sarebbe stata rilevata la cricca; si rimprovera anche l'omessa valutazione delle condizioni nelle quali si trovava l’assile al momento dei controlli, essendo questo diffusamente corroso, con lo strato della verniciatura del collarino che presentava rigonfiamenti e sbollature, ricollegabili a sottostanti alveoli di corrosione. Ciò avrebbe dovuto determinare l'interruzione della prova ultrasonora per procedere a un superiore livello di manutenzione comportante lo smontaggio completo dell'assile, la rimozione totale del rivestimento e l'esecuzione di esami magnetoscopici o, in alternativa, lo scarto dell'assile.
Queste condotte sono state ritenute causalmente rilevanti, a differenza di quelle correlate all'assenza dei piani di prova e di un provvedimento autorizzativo che legittimasse l'officina al controllo magnetoscopico. Causalmente rilevante è stato ritenuto anche il comportamento del supervisore.
Da queste premesse gli esponenti procedono per rimarcare che le condotte colpose causalmente rilevanti sono ascritte a soggetti collocati all'interno del ben definito ambito costituito dal settore dei controlli non distruttivi; taluni quali operatori addetti all'esecuzione degli stessi ed altri invece quale addetti alle verifiche in ordine all'esatta esecuzione dei controlli medesimi.
Pertanto, le condotte impeditive avrebbero dovuto necessariamente essere consistenti in comportamenti idonei a sopperire alle omissioni di quei soggetti. Ciò significa che le condotte alternative lecite esigibili dal ricorrente avrebbero dovuto avere il contenuto di condotte idonee in concreto ad impedire l'errato controllo UT da parte del Kr.[UW.] o a sostituire l'omesso controllo da parte dell'imputato Sc.[AN.], o a sostituire l'omessa rilevazione e controlli dell’imputato Br.[HE.] o, infine, a prevenire gli omessi controlli e la colpevole tolleranza, l'omessa segnalazione delle prassi operative non corrette da parte dell'imputato Le.[JO.].
Proprio a tal riguardo gli esponenti ravvisano la contraddittorietà logica della sentenza, derivante da violazione di legge. Essi affermano che gli addebiti di colpa ascritti al ricorrente si sostanziano negli aspetti attinenti alla strutturale inadeguatezza delle procedure di manutenzione degli assili ferroviari presso l'officina e nella omessa emanazione di istruzioni tecniche necessarie a regolamentare in via generale le attività di manutenzione svolte dalle società del gruppo operante in Europa. Ma l'evocazione di generiche carenze strutturali rimanda ad una costruzione della causalità ipotetica contrastante con quella prescritta dal capoverso dell'articolo 40 cod. pen., il quale non prevede un generico obbligo di impedimento ma la tenuta di una condotta che sia estrinsecazione di un obbligo giuridico espressamente finalizzato ad impedire eventi del genere di quello in concreto accaduto.
Al ricorrente viene rimproverato di aver consentito ed avallato le omissioni di cui ai capi 64, 61, 58 relativi al Ko.[Uw.], al Bart. e al Carl., a lui facenti capo, senza considerare che si tratta di soggetti che sono stati assolti. I rimproveri ascritti al ricorrente sono logicamente incompatibili con altre affermazioni fatte dalla Corte di appello. In particolare, la mancanza di autorizzazione dell'officina è stata dichiarata causalmente irrilevante dalla sentenza stessa; l'addebito secondo il quale il sistema di ripartizione territoriale dei controlli sull'attività manutentiva non poteva sopperire all'assenza di istruzioni tecniche adeguate emanate dai vertici societari e neppure alla generalizzata assenza di piani di prova per l'esecuzione dei controlli non distruttivi e alla assenza di un sistema di documentazione delle attività manutentive è affermazione che stride con la ritenuta irrilevanza causale delle menzionate lacune.
Circa le istruzioni che avrebbero dovuto essere emanate [a) gli assili che presentavano alveoli di corrosione sottoposti a trattamento ai sensi dell'art. 23 del Manuale VPI dovevano in seguito controllati con maggiore frequenza; b) la classificazione dell'assile anche nella categoria 4 o in quella 3; c) estensione all'intero assile dell'esame MT; attivazione di un sistema di registrazione delle attività di manutenzione e della documentazione], gli esponenti asseriscono che esse sarebbero risultate prive di capacità impeditiva e che il dare rilievo alla loro assenza contrasta con l'affermazione della Corte di appello secondo la quale se il Br.[HE.] avesse correttamente applicato le norme vigenti la non eseguibilità dell'esame magnetoscopico avrebbe determinato l'impossibilità di procedere oltre nella revisione.
Pertanto la Corte di appello non ha realmente risposto alla domanda in merito all'efficacia impeditiva delle condotte omesse dal Li.[PE.].
10.4. Violazione degli artt. 40, 43 cod. pen. e vizio della motivazione, ancora in relazione alla accertata posizione di garanzia del Li.[PE.].
Gli esponenti rammentano che la sentenza impugnata sostiene che la responsabilità del Li.[PE.] deriva dall'esser stato responsabile del Team di gestione della manutenzione della flotta di carri di G***x Rail Germania GmbH e diretto responsabile, con il Ko.[RA.], dell'elaborazione delle regole interne della manutenzione delle sale dei carrelli (TFA). Orbene, la stessa sentenza esclude la rilevanza causale della omessa elaborazione delle TFA.
Quanto alla riconoscibilità della situazione di pericolo, gli esponenti rilevano che asserire che un soggetto è dotato di un adeguato bagaglio di conoscenze e competenze tecniche non è sufficiente a ritenere accertata la riconoscibilità della situazione di pericolo dalla quale sorge l'obbligo di attivarsi. Nel caso di specie il Li.[PE.] è collocato in una linea gerarchica ed organizzativa esterna all'officina, è privo di poteri diretti di intervento, non fu destinatario di segnalazioni di prassi operative scorrette osservate nell'officina.
10.5. Con il quinto motivo si deduce la violazione degli articoli 23, 69, comma 1, 70, comma 1 del decreto legislativo n. 81 del 2008 e dell'art. 2087 c.c. ed il vizio di motivazione. Gli esponenti osservano che la Corte di Appello ha ritenuto configurabile la circostanza aggravante della violazione di norme cautelari in materia di salute e sicurezza sul lavoro sulla scorta della qualificazione dell'assile come attrezzatura di lavoro; ma tale qualificazione è errata. L’assile, infatti, è un singolo componente meccanico di un impianto la cui rilevanza ai sensi dell'art. 69 del decreto legislativo 81/2008 è esito di una modifica legislativa risalente al 2009, successiva alla commissione del fatto e come tale inapplicabile al medesimo. Per superare questo dato la Corte di Appello ha qualificato il carro cisterna noleggiato e l’assile rispettivamente come macchina e come componente di essa. Ma se il carro cisterna e il suo componente sono macchine allora è il DPR n. 459/1996 e, in particolare l'articolo 1, comma 5, ad escluderne la qualificazione come attrezzatura di lavoro. Il carro cisterna è una macchina che in quanto mezzo di trasporto ferroviario è espressamente escluso dal campo di applicazione della relativa direttiva comunitaria di prodotto, secondo quanto previsto all'articolo 70, comma 1 del d.lgs. n. 81/2008, in combinato con l'articolo 69 comma 1 lettera a) del medesimo decreto.
10.6. Con il sesto motivo si lamenta la violazione dell'art. 133 cod. pen. ed il vizio motivazionale. Si assume che la Corte d'appello ha ignorato il canone della individualizzazione della pena ed ha omesso di motivare in ordine alla doglianza avanzata con l'atto di appello, per la quale la commisurazione della pena era stata effettuata secondo parametri generalizzanti per gruppi di imputati. La Corte di appello ha sostenuto di aver operato un giudizio comparativo con la pena inflitta agli altri imputati, ma in realtà non ha spiegato le ragioni alla base della determinazione della pena inflitta al Li.[PE.].
10.7. Con il settimo motivo si denuncia la violazione degli artt. 133 e 62-bis cod. pen., assumendo che le attenuanti generiche sono state negate senza motivare in merito all'incidenza dei risarcimenti erogati alle persone fisiche, talvolta ritenuti satisfattivi dalle persone danneggiate.

11. Ricorso nell'interesse di KO.RA.
L'imputato ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza a mezzo dei difensori di fiducia avv. F.M. e avv. L.M., articolando sette motivi.
11.1. Nullità dell'ordinanza del 19 dicembre 2018 della Corte di appello di Firenze, in relazione all'ordinanza dell'S gennaio 2014 del Tribunale di Lucca, in merito alla formazione del Collegio di primo grado e all'attribuzione ad esso del procedimento, per violazione di legge, con riferimento agli articoli 25, comma 1 e 111, comma 2 Costituzione, nonché inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento all'articolo 178, comma 1 lett. a) e all'articolo 179 cod. proc. pen. ed altresì per vizio della motivazione. L'esplicazione delle ragioni a sostegno della censura sono tal quali quelle esposte in questa sede, riproducendo l'analoga doglianza proposta dal Li.[PE.].
11.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla affermata applicabilità all'attività svolta in Austria di disposizioni italiane e istanza di remissione di questione pregiudiziale alla Corte di giustizia UE ai sensi dell'art. 267 TFUE. Anche questo motivo è sostenuto dalle argomentazioni che si sono riportate nell'illustrare il ricorso del Li.[PE.].
11.3. Vizio della motivazione e violazione degli artt. 40 cpv. e 43 cod. pen. in relazione alla posizione di garanzia del Ko.[RA.]. Il motivo propone le medesime argomentazioni utilizzate per rappresentare le ragioni a base del terzo motivo del ricorso proposto per il Li.[PE.].
Si conclude l'esplicazione sostenendo che la Corte di appello non ha realmente risposto alla domanda in merito all'efficacia impeditiva delle condotte omesse dal Ko.[RA.].
11.4. Violazione degli artt. 40, 43 cod. pen. e vizio della motivazione, ancora in relazione alla accertata posizione di garanzia del Ko.[RA.].
L'esponente rammenta che nella sentenza impugnata, in relazione alla posizione di amministratore di G***x Rail Germania GmbH e di direttore generale della Ju***l Waggon GmbH, al Ko.[RA.] viene attribuito un ruolo apicale in un complesso organizzativo cui accedono compiti di intervento e vigilanza anche nel settore della manutenzione e di responsabile dell'elaborazione delle regole interne della manutenzione delle sale dei carrelli (TFA).
In sostanza, osserva l'esponente, l'addebito si esaurisce nel non aver riconosciuto la concreta situazione di pericolo stante la competenza tecnica dello stesso.
Tuttavia la stessa sentenza ha accertato che né il Le.[JO.] né il direttore di stabilimento Carl. segnalarono alcunché al Ko.[RA.] e la presenza dello Sc.[AN.] e del Le.[JO.] preclude la riferibilità soggettiva al ricorrente di un rimprovero modulato nella forma dell'omessa vigilanza o della omessa predisposizione di un sistema che assicurasse una vigilanza diretta sugli operatori.
Anzi, proprio al Le.[JO.] si è rimproverato di non aver evidenziato alla direzione generale le gravi carenze strutturali ed organizzative, escludendo implicitamente la riconoscibilità della situazione di pericolo da parte del Ko.[RA.].
11.5. Con il quinto motivo si deduce la violazione degli articoli 23, 69, comma 1, 70, comma 1 del decreto legislativo n. 81 del 2008 e dell'art. 2087 c.c. ed il vizio di motivazione. Le ragioni a sostegno della censura sono le medesime che sorreggono l'omologo motivo del ricorso del Li.[PE.].
11.6. Con il sesto motivo si lamenta la violazione dell'art. 133 cod. pen. ed il vizio motivazionale. Si assume che la Corte d'appello ha ignorato il canone della individualizzazione della pena ed ha omesso di motivare in ordine alla doglianza avanzata con l'atto di appello, per la quale la commisurazione della pena era stata effettuata secondo parametri generalizzanti per gruppi di imputati. La Corte di appello ha sostenuto di aver operato un giudizio comparativo con la pena inflitta agli altri imputati, ma in realtà non ha spiegato le ragioni alla base della determinazione della pena inflitta al Ko.[RA.].
11.7. Con il settimo motivo si denuncia la violazione degli artt. 133 e 62-bis cod. pen., assumendo che le attenuanti generiche sono state negate senza motivare in merito all'incidenza dei risarcimenti erogati alle persone fisiche, talvolta ritenuti satisfattivi dalle persone danneggiate.

12. Ricorso nell'interesse di MA.RO.
L'imputato ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza a mezzo dei difensori di fiducia avv. Francesco Mucciarelli e avv. Luisa Mazzola, articolando sette motivi.
12.1. Nullità dell'ordinanza del 19 dicembre 2018 della Corte di appello di Firenze, in relazione all'ordinanza dell'8 gennaio 2014 del Tribunale di Lucca, in merito alla formazione del Collegio di primo grado e all'attribuzione ad esso del procedimento, per violazione di legge, con riferimento agli articoli 25, comma 1 e 111, comma 2 Costituzione, nonché inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento all'articolo 178, comma 1 lett. a) e all'articolo 179 cod. proc. pen. ed altresì per vizio della motivazione. L'esplicazione delle ragioni a sostegno della censura sono tal quali quelle esposte in questa sede riproducendo l'analoga doglianza proposta dal Li.[PE.].
12.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla affermata applicabilità all'attività svolta in Austria di disposizioni italiane e istanza di remissione di questione pregiudiziale alla Corte di giustizia UE ai sensi dell'art. 267 TFUE. Anche al riguardo le argomentazioni sono coincidenti con quelle già esposte nel riproporre i motivi del ricorso del Li.[PE.].
12.3. Vizio della motivazione e violazione degli artt. 27 Cost., 40 cod. pen. e 2639 c.c., in relazione alla posizione di garanzia del Ma.[RO.].
Premesso che la Corte di Appello ha affermato la responsabilità del ricorrente, nella sua qualità di direttore tecnico di G***x Rail Austria e di responsabile per l’assistenza della manutenzione periodica di tutti i carri G***x, per essere venuto meno al dovere di vigilare sulla qualità della manutenzione delle cisterne di proprietà della società, essendo specificamente competente per i controlli cisterne; e per essere venuto meno al dovere di controllo sul livello manutentivo della cisterna di proprietà di G***x Rail Austria e sul livello manutentivo della sala n. 98331, gli esponenti rilevano che la Corte di appello con tali affermazioni ha contraddetto gli elementi di prova rappresentati dalle dichiarazioni del professor Ton. e quanto affermato dal Tribunale di Lucca e in definitiva dalla stessa Corte territoriale; ovvero la netta differenza tra assili e cisterne, e la diversità dei cicli di manutenzione previsti per gli uni e per le altre. Si evoca al riguardo parte della deposizione del Ton. all'udienza del 12 novembre 2014, quanto scritto dal Tribunale a pagine 225 e seguenti della sentenza, e quanto affermato dalla stessa Corte di appello a pagina 451, allorquando ha giustificato la assoluzione del coimputato Ko.[Uw.]. È pertanto illogica l'affermazione della Corte di appello secondo la quale gravava sul Ma.[RO.] la responsabilità per aver scelto di utilizzare per il noleggio un componente di un proprio carro revisionato da un'officina che non poteva garantire la qualità della manutenzione stessa, omettendo anche ulteriori verifiche quanto meno di natura documentale; tanto più che la stessa Corte territoriale riconosce che il Ma.[RO.] non poteva modificare un sistema di gestione dell'attività manutentiva che era unitario per tutte le società del gruppo G***x a livello europeo e che appariva efficiente dal punto di vista meramente organizzativo.
Aggiungono gli esponenti che nell'attribuire la descritta posizione di garanzia al ricorrente non si considera che l'attività di manutenzione era eseguita da un'officina posta in un territorio non di sua competenza. Egli, infatti, non aveva alcun ruolo nell'officina Ju***l, composta esclusivamente da operatori certificati appartenenti al gruppo e rispetto alla quale egli non aveva una posizione gerarchicamente sovraordinata. Gli esponenti ravvisano poi una manifesta illogicità tra l'affermazione di responsabilità del Ma.[RO.] e quanto dalla Corte posto a fondamento delle valutazioni relative a taluni coimputati, alcune delle quali sfociate in una pronuncia assolutoria, talaltre nella pronuncia di condanna. A riguardo del Ko.[Uw.], assolto, gli esponenti rimarcano come la statuizione sia stata fondata sul fatto che questi non aveva la possibilità di riconoscere le carenze nelle attività dei controlli non distruttivi all'interno dell'officina, nonostante egli fosse comunque sovraordinato rispetto al reparto dove quei controlli si svolgevano; il Bart. ed il Carl., pur rispettivamente responsabile della produzione e direttore dello stabilimento della Ju***l, sono stati assolti perché la Corte di Appello li ha riconosciuti privi di poteri di intervento che potessero consentire di dominare i potenziali rischi derivanti dagli assili. Sicché, osservano gli esponenti, se soggetti interni all'organigramma della officina sono stati identificati come privi di poteri impeditivi, a maggior ragione ciò deve valere per il Ma.[RO.], in considerazione della sua estraneità a quell'organigramma.
Anche considerando le ragioni delle condanne del Ko.[RA.] e del Li.[PE.] gli esponenti segnalano la illogicità dell'affermazione di responsabilità del Ma.[RO.].
Il Le.[JO.], lo Sc.[AN.] ed il Kr.[UW.], dal canto loro, sono stati riconosciuti responsabili perché direttamente coinvolti nella cattiva esecuzione del controllo sull’assile, nelle rispettive qualità. Secondo gli esponenti non è revocabile in dubbio che le conclusioni cui perviene la Corte di merito rispetto alla responsabilità dei tre imputati componenti del reparto dei controlli non distruttivi ultrasonori rendano incoerenti quelle tratte in ordine alla responsabilità degli imputati esterni al reparto medesimo e fra questi del Ma.[RO.]. Il reparto, d’altro canto, rispondeva direttamente alla direzione generale dell'officina, presieduta da imputato di tecnico di altissimo livello e amministratore delegato di G***x Germania.
Anche considerando le ragioni poste a fondamento della condanna del Br.[HE.] emerge che alcuna colpevole condotta da parte del ricorrente Ma.[RO.] entra nella serie causale che portò alla rottura dell’assile da cui scaturì l’incidente per cui è processo.
Infine, gli esponenti riportano un brano relativo alla motivazione relativa agli imputati G.F.[D.] e Pi.[PA.] e osservano che quanto scrive la Corte d’appello conferma la totale estraneità del Ma.[RO.].
12.4. Violazione degli artt. 40 e 43 cod. pen. e vizio della motivazione, ancora in relazione alla accertata posizione di garanzia del Ma.[RO.].
Ad avviso degli esponenti, posto che la responsabilità del Ma.[RO.] è stata affermata per aver questi scelto di utilizzare per il noleggio un componente di un proprio carro revisionato da un'officina che non poteva garantire la qualità della manutenzione stessa, peraltro omettendo una qualche ulteriore verifica diretta, quanto meno documentale, la Corte di merito è incorsa nei dedotti vizi per aver ignorato che le criticità delle quali avrebbe dovuto farsi carico il Ma.[RO.] in realtà non hanno avuto rilevanza causale rispetto al fallimento manutentivo oppure sono per intero ascrivibili alla responsabilità di soggetti diversi dal ricorrente. È la stessa Corte di Appello che esclude la efficienza causale delle criticità attinenti alle autorizzazioni, alle apparecchiature in dotazione, alla documentazione della storia manutentiva dei componenti, all'assenza dei piani di prova. Le uniche due residue criticità dell'officina in ipotesi ignorate dal ricorrente atterrebbero quindi all'organizzazione effettiva della supervisione e alla insufficienza delle istruzioni tecniche adottate da G***x. Quanto alla prima, osservano gli esponenti, i giudici di merito hanno però affermato l'assenza di responsabilità di soggetti diversi da quelli che componevano il reparto specializzato dedicato ai controlli non distruttivi, esplicitamente affermando che i profili di responsabilità fondatamente posti a carico dei soggetti operanti in Ju***l non possono estendersi a chi non era titolare di competenze in materia di controlli non distruttivi sulle sale montate e quindi a soggetti che, pur intranei all'officina, non erano titolari di poteri di intervento che potessero consentire di dominare i potenziali rischi derivanti dagli assili. Quanto alla insufficienza delle istruzioni tecniche, sono gli stessi giudici di merito a ricondurre ad altre figure la responsabilità di essa, in quanto titolari di pieni poteri di gestione dell'impresa anche per gli aspetti propriamente tecnici, ovvero la responsabilità dell'elaborazione delle regole interne della manutenzione delle sale e carrelli; mentre la verifica dei requisiti formali e degli operatori dell'officina era compito del team tedesco di gestione della manutenzione.
12.5. Con il quinto motivo si deduce la violazione degli articoli 23, 69, comma 1, 70, comma 1 del decreto legislativo n. 81 del 2008 e dell'art. 2087 c.c. ed il vizio di motivazione. Le argomentazioni sono quelle già esposte nella sintesi del quinto motivo del ricorso del Li.[PE.], alla quale si rinvia.
12.6. Con il sesto motivo si lamenta la violazione dell'art. 133 cod. pen. ed il vizio motivazionale. Si assume che la Corte d'appello ha ignorato il canone della individualizzazione della pena ed ha omesso di motivare in ordine alla doglianza avanzata con l'atto di appello, per la quale la commisurazione della pena doveva tener conto del fatto che il ricorrente, al momento della revisione dell'assile, ricopriva il ruolo di responsabile della manutenzione da soli due anni.
Neppure ha motivato, la Corte di appello, a riguardo del rilievo che denunciava la illogicità di una motivazione che premetteva di voler infliggere una maggior sanzione ai soggetti apicali e poi ha determinato per il Ma.[RO.] una pena coincidente con quella inflitta all'A.D. di G***x Austria Rail GmbH.
Del pari è omessa la motivazione in merito al discostamento dal minimo edittale e alla identità per tutti gli imputati degli aumenti a titolo di continuazione.
12.7. Con il settimo motivo si denuncia la violazione degli artt. 133 e 62-bis cod. pen., assumendo che le attenuanti generiche sono state negate senza motivare in merito all'incidenza del comportamento processuale dell'imputato, che si era sottoposto ad interrogatorio già nella fase delle indagini; al peso dei risarcimenti erogati alle persone fisiche, talvolta ritenuti satisfattivi dalle persone danneggiate.
È poi illogica la motivazione quando nega le attenuanti generiche per il comportamento estremamente supeR***Iciale nella manutenzione dell'assile, mentre il Ma.[RO.] non aveva compiti di tal fatta. La stessa Corte di appello assimila il Ma.[RO.] agli organi societari di vertice, mai poi riconosce a questi le attenuanti generiche e le nega al Ma.[RO.]. Anche agli imputati operanti in Ci***Ri***, rei di aver omesso il controllo documentale e quello visivo, sono state riconosciute le attenuanti generiche, mentre al Ma.[RO.] sono state negate nonostante non gli sia stato rimproverato l'omesso controllo visivo dell'assile fratturatosi.

13. Ricorso nell'interesse di MA.JO.
L'imputato ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza a mezzo dei difensori di fiducia avv. Francesco Mucciarelli e avv. Luisa Mazzola, articolando sette motivi.
13.1. Nullità dell'ordinanza del 19 dicembre 2018 della Corte di appello di Firenze, in relazione all'ordinanza dell’8 gennaio 2014 del Tribunale di Lucca, in merito alla formazione del Collegio di primo grado e all'attribuzione ad esso del procedimento, per violazione di legge, con riferimento agli articoli 25, comma 1 e 111, comma 2 Costituzione, nonché inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento all'articolo 178, comma 1 lett. a) e all'articolo 179 cod. proc. pen. ed altresì per vizio della motivazione. L'esplicazione delle ragioni a sostegno della censura sono tal quali quelle esposte in questa sede riproducendo l'analoga doglianza proposta dal Li.[PE.].
Il ricorrente rileva che allorquando il giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Lucca dispose il rinvio a giudizio dinanzi al Tribunale di Lucca in composizione collegiale, fece specifica indicazione dei componenti del collegio. Tale indicazione nominativa rappresenta un'anomalia e per altro il Collegio in questione era di nuova composizione e destinato ad essere formato da magistrati che in quel momento svolgevano la funzione di giudici monocratici presso la sezione distaccata di Viareggio, soppressa con il decreto legislativo 155 del 2012, con efficacia solo dal 13 settembre 2013. Tali magistrati, quindi, al tempo del rinvio a giudizio non erano ancora assegnati al Tribunale di Lucca, sede centrale. Per il ricorrente ne consegue che necessariamente non fu l’applicazione di criteri tabellari prefissati a determinare l’assegnazione del procedimento al Collegio III del Tribunale, ma, come ammette la stessa Corte di Appello, essa dipese da valutazioni di opportunità in relazione a possibili situazioni di incompatibilità future o di redistribuzione dei carichi di lavoro. Si è quindi verificata una vera e propria elusione delle regole tabellari o quantomeno queste non sono state meccanicamente applicate, nonostante rappresentino il concreto strumento attraverso cui il rispetto del principio naturale di precostituzione del giudice viene garantito nel nostro sistema giudiziario. Oltre alle norme costituzionali citate risultano violate le norme internazionali in tema di terzietà e imparzialità del giudice e segnatamente l'art. 6, par. 1 della C.e.d.u.
13.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla affermata applicabilità all'attività svolta in Austria di disposizioni italiane e istanza di remissione di questione pregiudiziale alla Corte di giustizia UE ai sensi dell'art. 267 TFUE. Anche in questo caso l'articolazione del motivo rispecchia quella già proposta negli ulteriori ricorsi a firma dei medesimi difensori.
13.3. Vizio della motivazione e violazione degli artt. 40 cpv. e 43 cod. pen. in relazione alla posizione di garanzia del Ma.[JO.]. Le argomentazioni svolte ripropongono, con minime variazioni, il testo del terzo motivo del ricorso del Ko.[RA.]. Per comodità di lettura si sintetizzano. Le condotte alternative causalmente rilevanti non erano quelle disponibili al Ma.[JO.], come dimostrano anche le ragioni delle assoluzioni del Ko.[Uw.], del Carl. e del Bart. Costituisce vizio motivazionale attribuire al Ma.[JO.] generiche carenze strutturali dell'officina, anche perché talune manchevolezze sono state ritenute prive di rilevanza causale rispetto agli eventi occorsi a Viareggio. In conclusione, il vizio motivazionale consiste nella errata interpretazione e, conseguentemente, nella inappropriata applicazione dell'art. 43 cod. pen., in relazione all'art. 40 cpv. cod. pen., avendo la sentenza impugnata fondato la affermazione di penale responsabilità dell'attuale ricorrente su condotte al medesimo attribuite che, quando anche inosservanti, non sono state casualmente efficienti in senso impeditivo.
13.4. Violazione degli artt. 40, 43 cod. pen. e 2639 c.c. e vizio della motivazione, ancora in relazione alla accertata posizione di garanzia del Ma.[JO.].
Gli esponenti rammentano che la sentenza impugnata sostiene che la posizione di Ma.[JO.] quale amministratore di G***x Rail Austria risulta comprendere anche il ruolo di vertice amministrativo di quella struttura organizzativa operante a livello europeo, allora facente capo alla predetta società austriaca. In altri termini, allo stesso viene attribuito un ruolo apicale in un complesso organizzativo coordinato non ancora costituito come ente giuridico a sé stante, che comprendeva G***x Rail Austria, G***x Rail Germania e G***x Rail Polonia. Secondo la Corte territoriale accedono a tale ruolo di vertice amministrativo compiti di intervento e vigilanza anche nel settore della manutenzione svolta dalle tre società europee, così che al Ma.[JO.] vanno ascritte le carenze strutturali che vengono contestate nei capi di imputazione. In sostanza, osservano gli esponenti, l'addebito si esaurisce nel non aver esercitato il controllo dell'organizzazione e il corretto svolgimento delle attività di manutenzione. Tuttavia, il deficit comportamentale rimproverato al Ma.[JO.] si risolve in condotte che la Corte territoriale stessa dichiara esplicitamente sfornite di valenza causale impeditiva. La Corte di appello rileva che il ruolo di amministratore di G***x Rail Germania può essere considerato come elemento di fatto valutabile a fini probatori ma non quale fonte di responsabilità perché l'addebito al Ma.[JO.] è stato contestato quale amministratore di G***x Rail Austria. Poi, però, la Corte di Appello afferma che le effettive possibilità di conoscere le carenze accertate, così come la possibilità di ovviare alle stesse, è dimostrata dal fatto che l'imputato era amministratore anche di G***x Rail Germania. Così facendo, rileva l'esponente, si àncora la responsabilità penale del Ma.[JO.] al ruolo di co-amministratore di G***x Rail Germania, con ciò contraddicendo quanto in precedenza correttamente riconosciuto. Peraltro, la sentenza è contraddittoria anche sotto un altro aspetto perché, dopo avere identificato quali fossero in concreto i compiti svolti dal ricorrente nell'ambito di G***x Rail Germania (essenzialmente indirizzo strategico, vendita, marketing, relazioni pubbliche, attività all'estero, rappresentanza e esterna, amministrazione e organizzazione gestione del personale, finanza e controllo, contabilità informatica), con l'effetto di avere accertato che le competenze tecniche specifiche erano del co-amministratore, poi essa fa contraddittoriamente discendere proprio esclusivamente dal ruolo di co-amministratore della società tedesca l'effettiva possibilità non soltanto di conoscere le carenze dell'officina ma anche le effettive possibilità di ovviare alle stesse. D'altronde, avendo riconosciuto l'assenza di poteri e doveri di intervento connessi al ruolo di amministratore di G***x Rail Germania, la sentenza impugnata costruisce in capo al Ma.[JO.] una figura di amministratore di fatto della medesima società non fondata sull'esercizio in concreto delle attività proprie dell'amministratore di diritto, bensì conducente ad una inedita forma di amministratore di diritto di una capogruppo di fatto. In altri termini, la Corte di appello ritiene che sia stata esistente una struttura organizzativa operante a livello europeo facente capo alla società austriaca, non costituita in ente giuridico a sé stante, della quale il Ma.[JO.] era amministratore di fatto siccome amministratore delegato di G***x Rail Austria, holding di fatto. Orbene, osserva l'esponente, anche prescindendo dal rilievo che l'autonomia societaria costituirebbe un limite difficilmente valicabile per l'identificazione di una cosiddetta holding di fatto, non è dubbio che la qualità di amministratore di fatto è necessariamente connessa allo svolgimento in via continuativa e significativa dei poteri tipici inerenti alla qualifica. La Corte fiorentina non ha documento una ingerenza del Ma.[JO.] nelle attività tecnico-manutentive di competenza di G***x Rail Germania, ma ha dedotto l'esistenza di tale posizione di garanzia dalla apodittica attribuzione al Ma.[JO.] stesso della qualifica di amministratore della holding di fatto. Il procedere argomentativo della sentenza è quindi ad un tempo illogico e contrastante con il dato normativo. Illogico perché inverte il rapporto tra ciò che va dimostrato e ciò che dimostra. Contrastante con il dato normativo poiché il giudizio per il quale il Ma.[JO.] sarebbe amministratore di fatto non riposa sulla documentazione della sua incidenza costante e rilevante ma sulla sua mera dichiarazione di amministratore di holding di fatto. Gli esponenti ravvisano una ulteriore contraddittorietà tra l'affermazione dell'impossibilità di fondare il giudizio di responsabilità sul ruolo di amministratore di diritto di G***x Rail Germania e l'attribuzione allo stesso della responsabilità penale in quanto amministratore di fatto della stessa società tedesca.
13.5. Con il quinto motivo si deduce la violazione degli articoli 23, 69, comma 1, 70, comma 1 del decreto legislativo n. 81 del 2008 e dell'art. 2087 c.c. ed il vizio di motivazione. Le argomentazioni sono quelle già esposte nella sintesi del quinto motivo del ricorso del Li.[PE.], alla quale si rinvia.
13.6. Con il sesto motivo si lamenta la violazione dell'art. 133 cod. pen. ed il vizio motivazionale. Si assume che la Corte d'appello ha ignorato il canone della individualizzazione della pena ed ha omesso di motivare in ordine alla doglianza avanzata con l'atto di appello, per la quale la commisurazione della pena era stata effettuata secondo parametri generalizzanti per gruppi di imputati. La Corte di appello ha sostenuto di aver operato un giudizio comparativo con la pena inflitta agli altri imputati, ma in realtà non ha spiegato le ragioni alla base della determinazione della pena inflitta al Ma.[JO.].
13.7. Con il settimo motivo si denuncia la violazione degli artt. 133 e 62-bis cod. pen., assumendo che le attenuanti generiche sono state negate senza motivare in merito all'incidenza dei risarcimenti erogati alle persone fisiche, talvolta ritenuti satisfattivi dalle persone danneggiate.

14. Ricorsi nell'interesse di G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germany GmbH e Ju***l Waggon GmbH, quali enti condannati per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001
I predetti enti hanno proposto con atto unitario ricorso a firma congiunta degli avv. T.P. e A.F..
14.1. Con il primo motivo si deduce la violazione degli articoli 25, comma 1, 111, comma 2 Cost, nonché dell'articolo 117, comma 1 Cost., quale norma interposta dell'articolo 6 par. 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo; l'inosservanza di norma processuale stabilita a pena di nullità, con riferimento alla rilevata nullità ai sensi dell'articolo 178, comma 1 lettera a) cod. proc. pen. del provvedimento di assegnazione del procedimento penale n. 6305/2009 al Collegio di primo grado; infine, si lamenta il vizio della motivazione.
In via preliminare gli esponenti lamentano che la questione dedotta con il motivo di appello con il quale si impugnava l'ordinanza di rigetto emesso dal Tribunale di Lucca 1'8 gennaio 2014, concernente l'eccezione sollevata con riferimento al provvedimento di destinazione del procedimento penale al Collegio III, sia stata qualificata dalla Corte distrettuale come questione preliminare e quindi sia stata decisa con ordinanza letta all'udienza del 19.12.2018 anziché con sentenza, come previsto dal codice di rito. Tale iter ha privato la difesa del diritto alla relazione.
Ciò posto, gli esponenti lamentano che le deduzioni proposte con l'atto di appello non hanno trovato puntuale valutazione. Si ripercorre la vicenda anche facendo riferimento ai provvedimenti adottati dal Presidente del Tribunale di Lucca e dal Presidente della sezione penale del Tribunale di Lucca e si sostiene che nel caso di specie si sono date nell'assegnazione del procedimento una pluralità di anomalie di tale gravità che inducono a ritenere come nel caso di specie le conclamate violazioni riscontrate non possono risolversi in una mera disapplicazione della normativa tabellare, trattandosi di una vera e propria elusione della stessa, finalizzata a consolidare una scelta di opportunità. Siffatta elusione delle regole tabellari ha provocato proprio l'effetto che l'impianto normativo mira a scongiurare, ossia la selezione di uno specifico organo con riferimento a una specifica vicenda per ragioni che risultano di fatto non verificabili perché non individuate sulla scorta di criteri generali e predeterminati.
Sussiste quindi la violazione della garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge. A tale conclusione gli esponenti pervengono premettendo che il decreto che disponeva il giudizio emesso dal giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Lucca indicava come assegnatario il Collegio III della sezione penale del Tribunale di Lucca e indicava i nominativi dei suoi componenti. In ciò una duplice anomalia, non essendo prevista l'indicazione nominativa dei componenti dell'organo collegiale e non essendo ancora esistente alla data del decreto che dispone il giudizio (il 18 luglio 2013) il Collegio III, giacché tutti i magistrati componenti del Collegio erano assegnati alla sezione distaccata di Viareggio. Per gli esponenti non è corretto l'avviso della Corte di appello, formulato facendo richiamo anche della delibera CSM del 12.12.2012, secondo il quale l'art. 5 del d.lgs. n. 155/2012 era già in vigore dal 13.9.2012 e imponeva ai dirigenti degli uffici di apprestare le soluzioni organizzative idonee a consentire la piena attuazione delle previsioni legali. La citata delibera consiliare attiene alla diversa tematica della non sovrapponibilità tra la data di entrata in vigore della nuova normativa e la data di efficacia della stessa. Neppure la variazione tabellare poteva sovvertire il dato normativo.
Inoltre, la tabella giudiziaria del triennio 2009-2011 prevedeva che i processi di competenza collegiale venissero assegnati al primo o al secondo Collegio alternativamente secondo l'ordine di iscrizione al ruolo dell'ufficio Gip/Gup. Richiesto dai difensori di rendere noti i criteri di assegnazione del procedimento, il Presidente del Tribunale di Lucca rispondeva in data 2.10.2013, richiamando anche una relazione del Presidente della sezione penale; nella risposta si dava atto della ridondanza dell'indicazione nominativa dei magistrati componenti il Collegio designato per la trattazione del processo e si menzionava una precedente variazione tabellare n. 15/13.
Gli esponenti segnalano che in tale variazione tabellare era stabilito che "con decorrenza dal 13 settembre, i procedimenti penali a rito collegiale saranno divisi in misura paritaria tra tre collegi a composizione fissa..."; pertanto la data di efficacia del nuovo assetto organizzativo era indicata nel 13.9.2013. Inoltre, in essa il criterio distributivo prevedeva che il terzo Collegio ricevesse le nuove assegnazioni fino ad arrivare ad un numero pari di procedimenti penali tra i tre collegi; quindi, raggiunta la parità, che la assegnazione dovesse avvenire con criterio automatico, sulla base dell'ultimo numero del R.G.N.R.
Ma nonostante che nella relazione del 25.9.2013 del Presidente della sezione penale fosse stato scritto che il presente procedimento era stato assegnato al Collegio III perché gli altri due collegi avevano già riempito le proprie udienze future, un controllo presso la cancelleria faceva emergere che al nuovo Collegio erano stati assegnati solo altri due procedimenti, ed uno solo di nuova assegnazione.
Ne deriva, per gli esponenti, che il criterio tabellare è stato sistematicamente disapplicato.
Tanto la relazione del Presidente della Sezione penale che l'ordinanza della Corte di appello ritengono che l'assegnazione del procedimento deviando dal criterio tabellare possa essere giustificata da ragioni di opportunità; per gli esponenti l'assunto non è fondato.
Rammentano, poi, che nel corso del giudizio di primo grado era emersa l'esistenza di un decreto del Presidente della sezione penale del 12.4.2013; il Tribunale lo aveva ritenuto meramente attuativo della variazione tabellare n. 15/13. Gli esponenti criticano tale giudizio, ravvisando in esso un autonomo criterio di assegnazione dei processi, derogatorio di quello previsto dal decreto n. 15/13. Infatti, si prevedeva che fino al 12 settembre 2013 il nuovo Collegio III ricevesse le prime 15 assegnazioni, mentre gli altri procedimenti sarebbero stati distribuiti tra gli altri Collegi in proporzione al numero di udienze da ciascuno tenuto; mentre dal 13 settembre 2013 i procedimenti a rito collegiale sarebbero stati assegnati a tutti i collegi secondo il criterio automatico tabellare. Insomma, una nuova variazione tabellare non realizzata secondo il prescritto iter.
Sussiste quindi la violazione delle regole tabellari esclusa dalla Corte di appello; la quale ha omesso qualsiasi motivazione in ordine ai rilievi difensivi che facevano perno sui dati appena esposti. Affermato che la ventilata (dalla Corte di appello) incompatibilità di uno dei componenti del Collegio II non può assumere alcuna rilevanza nella prospettiva dell'assegnazione del procedimento, pur ammettendo che fosse sussistente - e per gli esponenti non lo era - la relativa causa, si ribadisce che in concreto si è determinata la selezione di uno specifico organo con riferimento ad una specifica vicenda per ragioni che non sono quelle individuate dai criteri generali e predeterminati. Con ciò si è determinata la violazione della garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge.
La Corte di appello ha anche pretermesso di motivare in merito alla prospettata violazione dell'art. 6 par. 1 della CEDI), in forza del quale la Corte edu ha in due vicende analoghe a quella che occupa ritenuto violato il diritto fondamentale del ricorrente ad essere giudicato da un Tribunale costituito per legge (si trattava in un caso di un giudizio al quale avevano partecipato giudici che secondo le norme interne che disciplinano la nomina e le procedure di assegnazione degli affari penali non vi potevano partecipare: Posokhov c. Russia 63486/00 e Gurgov c. Moldavia n. 36455/02).
Ad avviso degli esponenti, infine, la circostanza che il Collegio assegnatario risulti formato esclusivamente da giudici provenienti dalla abolita sezione distaccata di Viareggio pone un problema di rispetto del principio del giusto processo perché fatta la assegnazione con tutte le violazioni che si sono indicate "la loro designazione finiva con l'incrementare il vulnus all'apparenza di imparzialità che deve assistere l'esercizio della giurisdizione".
14.2. Viene denunciata, poi, la violazione degli artt. 4, 6, 7 e 8 d.lgs. n. 231/2001 con riferimento alla ritenuta applicabilità della disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche alle società G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germany GmbH e Ju***l Waggon GmbH, prive di sede principale o secondaria o operativa nel territorio dello Stato italiano. Nonché la violazione dell'art. 25 legge n. 218/1995 e degli artt. 27, co. 1 e 25, co. 2 e 117, co. 1 Cost., quest'ultima come norma interposta dell'art. 7, par. 1 CEDI). Infine, si lamenta al medesimo riguardo anche il vizio della motivazione.
Gli argomenti sui quali fonda l'interpretazione della Corte di appello sono infondati.
L'art. 1 d.lgs. n. 231/2001 non può essere utilizzato per affermare che se il legislatore avesse voluto limitare l'applicabilità alle società con sede nel territorio dello Stato lo avrebbe detto in modo esplicito perché la norma non disciplina l'ambito spaziale di applicazione del decreto ma seleziona gli enti cui si applica la disciplina in funzione di talune particolari caratteristiche obbiettive. Semmai, si osserva, il terzo comma dell'art. 1, identificando determinati enti in funzione di categorie e parametri che appartengono all'ordinamento nazionale (id est: ente pubblico non economico) conferma la dimensione territoriale in cui si muove la disciplina. È poi infondato il rilievo che la Corte di appello attribuisce al raffronto tra l'art. 1 e l'art. 4, volendo ricavare dal fatto che quest'ultimo disciplina i reati commessi all'estero la conseguenza che il primo disciplina i reati commessi in Italia. Osservano gli esponenti che l'art. 4 giustifica una interpretazione esattamente contraria nel senso che, subordinando l'applicazione della disciplina agli enti che abbiano la sede principale nel territorio dello Stato italiano, fa emergere la rilevanza che per l'intera disciplina ha il collegamento dell'ente con l'ordinamento interno.
L'art. 36 per la Corte di appello dimostrerebbe l'irrilevanza del luogo in cui l'ente commette la colpa di organizzazione, poiché la competenza è attribuita in base al luogo in cui viene commesso il reato. Per gli esponenti la menzionata disposizione si limita a identificare il giudice abilitato a conoscere l'illecito amministrativo in quello competente per territorio e per materia in relazione al reato presupposto.
L'art. 34 è utilizzato dalla Corte di appello per sostenere che deve trovare applicazione anche l'art. 1 cod. proc. pen. e quindi che il giudice italiano ha giurisdizione su tutte le violazioni commesse in Italia, quale che sia la nazionalità del loro autore. Ad avviso degli esponenti, stante il tenore dell'art. 34, che richiama solo le norme processuali compatibili, la Corte di appello avrebbe dovuto preliminarmente dimostrare che l'art. 1 cod. proc. pen. è compatibile con il sistema della responsabilità amministrativa degli enti morali. In ogni caso, l'art. 1 cod. proc. pen. concerne la giurisdizione attinente alla responsabilità della persona fisica. Quella dell'ente morale è autonoma, qualificata dalle S.U. come tertium genus. Più radicalmente gli esponenti osservano che in realtà l'art. 1 cod. proc. pen. non stabilisce i limiti spaziali di applicazione della legge penale italiana ma li recepisce per come sono stabiliti da altre fonti, essenzialmente identificabili nel codice penale e nella normativa eurounitaria e convenzionale.
In sintesi, l'interpretazione della Corte di appello concreta la violazione dell'art. 4 perché non considera il rilievo del requisito della sede principale nel territorio dello Stato; e la violazione degli artt. 5, 6 e 7 perché finisce per far coincidere la responsabilità della persona giuridica con la responsabilità della persona fisica.
Infatti, per la Corte di appello l'applicazione del decreto non è legata alla territorialità dell'ente ma alla sua attività nel territorio. In questo modo però la Corte finisce per far rispondere l'ente non del fatto proprio ma del fatto della persona fisica; tesi che è contraddetta anche dall'art. 4 che, nel disciplinare l'ipotesi inversa del reato commesso all'estero, richiede un elemento di territorialità oggettiva.
La disposizione evidenzia come criteri di radicamento della giurisdizione per il reato sono insufficienti per l'applicazione del decreto 231; e dimostra che se il legislatore avesse voluto adottare la prospettiva universalistica gli sarebbe bastato aderire al regime di extraterritorialità stabilito dalle norme codicistiche per il fatto illecito della persona fisica.
Per contro, il criterio della sede principale rimanda al principio della territorialità attenuata, che risulta coerente con la struttura dell'illecito dell'ente, nel senso che quello si coordina al criterio di imputazione soggettiva della colpa di organizzazione. Si tratta di un aspetto del tutto trascurato dalla Corte di appello.
Il criterio di territorialità oggettiva della sede principale opera come precondizione legale di rimproverabilità dell'ente per non aver conformato il proprio assetto organizzativo al dovere di diligenza imposto dall'ordinamento: assicura che l'ente sia nella condizione di orientare la propria politica aziendale in conformità dei parametri cautelari-organizzativi previsti dall'ordinamento nazionale; garantisce la riconoscibilità obiettiva dei parametri ai quali l'ente deve rifarsi; permette di formulare un rimprovero colposo; dota il giudice dei parametri legali per valutare il comportamento organizzativo. Sicché esso permette un'applicazione della normativa conforme al principio di legalità e al principio di colpevolezza.
La dimostrazione dell'erroneità del diverso assunto è data dalla stessa Corte di appello che da un canto ha presupposto una equivalenza normativa del modello di responsabilità delle persone giuridiche nei diversi ordinamenti che non risponde al vero; dall'altro, per garantire una applicazione coerente con l'art. 25 della legge n. 218/1995, propone una interpretazione in favor rei, in forza della quale l'idoneità del modello organizzativo della società straniera dovrebbe essere valutata secondo i principi e le regole dello Stato in cui si è concretata la colpa di organizzazione, così costruendo un modello di responsabilità non rispondente a quello legale (per queste società e solo per esse non sarebbe richiesta la dimostrazione di aver conformato il proprio assetto organizzativo agli specifici modelli di cui agli artt. 6 e 7 del decreto).
Non è fondata neppure l'affermazione che una limitazione dell'applicazione della disciplina alle sole società territorialmente radicate nello Stato italiano determinerebbe una disparità di trattamento; proprio l'elemento del radicamento territoriale rappresenta il fattore di diversità che giustificherebbe soluzioni differenziate. Ed è quindi proprio l'interpretazione adottata dalla Corte di appello a generare illegittime disparità. Né valutazioni concernenti gli effetti economici di questa o quella interpretazione possono assumere rilievo nel campo dell'interpretazione delle norme sulla giurisdizione.
La Corte di appello non ha valutato l'impossibilità giuridica di dare esecuzione alle sanzioni stabilite dal decreto 231 nei confronti di enti privi di collegamento territoriale con lo Stato italiano, in particolare l'interdizione dall'esercizio dell'attività, la sospensione o la revoca delle autorizzazioni et similia; ma anche la confisca del prezzo o del profitto.
L'art. 25 cit. diversamente da quanto fugacemente ritenuto dalla Corte di appello, avvalora l'interpretazione dell'art. 4 offerta dagli esponenti.
La Corte di appello ha poi omesso di considerare l'art. 8 del decreto, norma fondamentale ai fini del corretto inquadramento della relazione tra la responsabilità della persona fisica e quella dell'ente morale, che si ribadisce essere autonoma, come ritiene la giurisprudenza di legittimità.
Infine, si sostiene che in forza dell'interpretazione avversata, le società ricorrenti sono state ritenute responsabili in assenza di una base legale chiara e precisa, conforme al requisito della ragionevole prevedibilità. Infatti, il piccolo numero di decisioni di merito rinvenibili in argomento non integra quell'orientamento consolidato richiesto dalla giurisprudenza convenzionale perché possa ritenersi soddisfatto tale requisito. La matrice esclusivamente giudiziaria della base legale utilizzata dalla Corte di appello integra una violazione del principio di legalità, interno e convenzionale, anche sotto il profilo della carenza dei requisiti di accessibilità.
14.3. Violazione degli artt. 23, 69, co. 1, 70, co. 1 d.lgs. 81/2008 e dell'art. 2087 c.c. nonché mancanza di motivazione in relazione alla dedotta violazione dell'art. 70 d.lgs. n. 81/2008.
La Corte di appello ha individuato in quella di fornitori di attrezzatura di lavoro (il carro munito dell'assile n. 98331 o quest'ultimo stesso) la posizione di garanzia degli imputati afferenti alle società in parola, riconoscendo la infondatezza dell'attribuzione ai medesimi della posizione datoriale. Ma quanto alla integrazione della contestata circostanza aggravante, la Corte di appello fa perno sulla qualificazione del carro cisterna e dell'assile come attrezzatura di lavoro e sull'applicazione dell'art. 2087 c.c., siccome norma riferibile al fornitore, in quanto imprenditore (e non solo al datore di lavoro).
A tal riguardo, le ricorrenti osservano che la Corte di appello ha sul punto omesso di considerare le argomentazioni della difesa circa l'inapplicabilità dell'art. 23 d.lgs. n. 81/2008 all'assile, componente di un mezzo di trasporto (ex d.lgs. n. 459/1996) ed espressamente sottratto dall'ambito della tutela della salute e sicurezza sul lavoro, in ragione del combinato disposto dagli artt. 70 d.lgs. n. 81/2008 e 1, co. 5 d.lgs. n. 459/1996.
Ad avviso delle ricorrenti la Corte di appello ha dismesso il riferimento fondativo alle norme tecniche concernenti la manutenzione delle componenti meccaniche del carro cisterna, volte alla tutela della sicurezza del trasporto ferroviario e non della salute e sicurezza del lavoro. Ma ha ancora fatto perno sull'art. 2087 c.c. e poi sull'art. 8, co. 2 d.lgs. n. 162/2007, che tuttavia non può fondare la menzionata aggravante perché afferente a posizione di garanzia nell'ambito della disciplina del trasporto ferroviario.
La difesa ha contestato la qualificazione dell'assile come attrezzatura di lavoro perché la rilevanza del singolo componente meccanico di un impianto ai fini dell'articolo 69 del d.lgs. n. 81/2008 è in realtà l'esito di una modifica legislativa 106 del 2009, successiva alla commissione del fatto e inapplicabile in ragione dell'art. 2, comma 1 cod. pen. Ciò nonostante, la Corte di appello ha superato tale rilievo affermando che l'art. 69 reca una disposizione identica al precedente art. 34 del decreto legislativo n. 626 del 1994. La nuova norma avrebbe solo specificato il concetto di impianto, nel quale un carro ferroviario non è ricompreso, sì che esso costituiva attrezzatura di lavoro anche per la disciplina previgente al 2009.
Ma, osservano le ricorrenti, che il carro e la sua componente meccanica non siano attrezzature di lavoro discende dall'art. 1, co. 5 del d.lgs. n. 459 del 1996. La definizione di attrezzatura di lavoro rilevante per l'applicazione del d.lgs. n. 81/2008 discende dal combinato disposto degli articoli 69 e 70 del medesimo; esso fa rinvio alle specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto. Il d.lgs. n. 459/1996 è appunto una disposizione che recepisce la direttiva comunitaria di prodotto; all'art. 1, comma 5 lett. i) stabilisce che sono esclusi dal campo di applicazione del regolamento i mezzi di trasporto aerei, stradali e ferroviari. Pertanto, i requisiti di sicurezza che riguardano il carro cisterna e ogni suo componente non rilevano ai fini della tutela della salute e sicurezza sul lavoro. I giudici di merito hanno quindi ignorato la previsione del menzionato art. 70, comma 1.
Né in contrario può valere il richiamo al secondo comma dell'art. 70, che in via residuale consente l'applicazione dell'allegato V del d.lgs. 81/2008 nella parte concernente i requisiti generali di sicurezza, ma solo al ricorrere di due condizioni alternative: l'assenza di una disciplina interna di recepimento di una direttiva comunitaria di prodotto in relazione a determinate attrezzature di lavoro; l'assenza di una disciplina armonizzata di prodotto applicabile ratione temporis. Come a dire che l'applicazione in via residuale dell'allegato V presuppone l'evidenza di una lacuna che non sussiste nel caso di specie.
Quanto al richiamo dell'art. 2087 c.c., la Corte di appello ha ritenuto che la norma si riferisca non solo al datore di lavoro ma ad ogni imprenditore nell'esercizio dell'impresa. Osservano gli esponenti che il concetto di imprenditore ai sensi dell'articolo menzionato deve essere inteso in un'accezione lavoristica, anche in ragione della collocazione topografica della norma. Dal canto suo, il prestatore di lavoro non è un generico creditore di sicurezza ma rappresenta il soggetto destinatario di quella specifica tutela che l'ordinamento riserva per la sua posizione di asimmetria rispetto al garante. Il tentativo di dissociare l'imprenditore dall'ambito di competenza sul rischio normativamente definito contrasta con la disposizione. In conclusione, l'articolo 2087 c.c. non costituisce una norma cautelare; esso fissa una posizione di garanzia e definisce le fonti da cui il garante prima ed il giudice dopo sono abilitati a trarre precise regole cautelari, strumentali alla tutela dell'incolumità dei lavoratori.
14.4. Sono stati dedotti il vizio della motivazione e la violazione degli artt. 40 e 43 cod. pen., in relazione all'accertamento della cd. causalità della colpa per le condotte contestate ai soggetti apicali delle società ricorrenti.
L'assunto è che le condotte colpose individuali attribuite dalla Corte di appello ai soggetti apicali delle società ricorrenti non avrebbero avuto, per affermazione stessa del giudice di secondo grado, incidenza causale, nel senso che il comportamento alternativo lecito non avrebbe avuto alcuna efficacia impeditiva.
Infatti, al Ma.[JO.] si è attribuita la omessa eliminazione delle carenze strutturali presso l'officina Ju***l e l'affidamento colposo in essa; ma tali omissioni sono state ritenute non causali rispetto alla omessa detezione della cricca e quindi agli eventi che ne scaturirono. In particolare, quanto al dettaglio delle menzionate carenze - ovvero la mancanza di autorizzazione dell'officina, l'assenza di istruzioni tecniche adeguate emanate dai vertici societari, l'assenza di piani di prova e l'inadeguato sistema di documentazione delle attività manutentive, così come la carente dotazione di idonee apparecchiature per l'esecuzione dei CND gli esponenti asseriscono che è la stessa Corte di appello ad aver escluso l'efficienza causale delle condotte doverose omesse.
Al Ma.[RO.] si è rimproverato di aver scelto di utilizzare per il noleggio un componente di un carro revisionato da un'officina che non poteva garantire la qualità della manutenzione e di non aver eseguito una verifica quanto meno documentale. Ma la affermata carenza dei controlli si coordina pur sempre a quelle carenze strutturali dell'officina che sono state ritenute prive di efficienza causale.
Al Ko.[RA.] e al Li.[PE.] è stato ascritto di aver tollerato la strutturale inadeguatezza delle procedure di manutenzione degli assili ferroviari presso l'officina (assenza di piani di prova, mancanza di documentazione dell'attività manutentiva, deficit organizzativi nella supervisione dei CND), ma la Corte di appello non ha spiegato in concreto come le condotte asseritamente doverose avrebbero condotto alla detezione della cricca. Il giudizio della Corte distrettuale è astratto e generalizzante; esso non si cala nella reale dinamica causale sfociata nella frattura dell'assile, caratterizzata da negligenze individuali. Lo stesso dicasi per l'omessa emanazione di istruzioni tecniche vincolanti (che vengono partitamente considerate e la cui eventuale vigenza viene reputata causalmente irrilevante).
Si conclude sul punto osservando che la ritenuta inefficienza causale dei poteri connessi alle posizioni subordinate al Ko.[RA.], alla base dell'assoluzione di Ko.[Uw.], Carl. e Bart., fa sì che non sia ascrivibile alla Ju***l il reato, stante la ritenuta inidoneità impeditiva dell'esercizio delle funzioni di direzione e sorveglianza. In sostanza, i fattori organizzativi di contesto sono risultati nello specifico neutri e non possono quindi valere a fondare affermazioni di responsabilità.
14.5. È stato dedotto il vizio della motivazione in relazione alla ritenuta infondatezza della tesi scientifica proposta dai cc.tt. della difesa Fred. e Bin..
L'approccio adottato nella sentenza impugnata con riferimento al contributo scientifico dei consulenti Fred. e Bin. risulta distante dallo statuto epistemologico che la giurisprudenza di legittimità ha delineato in materia di valutazione della prova scientifica. L'accertamento della dimensione della cricca alla data del 26 novembre 2008 e delle modalità della sua propagazione aveva trovato nell'indagine scientifica condotta dal Fred. e dal Bin. un rilevante elemento ricostruttivo; si tratta della presenza di alcune marcature sulla supeR***Icie di frattura dell'assile e della associabilità delle stesse ai viaggi compresi tra il settimo e il dodicesimo successivi alla riammissione in servizio del carro ferroviario. La Corte di appello ha affermato che nessuno degli altri esperti ha mai associato le cosiddette marcature a specifici viaggi e che l'associazione linea di arresto-viaggi, nei termini indicati dalla difesa degli imputati, non è dimostrabile ed anzi risulta arbitraria e fuorviante, dato che introduce un criterio privo di ogni affidabilità scientifica e non condiviso dagli agli altri esperti che hanno studiato l'argomento per incarico delle varie parti processuali. A tal riguardo gli esponenti rilevano che la Corte d'appello è incorsa in primo luogo in un travisamento della prova, con riferimento alle valutazioni operate dagli esperti, dando specifica indicazione nel corpo dei ricorsi ai passi delle escussioni dibattimentali dai quali risulterebbe come anche altri studiosi abbiano stabilito l'associazione linee di arresto-viaggi. Si aggiunge che la Corte di Appello ha trascurato di confrontarsi con i rilievi che i predetti consulenti hanno rivolto ai consulenti tecnici dell'accusa pubblica e privata per dimostrarne la radicale incongruità rispetto ai dati empirico-sperimentali relativi alla faccia fratturata dell'assile. Tali critiche hanno formato oggetto di una specifica sezione della relazione tecnica dei consulenti della difesa, la cui valutazione è stata del tutto pretermessa dalla Corte di appello. I consulenti tecnici hanno rilevato come non possa costituire un'attendibile spiegazione del fenomeno di propagazione della cricca una elaborazione scientifica che descrive una curva che non interpoli tutti i dati sperimentali, corrispondenti ai punti di arresto reali, rilevati in sede di incidente probatorio. Tale incompatibilità con il dato sperimentale è stata, ad esempio, rilevata con riferimento al modello matematico di sviluppo della cricca elaborato dal consulente Ber.. La Corte di Appello, omettendo di considerare tali critiche, ha conferito alle tesi dei consulenti dell'accusa una sorta di privilegio di non falsificabilità; ha inoltre tentato di esorcizzare la rilevanza del dato sperimentale argomentando la inattendibilità della correlazione tra viaggi-marcature sulla scorta di un clamoroso travisamento.
Infatti, diversamente da quanto affermato dalla Corte territoriale, nessuno dei consulenti tecnici ha contestato specificamente la presenza delle marcature, il loro significato nella spiegazione del fenomeno di propagazione della cricca e, in ultima analisi, l'abbinamento fronti-viaggio. Una volta sterilizzato il rilievo del dato sperimentale nella selezione della ricostruzione scientifica, la decisione impugnata ha ritenuto essenzialmente superflua la verifica dell'attitudine esplicativa delle tesi scientifiche proposte. In tal modo si è ritenuto di poter prescindere dalla considerazione della correttezza del metodo scientifico applicato dai consulenti tecnici. Anche l'istanza di rinnovazione parziale dell'istruttoria dibattimentale è stata rigettata con motivazione manifestamente illogica, rappresentandosi la difficile riproducibilità delle caratteristiche dell'assile e delle condizioni di esercizio di esso, nonostante poche pagine prima si sia affermato che era fedele e non controvertibile la riproduzione in laboratorio, eseguita dagli esperti del Politecnico di Milano, delle tensioni meccaniche che avevano potuto svilupparsi nel corso dei viaggi del carro ferroviario.
14.6. Il vizio della motivazione è denunciato anche con riferimento alla ritenuta insussistenza in capo alla Ju***l dei titoli autorizzativi necessari ai fini dell'esecuzione dell'attività di manutenzione.
Gli esponenti osservano che la Corte di appello ha convenuto con la difesa sulla ricostruzione del quadro normativo nel passaggio alla liberalizzazione del traffico ferroviario e come all'epoca dell'intervento manutentivo che qui interessa si fosse nella fase di transizione, durante la quale i titoli abilitativi rilasciati nel previgente regime pubblicistico mantenevano valore sino alla data della loro scadenza. Dissentono però dalla Corte di appello sul punto della determinazione della ampiezza dell'abilitazione tecnica per la manutenzione delle sale rilasciata ad Ju***l da DB Systemtecnick il 7.12.2007; la Corte di appello ha ritenuto che dal relativo allegato 1 discendesse che fossero autorizzati unicamente l'esame ad ultrasuoni per alberi pieni, la riparazione dei cuscinetti delle sale di cuscinetti a rulli cilindrici e l'esame con particelle magnetiche di pulegge. Quindi che non vi fosse ricompreso l'esame magnetoscopico dell'assile, introdotto solo successivamente nelle linee guida di manutenzione di VPI. Per gli esponenti tale giudizio è frutto del travisamento del dato probatorio perché disconosce che ai sensi della circolare EBA del febbraio 2008 non era obbligatorio, nel periodo tra il luglio 2007 ed il dicembre 2010, che ai fini della manutenzione dei carri privati le officine di manutenzione disponessero di un'autorizzazione da parte di un Ente tecnico competente (come riconosciuto anche dalla Corte di appello a pg. 445). In realtà l'officina era in possesso dell'autorizzazione all'esecuzione di CND in ambito ferroviario, rilasciatagli nel marzo 2007 da DB Systemtechnik di Kirchmòser; si trattava di un'autorizzazione che non prevedeva alcuna limitazione in rapporto a specifici componenti e quindi erra la Corte di appello quando la reputa strettamente connessa al provvedimento del successivo dicembre, perché si tratta di atti che rimandano alla verifica di competenze tecniche non sovrapponibili, e l'autorizzazione (all'esecuzione di CND) dell'Ente tecnico competente non è suscettibile di nuova verifica in sede di controllo per il rilascio della seconda autorizzazione (per la manutenzione di carri e loro componenti). Inoltre, la puntualizzazione delle attività nell'altro era che il contenuto del livello di manutenzione IS2. Il c.t. della difesa ha spiegato che la mancata menzione dell'esame magnetoscopico del corpo dell'assile era dovuta al fatto che al tempo tale esame non era richiesto nell'ambito del livello IS2, come riconosce la stessa Corte di appello. Né l'officina avrebbe potuto richiedere un'autorizzazione - secondo l'assunto della Corte di appello - che già le era stata rilasciata. Dalla testimonianza di Jur.Tus. è emerso poi che l'officina era in possesso della strumentazione necessaria ad eseguire l'esame in parola. Anche l'ispezione eseguita dopo l'incidente da EBA, congiuntamente all'Autorità italiana di sicurezza ferroviaria, avente esito positivo, dimostra che l'officina era pienamente idonea ad eseguire il controllo in questione.
14.7. Vengono denunciati la violazione dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001 ed il vizio della motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza di un interesse o vantaggio dell'ente. La Corte di appello lo ha individuato genericamente in una riduzione dei prezzi praticati per il noleggio o la vendita dei carri forniti o in un incremento dei profitti. Ma la motivazione sul punto si concentra sulla sola posizione della Ju***l, pretendendo di estenderla alle altre società attraverso la sola evocazione del gruppo G***x. In tal modo però la Corte di appello ha individuato l'interesse o il vantaggio in rapporto a condotte di soggetti che sono inseriti esclusivamente nell'organigramma della Ju***l. Escluso che ai soggetti apicali delle società G***x sia stata contestata la cooperazione colposa, il nesso oggettivo si sarebbe dovuto accertare tra le condotte di questi, concretanti autonomi reato, e la rispettiva società. Invece questo accertamento individualizzante è mancato, sostituito da una logica di gruppo del tutto infondata già in diritto. In forza di essa, i risparmi di costi per manutenzione della Ju***l sono stati tramutati in maggiori ricavi delle società G***x. Peraltro, né la riduzione dei prezzi dei carri né l'incremento dei profitti è stato oggetto di reale accertamento, non avendo indicato la Corte di appello alcun elemento probatorio alla base di quanto affermato. Ad esempio, la riduzione dei prezzi avrebbe quanto meno richiesto di comparare l'assetto dei prezzi praticati da G***x con quelli normalmente correnti nel mercato di riferimento. È stata elusa anche la necessità di operare una quantificazione almeno tendenziale dell'interesse o del vantaggio, giustificando l'omissione con I l'evocazione di un principio posto dalla giurisprudenza di legittimità, in realtà del tutto travisato (il riferimento è a Cass. n. 24697/2016). Neppure è stato accertato quale incidenza avesse avuto la condotta illecita sul prezzo unitario del noleggio praticato dalla società G***x Rail Austria.
14.8. Con un motivo che riporta nuovamente la numerazione 'VII', viene denunciata la violazione dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001 ed il vizio di motivazione in relazione alla Ju***l.
Si è ritenuto che l'interesse o il vantaggio per tale società fosse consistito nel notevole risparmio di tempi e di costi nelle operazioni di revisione degli assili. Ma la riduzione delle spese di una strumentazione più moderna ed adeguata e la mancata revisione degli strumenti di taratura evocano condotte ritenute prive di efficienza causale. Quanto alle ulteriori condotte colpose, si è omesso di farne oggetto di puntuale accertamento, mancando quella quantificazione almeno tendenziale della quale si è già fatta menzione nel motivo precedente. Infine si è anche travisata la prova rappresentata dalla consulenza tecnica e dalla escussione di G. Bargagli Soffi, c.t. di parte, che ha dimostrato come non fosse tecnicamente concepibile un lucroso risparmio dei tempi dell'attività manutentiva tenendo le condotte colpose ritenute dai giudici, posto che quei tempi sono condizionati dalle operazioni di tornitura dell'assile.
14.9. Si lamenta la violazione delle norme dell'unione europea, il vizio della motivazione e si formula istanza di rimessione di questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, in relazione alla ritenuta applicabilità della normativa infortunistica italiana alle società di diritto straniero.
Vengono posti i seguenti quesiti:
1) La direttiva 2004/49/CE permette ad uno Stato membro (Stato di destinazione) sul territorio del quale circolino carri ferroviari omologati, immatricolati, detenuti e/ o manutenuti in altro Stato membro (di origine), di applicare proprie norme nazionali volte a garantire la sicurezza ferroviaria e/o l'incolumità delle persone, inclusi i lavoratori, diverse ed ulteriori rispetto a quelle dello Stato Membro d'origine nei confronti di soggetti che svolgono la propria attività di locazione, ovvero di manutenzione di carri ferroviari e/o loro parti di ricambio in quest'ultimo?
2) In particolare, è compatibile con il diritto dell'unione Europea e segnatamente con le direttive 2004/49/CE e 2001/16/CE che lo Stato membro di destinazione richieda che le attività di detenzione, locazione e manutenzione siano svolte nel rispetto di standard tecnici e/o di diligenza diversi da quelli applicabili secondo la normativa dello Stato Membro d'origine e la costante e consolidata giurisprudenza di tal ultimo Stato, nel quale si svolgono tali attività sul veicolo e/o su parti di ricambio degli stessi?
3) In caso di risposta positiva, può lo Stato Membro di destinazione richiedere che le attività di manutenzione siano svolte nel rispetto di proprie disposizioni nazionali ovvero norme tecniche o di diritto diverse da quelle applicabili secondo la normativa dello Stato membro d'origine e la costante e consolidata giurisprudenza di tale Stato, nel quale si svolge l'attività di manutenzione del veicolo e/o delle parti di ricambio quando al momento nel quale tale attività veniva svolta non era noto quale sarebbe stato lo Stato membro di destinazione nel quale il veicolo o la parte di ricambio sarebbero stati successivamente utilizzati?
4) L'eventuale applicazione del Regolamento (CE) n. 864/2007 alle azioni relative al risarcimento dei danni occorsi nello Stato membro di destinazione il 29 giugno 2009 ed in periodo successivo può implicare una deroga alle norme del TFUE in materia di libera circolazione di beni e servizi e delle direttive 2004/49/CE e 2001/16/CE? In caso di risposta affermativa, tale deroga riguarda solo le azioni risarcitone ovvero anche la liceità della condotta del danneggiante in ambito penale e/o amministrativo?

15. Ricorsi nell'interesse di G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germany GmbH e Ju***l Waggon GmbH, quali responsabili civili
Le predette società hanno presentato ricorso con atto unitario, a firma dell'avv. C.L., articolando cinque motivi.
15.1. Il primo, con il quale si denuncia la nullità discendente dalla violazione del principio di precostituzione per legge del giudice, in relazione alla assegnazione del procedimento al Collegio III del Tribunale di Lucca, viene articolato riproponendo le argomentazioni e i rilievi che sono già stati esposti nel proporre la sintesi degli analoghi motivi dei ricorsi rispettivamente del Br.[HE.] e dello Sc.[AN.].
15.2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 23, 69, co. 1, 70, co. 1 d.lgs. n. 81/2008 e dell'art. 2087 c.c. nonché la mancanza di motivazione in relazione alla dedotta violazione dell'art. 70 d.lgs. n. 81/2008. Le argomentazioni coincidono, nella sostanza, con quelle omologhe del ricorso proposto dalla medesima società in veste di ente condannato per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001.
15.3. Il terzo motivo, con il quale si lamenta la violazione delle norme dell'unione europea, il vizio di motivazione e si formula istanza di rimessione di questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, in relazione alla ritenuta applicabilità della normativa infortunistica italiana alle società di diritto straniero, è del medesimo tenore del nono motivo del ricorso degli enti condannati ex art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001.
15.4. Il quarto motivo lamenta la violazione degli artt. 74, 91 e ss. cod. proc. pen., degli artt. 2056 e 1226 c.c. ed il vizio della motivazione in relazione alla A mancata esclusione delle parti civili costituite dalle organizzazioni sindacali, dai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza e dalle associazioni e in relazione alla sussistenza di danni risarcibili e alla loro quantificazione.
L'esponente osserva che la Corte di appello ha rigettato le censure che erano state formulate con l'atto di appello avverso la ammissione delle parti civili menzionate con motivazione consistente unicamente nella affermazione per la quale sarebbe notorio lo svolgimento da parte delle organizzazioni sindacali dell'attività statutaria all'interno delle società del Gruppo Fe***I*** all'epoca e sul luogo del sinistro. In tal modo la Corte di appello non ha applicato i principi posti dalla giurisprudenza di legittimità, la quale pretende venga data prova dell'essere l'organizzazione rappresentativa di un gruppo significativo di consociati, di avere essa come fine precipuo della sua attività la tutela dello specifico interesse leso dal reato, di aver concretamente svolto attività a difesa di quell'interesse. La Corte di appello si è limitata ad affermare che l'evento aveva travalicato i confini del luogo in cui si era verificato. Il danno è stato riconosciuto e liquidato senza alcuna motivazione.
15.5. Si lamenta vizio della motivazione e violazione degli artt. 539 cod. proc. pen., 1965 e 2056 c.c., in relazione alle statuizioni riguardanti il Comune di Viareggio. Si rappresenta che alla Corte di appello era stato rimarcato che il Comune di Viareggio aveva sottoscritto una transazione con la quale accettava 280.000 euro per tutti i danni patrimoniali subiti e 200.000 per tutti i danni residui, da intendersi come i danni non patrimoniali. La Corte di appello ha invece demandato al giudice civile la quantificazione del danno non patrimoniale, assegnando a questi il compito di accertare se la transazione 'coprisse' tutti i danni non patrimoniali. In tale statuizione l'esponente ravvisa la violazione dell'art. 1965 c.c. perché la Corte di appello doveva dare atto della cessata materia del contendere.

16. Ricorsi nell'interesse di PI.PA. e G.F.D.
PI.PA. e G.F.D. hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo dei comuni difensori di fiducia, avv. F.C. e avv. A.R.M. articolando sette motivi.
16.1. Il primo attiene alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, di cui all'art. 521 cod. proc. pen.
Gli esponenti rammentano che agli assistiti è stata contestata, con l'imputazione, una condotta omissiva, consistita nell'aver omesso il controllo visivo dell'assile e quindi di non aver evitato la messa in esercizio dello stesso; la sentenza di primo grado, tuttavia, ha ascritto ai medesimi, oltre alla condotta omissiva anche una condotta commissiva, consistente nell'aver messo in circolazione materiale rotabile non regolare. In ciò la violazione del principio di correlazione, della quale ricorre tanto il presupposto strutturale che quello funzionale, per come individuati dalla giurisprudenza di legittimità. Infatti, quanto al primo aspetto viene in considerazione la differente struttura del reato commissivo colposo rispetto a quella del reato omissivo improprio; quanto al secondo aspetto, la difesa si era conformata all'addebito di aver commesso un reato omissivo improprio e quindi aveva contestato la sussistenza delle posizioni di garanzia e l'attitudine dei prevenuti ad uniformarsi allo standard di diligenza richiesto dai soli specifici obblighi di garanzia loro richiesti. Per contro, ove l'addebito fosse stato originariamente incentrato su condotte commissive, la difesa avrebbe dovuto e potuto contestare la violazione di norme cautelari discendenti dal generico dovere di diligenza, prudenza e perizia e anche il profilo soggettivo del reato avrebbe dovuto essere rapportato a tale generico dovere. In conclusione, la contestazione di un reato omissivo improprio delimita un'area più ridotta rispetto a quella che ha ad oggetto un reato commissivo colposo, sicché se il passaggio da questa alla prima non integra la violazione del principio di correlazione, non è così nel caso inverso.
Ciò era stato fatto oggetto di specifico motivo di appello, al quale la Corte distrettuale ha replicato che non vi è stata immutazione del contenuto sostanziale dell'addebito, che sin da principio descrive una condotta omissiva consistente nell'omesso controllo visivo dell'assile e nell'omesso collaudo del carro ferroviario ed una condotta commissiva consistente nell'avere in quelle condizioni messo in circolazione materiale rotabile.
Ma, osservano gli esponenti, in realtà la messa in circolazione del carro è un segmento di condotta commissiva che non ha un ruolo autonomo rispetto alle contestate condotte omissive, risultando essa nulla più della realizzazione della situazione di pericolo che la norma cautelare mirava a prevenire. Si tratta, quindi, di una componente fisiologica del reato omissivo improprio.
La Corte di appello ha anche affermato che sin da principio le imputazioni consentivano di difendersi tanto sulla sussistenza delle specifiche norme individuate quali fonti delle posizioni di garanzia, quanto sulle violazioni di norme cautelari discendenti dal generico dovere di diligenza, prudenza, perizia.
Rilevano gli esponenti che tali considerazioni non sono idonee a dimostrare che la messa in circolazione del carro rappresenti anche nella originaria struttura dell'accusa un segmento di condotta giuridicamente autonomo rispetto alle omissioni contestate. Nell'impostazione della Corte territoriale, sarebbe individuabile una condotta commissiva entro qualsiasi addebito omissivo.
16.2. Con il secondo motivo si lamenta che la Corte di appello abbia omesso di motivare in merito alla deduzione della inidoneità degli artt. 2043, 2050, 2087 c.c. e dell'art. 24 d.lgs. n. 81/2008 a costituire fonti delle posizioni di garanzia ascritte agli imputati e la violazione dell'art. 40 cpv. cod. pen., laddove è stato ritenuto che tali posizioni di garanzia discendano da norme non indicate nell'imputazione e non vigenti al tempo della condotta.
Quanto al primo vizio, gli esponenti rammentano di aver dedotto che per la loro genericità gli articoli 2043, 2050 e 2087 c.c. non possono fondare posizioni di garanzia; l'obbligo di impedimento dell'evento deve discendere da norme a specifico contenuto cautelare e tali non sono le norme menzionate; quanto all'art. 24 citato, esso pure ha contenuto generico e il capo di imputazione non individua quali siano le normative di salute e sicurezza sul lavoro che sarebbero state violate dagli imputati. Su tali deduzioni la Corte di appello ha mancato di rendere motivazione.
Quanto alla violazione di legge, la Corte di appello ha fatto discendere l'obbligo del controllo visivo dell'assile dall'ordinanza Eba del luglio 2007, dalla TFA 12-12-01 del 14.9.2009, non indicate nell'imputazione, non vincolanti e non vigenti al tempo. L'ordinanza era stata sospesa a seguito di contenzioso instaurato da G***x, come dichiarato dal teste Feh. il 20.1.2016 e ribadito dall'ordinanza dell'EBA del 25.11.2009; le TFA non erano ancora state emanate e di ciò dà atto la stessa Corte distrettuale.
16.3. Vizio di motivazione viene colto anche laddove la Corte di appello ha motivato l'idoneità impeditiva della condotta doverosa non tenuta. Secondo gli esponenti la Corte di appello avrebbe dovuto prendere in esame il tema della possibilità concreta di rilevare visivamente le anomalie presenti sulla sala al momento del montaggio del componente. Ove fosse stato svolto tale accertamento, sarebbe emerso che le anomalie non erano rilevabili: non era visibile alcun ritocco con vernice nera, posto che, come emerso dalle dichiarazioni del prof. Nico., il componente era stato verniciato con vernice Eposist 2001 RAL 5011, di colore blu molto scuro tendente al nero, nero come sarebbe stato il colore della vernice utilizzata per il presunto ritocco; non era esistente alcun visibile stato di ossidazione, come emergente da quanto riferito dagli stessi periti del Gip, per i quali al momento del montaggio la supeR***Icie di interesse era completamente rivestita di vernice nera; inoltre, ancora a detta del Nico., la zona del collarino in una sala montata non era ispezionabile. Pertanto, quando anche eseguito il controllo visivo dell'assile, non sarebbe stata impedita la posteriore sequenza causale. La Corte di appello non ha reso motivazione su tali deduzioni, limitandosi a richiamare quanto espresso a riguardo del giudizio controfattuale relativo alle condotte ascritte agli operatori di Ju***l, senza che però si trattasse di situazioni sovrapponibili a quella degli imputati operatori in Cima.
16.4. Vizio di motivazione viene rilevato anche nella giustificazione della ricorrenza dell'elemento soggettivo del reato. La Corte di appello ha manifestato di volersi conformare ai principi formulati in materia dalla giurisprudenza di legittimità ma poi ha omesso di rapportare il giudizio di prevedibilità e di evitabilità al paradigma del modello di agente e lo ha applicato ad un profilo di colpa estraneo all'area delimitata dagli specifici obblighi di garanzia ascritti agli imputati. La Corte distrettuale ha affermato che la riconoscibilità del carattere assolutamente irregolare del rivestimento dell'assile e del suo collarino e la potenziale pericolosità della situazione caratterizzata dalla irregolarità della verniciatura e dalla mancanza di documentazione sullo stato dell'assile, con la presenza della targhetta W1, costituivano fattori di forte sospetto per chiunque e dovevano essere immediatamente percepiti da tecnici di adeguata esperienza nel settore ferroviario. Tali considerazioni, osservano gli esponenti, sono svincolate dal parametro del modello di agente, limitandosi a valorizzare le condizioni di irregolarità dell'assile e non la riconoscibilità dell'obbligo di sottoporre a controllo visivo lo stesso in forza delle disposizioni VPI e/o dell'ordinanza EBA e la riconoscibilità della situazione di pericolo connessa alla presenza della punzonatura W1. Con l'appello si era rammentato che il teste Cler. aveva escluso che il controllo visivo fosse previsto dalle disposizioni VPI e si era segnalato che tale tipo di controllo non poteva essere percepito come doveroso neppure sulla scorta dell'ordinanza EBA perché questa era stata sospesa su impugnazione nota a tutte le imprese del settore, le quali avevano la consapevolezza che il provvedimento non fosse efficace. Anche in merito alla percezione soggettiva della doverosità del controllo visivo per la presenza della punzonatura W1 era stato segnalato dalla difesa come dalle dichiarazioni di alcuni testi (Cler., Nico.) emergesse l'esclusione di tale percezione da parte degli appartenenti al settore. Non vi è stata motivazione su tali rilievi.
16.5. Con il quinto motivo si denunzia la violazione dell'art. 43, co. 3 cod. pen. per aver la Corte di appello ritenuto esigibile la condotta doverosa individuando questa non in quella descritta dall'imputazione ma in quella, eccentrica alla stessa, costituita dalla ispezione finalizzata alla verifica dei danni da trasporto e/o stoccaggio da parte degli operatori dell'impresa Ci***Ri***. Si cita al proposito un passo delle pagine 623 e 624, nel quale si sostiene che il controllo volto a verificare la presenza di eventuali danni derivati dal trasporto presupponeva necessariamente un'adeguata ispezione dell'intero componente e che esso avrebbe permesso di rendersi conto delle anomalie dell'assile.
Ma l'omissione di tale verifica, rilevano gli esponenti, non è mai stata contestata.
16.6. Con il sesto motivo viene dedotta la violazione di legge sostanziale, in relazione all'art. 43, comma 3 cod. pen., per aver la Corte territoriale ritenuto di escludere l'operatività del principio di affidamento perché assimilabile il caso concreto al cosiddetto "lavoro di equipe" a collaborazione necessaria, ed altresì il vizio di omessa motivazione, nella misura in cui la Corte di Appello ha ritenuto di escludere l'operatività del principio di affidamento senza fornire una motivazione idonea e sufficiente.
Gli esponenti rammentano che la Corte di appello ha affermato che non è pertinente l'evocazione del principio di affidamento in quanto "non si può, ..., sostenere ('imprevedibilità della situazione di pericolo, che era invece insita nel fatto stesso di provvedere al montaggio di un assile che presentava un rivestimento supeR***Iciale così chiaramente anomalo", e che vale quanto statuito in tema di attività medica di equipe, circa il dovere dei componenti di controllare la correttezza dell'altrui operato emendando errori evidenti e non settoriali, conoscibili con le comuni conoscenze di un professionista medio.
Gli esponenti svolgono una approfondita disamina delle diversità correnti, a loro avviso, tra l'ipotesi di cooperazione necessaria e quella di cooperazione tra garanti tra loro successivi. Nell'ipotesi in cui più persone prestino la propria attività nella forma della collaborazione necessaria (cosiddetto lavoro di equipe) tutti i soggetti coinvolti nell'attività pericolosa rivestono la medesima posizione di garanzia; nel caso in cui una pluralità di soggetti intervengano, in sequenza, ciascuno per la porzione di propria competenza nella forma di attività individuali che possono intersecarsi reciprocamente, i vari soggetti che prestino, in sequenza, la propria attività individuale assumono posizioni di garanzia diverse. A seconda del caso, l'affidamento sulla conformità del comportamento altrui alle regole di diligenza, prudenza e perizia assume dei contorni ben diversi. Per poter escludere l'operatività del principio di affidamento è necessario che le circostanze del caso concreto consentano di riconoscere la possibilità di un altrui comportamento colposamente pericoloso; non si deve essere titolari di uno specifico obbligo di vigilanza sull'attività svolta dal soggetto precedentemente intervenuto. Laddove ci si trovi al cospetto di ipotesi di collaborazione necessaria, inevitabilmente i limiti anzidetti assumono massima estensione atteso che il soggetto chiamato a svolgere, successivamente, il proprio segmento di attività riveste la medesima posizione di garanzia del soggetto intervenuto in precedenza. Qualora, in questi casi, sia provata la possibilità per il soggetto che interviene successivamente di accorgersi del mancato adempimento dell’obbligo giuridico di impedire l'evento da parte della persona intervenuta precedentemente non può essere invocato il principio dell'affidamento.
In queste ipotesi risulta intrinseco l'obbligo di vigilanza in capo al soggetto intervenuto successivamente sulle attività espletate dall'agente (o emittente) precedente perché insito nell'unitario obbligo giuridico di impedire l'evento imputabile (in egual misura e nello stesso contenuto) ad entrambi i soggetti.
Invece, quando vi sia una pluralità di attività individuali connesse al rispetto di norme cautelari diverse - e dunque nella sistematica del reato omissivo improprio colposo - ancorate a posizioni di garanzia differenti, la possibilità di riconoscere dalle circostanze del caso concreto il comportamento colposo altrui (sia esso di natura commissiva o di natura omissiva) dovrà inevitabilmente essere ridimensionato e riadattato al perimetro oggettivo tracciato dallo specifico obbligo gravante sul soggetto garante intervenuto successivamente. Il garante chiamato a intervenire successivamente, pertanto, non potrà avvalersi del principio di affidamento solo nelle ipotesi in cui l'adempimento dello specifico obbligo - diverso da quello incombente sul soggetto intervenuto precedentemente- consenta allo stesso di accorgersi del comportamento colposo altrui.
La valutazione in ordine alla possibilità di riconoscere il comportamento colposo altrui, dovrà, in questi casi, inevitabilmente, essere effettuata verificando, attraverso un giudizio di esigibilità orientato secondo il paradigma del modello di agente - che, nella sistematica dei reati omissivi impropri colposi, permea di sé tutta la prognosi circa la configurabilità dell'elemento soggettivo - se un soggetto, appartenente alla medesima categoria professionale dell'imputato, adempiendo allo specifico obbligo di garanzia contestatogli, avrebbe rilevato una condotta colposa nell'operato del soggetto garante intervenuto precedentemente. Sotto l'altro profilo, un obbligo di vigilanza sull'operato altrui potrà ritenersi operante solo nel caso in cui la posizione di garanzia ascritta a chi intervenga successivamente contempli anche uno specifico obbligo di vigilanza sul soggetto intervenuto precedentemente.
Il giudice di secondo grado, senza compiere nessuna delle doverose distinzioni sopra operate, ha escluso l'applicabilità in favore degli imputati di Ci***Ri*** del principio di affidamento riportando una massima riferibile solo ed esclusivamente alla casistica del lavoro di equipe a collaborazione necessaria, ove, pertanto, i sanitari coinvolti rivestivano tutti esattamente la medesima posizione di garanzia fondata sugli stessi obblighi impeditivi dell'evento. Gli imputati in parola, per contro, rivestivano una posizione di garanzia ben diversa da quella degli operatori di Ju***l e di G***x: mentre a questi ultimi - come desumibile dalla mera lettura del capo di imputazione - viene contestata (in estrema sintesi), rispettivamente, una posizione di garanzia discendente dall'obbligo di svolgere una revisione IS2 sull'assile 98331 e una posizione di garanzia discendente dall'obbligo di vigilare sulla corretta esecuzione della suddetta revisione, agli operatori di Ci***Ri*** è stata ascritta, secondo la prospettazione accusatoria, una posizione di garanzia derivante dall'(asserito) obbligo di svolgere un ulteriore, distinto e autonomo controllo visivo manutentivo su detto componente, senza, peraltro, che tale posizione contemplasse anche un obbligo di vigilanza sul precedente operato dell'officina Ju***l.
Di qui i vizi denunciati.
16.7. Con il settimo motivo dei ricorsi del Pi.[PA.] e del G.F.[D.] (corrispondente all'ottavo del ricorso della Società Ci***Ri*** S.p.a.) si lamenta il vizio di motivazione e la violazione degli artt. 589, co. 2 e 590, co. 3 cod. pen., in relazione alla ritenuta sussistenza delle aggravanti ivi previste. La Corte di appello ha motivato sul punto prendendo in considerazione le osservazioni svolte dalle altre difese e non anche quelle di cui agli appelli degli imputati Pi.[PA.] e G.F.[D.]. Per essi si era rilevato che il luogo dove si erano verificati gli eventi non costituiva luogo di lavoro e che non erano state individuate le specifiche norme prevenzionistiche agli stessi riferibili, non potendo valere come tali i richiami agli artt. 2087 c.c. e 24 d.lgs. n. 81/2008, per la loro genericità. Su tali rilievi la Corte di appello non ha offerto alcuna replica. In ogni caso, anche quando si possa ritenere sufficiente il riferimento all'art. 2087 c.c., ciò non di meno ciò non può valere per gli imputati di Ci***Ri***, che non rivestivano all'interno della società il ruolo datoriale.

17. Ricorso nell'interesse di Ci***Ri*** s.p.a., responsabile civile
La Società Ci***Ri*** S.p.a., quale responsabile civile, ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, avv. F.M.G. articolando otto motivi.
I primi sei motivi e l'ottavo sono nella sostanza corrispondenti a quelli dei ricorsi proposti nell'interesse del Pi.[PA.] e del G.F.[D.] e sorretti dalle medesime argomentazioni. Pertanto, essi non vengono nuovamente esposti.
17.1. Con il settimo motivo del ricorso della Ci***Ri*** s.p.a. si denuncia il vizio della motivazione, sotto il profilo della contraddittorietà della stessa e del travisamento della prova. La Corte di appello ha attribuito al teste Wirt. - ud. 3.2.2016 - affermazioni che questi non fa ed ha omesso di considerare affermazioni dal medesimo fatte. Per effetto di tale errata considerazione, la Corte di appello non ha assunto quanto effettivamente affermato dal teste, ovvero che il controllo visivo era funzionale alla sola verifica di danni alla vernice che l'assile avrebbe subito in caso di caduta nel trasporto. Come dichiarato anche dal teste Cler.. Quanto alla targhetta W1, rammentato che, alla luce di quanto dichiarato dal teste Laur., essa sta a segnalare che in occasione di revisione sono stati individuati alveoli di corrosione valutati però come accettabili e che essa impone un approfondimento di indagine unicamente in sede di successiva revisione, secondo quanto stabilito dalle disposizioni VPI all'appendice 6 del cap. 4, l'esponente rimarca che sulla Ci***Ri*** non gravava alcun obbligo di effettuare un controllo manutentivo sull'assile né di richiedere informazioni a Ju***l o a G***x; in particolare, quanto al rapporto con quest'ultima, è quanto la targhetta apposta sulla sala ad avere valore e funzione di documentazione di quanto svolto sulla stessa, come dichiarato dal teste Laur.. Sicché l'affermazione della Corte di appello, per la quale la prova della mancata effettuazione del controllo visivo sarebbe data anche dall'assenza di documentazione in ordine a tale controllo, è basata su un travisamento della prova, posto che i testi hanno riferito che la normativa vigente all'epoca non prevedeva la necessità di documentare una analisi di tipo visivo su una sala che giungeva in officina già revisionata.
Con riferimento al tema della verniciatura della sala, l'esponente rileva che l'affermazione della Corte di appello secondo la quale la sala sarebbe stata conservata dopo il sequestro in modo da non produrre alterazioni del suo stato fonda su fotografie - comparate tra loro - che riguardano il collare e non l'intero assile, laddove i rilievi della difesa attenevano alla carente modalità di conservazione dell'intero assile. Ciò significa che le considerazioni della Corte distrettuale basate su quanto accertato dai periti sono inficiate dalla omessa valutazione dell'influenza del cattivo stato di conservazione dell'assile tra il momento dell'incidente e il febbraio 2010, quando sono state adottate le cautele per la sua conservazione; e che, di conseguenza, sono inattendibili le considerazioni circa lo stato dell'assile all'atto del montaggio da parte di Ci***Ri*** nel marzo 2009.
Per l'esponente la motivazione è illogica laddove tratta del tema della presenza di segni di sbollatura e sfaccettatura della vernice, poiché richiama l'affermazione del c.t. Ton., secondo la quale all'atto degli accertamenti tecnici presso la Lucchini entrambi i collari erano caratterizzati da uno stato di ossidazione imponente, dimostrato dalle sbollature della vernice, mentre da essa si ricava l'inesistenza di collegamento tra stato di ossidazione nella zona dei collari e presenza della cricca, giacché pur essendo entrambi i collari caratterizzati da sbollature, uno solo di essi subì la rottura.

18. Ricorsi nell'interesse di CA.MA. e SO.VI.
CA.MA. e SO.VI. hanno proposto con atto unitario ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, avv. A.M., articolando una pluralità di motivi raccolti in tre gruppi.
18.1. Il primo attiene alla errata applicazione del d.lgs. n. 81/2008 e al vizio della motivazione, con riferimento alla ritenuta applicabilità della normativa antinfortunistica.
Sostiene l'esponente che, secondo la giurisprudenza di legittimità, i terzi sono tutelati dalla normativa anti infortunistica ma quando si trovino nei luoghi di lavoro, sempre che tale presenza non abbia caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità. Quanto alla nozione di luogo di lavoro, la medesima giurisprudenza ritiene che non possa prescindersi dalla correlazione che esiste tra essa e la specifica organizzazione imprenditoriale. Poiché il non lavoratore è protetto a condizione che si trovi sul luogo di lavoro, nel caso di specie occorre considerare che le vittime del disastro si sono trovate all'esterno della linea e della stazione ferroviaria, nonché, ovviamente, del treno e delle cisterne. Una giurisprudenza formatasi nel campo specifico ferroviario ha ritenuto applicabile la normativa antinfortunistica anche nei riguardi di terze persone; se però esse vengono a contatto con la ferrovia. Ad avviso dell'esponente sono inconferenti i richiami operati dalla Corte di appello all'articolo 2087 c.c. e va considerato che l'insussistenza della relazione tra il datore di lavoro ed i terzi non esclude una diversa posizione di garanzia fondata sul dovere di garantire una sicura circolazione. Ed è per l'appunto questo il profilo trascurato dalla sentenza, la quale d'altra parte riconosce che l'incidente non è avvenuto sul lavoro all'interno dell'ambiente di lavoro e che si è trattato di un disastro ferroviario che ha messo in pericolo l'intera città.
18.2. Si denuncia poi l'erronea interpretazione degli articoli 40 e 41 cod. pen. e della normativa europea sovranazionale ed internazionale nonché l'omessa, travisata e illogica motivazione sulla questione della valutazione del rischio e l'omessa valutazione del tema delle società complesse. Rileva l'esponente che la Corte di appello ha dato atto che il sistema di gestione della sicurezza di Tre*** era adeguato anche perché in esso trovava ingresso pure la valutazione dei rischi, ma ha ritenuto che al medesimo non venne data pratica attuazione e che esso non prevedeva la regolamentazione dei carri esteri trasportanti merci pericolose. Secondo l'esponente il sistema invece era stato elaborato per far fronte a tutti i rischi e aveva considerazione anche della gestione delle merci pericolose, trattando quindi la valutazione dei rischi anche del trasporto delle merci pericolose. Sotto altro profilo l'esponente rileva che la Corte di Appello non ha tenuto conto del tema delle società complesse, avendo considerato Tre*** alla stregua di una struttura comune, di ordinarie dimensioni, quando così non era. Il tema rileva sotto molteplici profili. In primo luogo, per la adeguata valutazione della posizione di garanzia dell'amministratore delegato che può essere ritenuto responsabile solo quando violi consapevolmente i propri doveri; ciò può derivare dalla presenza di segnali significativi in relazione all'evento illecito. Ulteriore aspetto concerne la modalità di gestione del rischio, dovendosi fare riferimento al soggetto espressamente deputato a quella gestione. Altro profilo riguarda l'incarico assegnato alla struttura interna selezionata per affrontare la gestione del rischio. L'esponente rammenta che nel periodo 2004-2006 vennero istituiti specifici teams e che esistevano strutture aziendali deputate alla gestione della sicurezza, principale tra le quali il comitato di business. La sentenza impugnata pur sostenendo, errando, che non è stato valutato il rischio di deragliamento, riconosce che comunque tale condotta non è stata causa dell'evento e che essa vale solo a dimostrare la scarsa attenzione prestata ai rischi connessi al trasporto di merci pericolose. L'esponente contesta che il sistema di gestione della sicurezza trascurasse i rischi derivanti dal materiale estero con potenziale rischio. Mai vennero elevati rilievi al sistema di gestione dei rischi. La Corte di appello valuta negativamente anche la circostanza che la società non abbia effettuato una valutazione dei rischi complessiva, avente ad oggetto una visione unitaria, essendo stata demandata alle singole unità produttive la redazione dei documenti specifici. Secondo la Corte di Appello quel rischio, adeguatamente valutato, avrebbe dovuto condurre ad azioni mitigative. Ma l'osservazione è infondata: il sistema di gestione della sicurezza è diverso per le imprese ferroviarie e per il gestore dell'infrastruttura e non è previsto da nessuna norma l'obbligo di operare congiuntamente. La Corte d'appello, d'altronde, non fornisce elementi che ancorano alla legge o ai regolamenti la sua diversa affermazione. Quanto alla valutazione del rischio, la sentenza si riferisce per le sue modalità alle metodologie ISPSEL e a EN 50126. Tuttavia, la sentenza è oscura allorché afferma che la valutazione del rischio è incompleta perché non si interviene sulla mitigazione della gravità. Posto che il rischio è la risultante di due componenti, la probabilità e la gravità, allorquando la società ha valutato impossibile agire diminuendo la gravità degli effetti, ha operato incidendo sulla probabilità di verificazione dell'evento. L'evento era possibile ma fu valutato come improbabile sulla base delle normative europee. Quanto all'ordinanza dell'EBA del 2007, essa era diretta alle imprese ferroviarie tedesche e non giunse a conoscenza delle società italiane, come riconosce la stessa sentenza. Persino l'organo di controllo ne venne a conoscenza solo dopo l'incidente di Viareggio. Anche gli incidenti avvenuti negli Stati Uniti d'America, citati a dimostrazione della possibilità di operare previsioni, in realtà non presentano analogie con quello di Viareggio. In particolare, si trattò di incidenti nei quali non si verificò mai la rottura dell'assile. Quanto ai due casi italiani, pure considerati, essi non sono indicati nella nota dell'Autorità nazionale per la sicurezza ferroviaria 35-09 del 21 ottobre 2009; quindi furono ritenuti precedenti non rilevanti dallo stesso organo di controllo. La sentenza afferma
correttamente che non si proposero campanelli di allarme per carri manutenuti da terzi. La Corte d'appello afferma che la valutazione dei rischi deve prevedere anche possibili eventi successivi al deragliamento ma in questo modo "il paradigma del rischio subisce sfumature che lo rendono inavvicinabile ad altri casi".
18.3. Si denuncia la errata interpretazione della legge penale ed extra penale e la illogicità della motivazione sulla questione del deficit informativo riguardante il carro incidentato. Il motivo si incentra sulla contestazione dell'assunto della Corte di appello secondo il quale, pur non essendo previsto dal quadro normativo nazionale e sovranazionale un obbligo di tracciabilità dei carri e dei suoi componenti, sono comunque rinvenibili agganci normativi per ritenere sussistente un obbligo di controllo documentale da parte del vettore.
L'esponente prende in considerazione i diversi richiami normativi operati dalla Corte di appello (punti 3.3.1.3 e 3.3.1.4 della fiche 433- 03; i punti 7.2 e 7.3 del CUU; le note dell'ANSF 660-08, 283-06, 624-07, 3486-09, 3556-09 e 4738-09), affermando che nessuna disposizione impone la tracciabilità, stante il sistema della interoperabilità e il ruolo delle STI (specifiche tecniche di interoperabilità) nella regolamentazione della materia, in connessione alla marcatura RIV. La disciplina eurounitaria è sovraordinata a quella nazionale, che va interpretata in funzione della piena applicazione della prima. Orbene, il sistema eurounitario stabilisce che l'autorizzazione alla messa in servizio dei carri, rilasciata da uno Stato membro, è riconosciuta per reciprocità da tutti gli Stati membri. La CEI EN 50126, la direttiva 49/2004, l'art. 14.2, l'art. 4.4., la decisione 861/2006, la nota 892/09 dell'ANSF, la disposizione 13/01, le note R***I 283/06 e 624/07, la direttiva 110/2008 vengono presi in considerazione dall'esponente per dimostrare che, a differenza di quanto affermato dalla Corte di appello, da essi non è possibile evincere il preteso obbligo di controllo. In ogni caso, si osserva, la Corte di appello identifica in modo impreciso la documentazione che si sarebbe dovuto acquisire e non considera che tutte le informazioni pertinenti sono recate dal cartiglio di manutenzione, dalle piastrine e dalle etichette, come confermato dal teste Laur.. Quanto all'assile, esso era una componente che manteneva la sua autonomia e le imprese italiane non avevano alcun potere giuridico per chiedere o imporre standard manutentivi diversi. Ancora, l'avviso di spedizione dato da G***x a FLog*** conteneva tre informazioni, relative rispettivamente alla spedizione del carro, alle caratteristiche della ferrocisterna, alla tabella delle revisioni effettuate e da effettuare, alla data dell'ultima revisione del telaio, alla data e alla tipologia della prossima prova serbatoio, al grado di pulizia dello stesso, ai prodotti trasportabili; la stessa FLog*** disponeva dei dati relativi alla percorrenza dei carri. Quanto alla procedura di cabotaggio, essa all'epoca non era in vigore e sul punto la Corte di appello incorre in vizio interpretativo e motivazionale; in effetti, la legislazione comunitaria, nel fondare il sistema della interoperabilità, ha paralizzato l'applicabilità della procedura del cabotaggio. In ogni caso, anche se fosse stata in vigore, il punto II.4.1. pone l'onere di promuovere la richiesta in capo all'impresa ferroviaria titolare o detentrice del carro, quindi non Tre*** ma G***x; come conferma la circostanza che la prova fu richiesta da Ci***Ri*** indicando quale impresa ferroviaria delegante la KVG, che poi modificò la propria denominazione in G***x. Inoltre, se in vigore, non si sarebbe comunque applicata ai carri riammessi nel circuito ferroviario nel 2009, come si deduce dalle note ANSE 35/09 e 64/09 (si applicava solo ai carri che non fossero rispediti in Italia immediatamente dopo la manutenzione). Ancora, essa riguardava la sovrastruttura e non la sottostruttura, per la quale indicava solo una verifica documentale. Sicché, eseguendola, si sarebbe appurato che le revisioni erano state effettuate, e acquisiti dati la cui mancanza non ha avuto alcuna incidenza sul sinistro. È illogico l'assunto della Corte di appello secondo il quale la tracciabilità avrebbe rilevato un rischio di frattura dell'assile più elevato, perché costruito nel 1974, da fonderia dell'ex DDR. Va considerato che non sono stati acquisiti dati di un maggior rischio di frattura di assili con le medesime caratteristiche costruttive e che il c.t. Ton. ha precisato che esso era costituito da eccellente acciaio; la resilienza non era connessa alla genesi dell'incidente. L'esponente conclude sul punto rimarcando che la responsabilità della manutenzione risale a chi l'ha eseguita, salvo la presenza di vizi visibili. Sicché la Corte di appello erra nel pretendere una analisi della manutenzione spinta sino alla considerazione delle procedure seguite, del macchinario usato, dei certificati di taratura esistenti; l'esponente cita a conforto un passo della deposizione del Chiov..
18.4. Viene denunciata la violazione degli artt. 40, 41, 43 cod. pen. e il vizio della motivazione in ordine ai temi del nesso causale e della causalità della colpa.
La Corte di appello non ha rispettato i criteri per l'accertamento causale; in primo luogo, ha contraddittoriamente dapprima negato che nel caso di specie assumesse rilievo l'assenza di segnali di allarme perché l'obbligo di tracciabilità ha natura formale, poi ha reputato il mancato ottenimento della documentazione un campanello di allarme. In secondo luogo, le informazioni relative alla storia del carro non avrebbero evidenziato l'esistenza della cricca né avrebbero rappresentato un campanello di allarme, come dimostra quanto riferito dal Chiov.: l'ANSF richiese all'EBA delle informazioni - quelle che secondo la Corte di appello si sarebbero dovuto acquisire ex ante - ma si tratta di informazioni che non avrebbero svelato le condizioni della cricca o altre irregolarità del carro. Secondo l'esponente, la motivazione è illogica perché a fronte della necessità di accertare il come riconoscere la cricca, cioè il rischio tipico, la sentenza indaga il rischio generico. Quindi essa viola la legge penale dando per accertato un legame causale che manca, non risalendo ai vari segmenti per verificare la concatenazione tra cricca e rischio specifico che ha generato l'evento. L'obbligo connesso all'evento è l'esatto controllo della cricca ed esso è attribuibile ad altri.
L'affermazione della Corte di appello, per la quale i documenti che sarebbero stati acquisiti avrebbero indotto gli imputati a chiedere controlli più adeguati sull'assile, è priva di riscontro ed è solo probabilistica, laddove il giudizio controfattuale deve essere espresso alla luce del canone dell'alta credibilità razionale. In sintesi, il deficit informativo, ove colmato, non avrebbe fornito elementi da cui ricavare il rischio decisivo per l'evento, ovvero la scorretta manutenzione, la probabile esistenza della cricca, la possibilità di frattura.
L'esponente denuncia poi l'omissione motivazionale a riguardo del rilievo difensivo che faceva perno sulla circostanza che la posizione del coindagato DVis. era stata archiviata (dopo la richiesta di rinvio a giudizio per gli altri imputati), perché la sostituzione degli assili configurava un fattore interruttivo del nesso causale. Ciò non poteva che valere anche per i ricorrenti.
Quanto al profilo della colpa, ad avviso dell'esponente la Corte di appello ha posto a carico degli imputati l'evento ancorché di esso fosse affermabile una "sufficiente prevedibilità"; inoltre la prevedibilità non è quella astratta ma va verificata sulla base delle circostanze di fatto in cui si trovava il soggetto. Per l'esponente nel caso di specie ricorre una ipotesi di 'doppio affidamento' degli imputati: nei confronti dei controllori individuati dalla normativa e nei confronti della struttura specialistica interna all'impresa. Quanto all'evitabilità dell'evento, la Corte di appello ha ritenuto salvifica l'adozione delle misure adottate dall'ASNF dopo l'incidente. Ma si tratta di un intervento non conforme a norme. Altrettanto deve dirsi della condotta assunta dalla DIGF. In ogni caso, viene ripetuto, il giudizio controfattuale deve essere condotto alla luce della alta credibilità razionale. La sentenza è poi viziata anche perché non esamina il rapporto tra la regola e il rischio; la cautela rilevante rispetto all'evento è quella specificamente diretta ad esso.
18.5. Indicata come secondo motivo ricorre la denuncia di analoghi vizi attinenti alla motivazione in tema di attribuibiliìtà soggettiva ai ricorrenti. Quanto al Ca.[MA.], l'esponente rammenta che questi è stato ritenuto responsabile perché l'A.D. di Ca*** Che*** che aveva stipulato il contratto di noleggio dei carri con G***x l'11.1.2005 e quale datore di lavoro. Asserisce che la Corte di appello ha errato nell'attribuire al Ca.[MA.] la sottoscrizione del contratto a favore di Tre***; richiama le censure che si incentrano sulla archiviazione della posizione del DVis., lamentando che ad esse non è stata data risposta.
Secondo la Corte di appello alcune pattuizioni del contratto di noleggio prevedevano in capo al locatario l'obbligo di effettuare controlli specifici sul carro ed i suoi componenti. L'esponente contesta tale affermazione proponendo la propria analisi delle disposizioni richiamate dal Collegio distrettuale e concludendo che ogni obbligo di vigilanza e controllo in materia di sicurezza era rimasto a carico del locatore, conformemente alla normativa sovranazionale. È immotivato il giudizio di incongruità della scelta della G***x come locatrice in quanto impresa non affidabile; né sono state violate regole del Manuale di eccellenza sostenibile del 15.1.2009, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello. L'esponente sviluppa una analisi delle pertinenti disposizioni per contestare che nell'art. 8.2. del d.lgs. n. 162/2007 sia rinvenibile una fonte degli obblighi individuati dalla Corte di appello: in sostanza, gli obblighi di manutenzione gravavano sui soli fornitori e non sugli intermediari, quale era FLog***, come risulta confermato anche dal Chiov..
Per quanto concerne il So.[VI.], l'esponente afferma che la sentenza non spiega perché la frattura dell'assile sarebbe conseguenza di una omissione del ricorrente e quale sua condotta salvifica avrebbe evitato l'evento. Osserva che la Corte di appello ha trascurato il tema dell'azienda complessa, della ripartizione dei compiti, della struttura articolata e composta da specialisti.
Le procedure adottate da Tre*** per il trasporto di merci pericolose sono state rispettate e dimostrano l'adozione e l'efficace attuazione di misure organizzative finalizzate alla massima garanzia di sicurezza. Il sistema si fonda sul decentramento, con la individuazione di datori di lavoro locali (i responsabili delle unità produttive territoriali), sui quali gravano gli obblighi antinfortunistici, primo tra gli altri quello della valutazione dei rischi. L'esponente contesta che l'analisi dei rischi operata dal datore di lavoro così individuato fosse stata incompleta, perché in realtà correlata al SGS nazionale. Non coglie il vero la sentenza impugnata quando afferma che il So.[VI.] avrebbe ammesso le sue responsabilità.
18.6. Si denuncia infine, con il terzo motivo, la violazione degli artt. 69 e 133 cod. pen. ed il vizio della motivazione in quanto la Corte di appello non ha spiegato le ragioni a base dell'operato giudizio di bilanciamento delle concorrenti circostanze del reato; inoltre, la pena base non è stata modificata nonostante alcuni profili di colpa siano venuti meno all'esito del giudizio di appello.

19. Ricorso nell'interesse di Mer*** Logistics s.p.a. (già FLog*** s.p.a., già Ca*** Che*** s.r.l.), responsabile civile
Ricorre per la cassazione della sentenza la Mer*** Logistics s.p.a., con atto sottoscritto dal difensore di fiducia avv. L.G..
19.1. Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza per essere stato violato il principio di precostituzione del giudice, essendo stato assegnato il procedimento ad un Collegio individuato in violazione delle previsioni tabellari, per mere ragioni di opportunità. Dopo aver operato una ricognizione dei dati di fatto maggiormente pertinenti, l'esponente segnala che se è noto che la violazione dei criteri tabellari non comporta di per sé sola la violazione del principio del giudice naturale e dunque non costituisce ordinariamente una nullità, "vero è però che più volte la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato come detto vizio sussista laddove la designazione del giudice sia stata effettuata al di fuori di ogni criterio tabellare, eludendo la normativa al solo scopo di designare uno specifico giudice per un dato processo. Questo è ciò che è accaduto nell'ipotesi che ci occupa".
L'esponente rammenta che la soppressione delle Sezioni Distaccate di Tribunale è stata prevista dal D.Lgs. 7 settembre 2012 n. 155 con efficacia dal 13 settembre 2013. Solo da tale data i magistrati che esercitavano le funzioni presso detta sezione distaccata dovevano intendersi assegnati alla sede principale del tribunale. Tale interpretazione è stata avallata dal C.S.M. con la delibera in data 12 novembre 2012 ed è stata assunta anche dal Tribunale Amministrativo Regionale di Milano (Sez. III, sent.n.2246 8.10.013), che ha annullato, per violazione di legge, il provvedimento del Presidente del Tribunale di Monza, con il quale si anticipava l'efficacia del D. L.vo n.155/2012 alla data della entrata in vigore del provvedimento autorizzativo. Ha quindi errato la Corte d'Appello laddove ha invocato a fondamento della propria ordinanza la delibera del C.S.M. sopra menzionata. Ne discende, per l'esponente, che sino al 13.9.2013 il terzo collegio, di nuova istituzione, non era esistente. Osserva, ancora, che la fondatezza dell'assunto patrocinato è dimostrato dal fatto che nessun decreto di rinvio a giudizio emesso dal Tribunale di Lucca in data antecedente al 14 settembre 2013 indicava quale Collegio assegnatario il "terzo collegio". "Soltanto il procedimento penale n.6305/09 r.g.n.r., non a caso individuato specificamente nel decreto n. 15/2013" - rimarca l’esponente - "fu assegnato a detto costituendo collegio, ancora non esistente all'epoca della formale indicazione. Ed il fatto che nel decreto di rinvio a giudizio non sia indicato come tale (Collegio III), ma come 'Collegio Dr. Boragine, Dr. Marino, Dr. Genovese' offre implicita conferma della sua inesistenza come 'Collegio III' all'epoca del decreto che dispone il giudizio". Contesta, poi, l'affermazione della Corte di appello secondo la quale il decreto interno del Presidente della Sezione Penale del Tribunale di Lucca (mai sottoposto al parere del Consiglio Giudiziario né tantomeno alla approvazione del C.S.M.) avesse avuto valore meramente "attuativo" della Variazione Tabellare n. 15 poiché esso, in realtà, anticipava le nuove assegnazioni, per il solo Collegio III.
19.2. Con il secondo motivo si lamenta l'errata configurazione della colpa perché identificata nella violazione di un dovere di tracciabilità del carro estero non previsto da alcuna norma.
La Corte di appello ha sostenuto che la Ca*** Che*** ricevette il carro senza alcuna informazione, oltre quanto riportato sul cartiglio. L'esponente rileva che l'affermazione contrasta con la prova acquisita, citando nove documenti ricevuti dalla società, i quali attestavano la regolarità della revisione e della manutenzione del carro e la conformità al manuale VPI fin dal momento del suo ingresso in Italia.
Sono stati indicati nella:
1) "denuncia di spedizione" del carro n. 33807818210-612 inviata il 3.1.2005 da KVG a Ca*** Che*** S.R.L.;
2) lettera inviata il 10.9.2008 da G***x RAIL AUSTRIA a F.S. LOGISTICA S.P.A.;
3) lettera del 21.11.2008 di F.S. LOGISTICA S.P.A. a Tre***;
4) lettera con cui F.S. LOGISTICA S.P.A. aveva comunicato all'impianto di Pomezia l'arrivo dei carri;
5) lettera inviata da F.S LOGISTICA S.P.A a Servizi Speciali integrativi Genova e per conoscenza a Cima;
6) "comunicazione dei lavori effettuati/uscita carri privati" emessa da Cima il 2.3.2009;
7) "comunicazione di uscita/avviso di spedizione", inviata da Cima il 2.3.2009 a F.S. LOGISTICA S.P.A. stazione di Trecate;
8) "avviso di spedizione" inviato da Cima il 2.3.2009 a F.S. LOGISTICA S.P.A., stazione Trecate, Raffineria Sarpom;
9) "avviso di spedizione" inviato da G***x RAIL AUSTRIA il 9.3.2009 a F.S. LOGISTICA S.P.A, indicante le nuove scadenze delle revisioni.
Per l'esponente da tanto consegue che la Corte di Appello si è astenuta dal motivare circa i confini dell'obbligo informativo che gravava sulla società; essa ha così evitato di confrontarsi con il tema relativo alla eventuale doverosità della acquisizione di ulteriori informazioni e conseguentemente con quello della efficacia impeditiva dell'evento che tali ulteriori informazioni avrebbero posseduto, nonché sulla esigibilità dal Ca.[MA.] della acquisizione di tali ulteriori informazioni.
La prova documentale sulla quale la Corte di appello fonda la pretesa integrale assenza di tracciabilità - ovvero la mail inviata da Fu.Bom. alla G***x subito dopo il disastro - non è stata valutata nel contesto della complessiva documentazione, che attesta il continuo scambio di informazioni fra il detentore dei carri e l'impresa noleggiataria con riguardo ad ogni singolo carro noleggiato, ed il continuo controllo da parte di FLog*** S.p.A. delle attività manutentive svolte sui carri da essa noleggiati.
La testimonianza del Chiov. confligge con l'affermazione, svolta a più riprese in sentenza, che sarebbe stato "doveroso" da parte di FLog*** S.p.A. l'accertamento relativo all'epoca di costruzione dell'assile, al nome del suo costruttore, alla colata di acciaio dalla quale esso è originato, a tutte le singole operazioni di manutenzione cui esso è stato sottoposto.
19.3. L'esponente sostiene che è errato aver dedotto la regola cautelare incentrata sull'acquisizione di informazioni in merito alle condizioni del carro dalla nota che l'ANSF, in data 1.7.2009 e dunque in seguito al sinistro, inviò all'EBA e da quanto dalla DGIF presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti "proposto, tra le raccomandazioni di ordine tecnico-operativo per la migliore prevenzione degli incidenti ferroviari" ad organismi sovranazionali e nazionali affinché, alla luce del sinistro occorso, adottassero un regime normativo e tecnico-operativo più efficace di quello esistente a fini di prevenzione. Si tratta di misure individuate ex post, non oggetto di obbligo ma di raccomandazione, non riferite all'impresa ferroviaria o ad altro operatore ma a istituzioni con competenza normativa.
Ad avviso dell'esponente, proprio la Relazione della DGIF attesta l'inesistenza, al momento del sinistro, di un regime di tracciabilità completa degli assili.
Ulteriore errore di diritto commesso dalla Corte di appello viene individuato, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, nel fatto di aver fatto coincidere l'obbligo di garanzia, connesso alla posizione di garanzia, con le modalità con le quali quello deve essere adempiuto. La Corte di appello si è limitata a richiamare norme che attribuiscono compiti e funzioni.
Inoltre, il richiamo alla norma CEI EN 50126 non considera che si tratta di norma tecnica che prevede adempimenti in capo al produttore/costruttore ma non in capo all'utilizzatore del prodotto; e che la direttiva 2008/110/CE non era ancora vigente. Per l'esponente aver ritenuto che tali previsioni si applichino anche al noleggiatario, in ragione delle clausole contrattuali stipulate tra G***x Austria e Tre***, fonda su una errata lettura degli artt. 4, 6, co. 2, 25. Anche Kart. 2050 c.c. viene richiamato senza spiegare perché da tale norma si può dedurre lo specifico obbligo di richiedere tutte le informazioni relative alla vita del carro noleggiato e dei suoi componenti e della sua storia manutentiva.
Quanto al Manuale del Sistema di Gestione per l'eccellenza sostenibile, si osserva che esso reca disposizioni a valenza endo-aziendale che risultano peraltro rispettate.
L'esponente critica anche l'interpretazione fatta dalla Corte di appello dell'art. 6, co. 2 del contratto tra Ca*** Che*** e G***x Austria, rilevando che da esso non può ricavarsi alcuna posizione di garanzia della prima ed anzi vi si rinviene la conferma di una responsabilità di G***x nel caso di colpa del locatore. Analoga critica si indirizza alla interpretazione dell'art. 4: il termine "difetti" utilizzato dalla norma in esame deve essere interpretato nel senso di mancanza di componenti strutturali o di inutilizzabilità del mezzo, e non già in riferimento alla sicurezza e alla idoneità tecnica del carro, attestata dalla documentazione inviata a FLog*** S.p.a. dal locatore. Il riferimento ai "difetti" si collega a vizi esteriormente rilevabili, senza necessità di operazioni tecniche di manutenzione o di controllo. È la stessa Corte ad ammettere l'inesigibilità da parte di FLog*** di un controllo più penetrante sulla idoneità e sulla sicurezza dell'assile.
La Corte di appello parla di possibilità del controllo documentale, senza considerare che se ne deve poter affermare la doverosità.
Anche il termine "condizioni ineccepibili" non fa riferimento a tutti i presupposti di efficienza, funzionalità e sicurezza configurabili in astratto in rapporto all'oggetto del contratto, ma, esclusivamente, a quelle condizioni sulle quali FLog*** aveva un'effettiva e reale capacità di incidenza e di signoria: l'idoneità del vagone al trasporto, la tenuta del serbatoio e l'effettuazione delle manutenzioni tramite terzi.
Erronea e fondata su motivazione contraddittoria è anche l'attribuzione a Ca*** Che*** della qualità di fornitore. Secondo l'esponente tale conclusione fonda su una errata interpretazione del contratto tra Tre*** e Ca*** Che*** e in particolare dell'art. 19.1.3. Si osserva che, nella vicenda, Ca*** Che*** era l'organizzatore del trasporto di GPL per conto di Aversana Petroli ed aveva noleggiato i carri cisterna da G***x Austria, essendo anche utilizzatore del treno merci messo a disposizione da Tre***. Quindi Ca*** Che*** non fu fornitore (ai sensi dell'art. 23 d.lgs. n. 81/2008), come dimostra anche il fatto di aver corrisposto un prezzo a Tre*** per il servizio di trazione dei carri.
Stante l'assenza di tale qualità, non possono essere riferiti alla Ca*** Che*** l'art. 8, co. 2 d.lgs. n. 162/2007, la norma CEI EN 5016 e la disposizione 13/2001 di R***I.
La Corte territoriale rammenta che l'oggetto del contratto con l'Aversana Petroli era quello di organizzare il trasporto del GPL ma poi ne fa discendere che Ca*** Che*** esercitò un'attività pericolosa. Poiché la società in parola non ha effettuato direttamente - né avrebbe dovuto e potuto effettuare - il trasporto della merce pericolosa, bensì si è limitata a curare l'organizzazione di tale servizio, demandato e poi effettuato da Tre*** Spa, è solo a quest'ultima che, ai sensi dell'art. 2050 c.c., può essere riferito l'esercizio di una attività pericolosa.
Inoltre, la Corte di appello non ha tenuto conto del fatto che di omesso impedimento dell'evento si può parlare solo in riferimento a una posizione di garanzia attuale, ossia effettivamente concomitante rispetto al verificarsi dell'evento. In realtà, un'effettiva posizione giuridica di controllo sulla fonte di pericolo (carri) a carico di FLog*** sussisteva nella sola fase di carico e scarico dei carri all'interno dello Stabilimento della Sarpom.
19.4. La Corte di appello afferma la sussistenza del nesso di causalità a partire dall'assunto che in assenza di tracciabilità di un assile installato su un carro RIV questo deve essere fermato e l’assile deve essere distrutto. Ma non indica da dove trae siffatta prescrizione; il riferimento a quanto previsto dall'ANSF dopo il sinistro è incongruo perché si trattò di una misura temporanea ed eccezionale, non mantenuta nel tempo a venire. Anche la valenza impeditiva della condotta doverosa è affermata in via meramente presuntiva. La Corte di appello ha proceduto in modo astratto, svincolato da ogni concreto accertamento del fatto e da qualsivoglia legge di copertura; e ciò anche dove la sentenza formula l'ulteriore ipotesi che "anche la sola documentazione che G***x Rail Austria GmbH avrebbe potuto fornire avrebbe già comportato una condotta diversa da parte della società fornitrice e di quella utilizzatrice del carro".
Per dare concretezza al giudizio la Corte di appello avrebbe dovuto chiedersi se G***x Rail Austria fosse stata in grado di fornire documentazione; quale documentazione; se quella specifica documentazione che avesse fornito o non fornito avrebbe esaurito o no l'obbligo cautelare incombente su Ca*** Che***; cosa quella documentazione e quella ulteriore che eventualmente Ca*** Che*** avesse dovuto acquisire avrebbe consentito di apprendere; se in forza di quelle informazioni o mancate informazioni una regola cautelare avrebbe imposto a Ca*** Che*** di rifiutare il carro 33807818210-6. La Corte avrebbe dovuto verificare con precisione, alla luce della istruzione dibattimentale e dei motivi di appello, quale documentazione il Ca.[MA.] avrebbe dovuto richiedere e potuto conseguire e, alla luce di essa, quali "non conformità" avrebbe potuto rilevare, tali da imporgli di non noleggiare quello specifico carro.
A fronte della circostanza per cui al momento dell'ingresso del carro in Italia esso non montava la sala che poi si fratturerà, la sentenza svolge due ipotesi ricostruttive. La prima assume che il carro all'ingresso fosse privo di tracciabilità; ma ciò contrasta con le prove documentali acquisite al giudizio; inoltre, quando anche il carro fosse stato respinto nulla esclude che la sala in questione avrebbe potuto essere montata sotto altro carro di quello stesso convoglio. La seconda ipotesi fonda sulla premessa della correttezza del noleggio ma non spiega in forza di quale regola, in presenza delle ultime tre certificazioni attestanti la corretta manutenzione dell'assile e del superamento con esito positivo della prova ad ultrasuoni e magnetoscopica, FLog*** avrebbe dovuto svolgere controlli più pregnanti. Ma poi non è chiaro neppure se questa è stata la condotta ritenuta doverosa o piuttosto lo scarto della sala.
19.5. Viene poi dedotta la violazione dell'art. 43 cod. pen. perché la Corte di appello si è limitata a ritenere la violazione dell'obbligo di garanzia senza verificare l'effettiva sussistenza di una relazione di gestione del rischio in capo a Ca*** Che*** e al Ca.[MA.]. In particolare, la Corte di appello ha omesso di considerare quale fosse la finalità delle regole violate. L'esponente muove dall'affermazione che le prove acquisite dimostrano che la Ca*** Che*** ebbe la natura giuridica di spedizioniere e di organizzatrice di servizi di logistica; le deposizioni Laur., LaSpi. e Chiov. sono chiare in tal senso. La società in parola, quindi, non era un'impresa ferroviaria e come tale era estranea al novero dei soggetti che dovevano garantire la sicurezza del trasporto delle merci. La sua area di rischio era limitata al carico e scarico delle merci e alla movimentazione dei carri all'interno della raffineria Sarpom. La Corte di appello non ha operato una verifica della reale posizione di garanzia del Ca.[MA.], da condursi anche alla stregua delle ragioni dell'archiviazione disposta nei confronti del DVis., ritenuto coinvolto nei soli aspetti commerciali della conclusione del contratto.
19.6. Con il motivo 6.1 dell'appello la società FLog*** aveva espressamente richiesto al giudice di secondo grado di pronunciarsi circa l'operatività del principio di affidamento in ordine alla attività di manutenzione svolta sulla ferrocisterna causa dell'evento, la cui effettività FLog*** aveva documentalmente controllato, dando di ciò prova sia nel corso del giudizio di primo grado che nel corso del giudizio di appello.
In merito a detta censura la Corte distrettuale ha omesso qualsiasi valutazione.
Inoltre, neppure ha replicato la Corte di appello al rilievo attinente alla concreta esigibilità della condotta alternativa, limitandosi a richiamare una astratta possibilità di fare, senza minimamente curarsi di motivare la prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento da parte dell'agente modello, cui il Ca.[MA.] doveva ritenersi riconducibile.
In definitiva, la Corte di appello ha negato in radice l'operatività del principio di affidamento e trascurato di valutare il ruolo della società FLog***, come risultante dalla documentazione acquisita e dalle prove esperite; la durata del rapporto contrattuale con G***x Rail Austria proseguito diligentemente negli anni; la piena affidabilità della stessa, definita dalla sentenza di primo grado "impresa leader a livello mondiale; la piena affidabilità dell'officina Ci***Ri***, munita di certificazioni VPI e DBSchenker 5.12.2008, di certificazione di qualità ISO UNI EN 9001 2008, di certificazione EBA dal 2005 al 2008; l'assenza di qualunque elemento di allarme circa la correttezza del suo operato; il difetto di segnali di allarme; la presenza delle targhette apposte sulle sale che attestavano una manutenzione risalente solo a pochi mesi prima; la documentazione sull'attività di manutenzione di cui FLog*** era in possesso.
19.7. Viene denunciata la violazione dell'art. 74 cod. proc. pen. e dell'art. 185 cod. pen. essendo stata riconosciuta la legittimazione delle parti civili Associazioni sindacali CGIL Nazionale, CGIL Regionale Toscana, CGIL Provincia di Lucca, FILT (Federazione Italiana Lavoratori Trasporti), CGIL Provincia di Lucca, Federazione Nazionale Cub Trasporti, Orsa Ferrovie (Organizzazione Sindacati Autonomi e di Base del Settore Ferrovie) in tutte e tre le articolazioni, UGL (Unione Generale del Lavoro) UTL della UGL, Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza di Tre***, Associazioni Medicina Democratica - Movimento di Lotta per la Salute - Onlus Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori Onlus) - Cittadinanza Attiva Onlus, non conformandosi ai principi stabiliti in materia dalla giurisprudenza di legittimità.
Infatti, la Corte di appello ha evitato di accertare sia lo scopo primario o prevalente dell'ente sia il suo collegamento con il luogo di consumazione del reato sia, infine, l'attività specifica e continuativa a tutela dell'interesse leso dai fatti di reato, dal medesimo posta in essere in quel territorio. Per alcune delle parti civili si è fatto riferimento alla messa in pericolo della "sicurezza dell'intera organizzazione del trasporto ferroviario da parte del Gruppo Fe***I***" ed all'intero territorio nazionale" come ambito territoriale di risonanza mediatica dell'evento catastrofico. Mentre per altre, per la dimostrazione della attività specificamente svolta nel territorio ove è occorso il disastro, si è fatto riferimento all'ambito nazionale" per poter affermare come "notoria" e non bisognevole "di dettagliate dimostrazioni" l'attività di tutela dell'interesse leso concretamente svolta, così inammissibilmente superando la prova dei requisiti imposti dalla norma.

20. Ricorso nell'interesse di MA.EM.
Ricorre per la cassazione della sentenza MA.EM., con atto sottoscritto dal difensore di fiducia avv. C.P..
20.1. Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza per essere stato violato il divieto di immutazione. Il Ma.[EM.] era stato condannato dal Tribunale per non aver proposto il detettore di svio, per non aver garantito il controllo sui processi manutentivi effettuati da un'officina all'estero e per non aver diramato specifiche prescrizioni sulla circolazione di merci pericolose. Per contro la Corte di appello lo ha condannato unicamente per non aver rilevato ed eliminato la errata prassi interpretativa ed attuativa circa la tracciabilità dei carri esteri e per la omessa predisposizione di direttive interne che imponessero il rispetto delle norme in materia di controllo su tali rotabili. Un addebito totalmente nuovo.
20.2. Con il secondo motivo si lamenta che la Corte di appello abbia errato nell'applicazione dell'art. 41 cod. pen. adottando un concetto di causa indiretta che è puramente tecnico o storico piuttosto che il concetto codicistico di concausa efficiente. Dopo aver contestato l'affermazione della riconoscibilità di un obbligo di tracciabilità attraverso un esame delle fonti indicate dalla Corte distrettuale, interpretate in senso difforme, l'esponente ne deduce che la pretesa mancata assunzione di documentazione non può costituire la causa rilevante penalmente degli eventi contestati perché per i dirigenti di Tre*** mancava il presupposto fondamentale del versare in re illicita.
La sentenza impugnata formula una serie di ipotesi a catena:
- se le informazioni che l'ANSF richiese dopo l'incidente fossero state richieste prima di consentire la circolazione del carro, la circolazione non sarebbe avvenuta, perché è certo che G***x Austria non sarebbe stata in grado di fornire le informazioni necessarie;
- se tuttavia G***x Austria avesse fornito le informazioni, sia FLog*** che Tre*** avrebbero fatto quello che l'ANSF, a seguito dei controlli straordinari sugli assili aveva disposto: il divieto di circolazione fino a che non fossero state verificate le rispondenze dei documenti forniti alle normative di riferimento in materia di manutenzione;
- se il carro n. 33807818210-06 coinvolto nell'incidente non fosse stato danneggiato e sequestrato e quindi fosse stato controllabile da parte dell'ANSF, si sarebbe probabilmente scoperto che - analogamente ad altri due carri gemelli pure noleggiati a Ca*** Che*** (poi FLog***) - anch'esso sarebbe stato affetto da "non conformità" fin dal 2005, e quindi se a quel tempo fosse stato sottoposto a verifica documentale ne sarebbe stata impedita la circolazione;
- se, richiedendo la documentazione poi richiesta dall'ANSF si fosse accertata la mancanza di tracciabilità, già nel 2005 Ca*** Che*** avrebbe dovuto evitare di noleggiare quel carro;
- se, ciò nonostante, Ca*** Che*** avesse accettato il noleggio di quel carro, Tre*** non avrebbe dovuto accettarne la consegna;
- se, ciò nonostante, Tre*** ne avesse accettato la consegna, R***I avrebbe dovuto rilevare il mancato deposito del "dossier di sicurezza", e vietare la circolazione di quel carro;
- è vero che nel 2005, al momento dei doverosi controlli, il carro non portava la sala montata n. 98331 (quella fratturatasi a Viareggio) ma se ne fosse stato rifiutato il noleggio o la messa in circolazione, non sarebbero poi state sostituite le sue sale nel 2009;
- se comunque il carro nel 2005 fosse stato ammesso alla circolazione con le sale che montava, ugualmente la mancanza di tracciabilità di quella n. 98331 avrebbe impedito all’officina Ci***Ri*** l'installazione di quel componente;
- se infine, ciò nonostante, il carro fosse stato riconsegnato a Tre***, e questa avesse chiesto informazioni dettagliate sulle manutenzioni subite dal carro, la documentazione fornita avrebbe dimostrato - come è deducibile dalla nota ANSF 20.11.2009 - la non congruità dei controlli non distruttivi eseguiti, ed avrebbe imposto il fermo del carro.
Annota l'esponente che tali ipotesi sono rimaste prive di concretezza tale da permettere una ricostruzione dotata di alta probabilità logica.
Anche a riguardo della procedura di cabotaggio la Corte di appello non si preoccupa di dimostrare come e perché l'adempimento di essa avrebbe evitato il disastro. In ogni caso la procedura doveva essere richiesta dal proprietario del carro e la sua esecuzione non avrebbe determinato l'acquisizione di dati dai quali ricavare l'esistenza di vizi, difetti o non conformità.
20.3. Con un terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio motivazionale laddove la Corte di appello definisce il comportamento colposo del Ma.[EM.]. Il non aver rilevato ed eliminato la errata prassi interpretativa ed attuativa circa la tracciabilità dei carri esteri e l'aver omesso la predisposizione di direttive interne che imponessero il rispetto delle norme in materia di controllo su tali rotabili presuppone l'esistenza di norme che imponessero l'acquisizione di una documentazione completa, che tutti i dirigenti Tre*** fossero al corrente di una interpretazione distorta di quelle norme, che sarebbe bastato l'intervento del Ma.[EM.] a evitare l'incidente. Ciascuna di tali premesse è contestata dall'esponente: il regime RIV era incompatibile con l'assunto della Corte di appello e in specie il richiamo fatto alla direttiva 2008/110/CE del 16.12.2008 non riesce a dimostrare il contrario; pertanto, l'interpretazione data dal Ma.[EM.] alle norme era corretta. Se fosse da ritenere diversamente, si sarebbe pur sempre trattato di un errore su legge diversa da quella penale, come tale ricadente nel cono applicativo dell'art. 47 cod. pen. Inoltre, non è stata data la dimostrazione che la condotta asseritamente dovuta dal Ma.[EM.] sarebbe stata idonea ad incidere sull'evoluzione delle circostanze e la tesi di accusa non è coerente con la realtà dell'organizzazione dell'impresa.
20.4. Il vizio della motivazione si rinviene anche a riguardo del riconoscimento dell'aggravante della commissione del fatto con violazione di norme prevenzionistiche.
È vero che il Ma.[EM.] era considerato "datore di lavoro" ai sensi dell'organizzazione aziendale; ma il punto nodale è se basti, per vedersi assoggettato all'imputazione di essere responsabile di violazioni di norme per la prevenzione degli infortuni, essere "datore di lavoro" di una qualunque unità della società coinvolta come presunta responsabile di un infortunio sul lavoro, o se invece per "datore di lavoro responsabile" si debba intendere qualcosa di più e di più determinato. La stessa Corte di appello non pone un nesso funzionale tra la qualità datoriale e l'infortunio sul lavoro, come ha definito quanto accaduto a Viareggio, e riconosce che per la responsabilità del datore di lavoro occorre la signoria sui fattori impeditivi. Ora, il Ma.[EM.], nella qualità, non era in grado di gestire il rischio derivante dal consentire la circolazione di "quel" carro, né di prendere provvedimenti operativi per l'esclusione di un veicolo dalla circolazione, e tanto meno per l'esclusione dell'attività di trasporto di merci pericolose mediante carri-cisterna esteri marcati RIV. Innanzitutto, perché la circolazione di quel tipo di carro non doveva essere "consentita" da nessuno, in quanto marcato RIV; e poi perché il carro era entrato in Italia, preso a nolo e immesso nella circolazione nel gennaio 2005 quando ancora la DISQS non esisteva; la gestione operativa del carro era sempre stata di competenza della Divisione Cargo; la DISQS si occupava della sicurezza in generale di tutto il materiale rotabile, ma soprattutto di quello proprio di Tre***; la DISQS aveva solo il potere di definire criteri generali e standard, e cioè emanare disposizioni generali e astratte, ma non di occuparsi della circolazione di "quel" carro, o di porre limiti alla sua circolazione, perché ciò non era di sua competenza, oltre che essere inibito dalle norme in materia di interoperabilità; la decisiva valutazione dei rischi complessivi della circolazione dei treni non era di competenza della DISQS; la "sfera di rischio" che la DISQS era chiamata a governare non comprendeva specificamente il trasporto di merci pericolose, perché si trattava di materia governata dal R.I.D. (Appendice C alla Convenzione COTIF 1999) in maniera dettagliatissima.
Pertanto, la Corte di appello è incorsa in manifesta illogicità allorquando da un verso conferma che al Ma.[EM.] deve essere attribuita la qualità di "datore di lavoro" e poi esclude che sia da rinvenire in lui proprio la tipica posizione di garanzia del datore di lavoro rilevante ai fini dell'applicazione della normativa antinfortunistica o della redazione del documento di valutazione dei rischi.

21. Motivi aggiunti per MA.EM.
Sono pervenuti 'Motivi aggiunti al ricorso' datati 11.11.2020 a firma dell'avv. C.P. per il Ma.[EM.].
Con essi si svolgono censure a riguardo del trattamento sanzionatorio e considerazioni critiche nei confronti dei motivi dei ricorsi del P.G. e delle parti civili, nelle parti attinenti alla posizione del Ma.[EM.], rilevando che il tema della mancata adozione del detettore di svio è proposto con argomentazioni esclusivamente in fatto, sicché tali ricorsi sono inammissibili.

22. Ricorso nell'interesse di Tre*** s.p.a. quale ente condannato per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. 231/2001
Tre*** S.p.a., quale ente condannato per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001, ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza con atto sottoscritto dal difensore avv. A.F.. Questi i motivi.
22.1. Con un primo motivo si è dedotta la violazione della legge processuale, per essere stato celebrato il processo, sin dal primo grado, da un giudice costituito ad hoc dal dirigente dell'ufficio, in contrasto con il principio che vuole il giudice precostituito per legge, con correlata nullità assoluta del provvedimento di costituzione del Collegio giudicante e di assegnazione del procedimento penale n. 6305/09, del decreto che dispone il giudizio, della sentenza di primo grado e della sentenza di secondo grado. Si deduce, sul punto, anche il vizio della motivazione.
Sulla scorta delle premesse di fatto che sono già state riportate esponendo gli analoghi motivi proposti da altri ricorrenti, si rappresenta che la disposizione che al terzo collegio, nella sua rinnovata composizione, confluissero «le nuove assegnazioni fino ad arrivare a un numero pari di procedimenti penali tra i tre collegi», assumeva efficacia solo a partire dal 13.9.2013, in ossequio all'art. 5, co. 1 del d.lgs. 155/2012, così come interpretato anche dal CSM con apposita delibera del 12.11.2012. Dunque, solo a partire dal 13.9.2013 i membri del Collegio avanti il quale è stato celebrato il giudizio potevano ritenersi assegnati alla sede principale del Tribunale di Lucca. Ciò nonostante, i membri del Collegio giudicante sono stati indicati "nominativamente" nel decreto di rinvio a giudizio emesso il 18.7.2013 dal G.U.P. di Lucca. Poiché il Collegio è stato costituito dopo la data di commissione dei reati, l'iscrizione del procedimento nel registro delle notizie di reato, l'annotazione in esso del nome degli indagati, l'assunzione di numero presso il registro del G.i.p., la richiesta di rinvio a giudizio e l'udienza preliminare, si tratta di un Collegio post-costituito e non precostituito come vuole la legge.
Secondo l'esponente, "nel procedimento penale di specie giudice naturale precostituito per legge, al momento della (pretesa) consumazione del fatto contestato, cioè il 29.6.2009, era il primo o il secondo Collegio della Sezione penale del Tribunale di Lucca, in base all'ordine di iscrizione al ruolo GIP/GUP". Se poi si volesse tener conto delle modifiche alla pianta organica intervenute nel periodo di interesse, allora il Collegio precostituito per legge potrebbe essere identificato in altro da quello, ma mai nel Collegio III che ha celebrato il giudizio.
Rammentando la pronuncia n. 257 del 25.10.2017 della Corte costituzionale, l'esponente rappresenta che la lesione di posizioni giuridiche soggettive che può venire dalla violazione delle regole tabellari deve trovare rimedio in sede giurisdizionale; e ha espresso l'avviso che la pronuncia n. 35585/2017 della Corte di cassazione, secondo la quale le irregolarità in tema di formazione dei collegi incidono sulla capacità del giudice, con conseguente nullità ex art. 178, lett. a) cod. proc, pen., solo quando siano volte ad eludere o violare il principio del giudice naturale precostituito per legge attraverso assegnazioni extra ordinem, perché effettuate del tutto al di fuori di ogni criterio tabellare proprio per costituire un giudice "ad hoc", attiene a fattispecie diversa da quella che qui ricorre, nella quale si registra proprio "quell'esercizio extra ordinem del potere di assegnazione che secondo la Suprema Corte genera la sanzione processuale della nullità assoluta".
Aggiunge l'esponente che nell'ipotesi di specie non vi erano ragioni che potessero legittimare la sottrazione al giudice naturale in nome di valori suscettibili di "bilanciamento" con il predetto principio; infatti, la successiva assegnazione degli affari, compreso il procedimento penale n. 6305/09 R.G. n.r., non è affatto avvenuta in conformità al criterio di riequilibrio del carico giudiziario enunciato nella variazione tabellare n. 15/2013, come dimostra anche la circostanza che nella sua relazione il Presidente della sezione penale non indicò i criteri che avevano presieduto alla ripartizione degli affari: "l'unico dato comunicato dal Dott. Pezzuti per indicare le ragioni dell'assegnazione è che 'solo' l'attuale Collegio avrebbe potuto 'programmare' il procedimento penale in oggetto, perché gli altri collegi avevano già 'fissato' aut 'riempito' le proprie udienze future". Il che - conclude l'esponente - conferma che vi è stata una scelta ad hoc, sia pure dettata da asserite necessità; come attesta anche quanto dal dr. Pezzuti scritto nel provvedimento del 27.11.2013, laddove valorizza, non quanto considerato nel decreto del 12.4.2013, ma le ragioni esposte nella relazione del 25.9.2013 e laddove - considerando l'incidenza di una prospettata futura incompatibilità di uno dei componenti del Collegio di 'naturale' destinazione del processo - ammette che esso avrebbe dovuto essere assegnato al secondo collegio. Al proposito, l'esponente svolge considerazioni a dimostrazione della insussistenza di una qualche causa della incompatibilità (del dr. Silvestri) e della violazione tabellare perpetrata nel dare soluzione alla supposta necessità di sostituzione.
22.2. Si denuncia la violazione dell'articolo 25-septies d.lgs. n. 231/2001 ed il vizio della motivazione laddove è stato ritenuto che tale norma possa trovare applicazione anche quando gli eventi si sono verificati al di fuori del luogo di lavoro e non in danno di lavoratori.
L'esponente rileva che la contestazione elevata al capo 90, avente ad oggetto l'illecito amministrativo dell'ente, chiama in causa gli articoli 589 e 590 cod. pen. commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. La giurisprudenza di legittimità ritiene che le misure antinfortunistiche debbano adottarsi nel luogo di lavoro, tale essendo solo il luogo dove i lavoratori sono necessariamente costretti a recarsi per provvedere alle incombenze inerenti all'attività lavorativa. Questa definizione restrittiva, asserisce l'esponente, per esigenze sistematiche rifluisce anche sull'interpretazione dell'art. 25-septies, che quindi non può trovare applicazione se non con riferimento agli infortuni che siano avvenuti sul lavoro in violazione delle norme prevenzionistiche concepite dal d.lgs. n. 81 del 2008; con esclusione, quindi, degli eventi in danno della popolazione civile al di fuori dei luoghi di lavoro.
Ad avviso dell'esponente, entrambe le sentenze di merito incorrono nell'errore di affrontare il problema sollevato dalla difesa dal particolare angolo visuale della responsabilità delle persone fisiche; ovvero sotto il profilo dell’applicabilità o meno delle figure circostanziate di omicidio e lesioni colpose connotate dalla commissione del fatto con violazione delle "norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro", senza affrontare il diverso problema dei limiti della fattispecie delineata dall'art. 25-septies attraverso il requisito consistente nella violazione delle "norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro". Ad avviso della Corte d'appello l’unico presupposto di applicazione delle circostanze aggravanti previste dagli artt. 589, co. 2 e 590, co. 3 cod. pen. è che l’evento lesivo si verifichi in occasione dello svolgimento di un'attività lavorativa, cioè delle attività regolata da tale normativa proprio nell'ottica della prevenzione degli infortuni. Non sarebbe invece un presupposto il fatto che l'evento lesivo si verifichi in danno di un lavoratore o all'interno di uno specifico luogo di lavoro. L'esponente rimarca che l'art. 25-septies adotta una formulazione diversa da quella utilizzata dagli articoli del codice penale e che questa diversità è il segno di un differente campo di applicazione della fattispecie; peraltro, se la norma avesse voluto recepire il contenuto degli artt. 589 e 590 cod. pen., avendo ad essi fatto espresso rinvio, sarebbe stato sufficiente limitarsi a tale rinvio. Ciò significa che quella diversità indica la particolare identità del perimetro di applicazione della fattispecie dell'art. 25-septies rispetto alle aggravanti dei delitti di omicidio e di lesioni colpose.
Va poi considerata, aggiunge l'esponente, la differente espressione del vigente articolo 25-septies rispetto alla formulazione originaria introdotta dall' articolo 9 della legge 123 del 2007. Nel nuovo testo il riferimento alle norme antinfortunistiche, prima presente, è stato soppresso. L'enunciato "salute e sicurezza sul lavoro" è utilizzato nel d.lgs. n. 81/2008 per circoscrivere le funzioni e le norme per la protezione dei lavoratori che operano o almeno si trovano sul luogo di lavoro. Ad avviso dell'esponente, gli obblighi di gestione della sicurezza sul lavoro hanno ad oggetto la struttura aziendale e quanti in essa si trovano ad operare; non i terzi esterni. La Corte di Appello non ha considerato questi elementi testuali e sistematici operando l'erronea identificazione già rammentata. Le disposizioni codicistiche, laddove menzionano le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, non reputano irrilevante la qualità di lavoratore del soggetto passivo ed il luogo di lavoro ove si è verificato l'evento. È perciò semplicistica la osservazione contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale rileverebbe unicamente il rischio lavorativo e quindi qualsiasi evento, ancorché non verificatosi in danno del lavoratore e sul luogo di lavoro.
In realtà l'art. 25-septies sopprime ogni collegamento con la vocazione preventiva delle norme antinfortunistiche, agganciandosi alle norme che effettivamente proteggono la sicurezza e la salute sul lavoro, quindi sul luogo di lavoro. L'esponente svolge alcune osservazioni critiche rispetto alla concreta utilità dell'evocazione di talune norme del decreto n. 81/2008 fatta dalla Corte di appello e sostiene che va distinta l'obbligazione che la legge pone in capo al datore di lavoro e che ha quali beneficiari i lavoratori, dall'obbligo che vede beneficiari i soggetti esterni al luogo di lavoro. Per l'esponente gli obblighi di prevenzione sono dettati a tutela del lavoratore o del soggetto che si trova sul luogo di lavoro, mentre nei confronti di soggetti esterni al luogo di lavoro operano i comuni obblighi di protezione e di diligenza, prudenza e perizia, nonché eventuali obblighi specifici, pur sempre distinti da quelli antinfortunistici. Si ritiene che tanto possa ricavarsi dall’articolo 18, lettera q) del d.lgs. n. 81/2008, perché in questa norma si rinviene la distinzione tra la tutela del lavoratore e la tutela della popolazione. Specificando che il datore di lavoro deve garantire che la tutela del lavoratore non venga realizzata mediante la deviazione del rischio verso la popolazione, l’articolo 18 conferma che la tutela dei terzi estranei e non nel luogo di lavoro non è compresa negli obblighi a tutela dei lavoratori. Quindi l’articolo 25-septies collega la responsabilità di reato dell’ente agli infortuni sul lavoro e non a quelli che attengano alla popolazione esterna.
In rapporto alla asserita (dal Tribunale) esistenza di norme di prevenzione oggettive, ovvero che prevengono infortuni sia del lavoratore dipendente dell'impresa sia del lavoratore estraneo l'impresa, sia di chi si trovi nel luogo di lavoro pur essendo terzo, l'esponente osserva che ciò non consente di reputare quelle norme come dirette alla protezione indiscriminata di qualsiasi terzo, anche fuori del luogo di lavoro.
L'esponente contesta l'affermazione della Corte d'appello secondo la quale la giurisprudenza di legittimità avrebbe anche solo indirettamente convalidato l'interpretazione secondo la quale le circostanze aggravanti in parola sono applicabili anche quando eventi di morte o lesioni sono occorsi a non lavoratori al di fuori del luogo di lavoro. Scendendo nella disamina delle pronunce di questa Corte evocate dal secondo giudice, la ricorrente critica tale assunto ed anzi ritiene che da alcune delle sentenze evocate emerga la perimetrazione dell'ambito spaziale degli obblighi antinfortunistici del datore di lavoro, operando quale limite il luogo di esercizio dell'attività lavorativa; e che non si è mancato di esigere che il soggetto passivo operi come lavoratore.
Infine, richiamando la giurisprudenza di legittimità più recente, l'esponente sostiene che interpretazione corrente insegna che la tutela offerta dalle norme antinfortunistiche non è diretta solo ai lavoratori ma si estende ai terzi; tuttavia, sempre che l’infortunio avvenga all’interno dell’ambiente di lavoro. D’altro canto, a ritenere diversamente, occorrerebbe riconoscere un potere di comando e di prescrizione del datore di lavoro nei confronti del terzo estraneo al luogo di lavoro, e che questi sarebbe a sua volta investito di obblighi di autotutela. Viene richiamata una pronuncia del 2010 in causa Angiuli, sostenendo che in essa si conferma la distinzione tra obblighi per la tutela della sicurezza sul lavoro e obblighi generali di cautela verso il terzo e la necessità che l’evento sia localizzato nel luogo di lavoro.
Ad avviso dell’esponente non è senza significato che la Corte di Appello abbia ritenuto di dover stabilire una connessione spaziale tra le persone offese e l’esercizio ferroviario, affermando che le norme per la prevenzione degli infortuni apprestano tutela anche a tutti coloro che, trovandosi per qualunque motivo legittimo e noto nei pressi del treno nel momento del deragliamento, prevedibilmente ne verrebbero travolti. In questa cerchia di soggetti prossima al treno la sentenza appellata inserisce anche gli occupanti di edifici sorgenti vicino ai binari. Osserva la ricorrente che in questo modo la Corte di Appello cerca di colmare la distanza che separa il luogo di lavoro e i soggetti al di fuori di esso, dilatando indebitamente il perimetro del luogo di lavoro. E ciò fa anche quando ricomprende nel perimetro dell’area di lavoro le strade adiacenti la ferrovia, nonostante non si possa dire che quelle che vi si trovavano siano persone presenti nel luogo di lavoro; e anzi esse ne sono certamente estranee. D'altronde, nessun potere spetta al datore di lavoro nei confronti di persone circolanti fuori della stazione. Ciò spiega perché la Corte d'appello abbia richiamato in funzione di puntello della propria decisione il fatto che il rischio lesivo si sia verificato anche per i macchinisti impegnati nella conduzione del treno sviato. L'esponente osserva che in questo modo si finisce per attribuire agli articoli 589 e 590 cod. pen. una conformazione diversa da quella legale, poiché essi fanno riferimento all'evento lesioni o morte, mentre l'impostazione della Corte di appello chiama in causa il rischio di lesione o il rischio di morte. Tanto è vero che non è stato contestato alcun evento lesivo in danno dei macchinisti o di altri lavoratori. Vi è quindi una interpretazione contra legem, perché si vorrebbe fondare l'applicazione dell'art. 25-septies non già sulla verificazione della lesione o della morte ma sulla verificazione di un rischio di lesione o di morte. Eventi per altro estranei alla contestazione.
Al riguardo la ricorrente lamenta come la Corte d'appello abbia omesso di rispondere ai motivi di impugnazione che ponevano in rilievo il difetto di contestazione di eventi patiti dai macchinisti. In stretta connessione con tale rilievo si osserva che il capo 90 dell'imputazione a carico di Tre*** richiama quale base della responsabilità dell'ente i reati ascritti al So.[VI.] e al Ca.[MA.] nei capi 9 e 3 quali datori di lavoro del personale di condotta del treno sviato. Tuttavia, gli obblighi datoriali dai quali dovrebbe sorgere la responsabilità di Tre*** non trovano riscontro in lesioni subite dal personale di condotta; i predetti imputati non avevano obblighi assunti quali datori di lavoro nei confronti di terzi, tanto che simili obblighi non sono stati neppure contestati. Si ribadisce che non sono rinvenibili precedenti che affermino la responsabilità in ipotesi di infortunio in danno di terzo estraneo e verificatosi fuori dal luogo di lavoro, né ai sensi degli artt. 589 e/o 590 cod. pen., né ai sensi dell'art. 25-septies.
Quella della Corte di appello è una inammissibile estensione analogica in malam partem delle norme in questione.
Peraltro, un'applicazione dell'art. 25-septies che lo renda applicabile anche in caso di eventi verificatesi in danno di terzi estranei e fuori dal luogo di lavoro sarebbe un'interpretazione non conoscibile al momento in cui i fatti sono stati commessi, proprio perché estranea alla giurisprudenza. Sicché una pronuncia di condanna su questa fondata sarebbe in contrasto con il principio, posto della Corte europea dei diritti dell'uomo, della necessaria conoscibilità della norma penale al momento in cui i fatti sono stati commessi.
Infine, l'esponente sollecita la rimessione del procedimento alle Sezioni unite per la speciale importanza della questione posta.
22.3. Vengono ulteriormente denunciati l'omessa motivazione in relazione ai motivi di appello riguardanti l'assenza di obblighi di garanzia documentali in capo a Tre*** sull'assile 98331 e sul carro sviato; la violazione degli artt. 41, 589 cod. pen. e 25-septies d.lgs. n. 231/2001 e della normativa sovranazionale, internazionale e italiana in tema di controlli esperibili su carri marcati RIV e su loro componenti, nonché la manifesta illogicità della motivazione in ordine agli obblighi giuridici la cui violazione è stata ascritta agli esponenti di Tre*** ritenuti responsabili dei delitti per i quali si è affermata la responsabilità di tale società ai sensi dell'art. 25-septies.
La Corte di appello ha accertato che la legislazione sovranazionale ed internazionale non prevede obblighi di controllo aventi ad oggetto la ripetizione e/o la verifica delle operazioni manutentive eseguite sull'assile 98331 a cura del proprietario/detentore del carro; risulterebbero però obblighi di controllo documentale in capo a Tre*** s.p.a. Ripercorrendo le pertinenti fonti sovranazionali (RIV, ovvero il Regolamento Internazionale veicoli; la Fiche 433 UIC; la COTIF, ovvero la Convention concerning International Carriage by Rail] il CUU, ovvero il contratto di utilizzazione uniforme; la direttiva 1996/49/CE, la direttiva 2001/16/CE, e le STI, ovvero le specifiche tecniche di interoperabilità, la decisione 206/861/CE, la direttiva 2008/57/CE e la direttiva 2008/110/CE), l'esponente argomenta in merito ai contenuti precettivi delle norme considerate per evidenziare come, con la liberalizzazione dei servizi ferroviari e la definizione di un sistema europeo di interoperabilità, sia stato escluso che l'impresa ferroviaria sia titolare di obblighi manutentivi, strumentali e documentali, poiché attraverso la marcatura RIV viene rappresentato che il carro è conforme alle prescrizioni del RIV e che pertanto ne è autorizzato l'uso in tutte le ferrovie aderenti al RIV, a prescindere da ulteriori condizioni. Si tratta dell'applicazione del principio del mutuo riconoscimento dei carri. Il solo obbligo che residua in capo all'impresa ferroviaria utilizzatrice del carro consiste nel controllo del rispetto dei cicli manutentivi risultanti dai cartigli e nella verifica tecnica nella stazione di origine. Si tratta di controlli 'a vista'. La stessa Fiche 433 UIC fa espresso rinvio al RIV. Nell'ambito della Cotif è stato adottato il RID (Regulations concerning the International carriage of Danmgerous goods by rail'), che detta le caratteristiche tecniche del carro adibito al trasporto di merci pericolose. La decisione 2004/446/CE ha sancito che la conformità al regime RID autorizza i carri a circolare senza ulteriori controlli. Nell'ambito della Cotif è stato elaborato il CUU, in funzione di integrazione della appendice D della Convenzione. Anche le direttive menzionate confermano il principio del mutuo riconoscimento quale perno del sistema della interoperabilità. Quanto alle STI, esse sono prevalenti rispetto alla normativa nazionale, che conserva un residuo campo di applicazione laddove la materia non sia da esse regolata. Per tal motivo si denuncia il vizio della sentenza impugnata laddove ha ritenuto che gli obblighi di verifica documentale possano avere riconoscimento o essere derivati da norme nazionali o da norme emanate dal gestore dell'infrastruttura R***I). Facendo richiamo anche della consonante posizione espressa dal P.M., l'esponente asserisce che allorquando con la decisione 2006/861/CE si introdusse la STI relativa al sottosistema 'Materiale rotabile- carri merci', si riconobbe implicitamente la perdurante validità dell'accordo RIV e, quindi, solo per il materiale rotabile nuovo o sostanzialmente modificato non interamente disciplinato dalle STI si rendeva necessaria la verifica di conformità delle STI e ai requisiti nazionali applicabili. Ne consegue, per l'esponente, che Tre*** non aveva alcun titolo o potere giuridico per chiedere o pretendere standard manutentivi più restrittivi al responsabile della manutenzione né era tenuto a verifiche documentali più restrittive. Per contro, la Corte di appello ha implicitamente posto una necessità di duplicazione dei controlli di sicurezza, esclusa dalla normativa evocata.
Si puntualizza, poi, che nel caso di specie non può trovare applicazione quanto previsto dal punto 4.2.8.1.2. dell'allegato alla decisione 2006/861/CE, recante la STI sui carri merci, perché si tratta di prescrizioni relative ai carri merci nuovi, modificati o rinnovati entrati in servizio dopo l'entrata in vigore della STI. Il relativo rilievo, avanzato con l'atto di appello, non ha trovato trattazione da parte della Corte di appello. Questa ha ritenuto, errando, che si tratti di previsione non rilevante perché concernente i soli controlli manutentivi e strumentali diretti.
Si espone che l'art. 20, co. 12 d.lgs. n. 191/2010, che traspone l'art. 21, co. 12 della direttiva 2008/57/CE, ha disposto che le autorizzazioni di messa in servizio rilasciate prima del 19 luglio 2008 restano valide alle condizioni alle quali sono state rilasciate. La norma trova applicazione anche con riferimento al carro sul quale era montato l’assile 98331, immatricolato nel 2004. Anche questo dato esclude che Tre*** fosse investita di obblighi di verifica documentale. D'altro canto, la normativa interna che concerne i controlli che precedono la marcia dei treni merci sulla rete ferroviaria (Disposizione R***I 26/2003 e NVTV del 2006) prevede una verifica esterna che nel caso di specie è stata eseguita. Anche i controlli visivi previsti dalla normativa sovranazionale sono stati eseguiti.
Erra quindi la Corte di appello quando (a pg. 699 ss.) sostiene che la normativa internazionale è compatibile con i controlli documentali, nonostante le ampie argomentazioni presentate dalla difesa.
L'esponente si sofferma in particolare sul richiamo all'art. 7.2. del CUU, per rimarcare come la prova della manutenzione del carro fosse stata fornita a FLog*** all'uscita dallo stabilimento Cima a marzo 2009; la relativa documentazione attesta che fu eseguito il ciclo manutentivo di tipo G4.8, conformemente a quanto previsto dal manuale VPI.
Quanto al punto 7.3. CUU, la difesa aveva segnalato che il relativo enunciato era stato erroneamente tradotto, con l'effetto che la prescrizione all'impresa utilizzatrice di effettuare ispezioni sul vagone 'esclusivamente di tipo visivo' era stata formulata come 'a partire dai controlli visivi'. La Corte di appello ha ritenuto irrilevante la questione relativa alla errata traduzione, perché accusa e difesa avevano concordato sul tenore della prima parte della disposizione, secondo la quale il detentore del carro deve consentire all'impresa ferroviaria di eseguire sui carri ogni ispezione che possa rendersi necessaria. Per la Corte di appello ciò implica che i controlli documentali non sono vietati ma anzi sono ritenuti possibili. Con ciò, però, la Corte di appello non ha colto che la previsione disciplina le ispezioni, atto autonomo e ben definito, e non altri controlli, come quelli documentali. L'art. 7.3. non fa altro che specificare il tipo di attività ispettive al quale è tenuto l'utilizzatore.
L'esponente rileva che la Corte di appello, dopo aver riconosciuto che non v'è norma internazionale o nazionale che stabilisca un formale obbligo di tracciabilità dei componenti dei rotabili rilevanti per la sicurezza ferroviaria, ha ritenuto che dalla norma tecnica CEI-EN 50126 derivi l'obbligo di formare un dossier di sicurezza e quindi di eseguire controlli documentali, acquisendo informazioni sulla vita e storia manutentiva dei componenti. In senso critico si asserisce che la norma tecnica 50126 non pone alcun obbligo di garanzia. In primo luogo, le contestazioni elevate al So.[VI.] e al Ca.[MA.] non fanno menzione di tali norme e solo la Corte di appello le ha valorizzate in senso accusatorio, in assenza di contraddittorio; sicché risultano violati i limiti devolutivi dell'appello e il principio della necessaria correlazione tra accusa e difesa.
In secondo luogo, la norma in parola non si applica ai vagoni ferroviari né ai rotabili o rispettivi componenti, avendo ad oggetto i soli sistemi elettrici/elettronici.
Anche a ritenere diversamente, la funzione di tale norma è quella di identificare uno standard tecnico uniforme, che può essere utilizzato per dimostrare che un prodotto risponde a determinati requisiti o specifiche e pertanto non può essere fonte di obblighi giuridici. Peraltro, si tratta di norma non applicabile ai carri marcati RIV e ai loro componenti perché mentre lo standard tecnico da essa definito ha portata generica, la RIV hanno carattere specifico e sono sovraordinate gerarchicamente.
La Corte di appello ha inteso fondare l'assunto che il sistema di gestione della sicurezza di una impresa ferroviaria deve prevedere anche una procedura per controllare la manutenzione svolta da terzi sulla testimonianza del Chiov., direttore dell'ASNF. Con l'appello si era già contestata l'utilizzabilità di tali dichiarazioni perché aventi contenuto valutativo e per il loro carattere generico, non essendo stata specificata la base normativa e la consistenza della asserita interlocuzione che l'impresa incaricata del trasporto dovrebbe aver con quella proprietaria del carro; e si era affermato che nel caso di specie l'eventuale condotta pretesa non avrebbe avuto efficacia impeditiva perché avrebbe determinato l'acquisizione di informazioni già risultanti dal cartiglio di manutenzione in possesso dell'impresa ferroviaria. Su tali rilievi la Corte di appello non ha motivato. Fermo restando che interlocuzione non significa obbligo di tracciabilità, di acquisizione documentale e così via. Così come non vi è motivazione a riguardo del motivo di appello che censurava la valutazione fatta dal Tribunale della dichiarazione del Chiov., che aveva escluso l'obbligo di autorizzazioni o comunicazioni supplementari, e a maggior ragione l'obbligo di formare un dossier di sicurezza, con riguardo ai carri RIV.
L'esponente contesta l'affermazione della Corte di appello secondo la quale la \ previsione di un soggetto responsabile della manutenzione, contenuta nella V direttiva 2008/110/CE, stia a significare la previsione di una documentazione specifica relativa all'intera storia manutentiva di ciascun singolo veicolo ' ferroviario; osserva, infatti, che la previsione di un diario della manutenzione, risalente a tempo anteriore al 2008, non significa che sia prevista una documentazione specifica e per di più che tale documentazione debba essere acquisita dall'impresa ferroviaria. Neppure è dimostrato che il diario debba avere i contenuti pretesi dalla Corte di appello. È vero invece che le norme europee escludono un obbligo di tracciabilità, come ritenuto dalla medesima Corte distrettuale. Lamenta, poi, che non sia stata data motivazione a riguardo del motivo di appello che evidenziava come, alla luce del considerando 8 della direttiva 2008/110/CE, l'obbligo di nuova verifica del rischio ricade sull'impresa ferroviaria o sul gestore dell'infrastruttura solo quando il responsabile della manutenzione non sia registrato o non sia certificato. Nel caso di specie G***x Rail Austria era ente registrato. Tale previsione si pone in rapporto di continuità con quella previgente ed è questa la sua rilevanza, negata in modo assertivo dalla Corte di appello sull'assunto che non era entrata ancora in vigore all'epoca dell'incidente.
La Corte di appello ha anche citato quali fonti dell'obbligo del controllo documentale l'art. 14 e l'allegato IV del d.lgs. n. 162/2007; ma ad avviso dell'esponente da essi non deriva alcun obbligo di provare la storia manutentiva di un carro RIV o dei suoi componenti. Peraltro è in atti la prova che Tre*** ha ricevuto da ASNF il certificato di sicurezza, con ciò soddisfacendo gli oneri derivanti dal d.lgs. n. 162. È poi erronea l'interpretazione che la Corte di appello dà dell'art. 9 del medesimo decreto, perché l'obbligo in esso previsto ricade sull'impresa in possesso di autorizzazione alla messa in servizio di materiale in altro Stato membro; quindi, non Tre***.
Poiché il ricorso all'art. 9 è fatto per la prima volta dalla Corte di appello, l'esponente ravvisa la violazione del principio di correlazione.
Quanto alla normativa interna alla quale pure il giudice di secondo grado ha inteso riferirsi, l'esponente, dopo aver ribadito che si tratta di norme che non possono prevalere su quelle di fonte UE, rimarca che esse sono tutte antecedenti alla attuazione della direttiva 2001/126/CE ad opera del d.lgs. n. 468/2004 e alle decisioni 2004/446/CE e 2006/861/CE, che hanno paralizzato l'applicabilità delle disposizioni interne ai carri interoperabili. Peraltro, l'analisi delle singole disposizioni in questione esclude, secondo l'esponente, che esse possano essere fonte dell'obbligo identificato dalla Corte di appello. Altrettanto ritiene, l'esponente, della modifica alla Comunicazione per il Certificato di Sicurezza n. 1/AD del 24.5.2001, revisione B del 3.3.2004 di Tre***; in primo luogo, si tratta di atto precedente al decreto n. 468/2004; in secondo luogo, si tratta di atto che attiene alla immatricolazione di propri rotabili.
L'esponente rammenta, poi, che la Corte di appello ha identificato Tre*** quale datore di lavoro nei confronti dei macchinisti alla guida del treno e da ciò ha derivato l'obbligo di garantire la massima sicurezza del veicolo e dei suoi componenti; ma, viene osservato, se questa fosse la posizione di garanzia essa sarebbe stata rispettata perché i macchinisti non hanno riportato danni.
Passando quindi a trattare della motivazione laddove si considera la cd. procedura di cabotaggio, l'esponente rileva che la Corte di appello sembra ravvisare in essa una autonoma fonte degli obblighi di verifica documentale; ma la procedura di cabotaggio non era più in vigore perché, anche se non formalmente abolita, era ormai in contrasto con le norme europee in tema di interoperabilità, gerarchicamente sovraordinate. Su questo tema la Corte di appello ha travisato la testimonianza del Chiov., perché questi aveva ammesso l'assoluta incertezza sulla applicabilità della procedura al caso di un trasporto internazionale in quanto impegnava carri marcati RIV; e quando ha asserito, il teste, che la procedura doveva essere attivata per il carro sviato, ha espresso una valutazione, rendendo in parte qua inutilizzabile la testimonianza; altrettanto vale per la dichiarazione La Spina, ripresa a pg. 717 della sentenza qui impugnata.
La Corte di appello sostiene che il divieto di duplicare i controlli non sarebbe incompatibile con la procedura di cabotaggio, e pertanto con la presentazione di un dossier tecnico e di ogni altra documentazione relativa alla vita e alla storia manutentiva del carro, posto che proprio la normativa europea contempla la predisposizione di un dossier di sicurezza; ma così opinando la Corte di appello attribuisce un contenuto contraddittorio alle norme europee.
In realtà, esse e il RIV specificano con precisione quali documenti devono essere forniti, senza necessità di altri. Inoltre, la Corte di appello non chiarisce perché il dossier tecnico che sarebbe previsto dalla EN 50126 sarebbe la forma di applicazione della procedura di cabotaggio.
Con il motivo IV di appello si era contestata la motivazione del Tribunale circa la portata attribuibile all'allegato 6 del documento recante la procedura di cabotaggio; la Corte di appello non ha motivato al riguardo ma ha costruito una motivazione alternativa a quella del primo giudice, fondata non più sulla procedura di cabotaggio ma sulla norma EN 50126; senza chiarire il percorso che l'ha condotta a ciò.
La Corte di appello è incorsa anche nel travisamento della dichiarazione del Chiov., il quale non ha saputo dire se il controllo documentale comprendesse i piani di manutenzione del carro.
Osserva comunque l'esponente che nell'ambito della procedura in parola è previsto che la visita tecnica si completi con la redazione di un verbale, la cui formulazione dimostra che il controllo si esaurisce nella semplice verifica della corrispondenza dei dati forniti dal richiedente con quelli direttamente rilevati sul mezzo a mezzo di verifica visiva. D'altronde l'accertamento processuale non ha accertato alcun caso in cui la procedura di cabotaggio venisse applicata a carri marcati RIV. Anche su questi rilievi è mancata la motivazione della Corte di appello.
L'esponente ribadisce che la procedura non era in vigore nel 2009 per esserne stata paralizzata l'applicabilità dalla legislazione comunitaria, fondata sull'accettazione del carro marcato RIV. Peraltro, il punto II.4.1. della procedura, in ciò confermato dal punto II.4.5.1, prevede che ad attivarsi sia l'impresa ferroviaria richiedente, la quale non può che essere quella titolare o detentrice del carro sulla quale ricade l'obbligo della manutenzione. Giammai, nel caso che occupa, Tre***. Anche su questa osservazione è mancata la replica della Corte di appello.
Il controllo eseguito sul carro 3380781 8210-6 il 19.2.2009, richiesto da Ci***Ri*** s.p.a., indicando quale impresa ferroviaria KVG, poi G***x Rail Austria, sta a dimostrare la fondatezza dell'assunto difensivo. In ogni caso, si aggiunge, la procedura prevede che la visita tecnica venga eseguita solo se, dopo la revisione eseguita, i carri non siano stati immediatamente introdotti in Italia; nel caso di specie il carro fu subito spedito in Italia.
22.4. Si denuncia la violazione dell'art. 522 cod. proc. pen. e l'omessa motivazione, in quanto la Corte di appello ha ascritto alla ricorrente di aver ricevuto il carro nonostante non fossero state fornite tutte le informazioni che avrebbero consentito di svolgere un controllo documentale sullo stato del carro e così di conoscere la storia e il livello manutentivo di tutti i suoi componenti; pertanto, le informazioni che l'ANSF ha ritenuto indispensabili nella richiesta che inviò all'EBA il 1.7.2009. Orbene, rileva l'esponente, già in sede di discussione in appello venne eccepita la novità della prospettazione fatta dal P.M. nel giudizio di secondo grado, secondo la quale a Tre*** veniva contestato di aver messo in servizio un assile non rispondente ai requisiti normativi. Ma i capi 3 e 9, ai quali rimanda il capo 90, imputano al Ca.[MA.] e al So.[VI.] di aver errato nel fornire ai macchinisti un carro corredato di un assile portatore di cricca. Quindi una condotta che non ha rapporti con quella ascritta a Tre*** e che si colloca anche temporalmente in un momento diverso; quella delle persone fisiche, al momento del viaggio esitato nel sinistro; quella di Tre***, al momento dell'ingresso del carro in Italia. Sussiste quindi la denunciata violazione del divieto di immutazione della contestazione e l'omessa motivazione, per non aver replicato la Corte di appello alla prospettazione difensiva fatta in sede di discussione.
22.5. Con il quinto motivo si lamentano la violazione di legge ed il vizio della motivazione in relazione all'affermato deficit informativo riguardante il carro sviato. Ad avviso dell’esponente, solo a seguito della iniziativa assunta dall'ANSF con la nota del 1.7.2009, e quindi dopo l'incidente, sono stati individuati oneri informativi in capo all'impresa incaricata della trazione del carro. La Corte di appello ha inteso dedurre simili obblighi dalla norma 50126, che però non imponeva quanto preteso dalla Corte di appello. In sostanza, la Corte distrettuale non ha considerato che solo dopo l'incidente è stata prevista la tracciabilità delle operazioni manutentive (con la direttiva 2008/110/CE, attuata con d.lgs. n, 43/2011). Lo strumento individuato per garantire la sicurezza è stato quello della certificazione; solo in assenza di questa l'impresa ferroviaria o il gestore di rete hanno l'obbligo di controllare i rischi attraverso il sistema di gestione della sicurezza e la sua certificazione. Ciò implica, si osserva, che la certificazione non richiede ulteriori controlli. Orbene, Tre*** si era già conformata a tale standard cautelare, posto che il carro era stato affidato alla Ci***Ri*** s.p.a., dotata della più ampia certificazione; la stessa Ju***l era abilitata e certificata. Ciò in quanto la menzionata direttiva era solo ricognitiva di un regime già esistente. La Corte di appello non spiega perché gli obblighi informativi sarebbero stati esistenti già nel 2005. Peraltro nell'atto di appello si era segnalato che l'ANSF, con nota n. 892 del 19.2.2009, dando seguito all'art. 24 della direttiva 2001/16/CE, ha introdotto la previsione della produzione dell'accordo di noleggio tra impresa ferroviaria ricevente e impresa ferroviaria cedente, avente una serie di contenuti minimi, tra i quali la messa a disposizione da parte di quest'ultima alla prima della documentazione dell'attività di manutenzione, con la dichiarazione che non vi saranno modifiche ai processi manutentivi dichiarati in sede di immatricolazione del rotabile né agli atti del certificato di sicurezza dell'impresa cedente. Il Chiov., al riguardo, ha affermato che non si tratta di prescrizioni attinenti al noleggio tra aziende italiane ed estere. Il che è in contrasto con quanto ritenuto dalla Corte di appello laddove, evocando la nota n. 660/2008, ha sostenuto che l'ANSF aveva richiamato Tre*** ai propri doveri di controllo documentale sui rotabili esteri.
La Corte di appello, ritenendo che Tre*** dovesse trattare il rotabile noleggiato da un detentore estero come se fosse proprio, che le competesse la relativa manutenzione e che si dovessero applicare le norme di diritto interno, ha ignorato le norme europee e quanto emerge dai documenti ANSF.
Manifesta illogicità viene ravvisata dall'esponente laddove la sentenza stabilisce un collegamento tra le omissioni informative rimproverate a Tre*** e l'incidente.
Da un canto, la Corte territoriale ha sostenuto che gli obblighi di tracciabilità si imponevano a prescindere dal collegamento con la manutenzione e con l'assile 98331, e ciò sin dall'ingresso del carro in Italia; insomma, a prescindere da eventuali segnali di allarme. Dall'altro, ha affermato che sarebbe stato necessario conoscere la storia e l'origine dell'assile per valutare il rischio di frattura per fatica. Se è vera la prima affermazione, si tratta di obblighi non previsti dalla normativa allora vigente; se è vera la seconda, allora la condanna è intervenuta per una condotta diversa, posto che l’assile al momento dell'ingresso del carro in Italia non era montato sullo stesso. Inoltre, la Corte di appello non dice quale sia la prova dalla quale ha tratto che Tre*** avrebbe potuto ottenere le informazioni dal momento del montaggio dell'assile, nel marzo 2009, a quello dell'incidente.
Che in assenza delle informazioni pretese dalla Corte di appello Tre*** avrebbe dovuto fermare il carro è da questa affermato senza però l'indicazione del fondamento normativo. La difesa aveva prodotto il documento formato in seno all'ERA il 5.10.2010, avente ad oggetto la tracciabilità delle sale europee. Orbene, in esso è previsto che in assenza delle informazioni ivi descritte l’assile deve essere sottoposto a controlli non distruttivi mentre il fermo scatta solo se cumulativamente mancavano informazioni sul costruttore, sulla data di costruzione e sullo standard di produzione., Nel caso di specie, quindi, neppure alla stregua delle disposizioni successive all'incidente sussistevano le condizioni per il fermo dell'assile. Non solo; è il manutentore e non l'utilizzatore che può disporlo. Su tali rilievi la Corte di appello ha taciuto.
Si rinviene manifesta illogicità laddove la Corte di appello ipotizza che l’assile fosse soggetto ad un rischio frattura più elevato perché proveniente da fonderia ex DDR, costruito nel 1974 e fatto con acciaio di qualità diversa da quella all'epoca in uso nei Paesi occidentali e avente una quantità di microinclusioni non ammessa nei prodotti più recenti; facendone conseguire che il possesso di tali informazioni avrebbe potuto indurre a controlli più approfonditi. In realtà: Tanno e la fonderia di costruzione dell'assile sono stampati sull'assile; gli esami necessari a conoscere della qualità dell'acciaio e le microinclusioni non dovevano essere eseguiti da Tre***, per quanto sostenuto dalla stessa Corte di appello; non è stato accertato alcun maggior rischio di rottura degli assili costruiti nel 1974 o nella ex DDR ed anzi il c.t. Ton. ha dichiarato che l’assile era realizzato con acciaio in sé eccellente e che era in regola con le norme del tempo della costruzione, fermo restando che la sopravvenuta non conformità non ha avuto incidenza sull'incidente.
Manifestamente illogica è ancora la motivazione quando si sostiene che Tre*** non era in grado di documentare se i rotabili erano regolarmente manutenuti, da chi e con quali modalità; in realtà si tratta di dati riportati nel cartiglio di manutenzione e le norme europee ed internazionali non richiedevano altre prove; il carro era stato inviato per la manutenzione all'officina Ci***Ri*** s.p.a., certificata per la manutenzione dei carri secondo il manuale VPI. In sostanza, qualsiasi approfondimento documentale avrebbe portato a conoscere quanto già noto. Al proposito l'esponente denuncia il travisamento della deposizione dell'ing. Capo., che non ha ammesso alcuna carenza.
L'affermazione del Chiov., secondo la quale venne contestato a Tre*** di non essere in possesso di documentazione che permettesse di capire come era formato il sistema di gestione della sicurezza per la specifica tipologia di trasporto, è il frutto della disapplicazione delle norme allora vigenti. L'accusa ha inteso richiamare il punto 4.2.8.1.2. dell'allegato alla decisione 861 per sostenere che l'impresa ferroviaria aveva l'obbligo di sincerarsi delle manutenzioni da altri eseguite. Secondo l'esponente tale disposizione non si applica al materiale rotabile dell'incidente di Viareggio perché il punto 2 della STI ne limita il campo di applicazione ai carri merci nuovi, modificati o rinnovati entrati in servizio dopo l'entrata in vigore della medesima STI.
Per i carri già in servizio, la sezione 7.5. prevede la continuazione dell'operatività e la sottoposizione a interventi di manutenzione a condizione che siano conformi alla normativa comunitaria.
L'esponente precisa che non vi fu alcuna richiesta dell'ANSF precedente all'incidente; anche le note 283/2006 e 624/2007 di R***I non recano sollecitazioni a Tre***; emerge qui un travisamento della prova documentale ma anche una omessa motivazione, essendo stata avanzata pertinente censura con l'atto di appello. Si era osservato, infatti, che la prima prescrizione era atto di indirizzo politico, tanto che il certificato di sicurezza venne rinnovato a Tre*** sia per il 2007 che per gli anni seguenti, sia da R***I che da ANSF; che quindi non venne ravvisata alcuna criticità; che richiedendosi la rintracciabilità dell'omologazione al di fuori delle procedure di sicurezza attuate da R***I viene dimostrato che il materiale rotabile RIV non era oggetto di tale certificato; che nessun documento di R***I o di ANSF ha mai preteso un controllo sulle manutenzioni eseguite dal proprietario o dal detentore estero di materiale rotabile marcato RIV ed interoperabile.
In via di subordine, viene avanzata istanza di rimessione alla Corte GUE della questione di pregiudizialità, ai sensi dell'art. 267 TFUE, avente ad oggetto la compatibilità della enucleata normativa UE con la norma tecnica CEI EN 50126 o norme emanate dal gestore dell'infrastruttura nazionale italiana o comunque norme del diritto italiano, ove queste imponessero a un'impresa ferroviaria italiana incaricata per contratto della trazione di un carro omologato in Germania e marcato RIV obblighi di verifica documentale meglio specificati dall'esponente nella formulazione di una ipotesi di questione.
22.6. Si deduce violazione degli artt. 40 ss. cod. pen., perché la Corte di appello ha fatto ossequio solo formale al principio secondo il quale il rischio cd. eccentrico interrompe il nesso causale, avendo ritenuto l'equivalenza di ogni antecedente dell'evento, per quanto non abbia originato il rischio tipico.
Ampliando la denuncia al vizio di motivazione, l'esponente afferma che la Corte di appello assegna all'omessa valutazione del rischio solo il valore di prova della scarsa attenzione da parte di Tre***; l'omissione colposa causalmente rilevante sarebbe quindi la mancata adozione di misure di sicurezza che prevenissero i rischi derivanti dal passaggio di carri con merci pericolose in centri diffusamente abitati.
Tuttavia, la Corte di appello non è stata in grado di precisare in cosa dovessero consistere tali misure, limitandosi, in ciò una manifesta illogicità, a elencare una serie di ipotesi astratte, del tutto sconnesse dalla situazione reale, senza alcuna prova della valenza salvifica delle condotte alternative ipotizzate. Di qui la mera apparenza della motivazione. Si pretende di affermare l'obbligo di prevedere ciò che si afferma al contempo essere imprevedibile (si cita un passo di pg. 644). La Corte di appello argomenta come se ogni accadimento connesso alla rottura di un assile fosse uguale all'altro, deducendo una generale prevedibilità dell'accadimento concreto, senza considerare i fattori che in uno specifico caso possono rendere il rischio del tutto remoto. Il dibattimento ha fatto emergere che non risponde al vero che l'incidente di Viareggio ha molti elementi in comune con altri sinistri precedentemente verificatisi. Avendo la Corte di appello ritenuto che l'omissione causale è consistita nel non aver fatto quanto avrebbe determinato nel 2005 il fermo del carro, viene denunciata anche per questo profilo la violazione del divieto di immutazione.
22.7. L'erronea applicazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. viene dedotta anche a riguardo della identificazione dell'evento, termine del nesso di causalità. Secondo la Corte di appello esso va individuato a livello categoriale (deragliamento); secondo l'esponente, all'inverso, va tenuto conto dell'evento con le specifiche caratteristiche del fatto commesso (lo svio provocato dalla rottura dell'assile per difetto manutentivo). Sicché la Corte di appello avrebbe dovuto chiedersi se Tre*** era tenuta ad eseguire controlli aventi ad oggetto lo specifico rischio, e quindi di controllare la cricca; un obbligo diverso, avente ad oggetto l'acquisizione di informazioni, non ha rilievo causale rispetto all'evento verificatosi, giacché la documentazione eventualmente acquisita non avrebbe fatto riferimento allo specifico rischio dell'inadeguato controllo da parte dell'operatore della Ju***l.
22.8. Si evoca il vizio della motivazione anche a proposito dell'affermata valenza causale del comportamento impeditivo, perché asserita in termini ipotetici e probabilistici, senza indicazione di prova: si è ritenuto che l'acquisizione dei documenti avrebbe potuto indurre a richiedere controlli più penetranti.
22.9. Titolati da IX a XIII, vengono riproposti, sotto la comprensiva denuncia della violazione di legge (anche sub specie di violazione dell'art. 522 cod. proc. pen.) e del vizio della motivazione, i rilievi già formulati a riguardo dell'accertamento del nesso causale tra le omissioni ascritte a Tre*** e il sinistro. In primo luogo si ribadisce che la descrizione dell'evento, termine della relazione causale, tradisce la contestazione; in questa si menziona il deragliamento per effetto della cricca dell'assile, nelle sentenze l'evento è rappresentato dalla mancata o incompiuta documentazione della immatricolazione del carro nel 2005. La Corte di appello recide ogni collegamento causale con la formazione o la scoperta della cricca, anche solo nei termini di una sospettabilità del difetto; la mancata acquisizione di informazioni avrebbe avuto come evento ulteriori condotte che a loro volta avrebbero avuto l'effetto di impedire la circolazione del carro oppure mitigarne le conseguenze. Viene osservato che l'alternativa manifesta la persistente incertezza circa il fatto che la condotta doverosa avrebbe determinato il fermo del carro. La Corte di appello ipotizza che il comportamento sarebbe stato quello tenuto da ANSF dopo l'incidente, senza considerare che si trattò di controlli straordinari, mai disposti in precedenza, frutto di una valutazione discrezionale dell'ente pubblico (e non imposto da norme). Nessuna norma avrebbe imposto il fermo del carro. E la Corte di appello afferma che 'forse' il controllo documentale sull'attività di manutenzione degli assili avrebbe potuto impedire la circolazione del carro. Si lamenta, al proposito, l'omessa motivazione in ordine ai motivi IV, X, XI, XI.1.
Secondo la Corte di appello il mancato ottenimento della documentazione avrebbe costituito un segnale d'allarme. In realtà essa non avrebbe mai potuto segnalare il vizio della cricca o altri fattori di allarme. Né può venire in considerazione la relazione della Direzione Generale per le Investigazioni Ferroviarie del 23.3.2012, perché essa introduce misure per prevenire incidenti dopo lo svio e che quindi non erano previste prima di questo. Peraltro, si prevede la tracciabilità ma a carico del manutentore e degli organi preposti ai controlli, non dell'impresa incaricata della trazione.
La stessa relazione conferma che i carri marcati RIV possono circolare liberamente sulle reti nazionali dei Paesi che hanno riconosciuto il regime RIV.
22.10. Si puntualizza la censura di violazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. rilevando che la Corte di appello ha ritenuto la causalità della colpa assumendo quale regola cautelare involta nell'accertamento non già una regolare cautelare specificamente diretta ad impedire l'evento ma una diversa regola. Si citano a esemplificazione dell'affermazione e a conforto le sentenze n. 24462/2015 e 3786/2015, di questa Sezione. Più esplicitamente, si sostiene che la regola sull'acquisizione della documentazione non si proietta sul rischio specifico di frattura dell'assile per la presenza della cricca.
22.11. Manifesta illogicità viene rilevata laddove la Corte di appello fa coincidere la mancata documentazione con l'automatica insicurezza del carro.
22.12. Violazione della legge penale si rinviene laddove la Corte di appello ha affermato il nesso causale ancorché non abbia correttamente individuato l'azione salvifica, erroneamente identificata nell'acquisizione di documentazione, e non abbia accertato che ex ante quella avrebbe avuto con certezza valenza salvifica, determinando il fermo del carro.
22.13. Il vizio di motivazione è denunciato a riguardo dell'affermazione della Corte di appello secondo la quale sarebbe irrilevante la assenza di segnali di allarme ai fini della ricorrenza degli obblighi di tracciabilità, perché così facendo si sarebbe prodotta una tautologia, identificando il campanello di allarme nella circostanza in sé del difetto di documentazione. Peraltro, l'insussistenza di obblighi formali di tracciabilità secondo le norme europee è riconosciuta dalla stessa sentenza appellata. Sicché, non si vede su quali premesse Tre*** si sarebbe dovuta attivare richiedendo documenti supplementari. Ed invece si sarebbe dovuto accertare che fossero percepibili i segnali dell'errore altrui nell'esame ultrasonoro dell'assile.
22.14. Infine, per l'ambito tematico, si denuncia la violazione degli artt. 40 e 41 cod. pen., per aver la Corte di appello fondato l'accertamento del nesso causale sulla mera possibilità di diminuzione del rischio.
22.15. Si lamenta l'erronea applicazione della legge penale, in special modo dell'art. 43 cod. pen., perché la Corte di Appello avrebbe malamente inteso la formula normativa secondo la quale ciascuna entità risponde per la propria parte di sistema, non considerando che l'accertamento della colpa va commisurato agli specifici obblighi di Tre***. La Corte di Appello è partita dal presupposto della condotta virtuosa consistente nel non affidamento e quindi ha preteso un controllo ulteriore senza che Tre*** potesse affidarsi alle indicazioni del detentore del carro. La Corte ha adottato un concetto di prevedibilità astratta dell'evento, mentre, citando la sentenza delle Sezioni Unite Ronci, l'esponente ribadisce che è necessario accertare la prevedibilità dello specifico evento contestato, nella specie le morti le lesioni, quale effetto della rottura dell'assile. La colpa va accertata sempre soltanto in concreto, sulla base delle circostanze di fatto di cui il soggetto era o poteva essere a conoscenza e che dimostravano il concreto pericolo di un evento letale. La Corte di appello non ha indicato alcuna circostanza dalla quale dedurre la conoscenza o la conoscibilità della morte e delle lesioni come conseguenza della cricca dell'assile, quale effetto dell'ipotizzato deficit informativo.
22.16. La Corte di Appello ha ridotto il presupposto dell'elemento psicologico dell'ente, ovvero la colpa di organizzazione, all'elemento psicologico che dovrebbe integrare il reato ascritto agli esponenti della società, senza considerare che il primo ha una sua precisa autonoma fisionomia. Peraltro, lo stesso elemento soggettivo delle persone fisiche non può ridursi alla violazione oggettiva delle regole cautelari. In sostanza, la sentenza impugnata ha fatto coincidere la colpa penalmente rilevante con il dato oggettivo del mancato impedimento dell'evento e non ha preso in considerazione gli elementi offerti con i motivi di appello che valevano ad escludere l'elemento psicologico delle persone fisiche e comunque ad escludere la colpa di Tre*** nell'organizzazione della sicurezza dell'ente medesimo.
22.17. L'esponente censura il metodo con il quale la Corte di Appello ha ritenuto di poter accertare la relazione causale, poiché essa non ha considerato che per comprendere quale sia il rischio eccentrico occorre comprendere cosa il soggetto specifico sia chiamato a controllare in rapporto alla ripartizione di competenze risultante dal sistema della interoperabilità. Pertanto, non può confondersi l'accertamento del tasso di probabilità della frattura con la specificità del dovere di controllo. Sembra di comprendere che, per l'esponente, la prevedibilità dell'evento, che egli collega al concetto di rischio eccentrico, vari a seconda della prospettiva della posizione degli obblighi del soggetto preso in considerazione; sostanzialmente tale prevedibilità non era la medesima per il detentore, per il manutentore e per Tre***.
22.18. Premessa la sottolineatura che la sentenza fa conseguire la responsabilità dell'ente dalle condanne del So.[VI.] e del Ca.[MA.], con riferimento alla posizione di quest'ultimo l'esponente afferma che la Corte di appello ha omesso una reale motivazione in merito alla colpa in senso soggettivo del medesimo, anche marginalizzando l'incidenza dell'affidamento prestato nel quadro normativo che ha definito il sistema dell'interoperabilità. Quanto al So.[VI.], la Corte di appello non prende in considerazione, se non cadendo in contraddizione, le deleghe da questi emesse, le quali incidono anche sulla valenza salvifica del comportamento lecito: considerata la specifica posizione di garanzia e la ripartizione delle funzioni che la sentenza ha senz'altro ammesso, questa avrebbe dovuto chiarire come si potesse acquisire la prova certa che i singoli anelli causali, impeditivi dell'evento, effettivamente conseguissero ove il So.[VI.] avesse tenuto la pretesa azione salvifica. Ci si chiede se la pretesa anomalia documentale ascrivibile a G***x o alla Ju***l sarebbe stata individuata dal dipendente di Tre*** officiato al controllo.
È mancata la motivazione in ordine alla colpa in senso soggettivo del So.[VI.], che comunque versava in errore scusabile in considerazione della prassi interpretativa consolidata in Europa e in Italia. Trattandosi in misura essenziale di contenuti 'contrattuali', essi sono appunto considerati dalla giurisprudenza di Cassazione quali elementi di fatto. Nella peggiore delle ipotesi dovrebbe trattarsi di errore su norme integratrici del precetto penale; errore scusabile perché inevitabile.
Si aggiunge, tornando nuovamente al tema causale, che la mera "idoneità" ad influire sulla evoluzione degli eventi non può considerarsi significativa di un potere di impedimento, proprio perché non determina alcuna efficacia salvifica reale e concreta.
22.19. Con il diciassettesimo motivo l'esponente censura l'errata applicazione della legge operata laddove la Corte di appello ha ritenuto che ricorra la violazione di obblighi connessi alla sicurezza del lavoro. Dopo aver sostenuto che in relazione alla dotazione di attrezzatura di lavoro emerge un vizio occulto che esclude la responsabilità del datore di lavoro, l'esponente asserisce che è stata ascritta colpa generica e che ciò esclude l'integrazione dell'illecito di cui all'art. 25-septies del decreto 231. Mentre il d.lgs. n. 162/2007 e le norme CUU non attengono alla sicurezza del lavoro ma alla sicurezza della circolazione ferroviaria.
22.20. Si denuncia l'indeterminatezza del capo di imputazione elevato nei confronti di Tre*** (capo 90), in quanto omette di indicare gli obblighi la cui inosservanza fonderebbe, nell'ipotesi accusatoria, la responsabilità della stessa. La contestazione avrebbe dovuto quantomeno indicare:
a) le specifiche carenze organizzative rimproverate a Tre***;
b) lo specifico interesse o vantaggio acquisito o perseguito tramite gli illeciti colposi contestati ai propri esponenti;
c) il nesso tra le carenze organizzative (eventualmente ritenute) ed i reati colposi attribuiti alle persone fisiche, anche sotto il profilo dell'evento (frattura dell'assile per un difetto nella manutenzione) e della sua (ritenuta) ascrivibilità a titolo di colpa.
Si sostiene, inoltre, che siccome il capo 90 richiama i capi 10 e 28, concernenti il disastro e l'incendio colposo, manca la contestazione a Tre*** di un illecito dipendente da omicidio o lesioni colpose.
La Corte di appello ha rigettato l'eccezione proposta con interpretazione erronea, laddove si afferma che non valgono per l'ente i principi che attengono alla contestazione del reato alla persona fisica perché si tratta di illecito amministrativo.
22.21. Si rinviene l'omessa motivazione in merito alla violazione dei doveri di vigilanza (da parte del So.[VI.]) che devono ricorrere allorquando il reato è commesso da un sottoposto (nel caso, il Ca.[MA.]). Rammentando che era stato proposto motivo di appello che censurava la violazione dell'art. 522 cod. proc. pen., avendo il Tribunale ritenuto la posizione apicale del Ca.[MA.] nonostante il diverso tenore della contestazione, la Corte di appello ha affermato che questi era datore di lavoro in quanto responsabile di unità produttiva. Con il che si è data una motivazione illogica, perché per altri responsabili di unità produttiva si è ritenuta la sottordinazione al So.[VI.], e si è perpetuata la violazione dell'art. 522 cod. proc. pen.
In relazione alla posizione datoriale del So.[VI.] si asserisce che la Corte di appello ha omesso di motivare in merito alla nota datata 12.11-3.12.2015 dell'USL di Viareggio che escludeva quella qualifica.
La Corte di appello ha omesso di motivare sul significato dei documenti che erano stati depositati per dimostrare l'atteggiamento di attenzione di Tre*** verso la sicurezza e sulle prove che documentano le attività e i risultati raggiunti nel settore. La violazione di obblighi organizzativi o di direzione "personalmente" ascrivibili al So.[VI.] è rimasta indimostrata e la sentenza impugnata non motiva su cosa questi avrebbe dovuto fare (tenuto anche conto che le omissioni rimproverate non attengono all'alta vigilanza ma all'adempimento di mansioni meramente esecutive; mentre la valutazione del rischio fu operata anche con riferimento al trasporto di merci pericolose), anche alla luce della organizzazione complessiva di Tre*** (ovvero dell'assenza in capo al So.[VI.] di competenza in materia di noleggio o utilizzo del carro e della avvenuta individuazione dei responsabili delle unità produttive quali datori di lavoro). In sostanza la Corte di appello ha pronunciato una condanna che si basa sullo schema secondo cui il difetto organizzativo si imputerebbe "automaticamente" al vertice, per mera ed assoluta presunzione, senza peraltro prendersi carico degli specifici motivi contrari illustrati nell'appello proposto dalla difesa. Si lamenta il travisamento della prova in relazione all'affermazione secondo cui Tre***, con la gestione del So.[VI.], «aveva valutato (...) di non dare corso ad un eventuale investimento in tale settore» (sentenza di primo grado). In realtà la Corte di appello dapprima indica come autore di questa scelta di politica di impresa gli amministratori di R***I e FS, poi la collega immotivatamente al So.[VI.]. Anche l'attribuzione della qualifica datoriale al Ca.[MA.] è illogica.
Si censura che siano state ritenute inidonee le individuazioni dei datori di lavoro territoriali; la Corte di appello ha ritenuto che i relativi DVR non fossero adeguati ma non ha esposto alcun profilo di carente autonomia patrimoniale o decisionale o di inadeguatezza soggettiva; ed invece ha più volte affermato che si trattava di un rischio che doveva essere valutato rispetto allo specifico territorio. Sostenendo che il rischio doveva essere oggetto di valutazione per l'intero territorio nazionale la Corte di appello mostra di confondere il rischio dell'esercizio ferroviario con il rischio lavorativo. Né la Corte di appello chiarisce perché le misure organizzative e procedurali individuate come necessarie non potessero essere attuate dal datore di lavoro dell'area Genova per i convogli ivi transitanti.
I giudici di merito sono incorsi nell'errore di non valutare la testimonianza del Lando., per il quale i responsabili delle unità territoriali avevano poteri decisionali e di spesa illimitati: di confondere la delega di funzioni con la costituzione ex lege del datore di lavoro in quanto responsabile di unità produttiva, derivandone la persistenza in capo al delegante (non tale) di poteri di sorveglianza sul delegato. Quindi il So.[VI.] non può rispondere come datore di lavoro e la responsabilità dell'ente non può discendere da un reato che sarebbe stato commesso quale dal So.[VI.] datore di lavoro. Né può essere ipotizzata utilmente una responsabilità concorsuale perché la disciplina del decreto 231 non la contempla.
22.22. Violazione dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001 e vizio della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell'interesse e del vantaggio dell'ente.
I giudici di merito hanno ritenuto che l'ente abbia ricavato un vantaggio di tipo economico dalla violazione degli obblighi cautelari ascritti ai suoi esponenti; ciò però è stato affermato in assenza di prove, come dimostra il rigetto della richiesta di confisca del profitto del reato; inoltre la Corte di appello ha riconosciuto di non poter quantificare il presunto risparmio di spesa ottenuto da Tre***, e ciò dimostra che esso non vi è stato, altrimenti ne sarebbe stata possibile la quantificazione, sia pure in misura approssimata. Peraltro, contraddittoriamente, la Corte di appello definisce il vantaggio modesto e poi sostiene che vi sia stato un notevole risparmio negli investimenti; afferma che il risparmio connesso al mancato acquisto di una flotta di carri è figlio di una scelta in sé legittima ma poi attribuisce a quel risparmio un carattere illecito.
L'esponente osserva che si è in concreto proceduto ad una interpretatio abrogans del requisito dell'interesse e del vantaggio perché questi sono stati fatti discendere, con automatismo, dalla violazione dell'obbligo cautelare. Per contro, la giurisprudenza di legittimità (si cita Cass. del 20.9.2016 e n. 33629/2016) richiede che sussista una politica aziendale volta al risparmio di costi e quindi non un mero effetto di risparmio, divaricato da una valutazione dell'ente che abbia motivato la condotta negligente da questi tenuta. Contraddittoriamente, il Tribunale ha applicato un criterio più restrittivo nei confronti di Ci***Ri*** s.p.a., la cui responsabilità ex 231/2001 è stata esclusa per non aver coltivato nessuna prospettiva utile nell'omettere i controlli non effettuati. È stata quindi valorizzata l'assenza di un interesse dell'ente all'omissione dei controlli. Diversamente, per Tre*** è stato utilizzato il criterio del vantaggio. Ma le conclusioni per Ci***Ri*** valgono a maggior ragione per Tre***, che all'esecuzione dei controlli non era preposto. Afferma l'esponente che il vantaggio, inteso quale mero effetto postumo della condotta colposa, non può essere considerato tale quando l'ente abbia ritenuto di non adottare il comportamentale cautelare non per ragioni economiche o di risparmio ma perché lo abbia ritenuto contrario alla sicurezza dei lavoratori. Inoltre è puramente assiomatica l'affermazione della sussistenza dei risparmi dei costi connessi ai controlli sulla manutenzione: non è specificato quali dovessero essere, non sono quantificati; gli unici controlli che vengono indicati come omessi non avrebbero comportato alcun costo, in quanto meramente documentali.
Nella logica della legge il vantaggio, per quanto modesto, dovrebbe essere tale da motivare l'illecito. Orbene, poiché Tre*** ha sostenuto costi per la sicurezza per almeno un miliardo e mezzo di euro, è manifestamente illogico dedurre una volontà di risparmio di pochi euro all'origine della mancata organizzazione di raccolta documentale.
Anche la procedura di cabotaggio non comportava alcun costo per la ricorrente; si trattava unicamente di attivare Cesifer. Tali rilievi erano stati prospettati con l'atto di appello ma non sono stati considerati. Così come non è stata data replica al motivo di appello che lamentava la contraddittorietà della prima sentenza, laddove riconosceva costituire violazione del principio di correlazione la modifica del contenuto dell'interesse e del vantaggio operata in requisitoria dal Pm nei confronti di FLog*** (risparmio di spesa dovuto alla mancata acquisizione di una flotta di carri per il trasporto di merci pericolose) e però non ne coglieva la portata più generale, in quanto operazione compiuta anche nei confronti di Tre***.
L'esponente ribadisce, citando a conforto giurisprudenza di merito (Trib. Torino 10.1.2013, Gup Tolmezzo 23.1.2012 e Gup Cagliari 4.7.2011), che trattandosi di responsabilità penale è necessario rinvenire un profilo di colpevolezza; ciò conduce a non ritenere sufficiente per la configurabilità dell'interesse che il fatto sia stato commesso da un soggetto qualificato nell'ambito delle sue funzioni ma è invece necessario anche che sia accertata una tensione finalistica della condotta illecita, volta a beneficiare l'ente stesso; restano così esclusi dall'ambito del rilevante per l'illecito dell'ente le violazioni derivanti da semplice imperizia, dalla sottovalutazione dei rischi, dall'imperfetta esecuzione di misure preventive, perché non frutto di esplicite deliberazioni volitive finalisticamente orientate a soddisfare un interesse dell'ente.
Quanto al vantaggio, per evitare forme di responsabilità oggettiva, è necessario che ad esso si accompagni una colpa dell'organizzazione; con il che è esclusa la responsabilità nei casi in cui un qualsivoglia vantaggio sia realizzato in maniera del tutto fortuita.
Questa impostazione è stata adottata anche dalla Corte di cassazione, allorquando ha statuito che deve essere accertato che la condotta della persona fisica sia stata determinata da scelte rispondenti all'interesse dell'ente o sia stata finalizzata all'ottenimento di un vantaggio per l'ente medesimo. Il vantaggio ricorre quando, agendo per conto dell'ente, si è violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, realizzando una politica di impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi e un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto (Cass. 2544/2016; SU 38343/2014).
Non è ammissibile una concezione meramente oggettivata del vantaggio, dimenticando che la condotta della persona fisica è rilevante solo se destinata a coltivare gli interessi dell'ente; diversamente si profilerebbe una violazione dell'art. 27, co. 1 Cost.
Nel caso di specie è indimostrato che Tre*** seguisse una politica di impresa disattenta alla sicurezza del lavoro ed anzi vi è la prova contraria.
Per la giurisprudenza di legittimità l'ente risponde dell'illecito se gli si può imputare una violazione sistematica della normativa prevenzionistica e l'autore del reato abbia violato la normativa con l'intento di procurare all'ente un indebito vantaggio o che l'ente abbia ricavato un vantaggio di entità non irrisoria (Cass. n. 38363/2018); se sia accertata una generale insensibilità dell'ente per la tematica della sicurezza. Condizioni che devono essere dimostrate dall'accusa. Nel caso di specie le presunte violazioni prevenzionistiche sono del tutto neutre sul piano degli effetti economici; si tratterebbe di violazioni non sistematiche ma occasionali, al più connesse ai 24 viaggi eseguiti dal carro nell'arco di tre mesi.
Né si può ipotizzare di valorizzare violazioni cautelari precedenti al montaggio dell'assile perché si tratterebbe di lacune organizzative prive di connessioni causali rispetto al reato colposo asseritamente commesso dagli esponenti di Tre***.
22.23. L'esponente denuncia la motivazione palesemente illogica e il travisamento della prova, con riguardo a incidenti "precursori" ed a corrispondenti "campanelli di allarme" da tener presenti nella valutazione del rischio di deragliamento. Si osserva che, in relazione ai sinistri ferroviari pregressi, le difese avevano messo in rilievo la necessità di una minima comunanza di dati concreti che permetta di stabilire una somiglianza rilevante dal punto di vista (a) della valutazione del rischio e (b) delle misure preventive da adottare, a partire dalla "causa" dell'evento e dal rischio "specifico" di cui è espressione. Dunque, la "rottura per fatica" dell'assile per una cricca non rilevata in sede di manutenzione dell'assile medesimo. Le sentenze di merito ricorrono invece a motivazioni del tutto illogiche, che fanno di tutta l'erba un fascio, omettendo radicalmente di rispondere a precise censure difensive, puntualizzate nel motivo VII dell'appello (viene riportato il pertinente testo del motivo). Si sostiene che la Corte di appello non ha preso posizione in ordine alle implicazioni della previsione di cui al punto 2.17.2.1. della Decisione 2004/446.
22.24. La Corte di appello ha del tutto omesso la considerazione del motivo XVII dell'appello, che atteneva all'accertamento condotto dal Tribunale in merito alla idoneità e alla efficacia del Modello di organizzazione e di gestione (MOG) di Tre***, censurato in primo luogo per non aver tenuto conto dell'assetto complessivo delle procedure di sicurezza della società. Si rileva l'errore di diritto nel quale sarebbe incorsa la Corte di appello nel ritenere che l'art. 30 d.lgs. n. 81/2008 solleciti la nomina di un secondo Organismo di Vigilanza (OdV); nel pretendere che si sarebbe dovuto redigere un DVR complessivo. Si reputa privo di motivazione il giudizio di non autonomia dell'OdV perché non indica i fatti e le norme che la Corte di appello pone a fondamento di tale affermazione. Neppure svolge, la sentenza impugnata, un accertamento della connessione causale tra lacune del MOG e reato.
22.25. L'esponente riporta il testo di parte del motivo XVII° dell'appello sostenendo che riguardo ad esso è stata omessa la motivazione da parte della Corte d'Appello.
22.26. Analoga la prospettazione fatta con il ventiquattresimo motivo, costituito dalla riproposizione di una parte del XVII0 motivo di appello.
22.27. Eguale impostazione si segue nell'articolare il venticinquesimo motivo. Dopo aver riportato la parte del XII0 motivo di appello che concerne il tema della procedura per la certificazione di sicurezza n. 9/AD del 5.8.2005, si aggiunge che la Corte d'Appello ha solo "apparentemente" toccato l'argomento del motivo d'appello. Infatti, essa non mostra, né esplicitamente né implicitamente, di aver davvero valutato le articolate, meticolose procedure previste ed attuate per il trasporto delle merci pericolose; né lo stesso contenuto e significato del DVR emesso dal responsabile dell'unità produttiva dell'area di Genova, lì dove esso ’isola' in modo incisivo il tema del transito, e delle relative emergenze. Il dettaglio del documento è del tutto ignorato dalla Corte d'Appello che si limita a concentrarsi sul tema, del tutto eccentrico, del c.d. deficit informativo.
22.28. Anche il ventiseiesimo motivo ripropone uno stralcio del XVII° motivo di appello, quello attinente alla certificazione dei modelli, aggiungendo che la Corte di appello ha del tutto ignorato il predetto motivo, decisivo siccome attinente al tema rilevante delle certificazioni, il cui rilascio avrebbe imposto alla Corte di appello di dimostrare l'errore degli organi certificatori.
22.29. Con il ventisettesimo motivo si censura, dopo aver riportato il pertinente passo del XVII° motivo di appello, che la Corte d'Appello abbia ignorato completamente le prospettive specifiche della causalità e della colpa nell'ottica dello specifico illecito dell'ente. La Corte distrettuale si sarebbe limitata a redigere una riga di motivazione là dove assume che sarebbe «evidente» il «nesso» tra la commissione dei reati contestati e la «incapacità» di Tre*** di far rispettare gli obblighi di tracciabilità della storia del carro; erra nel ritenere non necessario l'accertamento di uno specifico nesso causale tra il reato e la colpa d'organizzazione dell'ente incolpato perché si tratterebbe di responsabilità amministrativa e non penale. Tanto importa il vizio della motivazione e la violazione della legge penale sostanziale.
22.30. Il ventottesimo motivo attiene alla motivazione resa dalla Corte di appello in tema di trattamento sanzionatorio. La sentenza di appello, a pag. 819, ha applicato a Tre***, in assenza di impugnazione e quindi in violazione del divieto di reformatio in peius (per l'esponente, divieto da applicarsi senza dubbio anche nell'accertamento della responsabilità contestata all'ente ai sensi del d.lgs. 231/2001, come pure correttamente precisa la sentenza di secondo grado, a pag. 813) la meno favorevole disposizione prevista dall'art. 25-septies del d.lgs. 231/2001, nella formulazione introdotta dall'art. 9 della I. 23.8.2007, n. 123, anziché quella vigente, risultante dall'art. 300 del t.u. 81/2008. Quest'ultima stabilisce la sanzione pecuniaria fra 250 e 500 quote; la disposizione applicata prevede un numero di quote non inferiore a 1000 (che rappresenta anche il limite edittale massimo delle sanzioni pecuniarie, ai sensi dell'art. 10 co. 2 d.lgs. 231/2001). Da ciò discende che nessuna sanzione pecuniaria possa essere irrogata nei confronti di Tre***: Luna perché inapplicabile ratione temporis, l'altra perché lo esclude il divieto di reformatio in peius.
I diversi profili evidenziati dalla Corte di appello che riducono la gravità della colpa avrebbero dovuto implicare una riduzione dell'ammontare delle quote rispetto a quanto ritenuto dal Tribunale; non averlo fatto implica la manifesta illogicità della motivazione.
Erra la sentenza impugnata altresì nell'applicazione dell'art. 12 del d.lgs. 231/2001; essendo stato accertato un minimo vantaggio di Tre*** si sarebbe dovuto applicare l'art. 12, co. 1, lett. a), riducendo la sanzione pecuniaria nei limiti corrispondenti ed anche la riduzione prevista dall'art. 12, co. 2, lett. b), con riduzione della sanzione dalla metà ai due terzi.
Unificate sotto la titolazione di 'Motivo finale', si ribadiscono alcune delle osservazioni già proposte.

23. Ulteriori motivi per Tre*** s.p.a., ente condannato per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001
Il 31.3.2020 sono stati depositati 'Motivi ulteriori nei termini ordinari', ancora a firma dell'avv. F., con i quali:
I: si sostiene che la Corte di appello ha posto a carico dell'ente la prova dell'adozione di un idoneo ed efficacemente attuato MOG, così operando una inversione della prova contraddetta dalla giurisprudenza delle S.U.; da ciò è derivata l'omessa motivazione in merito ai presupposti della responsabilità dell'ente;
II: si rileva che la Corte di appello ha ritenuto la necessità di duplice OdV e che quello nominato non fosse autonomo, senza però dare indicazione delle prove dalle quali ha derivato il giudizio; inoltre, la Corte di appello ha affermato l'inidoneità del MOG senza accertare se essa fosse in connessione causale con la rottura dell'assile, che anzi ha affermato esplicitamente non essere individuabile sulla base della documentazione che si sarebbe dovuto acquisire;
III: si lamenta che la sentenza sia totalmente priva di motivazione in ordine all'inidoneità del MOG, non considerando che i cc.tt. del P.M. e delle parti civili non hanno tenuto conto del MOG di Tre***, che questo è stato confuso con il SGS, della esistenza delle procedure di sicurezza che avrebbero dovuto essere valutate unitariamente, come parte integrante di quel MOG. La pretesa doverosità di un DVR unitario fonda su una interpretazione in malam partem dell'art. 30 d.lgs. n. 81/2008. Neppure è stato considerato che il modello di Tre*** aveva conseguito diverse certificazioni, che avrebbero dovuto essere apprezzate in relazione alla previsione del comma 5 dell'art. 30 cit.
Si puntualizza che le censure devono essere intese come indirizzate anche all'affermazione di responsabilità del Ca.[MA.] e del So.[VI.].

24. Motivi nuovi per Tre*** s.p.a. quale ente condannato ex art. 25- septies
In data 12.11.2020 sono stati depositati 'Motivi nuovi di ricorso' a firma dell'avv. A.F.a, con il quale si rappresenta, in relazione al primo motivo del ricorso, che l'evoluzione della giurisprudenza conferma la tesi della inapplicabilità dell'art. 25-septies a Tre*** nel caso di specie. Viene citata, al proposito, la sentenza n. 51142/2019, che ha escluso l'aggravante di cui all'art. 590, co. 3 cod. pen., per osservare che viene posta una correlazione tra essa e il luogo di operatività degli impianti e vengono distinte le cautele poste a protezione del solo lavoratore da quelle che riguardano anche il terzo. Viene citata inoltre la pronuncia n. 44142/2019.
Si aggiunge, con riferimento al già posto tema della motivazione in punto di nesso di causalità, che la Corte di appello non ha affrontato l'interrogativo in merito all'essere la regola cautelare dell'acquisizione di informazioni intesa a prevenire la rottura del carro o di un suo componente, a fronte della portata dell'omologazione.
Si rimarca che le sentenze di merito non hanno affrontato il problema della seria e concreta rappresentabilità dell'evento così come storicamente realizzatosi, prendendo in considerazione, non correttamente, classi di eventi e quindi una prevedibilità meramente astratta. Ciò si ripercuote anche sulla colpa di organizzazione attribuibile all'ente.

25. Ricorso nell'interesse di Tre*** S.p.a., responsabile civile
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza Tre*** s.p.a., in qualità di responsabile civile, mediante atto sottoscritto dal difensore di fiducia avv. A.F.
25.1. Con un primo motivo ha dedotto la violazione della legge processuale, per essere stato celebrato il processo, sin dal primo grado, da un giudice costituito ad hoc dal dirigente dell'ufficio, in contrasto con il principio che vuole il giudice precostituito per legge, ed il vizio della motivazione; con correlata nullità assoluta del provvedimento di costituzione del Collegio giudicante e di assegnazione del procedimento penale n. 6305/09, del decreto che dispone il giudizio, della sentenza di primo grado e della sentenza di secondo grado. Le argomentazioni sono le medesime esposte al punto 22.1.
25.2. Si deduce la violazione di legge ed il vizio della motivazione in relazione a quanto sostenuto dalla Corte di appello a proposito del motivo di appello che lamentava la assoluta mancanza di motivazione nella sentenza di primo grado in merito ai rilievi avanzati con la memoria depositata all'udienza del 23.11.2016 e che attenevano alla assenza di legittimazione passiva di Tre***. La Corte di appello ha illogicamente sostenuto che il Tribunale non aveva «esplicitamente valutato la memoria depositata il 23 novembre 2016 relativa alle statuizioni civili, in quanto molte delle questioni poste con essa ripetono quelle già decise dal Tribunale con l'ordinanza emessa il 9 dicembre 2013». Infatti, la scansione temporale degli atti, l'acquisizione di nuovi elementi nel corso della istruttoria, l'estraneità a quella ordinanza del tema della legittimazione passiva di Tre*** contraddicono quanto sostenuto dalla Corte di appello. Ove questa abbia inteso riferirsi ad una motivazione implicita, aggiunge l'esponente, dovrebbe rilevarsi che nella specie ne mancano le condizioni per l'autonomia delle questioni poste nella predetta memoria, i cui temi, quindi, non hanno alcun nesso di ineliminabile connessione logico-giuridica con altri esplicitamente trattati.
La Corte di appello ha ritenuto che i rilievi avanzati con la memoria non fossero decisivi; e tuttavia la stessa Corte di appello ha avvertito la necessità di replicare alla questione relativa alla ipotetica responsabilità civile da reato di Tre*** per il fatto del suo amministratore pro tempore, Ing. So.[VI.] (cfr. p. 846 della sentenza oggetto di ricorso); questione, per contro, mai affrontata dal Tribunale di Lucca e per la prima volta decisa dalla sentenza di appello, nonostante fosse stata già formulata al § 7 della memoria difensiva depositata in primo grado.
Il tema posto dalla difesa - responsabilità della persona giuridica per il fatto del suo amministratore - è all'inverso decisivo; come lo è quello della (in)applicabilità a Tre*** degli artt. 2043, 2050, 2051 c.c., sulla quale il Tribunale non si espresse. Diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello questo non fece mai riferimento all'art. 2049 c.c. E la Corte territoriale erra anche a ritenere che tale norma possa fondare la responsabilità di Tre***; l'assunto si traduce nella inosservanza o, quantomeno, nella erronea applicazione degli artt. 185 cod. pen. e 2049 c.c. Tali disposizioni, infatti, chiaramente escludono che all'affermazione dell'altrui responsabilità penale l'interprete possa far discendere, secondo inaccettabili automatismi, la responsabilità del terzo citato nel processo ai sensi dell'art. 83 cod. proc. pen.
Pertanto, è errato ritenere che la motivazione che attiene alla responsabilità dell'imputato valga quale motivazione della responsabilità del responsabile civile.
L'omessa valutazione della memoria, secondo la giurisprudenza di legittimità (si cita la pronuncia n. 13085/2013), determina nullità ex 178, lett. c) cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
25.3. Con il terzo motivo si deduce l'inosservanza o erronea applicazione degli artt. 74 cod. proc, pen., 185 cod. pen., 2059 c.c. e 2 Cost, e la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Pur richiamandosi all'insegnamento di SU n. 38343/2014, la Corte di appello se ne è in concreto discostata perché, per quanto attiene alla costituzione quali parti civili degli enti morali, essa è stata ammessa nonostante l'assenza dei necessari elementi di collegamento concreto con l'interesse leso e con il contesto entro il quale si è prodotto l'evento. Per ciò che concerne la costituzione di alcune persone fisiche quali parti civili, essa è stata ammessa nonostante l'assenza di un rapporto particolare e qualificato che dimostri l’affectio familiae. Inoltre la Corte di appello ha sostituito ai criteri definiti dalla giurisprudenza di legittimità diversi criteri, quali la straordinaria terribilità dell'incendio o la particolare tragicità delle sue conseguenze per le vittime ustionate, che non valgono a stabilire la natura del legame che univa l'attore al soggetto passivo del reato.
25.4. Con specifico riferimento alle organizzazioni sindacali, poiché la Corte di appello ha fondato la loro legittimazione attiva sulla ritenuta ricorrenza di violazioni alla normativa antinfortunistica, l'esponente richiama le argomentazioni censorie svolte sul tema nel contesto del ricorso per Tre*** imputata ex decreto 231 al fine di dimostrare l'insussistenza della colpa specifica.
Si aggiunge che risultano violati anche gli artt. 74 cod. proc, pen., 185 cod. pen. e 2059 c.c. perché la Corte di appello ha correttamente ricercato la rivendicazione di un danno iure proprio delle parti civili per la perdita di credibilità della loro azione di tutela, ma ha ritenuto che fosse stato dimostrato l'effettivo svolgimento dell'attività statutaria da parte delle organizzazioni sindacali sulla base di testimonianze che richiamano soltanto astratte finalità statutarie, che hanno fatto riferimento ad attività generali di tutela, per le quali risultava inalterato il rapporto tra i lavoratori e il rappresentante della sicurezza.
Quanto poi alla legittimazione attiva delle articolazioni territoriali più lontane dal luogo dell'evento, in modo manifestamente illogico la Corte di appello ha ritenuto che il requisito della prossimità territoriale sarebbe "del tutto irrilevante" nel caso di specie, perché «l'evento infortunistico ha riguardato aziende che svolgono la loro attività in tutto il territorio nazionale»; in realtà, l'ente che si costituisce parte civile deve avere un collegamento territoriale all'ambito spaziale del fatto di reato. Conscia di ciò la Corte di appello ha sostenuto che nella vicenda processuale sono implicate «questioni attinenti la sicurezza dell'intera organizzazione del trasporto ferroviario da parte del Gruppo Fe***I***» e perciò coinvolta la «tutela di tutti i lavoratori che operano sull'intera R***I», mentre il processo ruota intorno ad una singola operazione di trasporto, avente ad oggetto merci e sviluppatasi lungo una precisa rotta ferroviaria.
25.5. Con riferimento alle associazioni e agli enti esponenziali costituiti parte civile, l'esponente rammenta che l'unanime indirizzo interpretativo vincola la presenza legittima dell'eventuale parte privata nel processo penale al concreto perseguimento dell'interesse in una situazione storicamente circostanziata, interesse che deve essere "preso a cuore" dall'ente quale fine primario e ragione della sua stessa esistenza ed azione. La sentenza impugnata risulta sul punto viziata per la carenza del suo apparato motivazionale, non soddisfacendo l'obbligo motivazionale quanto affermato dalla Corte a pg. 852, perché si tratta di affermazioni generiche, che non esibiscono le circostanze di fatto alla base dell'assunto (ovvero quali specifiche attività i diversi enti hanno svolto per raggiungere i propri scopi).
Con riferimento specifico a Cittadinanzattiva onlus e Codacons onlus, la Corte di appello ha esplicitamente disatteso la necessità che ricorra sia il radicamento territoriale (perché si è asserito che essi perseguono i propri fini "anche", e dunque non solo né in misura prevalente nel territorio viareggino) sia la unicità ovvero prevalenza di scopo (perché si è affermato che essi sono orientati a tutelare la salute non solo dei lavoratori, ma anche "dell'intera popolazione" genericamente considerata). Al riguardo l'esponente contesta che l'evento abbia avuto una dimensione nazionale e reputa apparente la motivazione con la quale la Corte di appello ha affrontato il tema del perseguimento in concreto dello scopo statutario, avendo evocato la notorietà della stessa. Il richiamo all'art. 137 del d.lgs. n. 206/2005, e quindi la circostanza che le menzionate parti civili siano «entrambe iscritte come associazioni di tutela dei consumatori» nello specifico elenco considerato dal decreto, conferma unicamente la vocazione dei due enti alla generica tutela delle ragioni dei "consumatori" e al contempo esclude che essi abbiano quale scopo prevalente, la tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro riconducibili al particolare contesto ferroviario.
Con riferimento a Medicina democratica l'esponente ravvisa in particolare il vizio di travisamento della prova in relazione alle testimonianze evocate dalla Corte di appello per giustificare l'affermazione della avvenuta dimostrazione dello svolgimento dell'attività anche nel territorio e nell'ambiente lavorativo precipui, dalle quali si trae, in realtà, che tale attività venne per lo più svolta dopo il disastro. Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, dunque, dalle suddette dichiarazioni si evince non solo il mancato svolgimento di specifiche attività di tutela degli interessi coinvolti nella vicenda processuale (attività limitate all'opera di mera "informazione" della collettività), ma anche il radicale difetto di collegamento territoriale, non avendo l'associazione un'autonoma sede nel territorio del Comune di Viareggio. Anche in questo caso si rimarca l'eterogeneità dei fini dell'ente.
Con riferimento all'Associazione 'Comitato Matteo Valenti', si lamenta il vizio della motivazione e l'erronea applicazione del diritto vivente, avendo la Corte di appello dato rilievo al fatto che l'associazione costituiva sviluppo di un Comitato sorto da tempo anteriore al sinistro, senza però considerare che è necessario che il nuovo soggetto abbia svolto "non opera meramente promozionale, ma un'attività di attuazione di uno scopo programmato e duraturo, attraverso l'utilizzazione di beni a tal fine destinati e vincolati".
Nel caso di specie è la stessa Corte di appello a parlare di attività culturale di mera sensibilizzazione. Inoltre, anche per questo ente la Corte di appello ha mancato di dare rilievo alla non unicità e prevalenza delle finalità statutarie rivolte alla salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.
Con riferimento alla Associazione 'Dopolavoro Ferroviario', oltre a ribadire la generale denuncia di errata applicazione delle norme pertinenti, l'esponente lamenta il travisamento della prova costituita dall'atto costitutivo e da alcune testimonianze dalle quali si ricava che l'ente non aveva finalità di tutela della salute e della sicurezza dei ferrovieri sui luoghi di lavoro e che per lo stesso non si determinò alcun danno non patrimoniale.
25.6. Con riferimento alla Regione Toscana, alla Provincia di Lucca e al Comune di Viareggio si lamenta l'omessa motivazione in ordine ai rilievi avanzati con l'appello, non rappresentando per l'esponente reale motivazione le affermazioni al riguardo fatte dalla Corte di appello. In particolare si sono elusi i rilievi che rimarcavano la non unicità o prevalenza dello scopo di tutela perseguito dall'ente leso; l'inesistenza di un danno all'immagine, eventualmente ipotizzabile solo per il Comune di Viareggio ma in ogni caso da escludere; che negavano l'estensione del pericolo ad una area di territorio più ampia di quella del Comune di Viareggio e l'impegno di competenze istituzionali per far fronte alle conseguenze del disastro.
25.7. Relativamente alle statuizioni concernenti B.I. si deduce il travisamento della prova costituita dalle dichiarazioni del coniuge S.F., dalle quali si trae l'esistenza di un rapporto di conoscenza e di frequentazione con il soggetto passivo del reato A.F.; l'omessa motivazione in ordine alla doglianza dell'essere stata ammessa la costituzione di parte civile della B. unicamente in ordine ai danni patrimoniali, non essendo mai stato espresso il giudizio sull'ammissibilità della costituzione anche in relazione ai danni non patrimoniali.
Con riferimento a S.C., si lamenta che la Corte di appello abbia affermato che lo stesso aveva «un rapporto amicale della stessa intensità di quello familiare» con la famiglia P., senza che di ciò vi sia prova, essendo le dichiarazioni testimoniali richiamate dalla Corte di appello inidonee a dimostrare l'esistenza di un affectio familiae. È manifestamente illogico trarre dalla circostanza generica rappresentata dall'esistenza di una frequentazione tra gruppi familiari, l'esistenza di specifici rapporti individuali di forte intensità tra i singoli componenti dei due suddetti gruppi; intensità che, nel caso di specie, dovrebbe tra l'altro essere parificabile a quella sussistente tra membri della stessa famiglia.
Non valgono, poi, a togliere fondamento a tali considerazioni il richiamo della Corte di Appello alle testimonianze in cui si dà atto dell'assistenza prestata dallo S., in occasione dell'incidente, ad alcuni familiari della Sig.ra M.S., perché non rappresentativa di quanto accaduto prima del sinistro.
Né risponde al dato testimoniale che le due famiglie avrebbero reciprocamente tenuto a battesimo i figli.
Per quanto concerne P.A. e N.W.L.E., si censura la motivazione impugnata per non aver considerato la Corte di appello che tra essi e due delle vittime esisteva solo un rapporto contrattuale di locazione di un'abitazione. Omessa motivazione si lamenta per non aver la Corte di appello argomentato in ordine alla rilevata ammissione di tali parti civili solo per il danno patrimoniale e alla non ammissibilità di una costituzione per danno non patrimoniale da perdita dell'immobile.
25.8. La Corte territoriale incorre nel vizio di violazione della legge sostanziale (artt. 185 c.p. e 2049 c.c.), allorquando ritiene che il rapporto di "preposizione", quale presupposto di applicazione della suddetta norma di diritto civile, sarebbe/ integrato anche nell'ipotesi di fatti commessi non da soggetti dipendenti, bensì dagli amministratori della Società.
La Corte di appello ha inteso rifarsi ai principi posti da Cass. n. 24548/2013 ma ne ha travisato il significato. La giurisprudenza di legittimità insegna che non esiste un rapporto di subordinazione tra società e soci o amministratori; quella civile reputa che tale rapporto sia da sui generis o assimilabile al rapporto di prestazione d'opera professionale. Quindi non vi è luogo all'applicazione dell'art. 2049 c,c.
Ragionando sulla base di articoli del codice civile diversi dall'art. 2049 c.c. e con esplicito richiamo alla giurisprudenza di legittimità delle sezioni civili Corte, in tale pronuncia viene esclusa in radice l'ipotesi di una responsabilità civile della società per il fatto del suo amministratore, quando quest'ultimo abbia agito con abuso dei poteri conferitigli e nel proprio esclusivo interesse.
Dalla motivazione di detta sentenza si evince altresì che la società potrebbe rispondere per il fatto del suo amministratore in sede civile, secondo il principio della immedesimazione organica, il quale opererebbe a condizione che l'organo di gestione abbia compiuto atti che «siano, o si manifestino, come esplicazione dell'attività della società, poiché tendenti al conseguimento dei fini istituzionali di questa». Per contro, nulla vi è nella motivazione della citata sentenza di legittimità da cui desumere che tale ipotetica responsabilità diretta della società, basata sul principio dell'immedesimazione organica, possa essere affermata, oltre che in sede civile, anche in sede penale.
Inoltre, poiché «non può assumere la veste di responsabile civile ex art. 185 c.p. il soggetto che, versando in colpa, abbia un titolo diretto di responsabilità per i danni lamentati dalla parte civile» (citazione da Sez. 6, n. 41520 del 27/9/2012, Re e Zaccagnini, Rv. 253809), conducendo il principio di immedesimazione organica all'applicazione dell'art. 2043 c.c., esso non può essere validamente invocato nel processo penale a sostegno della chiamata in causa del terzo in qualità di responsabile civile.
Quanto al Ca.[MA.] e al Ma.[EM.], la difesa aveva sostenuto che l'adozione ed efficace attuazione da parte dell'ente di un modello di organizzazione idoneo ad evitare illeciti del tipo di quello verificatosi, costituisce valida ragione che, rendendo per il soggetto collettivo imprevedibile il fatto del suo singolo esponente, porta ad escludere la sussistenza dei presupposti di applicazione dell'art. 2049 c.c.
La motivazione resa dalla Corte di appello al riguardo è viziata per due profili: perché reputa che la motivazione in tema di responsabilità individuale valga sic et simpliciter anche a giustificare la affermazione della responsabilità civile e perché analogamente non può ritenersi che i motivi a sostegno dell'affermazione di responsabilità dell'ente valgano a rendere motivazione sul motivo descritto. Il rinvio fatto dalla Corte di appello è del tutto improprio perché non tiene conto della necessità di rinnovare la valutazione di inidoneità (o, viceversa, di idoneità) dei modelli organizzativi, calandola nello specifico contesto della responsabilità civile da reato. Non può, infatti, essere dato per scontato che determinati presidi, ritenuti inidonei per le specifiche finalità del d.lgs. n. 231 del 2001, non siano invece da ritenersi idonei ad escludere la responsabilità civile del terzo chiamato ai sensi dell'art. 83 cod. proc. pen.
25.9. I motivi articolati da IV.3 a IV.6.3 corrispondono nella sostanza, salvo alcune variazioni stilistiche e di impaginazione, ai motivi esposti sotto la numerazione da III a XVII nel ricorso proposto da Tre*** S.p.a. quale ente condannato ai sensi del decreto 231/2001. Si rinvia pertanto alla sintesi che se ne è fatta nel paragrafo 22.
25.10. Si deduce la violazione di legge ed il vizio della motivazione in relazione all'affermazione che i reati vennero commessi nell'interesse e a vantaggio dell'ente. Da un canto l'esponente rileva che nel caso concreto il giudizio di mancanza di prova dell'esser stato ricavato dai reati un profitto sta a dimostrare l'assenza del vantaggio dell'ente; dall'altro lamenta che l'affermazione di sussistenza del vantaggio è del tutto generica, non essendo individuata la sua consistenza, dichiarata genericamente modesta; per altro ancora la Corte di appello non ha tenuto conto della documentazione prodotta dalla difesa dalla quale emergevano investimenti per 1,5 miliardi di euro a dimostrazione dell'assenza di qualsiasi scelta di risparmio da parte di Tre***.
25.11. Con ulteriore motivo l'esponente ripropone in sintesi i rilievi che sono stati avanzati con il ricorso di Tre*** quale ente condannato ai sensi del decreto 231/2001 a riguardo della motivazione della sentenza impugnata attinente alla adozione ed alla attuazione del modello organizzativo e di gestione.
La Corte di appello ha ritenuto che non vi fosse un MOG adeguato omettendo la valutazione delle prove fornite dalla difesa al riguardo; ha errato nell'interpretazione dell'art. 30 d.lgs. n. 231/2008 ritenendo che esso preveda un MOG diverso ed ulteriore rispetto a quello previsto dall'art. 6 del decreto 231; ha errato nel reputare inidoneo il MOG perché non unitario, non tenendo conto che il decreto 81 prevede che datore di lavoro sia il responsabile dell'unità produttiva. Si censura, altresì, come puramente astratto il giudizio di inidoneità del MOG per carenza di indipendenza dell'OdV, posto che non si indica quale rilevanza la mancanza di autonomia abbia avuto nel caso concreto. Si lamenta che la Corte di appello ha omesso di prendere in esame l'assetto complessivo delle procedure di sicurezza della società relative al trasporto di merci pericolose, facendo coincidere MOG e SGSL; ed omesso di considerare il contenuto ed il significato del DVR del responsabile dell'unità produttiva dell'area di Genova; ha omesso la motivazione sul rilievo che segnalava la titolarità di certificazioni secondo lo standard normativo BS OHSAS 18001-2007, che avrebbe dovuto condurre all'applicazione dell'art. 30 d.lgs. n. 81/2008 e quindi all'esonero da responsabilità o quanto meno al dubbio in ordine alla inefficacia del MOG; ha omesso di motivare in merito al motivo di appello che concerneva la causalità e la colpa dell'ente, ovvero in che modo la pretesa conoscenza documentale relativa alla tracciabilità avrebbe aiutato nel cogliere i rischi da fronteggiare in concreto.
25.12. Con il quinto motivo si lamenta il difetto di prova del danno o della sua ascrivibilità (oggettiva e soggettiva) a Tre***, nonché l'erronea determinazione della misura del suo risarcimento e l'inosservanza o, comunque, l'erronea applicazione degli artt. 74 cod. proc, pen., 185 e 187, co. 2 c.p., 2049, 2055, 2056, 1223, 1226, 2059 e 2697 c.c., 115 c.p.c. e 539 cod. proc. pen. ed infine la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
La Corte di appello, dopo aver dato atto che «la sentenza di primo grado descrive le categorie di danno non patrimoniale che ritiene risarcibili nella presente vicenda, [...] ma non indica per ciascuna delle parti civili quali di essi ritenga sussistenti», conferma la decisione di prime cure, affermando che il Tribunale avrebbe di fatto riconosciuto a ciascuna parte il diritto ad un risarcimento per il danno non patrimoniale, rimettendo però al giudice civile anche la decisione su quali di dette articolazioni possano dirsi in concreto sussistenti e adeguatamente dimostrate.
È manifestamente contraddittorio, oltre che contrario ai principi codificati negli artt. 2697 c.c. (onere della prova) e 115 c.p.c. (principio dispositivo), riconoscere la carente allegazione e prova del danno lamentato e, ciò nonostante, comunque accogliere la domanda risarcitoria. Né può dirsi integrato alcun danno genericamente definito come "non patrimoniale", ove non sia allegata e dimostrata la concreta sussistenza di almeno una delle sue possibili forme di manifestazione.
Quanto ai criteri di liquidazione del danno non patrimoniale patito dalle persone fisiche, l'esponente censura che sia stato tenuto conto delle modalità degli eventi lesivi contestati quale parametro di determinazione del danno non patrimoniale subito dai familiari superstiti, poiché in tal modo si confonde la sofferenza di questi ultimi con il patimento di chi tali eventi ha subito in prima persona. Si contesta poi, con riferimento agli enti morali costituiti, l'affermazione della Corte di appello secondo cui essi avrebbero «riportato non solo la lesione della loro immagine ma anche la lesione dell'interesse proprio che tutelano, lesioni la cui sussistenza è certa stanti le cause dell'incidente ferroviario come processualmente accertate»; che la condanna possa essere pronunciata anche solo sulla base di allegazioni attendibili che farebbero apparire plausibile il danno, stante il principio per il quale la parte ha l'onere di dare dimostrazione della esistenza di un danno certo.
In merito ai criteri di liquidazione, la stessa Corte di appello ammette che il Tribunale non li ha esplicitati e quindi è contraddittoria quando afferma essere gli stessi evidenti. Inoltre, valorizzare quali criteri di determinazione della lesione arrecata alla sfera immateriale di soggetti collettivi la "gravità dell'evento", da un lato, e il "rilevante grado di lesione dell'interesse tutelato", dall'altro, si risolve in una manifesta illogicità, muovendo da un radicale difetto di comprensione di ciò che propriamente costituisce "danno non patrimoniale" per un ente che agisca in giudizio iure proprio, conducente alla inosservanza o erronea applicazione degli artt. 74 cod. proc, pen., 185 cod. pen., 2059 c.c. e 2 Cost. Anche il richiamo alla risonanza mediatica dell'evento non si è accompagnato alla esplicazione di un danno da ciò derivato ai soggetti costituiti. Il "danno all'immagine" nel presente processo, è quello conseguente alla frustrazione di specifiche e territorialmente circoscritte attività di tutela, poste in essere dal soggetto collettivo in epoca antecedente ai fatti.
25.13. Con riferimento alle statuizioni attinenti agli enti territoriali, oltre a ribadire i rilievi in ordine alla carenza di legittimazione attiva, l'esponente asserisce che costituisce una manifesta illogicità ritenere che gli enti territoriali possano aver subito una lesione della propria personalità, per essere stati indicati come "teatro di un evento catastrofico". Tale rilievo, infatti: a) sicuramente non può estendersi alla Regione Toscana e alla Provincia di Lucca; b) la tesi secondo cui vi sarebbe stato un pericolo per tutto il territorio attraversato dalla tratta percorsa dal convoglio sviato a Viareggio resta indimostrata ed è altresì infondata; c) non tiene conto della massima di esperienza secondo cui i territori (e relativi organi rappresentativi) colpiti da gravi eventi divengono oggetto di positiva attenzione da parte della collettività, con riguardo ai danni non patrimoniali.
La Corte di appello ha riconosciuto che la Regione Toscana non aveva documentato i costi sanitari sopportati e ciò non di meno ha pronunciato condanna al risarcimento di un danno che quindi risulta incerto nell'an. Inoltre, la Corte di appello non ha motivato sul rilievo difensivo che segnalava l'avvenuto accordo transattivo tra i responsabili civili e la Regione per le pretese risarcitorie di natura patrimoniale.
Quanto alla Provincia di Lucca, l'esponente ritiene che il punto concernente l'esistenza di danni non patrimoniali sia privo di motivazione perché la Corte di appello ha omesso di indicare i fatti dai quali desume la lesione della sfera non patrimoniale. Le affermazioni censorie svolte in relazione agli altri enti territoriali sono ribadite dalla ricorrente anche nei confronti della Provincia di Lucca per rimarcare come la Corte di appello non ne abbia fatto oggetto di motivazione. Con riferimento alla misura della concessa provvisionale, si lamenta il vizio della motivazione per aver la Corte di appello ritenuto che essa fosse parametrata ai danni patrimoniali e solo in modesta parte a quelli non patrimoniali, risultando invece che il Tribunale aveva considerato solo quest'ultimi.
Per i danni patrimoniali, l'esponente censura che la Corte di appello abbia ritenuto non rilevanti le contestazioni circa le singole voci, essendo stata demandata al giudice civile la liquidazione del danno. Infatti, anche in caso di condanna generica il danno deve essere certo nella sua esistenza e non esiste un danno patrimoniale senza le singole voci che lo compongono.
Con riferimento al Comune di Viareggio, l'esponente lamenta la violazione degli artt. 539 cod. proc, pen., in relazione agli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., nella misura in cui la Corte distrettuale erroneamente ha ritenuto di poter emettere condanna generica in assenza di prove che dimostrino l'effettiva (e non solo astratta) sussistenza del danno. Inconferente, per l'esponente, è il richiamo alla supposta esistenza di una lesione sopportata dalla città in termini di "danno all'immagine". Non essendo in contestazione fatti di diffamazione, l'unico danno non patrimoniale che astrattamente legittimerebbe la costituzione dell'ente sarebbe rappresentato dalla frustrazione degli scopi perseguiti dal soggetto collettivo, con conseguente diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell'ente, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca. Per l'esponente, l'essere stato il territorio di Viareggio "teatro" di un grave incidente non è circostanza tale da diminuire la considerazione del soggetto collettivo che lo rappresenta. Per altro profilo, la lesione dell'interesse alla sicurezza dei cittadini non vale a fondare la condanna, non essendo tale scopo di tutela l'unico che anima l'ente territoriale.
Infine, l'aver messo in risalto l'esistenza di una lesione dell'interesse alla sicurezza dei cittadini «anche in termini di sofferenza morale della popolazione per lo stesso verificarsi dell'incendio e delle devastazioni che ha provocato» è implicita ammissione del difetto di legittimazione iure proprio del Comune; la Corte di appello sembra, infatti, ragionare come se il Comune agisca in rappresentanza dei propri cittadini, quando invece agisce nel processo iure proprio.
Con riferimento alle associazioni sindacali l'esponente censura la motivazione con la quale la Corte di appello ha replicato ai rilievi difensivi: affermando che l'effettivo svolgimento di attività statutaria è notorio, o richiamando dichiarazioni testimoniali che nulla dicono al proposito; affermando che il pregiudizio da queste subito è notorio e che, nel caso di violazione delle norme antinfortunistiche, la lesione dell'interesse tutelato è da "ritenere in re ipsa e con essa il conseguente pregiudizio"», in contrasto con la prevalente giurisprudenza.
Con specifico riferimento ai "Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza di Tre*** S.p.A.". si denuncia che la Corte di appello non ha in alcun modo sviluppato il tema dello specifico danno riportato dagli stessi.
Con precipuo riguardo a "Medicina democratica", "Codacons" e "Cittadinanza attiva", ma anche al Comitato Matteo Valenti, si sostiene che nessun profilo specifico tra quelli sollevati con l'appello è stato affrontato dalla sentenza, così emergendo il vizio di omessa motivazione.
In merito all'associazione 'Dopolavoro Ferroviario' l'esponente ravvisa una motivazione apparente laddove la Corte di appello ha inteso replicare ai rilievi proposti con l'appello che lamentavano come carente sia l'indicazione dei fatti da cui desumere l'asserita esistenza del danno sia l'indicazione dei criteri valorizzati per determinare la misura del suo risarcimento. Per l'esponente, solo apparente è anche la motivazione dei Giudici di seconde cure secondo cui gli importi sarebbero stati correttamente liquidati, in quanto la sentenza di primo grado avrebbe tenuto conto «della diversa rilevanza, tra gli scopi di ciascuna associazione, della tutela dell'interesse leso dai reati».
Si ribadisce che valorizzare quali criteri di determinazione della lesione asseritamente arrecata alla sfera immateriale di soggetti collettivi la "gravità dell'evento", da un lato, e il "rilevante grado di lesione dell'interesse tutelato", dall'altro, si risolve in una manifesta illogicità e in una violazione di legge.
25.14. Per ciò che attiene alle statuizioni relative ad A.M.G., la ricorrente ritiene che la Corte di appello abbia reso motivazione apparente, non avendo indicato le voci di danno delle quali si assume l'esistenza e i criteri di calcolo della provvisionale concessa.
Con riferimento a B.I., si lamenta che la Corte di appello abbia equiparato le posizioni della stessa e di F.S., coniugi, nonostante il diverso rapporto con la vittima A.F.; che non abbia indicato le prove dalle quali inferire che le sofferenze lamentate dalla parte civile originerebbero dal decesso di F.A. e non dalla vicinanza emotiva al proprio marito; che abbia riferito anche alla B. le consulenze mediche relative al solo F.i; l'apparenza della motivazione in ordine alla misura della provvisionale.
Con riferimento alle statuizioni concernenti H.F. e K.A., l'esponente denuncia una motivazione contraddittoria, manifestamente illogica nonché viziata da inosservanza o erronea applicazione degli artt. 539, co. 1 cod. proc, pen., 185 cod. pen. e 2059 c.c., in relazione ai motivi di gravame che lamentavano la totale assenza di motivazione non solo in merito al quantum, ma anche rispetto all'an della pretesa risarcitorìa. La Corte di appello ha fatto menzione all'astratta, anziché certa, sussistenza dei danni richiesti; ha travisato le testimonianze utilizzate e ne ha tratto illogiche conclusioni.
Con riferimento a M.G., l'esponente lamenta l'apparenza della motivazione giacché la mera indicazione di risultanze istruttorie, non seguita da uno sviluppo argomentativo che ne illustri il significato e la rilevanza, non soddisfa l'obbligo di motivazione incombente sul giudice. Lamenta anche l'entità della provvisionale per non aver i giudici indicato i criteri che li hanno indotti a determinare in una misura maggiore il risarcimento dovuto. Infine, osserva che il riferimento alle «circostanze eccezionalmente tragiche dell'evento», quale parametro di determinazione della provvisionale, origina dalla non corretta ricostruzione del danno non patrimoniale per cui è stata riconosciuta tutela risarcitoria.
Con riferimento a N.W.L.E. e P.A. si lamenta il travisamento del contenuto delle testimonianze utilizzate dalla Corte di appello e la mancanza di motivazione in merito ai parametri utilizzati per ritenere l'ammontare dei danni eccedenti le somme versate dalle compagnie assicuratrici e accettate a titolo di acconto.
Con riferimento a O.V.M. e a P.M., la ricorrente censura la manifesta illogicità della motivazione ed il travisamento delle loro testimonianze nella parte in cui la Corte di appello ha rigettato i motivi di appello che lamentavano la carenza della motivazione adottata dal primo giudice per sostenere la statuizione che riconosce ad entrambi una provvisionale a parziale risarcimento del danno non patrimoniale sofferto.
Violazione degli artt. 185 cod. pen. e 2059 c.c. si ravvisa laddove la Corte di appello ha ritenuto che possa essere oggetto di risarcimento, nonostante solo indirettamente collegata ai fatti in contestazione, la sofferenza «derivante dal vedere le condizioni fisiche di molte persone conosciute perché loro vicini di casa sino a pochi anni prima».
Con riferimento ad O.A.M., l'esponente si duole che sia stato ritenuto provato un danno da perdita delle cognate e del nipote e il danno morale sulla base di documentazione che non attiene all'esistenza di un intenso legame affettivo, al reale sconvolgimento di vita per il sopravvissuto, in ragione del venir meno dell'assistenza morale e materiale prima ricevuta dal defunto. Si denuncia la violazione degli artt. 539 cod. proc, pen., 185 cod. pen. e 2059 c.c., laddove si ritiene ammissibile la pronuncia di una condanna generica, con assegnazione di cospicua provvisionale (€ 50.000), sulla base di mere (e inconferenti) allegazioni non sostenute da alcuna prova. Un profilo di illogicità viene colto laddove la Corte distrettuale ha giustificato l'importo della provvisionale riconosciuta alla parte civile «tenendo conto delle somme liquidate in via equitativa alle associazioni e di quelle liquidate alla altre partì civili». Così esprimendosi, la Corte territoriale finisce per equiparare situazioni completamente diverse tra loro (enti e persone fisiche), contravvenendo anche al più volte ribadito carattere necessariamente individualizzato dell'accertamento avente ad oggetto l'esistenza e l'entità del danno non patrimoniale.
Con riferimento a P.F. e P.Ca. si lamenta che la Corte di appello abbia fatto riferimento generico alle 'prove fornite'; che abbia riconosciuto un danno patrimoniale per spese mediche e terapie nonostante in primo grado fossero state chieste solo le spese già sopportate e non quelle a venire; perché la Corte di appello ha tenuto conto del danno patrimoniale per determinare la misura della provvisionale nonostante il Tribunale avesse condannato per il solo danno non patrimoniale; per non aver indicato la Corte distrettuale il parametro sulla base del quale ha ritenuto insufficienti le somme già corrisposte dagli organi assicuratori ed accettate dalle parti a titolo di acconto; per non aver esplicitato come sia stata valutata la entità del danno non patrimoniale in ipotesi sofferto dalle parti civili.
Con riferimento a P.R. si rinviene motivazione meramente apparente laddove si afferma «provato quanto meno un danno da perdita dei propri familiari nonché il danno morale» per non essere stata indicata una qualche risultanza istruttoria; si denuncia il travisamento della testimonianza di M.M.A.; si denuncia l'apparenza della motivazione con la quale si è giustificato l'importo della provvisionale e la violazione di legge per essere state valorizzate le circostanze e le modalità dei decessi.
Con riferimento a R.R. e R.S., manifestamente illogico è l'assunto della Corte territoriale secondo cui potrebbero essere estese alle parti civili qui considerate le valutazioni già esposte a proposito degli altri familiari della ragazza, stante il carattere necessariamente individualizzato del danno non patrimoniale. Manifestamente illogica è la deduzione della Corte di appello, operata per giustificare l'ammontare delle provvisionali, secondo cui la stretta frequentazione prima intercorrente tra le parti civili e la defunta E.M., in uno con le tragiche vicende occorse alla ragazza, avrebbero «sicuramente comportato anche in questi familiari una sofferenza particolarmente elevata»; motivazione viziata perché utilizza solo alcuni dei necessari criteri e non indica le risultanze processuali dalle quali deduce l'elevata sofferenza e perché attribuisce peso preponderante alla sofferenza patita dalla persona defunta.
Con riferimento a S.C., si rileva che la Corte di appello non ha indicato alcuna risultanza probatoria per giustificare l'asserzione di un rapporto amicale della stessa intensità di quello familiare ed ha utilizzato criteri inconferenti per la determinazione dell'importo della provvisionale.
Anche a riguardo delle statuizioni civili relative alle parti civili F.S., M.C., R.D., M.A. e P.M. si lamenta che la Corte di appello non abbia fatto buon governo dei principi di diritto stabiliti dall'interpretazione della Suprema Corte, parificando in modo manifestamente illogico le asserite responsabilità di Tre*** e dei suoi esponenti alle ipotetiche, concorrenti responsabilità degli altri soggetti coinvolti nel procedimento.
Con riferimento ad A.R. si segnala che il nome di questi non compare tra quello delle parti estromesse dal giudizio, pur se la Corte di appello ha fatto un riferimento in tal senso. Si reputa ricorrente un errore materiale. Si segnala anche che, nonostante la Corte di appello dia conto del decesso della parte civile P.F., non è stata disposta con il dispositivo la revoca delle relative statuizioni civili.
Infine, l'esponente ribadisce le censure già avanzate con l'appello nei confronti delle parti civili P.F. (o D.), M.S., D.L.A., C.P., B.R., M.G., M.M.C., B.L., A.R. e F.D. (agenti in qualità di rappresentanti legali delle figlie minori, A.G. e M.), per le quali le relative statuizioni sono state revocate.
25.15. Si denuncia la violazione degli artt. 541 e 592 cod. proc. pen. e il vizio della motivazione in relazione alla condanna alle spese, rappresentando che diversamente da quanto affermato dalla Corte di appello, che ha ritenuto una soccombenza totale di Tre***, le richieste delle parti civili non sono state integralmente accolte. Non risponde al vero che non sono state trattate questioni giuridiche nuove o complesse con riferimento alle domande delle parti civili. Inoltre, anche la parte civile deve rispondere dell'eventuale complessità delle questioni concernenti il merito della condanna penale. Infine, la Corte di appello ha contraddittoriamente valutato le transazioni avvenute, ai fini della compensazione delle spese. È poi abnorme e comunque viziata nella motivazione la statuizione che rifiuta la compensazione delle spese anche a fronte della soccombenza della Regione Toscana, di UGL Trasporti Regione Toscana e di UGL UTL Provincia di Lucca, i cui appelli sono stati rigettati.
25.16. Si denuncia il rigetto della richiesta di sospensione della esecuzione delle condanne provvisionali in quanto manifestamente illogica la motivazione della decisione.
Si chiede che, in accoglimento del motivo, si disponga la sospensione dell'esecuzione di tutte le condanne provvisionali e di ogni altra statuizione civile munita di provvisoria esecutività, con vittoria di spese, competenze ed onorari.
25.17. Il 24.3.2020 sono stati depositati 'Motivi ulteriori nei termini ordinari', ancora a firma dell'avv. F., per Tre*** s.p.a. quale responsabile civile. Si tratta delle medesime censure ed argomentazioni proposte con il coincidente atto depositato il 31.3.2020 per Tre*** quale ente condannato ex art. 231/2001. Si rinvia pertanto all'esposizione già compiuta del loro contenuto.

26. Ricorso nell'interesse di Mer*** Rail s.r.l., quale ente condannato ai sensi dell'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza Mer*** Rail s.r.l., a mezzo di atto sottoscritto dal difensore di fiducia avv. M.M..
Ha articolato trentuno motivi:
26.1. Nullità assoluta, ai sensi dell'art. 178, lett. a) cod. proc. pen. del giudizio di appello per omessa citazione di Mer*** Rail s.r.l. quale ente imputato, essendo stato citato come responsabile civile. La circostanza è stata fatta rilevare alla Corte di appello all'udienza del 25.3.2019 ma senza che seguisse una pronuncia al riguardo.
26.2. Nullità assoluta del provvedimento di costituzione del Collegio giudicante e di assegnazione del procedimento penale n. 6305/09 R.G. n.r., pendente avanti il Tribunale di Lucca, e del decreto che ha disposto il giudizio all'esito dell'udienza preliminare; nullità assoluta del dibattimento e della sentenza di primo grado, nonché del dibattimento di appello e della sentenza impugnata. Le argomentazioni ripercorrono, anche con coincidenza terminologica, quelle già esposte nel riportare in sintesi le ragioni poste a sostegno dell'analoga censura avanzata da Tre*** s.p.a. (paragrafi 22.1. e 25.1.).
26.3. Erronea interpretazione ed applicazione dell'art. 25-septies d.lgs. 8.6.2001, n. 231, ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata per non essere riconducibili i fatti contestati a Tre*** alla previsione legale dell'art. 25- septies del d.lgs. 231/2001.
Ad avviso dell’esponente non sussiste l'aggravante di cui all'articolo 589, co. 2 cod. pen. in quanto l’obbligo di adottare le misure antinfortunistiche si applica sul luogo di lavoro inteso come quel luogo in cui viene svolta una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro. Ciò significa che l’applicazione dell’art. 25-septies è necessariamente limitata al solo ambito degli infortuni che siano avvenuti sul luogo di lavoro e delle norme prevenzionistiche concepite dal decreto n. 81/2008. Pertanto, con esclusione degli eventi lesivi subiti dalla popolazione civile al di fuori dei luoghi di lavoro. La Corte di Appello ha respinto tale prospettazione senza affrontare con la dovuta autonomia il problema dei limiti della fattispecie delineata dall’articolo 25-septies attraverso il requisito consistente nella violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
Il Tribunale di Lucca ha sostenuto che la contestazione elevata nei confronti di Tre*** al capo 90 della rubrica avesse ad oggetto un evento lesivo realizzato anche in danno dei macchinisti alla guida del convoglio deragliato.
La Corte di appello ha rigettato il motivo di appello con il quale si proponeva il tema cadendo in contraddizione; ha infatti, al contempo, sostenuto la rilevanza della circostanza che i macchinisti fossero stati esposti al rischio lesivo e l'irrilevanza, sempre al medesimo fine, del luogo e del soggetto passivo dell'evento. È altresì incorsa nella violazione di legge, avendo interpretato l'art. 25-septies come se questo riproducesse il testo dell'art. 589 e dell'art. 590 cod. pen., e quindi mutuandone l'interpretazione, mentre la prima disposizione ha una formulazione diversa. Tale diversità comporta la limitazione del campo di applicazione dell'art. 25-septies ai soli fatti verificatisi sul luogo di lavoro. Viene criticata, al riguardo, anche l'interpretazione data dai giudici di merito all'art. 2 lett. n) e all'art. 18 lett. q) del d.lgs. n. 81/2008, che lungi dal confermare l'assunto degli stessi convalida la tesi che per i soggetti esterni al luogo di lavoro subentrano i comuni obblighi di diligenza, prudenza e perizia. Anche il concetto di misure prevenzionistiche oggettive non autorizza a estendere la protezione a qualsiasi terzo, al di fuori del luogo di lavoro. Comunque non sono tali gli artt. 23, 24 e 71 del d.lgs. n. 81/2008, mentre l'art. 2087 c.c. si applica solo al prestatore di lavoro.
Si denuncia l'omessa motivazione sulla applicabilità dell'art. 25-septies a Tre***, non potendosi considerare tale, per la menzionata diversità, quella resa a riguardo della ricorrenza dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen.
Dopo aver analizzato la giurisprudenza citata dai giudici di merito per convalidare le proprie tesi, argomentando le ragioni per le quali essa non può valere allo scopo, l'esponente svolge considerazioni critiche a riguardo della motivazione, laddove ha evidenziato un rischio lesivo per i macchinisti-lavoratori e anche da ciò fatto discendere che l'evento si è verificato per la violazione di norme prevenzionistiche; oltretutto nonostante mancasse una contestazione di lesioni in danno dei predetti. Rilievo già formulato con l'appello ma rimasto privo di replica.
L'interpretazione della Corte di appello opera una estensione analogica in malam partem delle norme aggravanti e dell'art. 25-septies; per la quale peraltro mancherebbero anche i consueti presupposti. L'esponente rimarca che, delimitando come si deve l'ambito di applicazione delle disposizioni in questione non si determina alcun vuoto di tutela perché soccorrono comunque le regole di ordinaria diligenza, prudenza e perizia.
L'esponente rappresenta che non risulta sinora mai contestato l'illecito di cui all'art. 25-septies per eventi avvenuti al di fuori del luogo di lavoro (che per Tre*** è solo il treno), sicché una affermazione di responsabilità dell'ente contrasterebbe con l'art. 7 C.e.d.u., nella interpretazione fornitane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nel caso Contrada c. Italia.
26.4. Il quarto motivo attiene alla omessa motivazione in merito alle censure difensive riguardanti l'assenza di obblighi di garanzia anche meramente "documentali" in capo a Tre*** sull'assile 98331 e sul carro sviato e alla errata interpretazione ed applicazione della legge penale (artt. 40 e 41, 589 cod. pen.; art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001) e di quella extrapenale (la normativa sovranazionale, internazionale ed italiana regolatrice dei controlli esperibili su carri marcati RIV e sui loro componenti).
L'esponente muove dalla considerazione che la Corte d'appello ha limitato le violazioni rimproverate a Tre*** ai soli obblighi di contenuto schiettamente documentale ma lamenta che la stessa Corte d’appello non abbia correttamente inteso i motivi di gravame che coinvolgevano anche l'affermazione della sussistenza di siffatto tipo di obblighi, finendo per risultare manchevole la motivazione anche in ordine alla richiesta di rimessione alla Corte di giustizia dell'Unione europea della questione pregiudiziale avente ad oggetto la corretta interpretazione delle norme di fonte comunitaria.
L'esponente ripercorre i testi che definiscono il quadro degli obblighi posti in capo alla impresa ferroviaria a partire dal regolamento internazionale veicoli (RIV), che sostiene essere fonte di un unico obbligo residuale in capo all'impresa ferroviaria utilizzatrice del carro mercato RIV, consistente nel controllo del rispetto dei cicli manutentivi, come risultanti dal cartiglio di manutenzione, e nella verifica tecnica della stazione di origine. Si tratta di controlli che si esauriscono in quelli effettuabili a vista o semplicemente girando intorno al treno. Si evoca poi la Fiche 433 UIC, sostenendo che questa si pone in piena sintonia con il RIV; il sistema della COTIF; il contratto di utilizzazione uniforme (CUU); la direttiva 49 del 2006, puntualizzando che essa esclude espressamente la possibilità di prevalenza della normativa nazionale su quella sovranazionale, tanto che quando uno Stato membro ritenga che a seguito di un incidente la normativa interna debba essere modificata è tenuto a darne notizia alla commissione la quale decide se autorizzare o meno la proposta di modifica. Rimarca l'esponente che le specifiche tecniche di interoperabilità (STI) sono vincolanti per gli Stati membri e che ogni sottosistema è oggetto di una o più STI; che la verifica comunitaria dei sottosistemi e la dichiarazione di conformità dei componenti di interoperabilità è affidata a un organismo notificato individuato come tale da ciascun Stato membro; che nella logica del sistema dell'interoperabilità non è consentito agli Stati membri limitare o ostacolare la immissione sul mercato dei componenti di interoperabilità nella costruzione, messa in servizio, esercizio dei sottosistemi strutturali, quando gli stessi soddisfano le disposizioni della direttiva. Conseguentemente non possono gli Stati membri esigere verifiche già compiute nell'ambito della procedura relativa alla dichiarazione CE di conformità o di idoneità all'impiego dei componenti, ovvero la relativa dichiarazione CE di verifica dei sottosistemi. L'esponente evoca il decreto legislativo 268 del 2004, di attuazione della direttiva 16/2001, segnalando in particolare la previsione dell'articolo 13, il quale chiarisce che le norme nazionali assumono efficacia solo quando la materia non è regolata dalle specifiche tecniche di interoperabilità. La conclusione cui perviene l'esponente è che gli obblighi di verifica documentale che si dicono violati da Tre*** non possono avere riconoscimento o fonte in norme nazionali o in norme emanate dal gestore dell'infrastruttura. Richiama, poi, la decisione della Commissione europea del 28 luglio 2006, numero 861, che nell'introdurre la specifica tecnica di interoperabilità relativa al sottosistema 'Materiale rotabile - carri merci', in particolare al punto 7.5.1. precisa che i carri oggetto degli accordi in essere, ancorché essi siano sottoposti a notifica, «possono continuare a essere utilizzati e sottoposti a interventi di manutenzione a condizione che siano conformi alla normativa comunitaria»; e che l'accordo RIV e gli altri strumenti COTIF non sono soggetti all'obbligo di notifica, in tal modo confermando che gli accordi erano noti alla Commissione e questa li riteneva in piena sintonia con i contenuti della STI in materia di carri merci.
Da ciò consegue che Tre*** non aveva alcun titolo o potere giuridico per chiedere né imporre standard manutentivi diversi, più o meno restrittivi, al responsabile della manutenzione; ma neppure per esigere verifiche documentali più restrittive o penetranti di quelle, sole, ammesse dalla normativa in esame.
Quanto al punto 4.2.8.1.2 dell'allegato alla decisione 2006/861, recante la STI sui carri merci, per il quale esiste un obbligo dell'impresa ferroviaria di accertarsi che tutte le procedure di manutenzione pertinenti siano presenti ed effettivamente applicate, la disposizione si applica solo ai carri nuovi, quale non era il carro montante l’assile fratturato in quanto entrato in servizio prima dell'entrata in vigore della STI. Orbene, non è corretto ritenere, come ha fatto la Corte di Appello, che si tratti di norme irrilevanti perché riguardanti i soli controlli manutentivi e strumentali diretti. Quelle norme riguardano anche i controlli documentali.
Dopo aver rimarcato l'assenza di previsioni che fondino l'obbligo di controllo documentale, l'esponente ha segnalato il contenuto degli obblighi in capo all'impresa ferroviaria, ribadendo che si trattava esclusivamente di controlli a vista. Ha poi lamentato che la Corte di appello non abbia preso in considerazione le regole della Fiche 433 (3.3.1.3. e 3.3.1.4) che prevedevano il diritto e non l'obbligo dell'impresa ferroviaria di controllo della manutenzione.
L'esponente sostiene che la Corte di appello ha fatto errata interpretazione del punto 7.3 del CUU, non cogliendo che esso (la prima parte) attiene alle ispezioni sul carro e non ad altre tipologie di controllo. In conclusione, le norme della Fiche 433 e del CUU citate dalla Corte di appello non danno riscontro alla tesi per le quali sono state da essa richiamate.
Con riferimento alla rilevanza accordata dalla Corte di appello alla norma CEI EN 50126, l'esponente rimarca in primo luogo che di essa non è fatta alcuna menzione nel capo 90 e che è stata per la prima volta indicata come fonte di obblighi di garanzia a carico degli esponenti di Tre*** nella sentenza di secondo grado. Si ravvisa quindi una violazione del principio devolutivo e del principio di correlazione.
Si osserva, inoltre, che tale norma si applica ai soli sistemi elettrici/elettronici; in ogni caso non è valida fonte di obbligo giuridico di garanzia perché ha solo la funzione di definire uno standard tecnico uniforme e non si applica ai carri RIV e ai loro componenti che sono disciplinati da regole prevalenti perché speciali e comunque di prevalenza gerarchica.
Quanto al contenuto della deposizione del Chiov., l'esponente rammenta che con l'atto di appello si era lamentato che la procedura di interlocuzione dallo stesso evocata non avrebbe avuto alcuna capacità impeditiva dell'evento; sul punto la Corte di appello non ha motivato, limitandosi a riproporre il richiamo alla procedura di interlocuzione, che peraltro concettualmente non coincide con gli obblighi che sono stati attribuiti a Tre***. Ancora a riguardo della deposizione del Chiov., l'esponente lamenta che la Corte di appello abbia affermato che questi riferì di un obbligo di acquisizione dei piani di manutenzione del carro deragliato che al contrario è stato dal medesimo escluso.
Si osserva, ancora, che la Corte di appello non ha replicato al motivo di appello imperniato sulla rilevanza da accordarsi alla direttiva 110/2008; la Corte distrettuale ha da un canto affermato che essa non sarebbe rilevante perché non entrata in vigore all'epoca dell'incidente; ma la difesa aveva indicato le ragioni della sua rilevanza nonostante tale dato. Dall'altro la Corte distrettuale, quando ha reputato che la direttiva 110/2008 avalli la propria ricostruzione, l'ha ritenuta senz'altro rilevante, richiamandola espressamente, come avviene a pag. 708 della sentenza.
La Corte di appello ha sostenuto che le disposizioni della direttiva europea 2004/49, recepita con il d.lgs. n. 162/2007, consentirebbero di inferire che fosse onere di Tre*** produrre documentazione «evidentemente contenente tutte le informazioni anche relative alla loro storia manutentiva», cioè alla storia manutentiva dei diversi tipi di materiale rotabile.
Ma è un'inferenza che confligge con il testo delle disposizioni addotte dalla Corte per darne dimostrazione.
È poi viziata da palese erroneità la deduzione della Corte di Appello, secondo la quale proprio in forza dell'art. 9 d.lgs. 162/2007 «per l'utilizzo di carri omologati in Germania e ivi già autorizzati alla messa in servizio Tre*** spa avrebbe dovuto presentare all'ANSF (istituita proprio con il d.lgs. n. 162/2007) e già prima a R***I spa un fascicolo tecnico contenente tutte le informazioni di cui era però sprovvista, e che non risulta avere mai richiesto né al suo fornitore FLog*** spa né al proprietario del carro, neppure dopo l'entrata in vigore della citata normativa italiana».
L'obbligo fissato dall'art. 9 ricade solo sull'impresa «in possesso di autorizzazione alla messa in servizio di materiale rotabile in altro Stato membro»; e non è il caso di Tre***. Peraltro, l'art. 9 viene citato per la prima volta dalla Corte di appello.
L'esponente passa poi a considerare i riferimenti fatti dalla Corte di appello alle disposizioni n. 13/2001, n. 1/2003, n. 23/2004 di R***I affermando che la loro applicabilità fu paralizzata dall'entrata in vigore della normativa comunitaria successiva e che in ogni caso esse non riescono a confermare l'assunto della Corte di appello. Analoghi rilievi vengono svolti a riguardo dell'utilizzo fatto dalla Corte di appello della "Modifica alla Comunicazione per il Certificato di Sicurezza n. 1/AD del 24.5.2001, revisione B del 3.3.2004", contenente la "procedura per l'immatricolazione dei rotabili delle Divisioni di Trasporto di Tre***".
Pure criticata è l'affermazione della Corte di appello secondo la quale l'obbligo di acquisizione documentale discenderebbe dalla posizione datoriale, perché nel difetto di una fonte giuridica autonoma, che generi obblighi documentali del tipo sopra descritto, non è sufficiente evocare la generale posizione di garanzia datoriale.
Con riferimento alla motivazione che concerne la procedura di cabotaggio, l'esponente rileva che la sentenza impugnata erra sicuramente nel reputare tale procedura in vigore perché non abrogata "formalmente" - l'esponente richiama nel dettaglio le ragioni della incompatibilità della stessa con la sopravvenuta disciplina comunitaria - e travisa anche il significato della deposizione dell'Ing. Chiov. sul problema del vigore della procedura; erra nel dichiarare l'irrilevanza della compatibilità della procedura con il divieto di duplicare i controlli di sicurezza, stabilito dalle norme europee; è lacunosa nello stabilire il collegamento tra il dossier tecnico che la norma 50126 imporrebbe e la procedura di cabotaggio. L'esponente lamenta che i rilievi svolti con l'appello in merito a quanto poteva legittimamente dedursi dalla scheda mod. C della procedura non hanno trovato replica nella motivazione impugnata. Come non ha trovato risposta il rilievo che indicava - in forza dei punti II.4.1 e II.4.5.1. della procedura - nella impresa ferroviaria titolare o detentrice del carro l'impresa tenuta a richiedere l'avvio della procedura stessa, peraltro solo nel caso in cui il carro non venga immediatamente introdotto in Italia. Nel caso di specie G***x Austria.
26.5. Con il quinto motivo ci si duole del difetto di correlazione tra accusa e sentenza, avendo la Corte di appello rimproverato Tre*** di aver omesso anche prima del 2009 e già al momento di ingresso in Italia del carro n.33807818210-6, di adottare la piena tracciabilità dei componenti dei carri esteri circolanti sulla rete ferroviaria nazionale, consentendo così che si formasse il "deficit informativo" che ha poi portato alla sostituzione di una sala montata del carro con un componente privo di tracciabilità. Infatti, il capo 90 faceva riferimento alla fornitura ai macchinisti di attrezzatura non sicura, riammettendo alla circolazione nel marzo 2009 il carro in parola. Quindi condotte successive al marzo 2009 e non risalenti nel tempo.
26.6. Il sesto motivo attiene alla violazione della legge penale ed extrapenale ed al vizio della motivazione, con riguardo al preteso "deficit informativo" riguardante il carro n. 338078182106. Si assume che l'obbligo di verificare la tracciabilità del carro e dei suoi componenti è stato identificato per la prima volta dalla Corte di appello e che si tratta, quindi, di una regola creata ex post facto. La difesa aveva segnalato l'importanza della direttiva 2008/110 per la definizione dello statuto delle entità responsabili della manutenzione (ECM); infatti essa dimostra che la norma cautelare adottata dopo il fatto di Viareggio era stata individuata nella certificazione. La Corte di appello ha frainteso il senso del rilievo giudicando irrilevante la direttiva perché entrata in vigore dopo il sinistro. Ma in realtà la direttiva è rilevante perché permette di identificare quale fosse il migliore standard cautelare, secondo la scienza e l'esperienza del momento storico. Tre*** si è attenuto a quello standard cautelare, ancorché formalizzato in epoca posteriore, posto che tanto la Ci***Ri*** che la Ju***l erano in possesso delle prescritte abilitazioni e certificazioni.
Inoltre, la motivazione non chiarisce su quale base la Corte di Appello abbia ritenuto di far retroagire al 2005, addirittura in forma di obblighi per Tre***, le richieste informative avanzate per la prima volta dall'ANSF il primo luglio del 2009; obblighi che peraltro non vigono neppure oggi. La Corte di appello ha trascurato di esaminare la nota n. 892 del 19.2.2009 con la quale l'ANSF dava seguito all'art. 24 della direttiva 2001/16/CE, attuata in Italia dal d.lgs. 30.9.2004, n. 268.
Con essa l'ANSF prescriveva le informazioni che l'impresa ferroviaria avrebbe dovuto acquisire per il materiale rotabile da essa noleggiato, immatricolato da un soggetto diverso; come chiarito dal Chiov., essa si riferiva solo al noleggio fra imprese ferroviarie con certificato di sicurezza in Italia.
Si sostiene che la sentenza impugnata è manifestamente illogica quando cerca di stabilire un collegamento tra le omissioni "informative" rimproverate a Tre*** con la condanna e l'incidente del 29.6.2009, determinato dalla rottura dell'assile n. 98331. Da un canto afferma che, per una corretta valutazione del rischio frattura a fatica, occorreva conoscere la storia dell'assile; dall'altro, sostiene che gli obblighi di tracciabilità si imponevano a Tre*** a partire dall'ingresso in Italia del carro nel 2005, quindi indipendentemente dall'assile 98331.
Quanto all'esistenza di un obbligo di fermo, l'esponente rimarca che mentre la Corte di Appello risponde, a pag. 709, affermando che sarebbe stata proprio «la mancanza di tracciabilità, che sarebbe emersa richiedendo la documentazione inerente il carro n. 33807818210-6 e l’assile della sala n. 98331, a costituire un segnale di irregolarità che avrebbe imposto la sua eliminazione dalla circolazione», nulla dice in ordine alla norma che avrebbe imposto il blocco del carro o dell'assile.
Era stato segnalato alla Corte di appello che il documento sulla tracciabilità delle sale europee del 5 ottobre del 2010, formato dalla task-force dell'ERA, (European Wheelset Traceability - EWT) prevedeva che nel caso di assenza delle informazioni specificate a pag. 15, l’assile deve essere sottoposto a controlli non distruttivi che l'ente responsabile della manutenzione reputi adeguati volta per volta. Il "fermo" della sala scatta solo se risultano mancanti le informazioni su costruttore, data di costruzione e standard di produzione. Informazioni nel caso che occupa note.
La motivazione è palesemente illogica laddove la Corte di appello asserisce che l'assile interessato aveva un rischio di frattura più elevato, perché proveniente da una fonderia (forse) della ex DDR, costruito nel 1974 e fatto con acciaio di qualità diversa da quella già all'epoca in uso nei Paesi occidentali ed avente una quantità di microinclusioni non più consentito sugli assili di più recente fabbricazione.
Manifestamente illogica perché l’anno e la fonderia di costruzione dell'assile 98331 erano e sono stampate sull'assile. Mentre è la stessa Corte di appello che, nel riconoscere che Tre*** non poteva e doveva fare esami strumentali, ammette che essa non poteva e doveva fare controlli sulla qualità dell'acciaio dell'assile. Peraltro, nel processo non è stato accertato o anche solo ipotizzato un maggior rischio di frattura di assili costruiti nel 1974 o nella ex DDR; il consulente del P.M., Prof. Ton., all'udienza del 12.11.2014, ha riferito che « L'acciaio in sé risultò eccellente, come caratteristiche meccaniche, come potrebbe essere un acciaio costruito oggi»; alla udienza del 19.11.2014, confermò che l'acciaio dell'assile, non conforme a parametri sopravvenuti, era in regola con le norme del tempo della costruzione e che, comunque, una non conformità del materiale dal punto di vista della resilienza non aveva avuto rapporti con l'incidente.
Anche con riferimento all'affermazione di un obbligo documentale da adempiere in connessione con la revisione eseguita presso la Ci***Ri***, l'esponente ribadisce che non vi era altra documentazione da acquisire da parte di Tre***; la Corte di appello ha sul punto travisato le dichiarazioni del Capo.; inoltre, si ripete, la decisione 861/2006, richiamata dall'accusa e dai giudici come fonte degli obblighi informativi, si applica ai carri merci nuovi, modificati o rinnovati entrati in servizio dopo l'entrata in vigore della stessa e non si applica ai carri oggetto di contratti conclusi prima di tale momento.
La difesa contesta che in occasioni diverse dalla emanazione della nota n. 892/2009 l'ANSF si sia occupata specificamente di carri noleggiati da terzi, lamentando il travisamento delle note 283/2006 e 624/2007.
In conclusione, i giudici di merito hanno voluto estendere ai carri RIV gli obblighi valevoli per i carri nazionali, in tal modo ponendosi in contrasto con la disciplina che concreta il sistema della interoperabilità e realizzando una interpretazione in malam partem della regola cautelare.
Infine, sul punto, viene avanzata richiesta di rimessione alla CGUE della questione di pregiudizialità ai sensi dell'art. 267 TFUE concernente la normativa comunitaria vigente al 29.6.2009 in materia di circolazione dei carri merci RIV, chiedendo se essa osti a che norme tecniche (CEI EN 50126) o norme del gestore dell'infrastruttura nazionale e la legislazione nazionale impongano all'impresa ferroviaria italiana obblighi di verifica documentale.
26.7. Con il settimo motivo si lamenta l'erronea applicazione degli artt. 40 ss. cod. pen.
Ad avviso dell'esponente la Corte di appello ha mostrato di richiamarsi ai principi espressi dalla giurisprudenza in tema di rischio eccentrico ma non ne ha fatto applicazione. La relazione causale è stata costruita in termini astratti, senza prendere in considerazione i tratti concreti della vicenda. In particolare, si è ritenuto che fosse prevedibile la frattura dell'assile per l'esistenza di precedenti sinistri ferroviari, ma non si è considerato che nessuno di quelli citati era simile a quello di Viareggio; nel far ciò la Corte di appello si è posta in contrasto con quanto rappresentato dai c.t. Dia. e Res..
26.8. L'erronea applicazione dell'art. 40 cod. pen., ma unitamente a quella dell'art. 41 cod. pen., viene censurata anche con l'ottavo motivo. Il vizio risulterebbe in particolare dalla circostanza che la sentenza ha ritenuto di identificare quali termini del nesso causale non l'evento concreto (lo svio causato dalla rottura dell'assile 98331 per difetto manutentivo), ma la categoria di eventi identificati nel "deragliamento"; pertanto non il concreto e specifico rischio concretizzatosi nell'evento, ma un rischio del tutto "eccentrico", derivante da pretese "omissioni informative" ascritte a Tre***, che nessun rapporto causale né altra relazione hanno con la successiva formazione della cricca e la rottura del medesimo.
26.9. Con il nono motivo si lamenta il vizio della motivazione laddove la Corte di appello non ha realmente accertato che la acquisizione della documentazione in questione sarebbe stata in grado di evitare il verificarsi del sinistro. Il nesso causale è prospettato dalla Corte di appello in termini di mera possibilità.
26.10. Il decimo motivo lamenta la mancata valutazione dei motivi di appello IV, X, XI, XI. 1 e la violazione del principio di correlazione, poiché mentre l'evento che compare nella contestazione è il deragliamento del carro cisterna nel 2009 per effetto della cricca dell'assile 98331, l'evento (omissivo) che costituirebbe i reati per la Corte d'Appello e il Tribunale di Lucca finirebbe col consistere, invece, nella 'mancata o incompiuta documentazione' relativa alla immatricolazione del carro nel 2005.
Inoltre, la Corte di appello ha sostenuto che l'adempimento dell'obbligo da parte di Tre*** avrebbe alternativamente impedito la circolazione del carro oppure mitigato le conseguenze dello svio.
Già nel proporre l'alternativa si esclude dunque qualsiasi certezza nella ricostruzione dell'evento e del nesso causale. Inoltre, la Corte di appello ha definito il comportamento alternativo lecito impeditivo alla luce di quanto stabilito ex post dall'ANFS, senza considerare il carattere straordinario di quelle misure, non fondate sulle norme dell'esercizio ferroviario. In altri termini, la Corte distrettuale ha ipotizzato uno svolgimento ipotetico sulla base di ciò che si è determinato dopo il fatto di Viareggio. Il radicale difetto di 'correlazione logico-giuridica' che vizia la sentenza impugnata risulta in modo evidente anche dalla sola circostanza che essa sposta l'obiettivo dal 'particolare rilevante', cioè dall'assile e dalla sua cricca, al 'generale irrilevante', cioè al carro cisterna e alla sua immatricolazione. Anche le misure tecniche proposte dalla DGIF sono state individuate solo dopo il sinistro.
26.11. II precedente motivo viene ulteriormente articolato con la citazione di alcuni precedenti giurisprudenziali in funzione della dimostrazione dell'errore nel quale è incorsa la Corte di appello laddove fonda l'affermazione di responsabilità non sul convincimento positivo del collegamento con il rischio tipico, ma sulla presunzione, o meglio sulla finzione, che dall'adempimento dell'obbligo informativo sarebbero emersi elementi tali da non generare sicurezza circa la generica correttezza nella manutenzione.
26.12. L'undicesimo motivo lamenta il vizio della motivazione costituito dall'affermazione che fa coincidere la mancata documentazione con l'automatica insicurezza del carro.
26.13. Con il dodicesimo motivo si censura che la Corte di appello sia venuta meno all'obbligo di individuare correttamente, rispetto all'evento contestato, l'azione salvifica, e non abbia accertato con alto grado di credibilità razionale se ex ante si poteva evincere la necessità di fermare il carro. L'esponente asserisce che la sentenza impugnata non chiarisce affatto come Tre*** avrebbe dovuto e potuto sostituirsi al proprietario del carro nel verificare concretamente l'intervento di controllo che quest'ultimo aveva consacrato come manutenzione perfettamente curata con i relativi documenti ufficiali.
26.14. Vizio di motivazione viene rinvenuto laddove la Corte di appello ha esposto che la mancanza di tracciabilità sarebbe stata essa stessa un campanello di allarme e laddove ha ritenuto che non sussistesse un obbligo formale di acquisizione di informazioni e poi ha asserito che tale obbligo era formalmente imposto da norme europee. Quanto ai segnali di allarme, la Corte di appello avrebbe dovuto dapprima impostare correttamente la sequenza causale e poi chiedersi se esistevano segnali di allarme di un errore esecutivo dell'attività di manutenzione presso la Ju***l che fossero evidenti agli esponenti di Tre***.
26.15. Con il quattordicesimo motivo si asserisce che la Corte di appello ha utilizzato, in violazione della legge penale sostanziale, nell'accertamento in ordine al nesso causale, il criterio dell'aumento del rischio.
26.16. Il quindicesimo motivo attiene all'accertamento della colpa, considerata sotto il profilo del giudizio di prevedibilità dell'evento formulato dalla Corte di appello. Ad avviso dell'esponente si tratta di un giudizio che assume una prevedibilità astratta, con ciò ponendosi in contrasto con l'insegnamento delle SU Ronci, per le quali "La colpa andrà accertata sempre e soltanto in concreto, sulla base delle circostanze di fatto di cui il soggetto era o poteva essere a conoscenza e che dimostravano il concreto pericolo di un evento letale". La Corte d'Appello ha preteso di accertare la colpa con riferimento ad un'ipotesi di documentazione dalla quale in nessun modo era deducibile il rischio concreto dell'evento incorso a Viareggio. Essa muove dalla idea genericissima e puramente astratta che, comunque, un 'aumento di rischio' si collegasse automaticamente al preteso deficit informativo e che questa apodittica presunzione bastasse non solo all'accertamento causale ma anche a quello della colpa.
26.17. Anche il sedicesimo motivo attiene alla motivazione in tema di colpa, lamentandone la manifesta illogicità, oltre che la erronea applicazione della legge penale, tuttavia consistendo nella sola doglianza della mancanza di motivazione in punto di elemento soggettivo del reato, essendo solo apparente quella redatta dalla Corte territoriale.
26.18. Con il diciassettesimo motivo l'esponente lamenta che il giudizio causale e quello sulla colpa non abbiano considerato la unicità storica dell'evento contestato (specifica frattura dell'assile) e la sua "ridottissima probabilità" di verificazione come fattore concretante un rischio eccentrico rispetto all'area di competenze di Tre*** e come tale interruttivo del nesso causale ed escludente la colpa.
26.19. Con il diciottesimo motivo si censura la motivazione in tema di responsabilità del Ca.[MA.] e del So.[VI.].
Orbene, al riguardo si lamenta che con riferimento al Ca.[MA.] la Corte di appello abbia omesso una reale motivazione in merito alla colpa in senso soggettivo del medesimo, anche marginalizzando l'incidenza dell'affidamento prestato nel quadro normativo che ha definito il sistema dell'interoperabilità. Quanto al So.[VI.], la Corte di appello non prende in considerazione, se non cadendo in contraddizione, le deleghe da questi emesse che incidono anche sulla valenza salvifica del comportamento lecito: considerata la specifica posizione di garanzia e la ripartizione delle funzioni che la sentenza ha senz'altro ammesso, questa avrebbe dovuto chiarire come si potesse acquisire la prova certa che i singoli anelli causali, impeditivi dell'evento, effettivamente conseguissero ove il So.[VI.] avesse tenuto la pretesa azione salvifica. Ci si chiede se la pretesa anomalia documentale ascrivibile a G***x o alla Ju***l sarebbe stata individuata dal dipendente di Tre*** officiato al controllo.
È mancata la motivazione in ordine alla colpa in senso soggettivo del So.[VI.], che comunque versava in errore scusabile in considerazione della prassi interpretativa consolidata in Europa e in Italia. Trattandosi in misura essenziale di contenuti 'contrattuali', essi sono appunto considerati dalla giurisprudenza di legittimità quali elementi di fatto. Nella peggiore delle ipotesi dovrebbe trattarsi di errore su norme integratrici del precetto penale; errore scusabile perché inevitabile.
Si aggiunge, tornando nuovamente al tema causale, che la mera "idoneità" ad influire sulla evoluzione degli eventi non può considerarsi significativa di un potere di impedimento, proprio perché non determina alcuna efficacia salvifica reale e concreta.
26.20. Il diciannovesimo motivo censura l'errata applicazione della legge operata laddove la Corte di appello ha ritenuto che ricorra la violazione di obblighi connessi alla sicurezza del lavoro. Dopo aver sostenuto che in relazione alla dotazione di attrezzatura di lavoro emerge un vizio occulto che esclude la responsabilità del datore di lavoro, l'esponente asserisce che è stata ascritta colpa generica e che ciò esclude l'integrazione dell'illecito di cui all'art. 25-septies del decreto 231. Mentre il d.lgs. n. 162/2007 e le norme CUU non attengono alla sicurezza del lavoro ma alla sicurezza della circolazione ferroviaria.
26.21. Si denuncia l'indeterminatezza del capo di imputazione elevato nei confronti di Tre*** (capo 90), in quanto omette di indicare gli obblighi la cui inosservanza fonderebbe, nell'ipotesi accusatoria, la responsabilità di Tre***. La contestazione avrebbe dovuto quantomeno indicare:
a) le specifiche carenze organizzative rimproverate a Tre***;
b) lo specifico interesse o vantaggio acquisito o perseguito tramite gli illeciti 'J colposi contestati ai propri esponenti;
c) il nesso tra le carenze organizzative (eventualmente ritenute) ed i reati colposi attribuiti alle persone fisiche, anche sotto il profilo dell'evento (frattura dell'assile per un difetto nella manutenzione) e della sua (ritenuta) ascrivibilità a titolo di colpa.
Si sostiene, inoltre, che siccome il capo 90 richiama i capi 10 e 28, concernenti il disastro e l'incendio colposo, manca la contestazione a Tre*** di un illecito dipendente da omicidio o lesioni colpose.
La Corte di appello ha rigettato l'eccezione proposta con interpretazione erronea laddove afferma che non valgono per l'ente i principi che attengono alla contestazione del reato alla persona fisica perché si tratta di illecito amministrativo.
26.22. Si rinviene l'omessa motivazione in merito alla violazione dei doveri di vigilanza (da parte del So.[VI.]) che devono ricorrere allorquando il reato è commesso da un sottoposto (nel caso, il Ca.[MA.]). Rammentando che era stato proposto motivo di appello che censurava la violazione dell'art. 522 cod. proc. pen. avendo il Tribunale ritenuto la posizione apicale del Ca.[MA.] nonostante il diverso tenore della contestazione, la Corte di appello ha affermato che questi era datore di lavoro in quanto responsabile di unità produttiva. Con il che si è data una motivazione illogica, perché per altri responsabili di unità produttiva si è ritenuta la sottordinazione al So.[VI.], e si è perpetuata la violazione dell'art. 522 cod. proc. pen.
In relazione alla posizione datoriale del So.[VI.] si asserisce che la Corte di appello ha omesso di motivare in merito alla nota datata 12.11-3.12.2015 dell'USL di Viareggio che escludeva quella qualifica.
La Corte di appello ha omesso di motivare sul significato dei documenti che erano stati depositati per dimostrare l'atteggiamento di attenzione di Tre*** verso la sicurezza e sulle prove che documentano le attività e i risultati raggiunti nel settore. La violazione di obblighi organizzativi o di direzione "personalmente" ascrivibili al So.[VI.] è rimasta indimostrata e la sentenza impugnata non motiva su cosa questi avrebbe dovuto fare (tenuto anche conto che le omissioni rimproverate non attengono all'alta vigilanza ma all'adempimento di mansioni meramente esecutive; mentre la valutazione del rischio fu operata anche con riferimento al trasporto di merci pericolose), anche alla luce della organizzazione complessiva di Tre*** (ovvero dell'assenza in capo al So.[VI.] di competenza in materia di noleggio o utilizzo del carro e della avvenuta individuazione dei responsabili delle unità produttive quali datori di lavoro). In sostanza la Corte di appello ha pronunciato una condanna che si basa sullo schema secondo cui il difetto organizzativo si imputerebbe "automaticamente" al vertice, per mera ed f assoluta presunzione, senza peraltro prendersi carico degli specifici motivi contrari illustrati nell'appello proposto dalla difesa. Si lamenta il travisamento della prova della circostanza, secondo cui Tre***, con la gestione del So.[VI.], «aveva valutato (...) di non dare corso ad un eventuale investimento in tale settore». In realtà la Corte di appello dapprima indica come autore di questa scelta di politica di impresa gli amministratori di R***I e FS, poi la collega immotivatamente al So.[VI.]. Anche l'attribuzione della qualifica datoriale al Ca.[MA.] è illogica.
Si censura che siano state ritenute inidonee le individuazioni dei datori di lavoro territoriali; la Corte di appello ha ritenuto che i relativi DVR non fossero adeguati ma non ha esposto alcun profilo di carente autonomia patrimoniale o decisionale o di inadeguatezza soggettiva; ed invece ha più volte affermato che si trattava di un rischio che doveva essere valutato rispetto allo specifico territorio. Sostenendo che il rischio doveva essere oggetto di valutazione per l'intero territorio nazionale la Corte di appello mostra di confondere il rischio dell'esercizio ferroviario con il rischio lavorativo. Né la Corte di appello chiarisce perché le misure organizzative e procedurali individuate come necessarie non potessero essere attuate dal datore di lavoro dell'area Genova per i convogli ivi transitanti.
I giudici di merito sono incorsi nell'errore di non valutare la testimonianza del Lando., per il quale i responsabili delle unità territoriali avevano poteri decisionali e di spesa illimitati; hanno confuso la delega di funzioni con la costituzione ex lege del datore di lavoro in quanto responsabile di unità produttiva, derivandone la persistenza in capo al delegante (non tale) di poteri di sorveglianza sul delegato. Quindi il So.[VI.] non può rispondere come datore di lavoro e la responsabilità dell'ente non può discendere da reato che questi avrebbe commesso in tale veste. Né può essere ipotizzato utilmente una responsabilità concorsuale perché la disciplina del decreto 231 non la contempla.
26.23. Con il ventiduesimo motivo si lamenta il vizio della motivazione e la violazione dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001, in relazione alle affermazioni fatte in tema di commissione del reato nell'interesse dell'ente e di vantaggio da questo conseguito. La Corte d'Appello ha riconosciuto di non poter quantificare, per mancanza di prova, il vantaggio economico - il preteso «risparmio di spesa» - che Tre*** avrebbe ottenuto tramite le asserite omissioni cautelari; eppure, se un simile vantaggio vi fosse stato esso avrebbe dovuto essere quantificato o almeno quantificabile in una misura sia pur approssimativa. Inoltre, del tutto contraddittoriamente, i giudici di merito affermano che il risparmio di spesa per il mancato acquisto di una flotta di carri era una scelta in sé legittima senza spiegare allora perché varrebbe a fondare la responsabilità. Inoltre, si è adottata una interpretazione abrogatrice del requisito in parola, poiché si è rinvenuto il vantaggio pur in assenza di una politica aziendale indirizzata al risparmio di costi, diversamente da quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità. Vi è una contraddizione della statuizione rispetto a quella adottata nei confronti di Ci***Ri***, per la quale si è fatto perno sull'interesse e non sul vantaggio. Il vantaggio va escluso quando il comportamento cautelare è stato omesso non per ragioni economiche ma perché si è ritenuto pregiudizievole per la sicurezza dei lavoratori. I costi per la manutenzione e quella per il cabotaggio sarebbero stati inesistenti, in quanto assorbiti dagli ordinari costi per le attività del personale di Tre***. Il vantaggio dovrebbe essere di portata tale da motivare l'illecito; mentre nel caso di specie Tre*** aveva speso per la sicurezza circa un miliardo e mezzo di euro. Proprio su quest'ultimo aspetto la motivazione è manchevole. È stato reputato che FLog*** non potesse essere condannata perché all'interesse e al vantaggio era stato dato un diverso contenuto rispetto all'originaria contestazione; ma tale circostanza ricorre anche per Tre*** e la Corte di appello non ha replicato al motivo di appello che se ne lamentava.
Richiamando giurisprudenza di merito e di legittimità, l'esponente ritiene che nel caso di specie non possano ritenersi ricorrenti né l'interesse né il vantaggio dell'ente perché manchevole una «scelta finalisticamente orientata al risparmio», ed altresì una «politica d'impresa disattenta alla sicurezza del lavoro, con riduzione dei costi e massimizzazione del profitto». Depone in tal senso il co. 2 dell'art. 5 del decreto n. 231/2001 e una diversa interpretazione, che si concludesse nella 'oggettivazione' dell'elemento, mostrerebbe il 'volto' dell'illegittimità costituzionale, a fronte dell'art. 27 co. 1 Cost., perché riproporrebbe una ipotesi di responsabilità oggettiva.
In ogni caso, nella specie manca l'accertamento della sussistenza del vantaggio dell'ente.
Ancora richiamando giurisprudenza di legittimità l'esponente sostiene che nella specie manca anche quel carattere di sistematicità della violazione che si ritiene essenziale ai fini della integrazione del nesso di imputazione oggettiva.
26.24. Il ventitreesimo motivo denuncia la motivazione palesemente illogica e il travisamento della prova, con riguardo a incidenti "precursori" ed a corrispondenti "campanelli di allarme" da tener presenti nella valutazione del rischio di deragliamento. Si osserva che, in relazione ai sinistri ferroviari pregressi, le difese avevano messo in rilievo la necessità di una minima comunanza di dati concreti che permetta di stabilire una somiglianza rilevante dal punto di vista (a) della valutazione del rischio e (b) delle misure preventive da adottare, a partire dalla "causa" dell'evento e dal rischio "specifico" di cui è espressione. Dunque, la "rottura per fatica" dell'assile per una cricca non rilevata in sede di manutenzione dell'assile medesimo. Le sentenze di merito ricorrono invece a motivazioni del tutto illogiche, che fanno di tutt'erba un fascio, omettendo radicalmente di rispondere a precise censure difensive, puntualizzate nel motivo VII dell'appello, anche con specifico riferimento alla omessa valutazione del rischio di deragliamento - viene riportato il pertinente testo del motivo - segnalando che la Corte di appello non ha preso posizione in ordine alle implicazioni della previsione di cui al punto 2.17.2.1. della Decisione 2004/446.
26.25. La Corte di appello ha omesso di valutare le prove offerte a riguardo della presenza di un adeguato modello organizzativo in Tre***. L'esponente muove contestazioni alla sentenza, in primo luogo ribadendo la posizione difensiva in ordine alla insussistenza delle omissioni attribuite agli esponenti di Tre***; quindi, specifica la censura rivolgendola alla pretesa della Corte di appello secondo la quale il MOG di cui all'art. 30 d.lgs. n. 81/2008 richiederebbe la nomina di un secondo Organo di vigilanza e al giudizio di carenza di autonomia dell'OdV di Tre*** in quanto costituito da personale dipendente dell'ente, senza peraltro indicare su quali basi fattuali e di diritto ciò venga ritenuto e senza esplicitare la connessione causale corrente tra l'inidoneità del MOG e la commissione dei reati.
26.26. La Corte di appello ha del tutto omesso la considerazione del motivo XVII dell'appello Mer***, che atteneva all'accertamento condotto dal Tribunale in merito alla idoneità e alla efficacia del MOG di Tre***, censurato in primo luogo per non aver tenuto conto dell'assetto complessivo delle procedure di sicurezza della società.
26.27. L'esponente riporta il testo di parte del motivo XVII dell'appello sostenendo che riguardo ad esso è stata omessa la motivazione da parte della Corte d'Appello.
26.28. Analoga la prospettazione fatta con il ventisettesimo motivo di appello, costituito dalla riproposizione di una parte del XVII0 motivo di appello e dalla affermazione a commento che la Corte d'Appello solo "apparentemente" tocca l'argomento del motivo d'appello, quando ascrive a Tre*** ed ai suoi esponenti la mancata valutazione del rischio e l'omissione di presidi essenziali rispetto al rischio connesso all'attraversamento di centri diffusamente abitati di carri con merci pericolose. Infatti, essa non mostra, né esplicitamente né implicitamente, di aver davvero valutato le articolate, meticolose procedure previste ed attuate per il trasporto delle merci pericolose; né lo stesso contenuto e significato del DVR emesso dal responsabile dell'unità produttiva dell'area di Genova, lì dove esso 'isola' in modo incisivo il tema del transito, e delle relative emergenze. Il dettaglio del documento è del tutto ignorato dalla Corte d'Appello, che si limita a concentrarsi sul tema, del tutto eccentrico, del c.d. deficit informativo.
26.29. Eguale impostazione si segue nell'articolare il ventottesimo motivo. Dopo aver riportato la parte del XII° motivo di appello che concerne il tema della certificazione dei modelli l'esponente rileva che la Corte di appello ha totalmente omesso la motivazione al riguardo, mentre le certificazioni ottenute da Tre*** dimostrano che l'organizzazione era virtuosa.
26.30. Anche il ventinovesimo motivo ripropone uno stralcio del XVII° motivo di appello e ad esso si fa seguire il rilievo che la Corte d'Appello ignora pressoché completamente le prospettive specifiche della causalità e della colpa nell'ottica dello specifico illecito dell'ente. La Corte distrettuale si sarebbe limitata a redigere una riga di motivazione là dove assume che sarebbe «evidente» il «nesso» tra la commissione dei reati contestati e la «incapacità» di Tre*** di far rispettare gli obblighi di tracciabilità della storia del carro; erra nel ritenere non necessario l'accertamento di uno specifico nesso causale tra il reato e la colpa d'organizzazione dell'ente incolpato perché si tratterebbe di responsabilità amministrativa e non penale. Tanto importa vizio di motivazione e violazione della legge penale sostanziale.
26.31. Il trentesimo motivo attiene alla motivazione resa dalla Corte di appello in tema di trattamento sanzionatorio. La sentenza di appello, a pag. 819, ha applicato a Tre***, in assenza di impugnazione e quindi in violazione del divieto di reformatio in peius (divieto da applicarsi senza dubbio anche nell'accertamento della responsabilità contestata all'ente ai sensi del d.lgs. 231/2001, come pure correttamente precisa la sentenza di secondo grado, a pag. 813) la meno favorevole disposizione prevista dall'art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001, nella formulazione introdotta dall'art. 9 della l. 23.8.2007, n. 123, anziché quella vigente, risultante dall'art. 300 del d.lgs. n. 81/2008.
Quest'ultimo stabilisce la sanzione pecuniaria fra 250 e 500 quote; la disposizione applicata prevede un numero di quote non inferiore a 1000 (che rappresenta anche il limite edittale massimo delle sanzioni pecuniarie, ai sensi dell'art. 10 co. 2 d.lgs. n. 231/2001). Da ciò discende che nessuna sanzione pecuniaria può essere irrogata nei confronti di Tre***: l'una perché inapplicabile ratione temporis, l'altra perché lo esclude il divieto di reformatio in peius.
Si censura poi il punto della sentenza nel quale si afferma che la sanzione pecuniaria "non deve essere applicata solo alla società Mer*** Rail s.r.l. derivante dalla scissione di un ramo di attività», in quanto viziato da un'erronea interpretazione della legge, con particolare riferimento all'art. 30 citato.
I diversi profili evidenziati dalla Corte di appello che riducono la gravità della colpa avrebbero dovuto implicare una riduzione dell'ammontare delle quote rispetto a quanto ritenuto dal Tribunale; non averlo fatto implica la manifesta illogicità della motivazione.
Erra la sentenza impugnata altresì nell'applicazione dell'art. 12 del d.lgs. n. 231/2001; essendo stato accertato un minimo vantaggio di Tre*** si sarebbe dovuto applicare l'art. 12, co. 1, lett. a), riducendo la sanzione pecuniaria nei limiti corrispondenti; si sarebbe dovuta applicare anche l'art, 12, co. 2, lett. b), con riduzione della sanzione dalla metà ai due terzi.
26.32. Unificate sotto la titolazione di 'Motivo finale', si ribadiscono alcune delle osservazioni già proposte.

27. Ulteriori motivi per Mer*** Rail s.p.a. quale ente condannato ex art. 25-septies
Il 31.3.2020 sono stati depositati 'Motivi ulteriori nei termini', ancora a firma dell'avv. M..
Con il primo motivo si ribadisce che l'ente è stato citato in appello solo come responsabile civile; la circostanza è ulteriormente dimostrata dal fatto che anche la notifica dell'ordinanza che autorizzava la proroga del termine di deposito della motivazione è stata fatta via Pec al difensore per il responsabile civile.
Si lamenta che la Corte di appello abbia ritenuto ammissibile l'inversione dell'onere della prova dell'esistenza di un modello idoneo ed efficacemente attuato, ponendola a carico dell'ente, così andando in contrario avviso rispetto all'insegnamento impartito dalle Sezioni Unite. Inoltre, poiché la responsabilità di Tre*** potrebbe fondarsi al più solo sulla posizione del Ca.[MA.], l'accusa avrebbe dovuto dare dimostrazione della violazione dei doveri di sorveglianza e di vigilanza.
Con il secondo motivo si ribadiscono i rilievi di cui al motivo XXIV del ricorso, rimarcando in particolare l'errore di diritto e il vizio della motivazione nei quali è incorsa la Corte di appello nel non verificare la connessione causale tra il reato e la pretesa lacuna organizzativa.
Il terzo motivo svolge nuovamente osservazioni in merito alla errata impostazione del giudizio in ordine al MOG di Tre***, per l'esponente viziato dalla omessa considerazione delle complessive procedure di sicurezza adottate dalla società e dalla valutazione di necessità di un DVR unitario e complessivo. Si ribadiscono i vizi, anche di omessa motivazione in ordine al XVII° motivo di appello, già censurati in particolare con il XXVI° motivo di ricorso.
Infine, si precisa che il ricorso deve intendersi esteso a censurare l'affermazione di responsabilità del Ca.[MA.] e del So.[VI.].

28. Motivi nuovi per Mer*** Rail s.r.l.
Il 12.11.2020 sono stati depositati 'Motivi nuovi di ricorso', nell'interesse di Mer*** Rail s.r.l., con i quali si ribadisce:
- che la più recente giurisprudenza (si citano le sentenze n. 44142/2019 e n. 51142/2019) conferma che l'art. 25-septies non può applicarsi quando l'infortunio non è avvenuto in danno di lavoratori o si è verificato al di fuori del luogo di lavoro;
- che manca nella motivazione la risposta alla cruciale domanda se la regola cautelare identificata, della completezza documentale, avesse lo scopo di evitare la rottura dei rotabili; in particolare, che la acquisizione della documentazione ulteriore pretesa dalla Corte di appello avesse tale scopo;
- si ribadisce che le sentenze di merito non hanno motivato in ordine alla seria e concreta rappresentabilità dell'evento così come verificatosi e che la Corte di appello cade in contraddizione allorquando correttamente connette la colpa alla prevedibilità del verificarsi dell'evento consistito nella rottura dell'assile con deragliamento del carro e poi adotta una prevedibilità riferita al momento dell'ingresso del carro in Italia e concernente un tipo generico di evento. L'esponente pone in evidenza alcuni passi della motivazione resa dalla Corte di appello in tema di colpa cosciente per dare dimostrazione della manifesta illogicità della motivazione, fondata su un concetto di prevedibilità astratta dell'evento che viene censurato.

29. Ricorso nell'interesse di FA.FR.
Ricorre per la cassazione della sentenza FA.FR., con atto sottoscritto dai difensori di fiducia avv. E.A. e G.C..
29.1. Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza per essere stato violato il principio di precostituzione del giudice, essendo stato assegnato il procedimento ad un Collegio individuato in violazione delle previsioni tabellari, per mere ragioni di opportunità.
Gli esponenti rilevano che le argomentazioni dei Giudici, per un verso, sono erronee in diritto e, per altro verso, non rispecchiano minimamente quanto emerge dall'esame degli atti. Erronea, in primo luogo, è la pretesa immediata esecutività e applicazione delle variazioni tabellari in epoca anteriore al 13 settembre 2013. Il d.lgs. n. 155/12 è chiaro nell'attribuire efficacia alle norme di riorganizzazione dei Tribunali esclusivamente a partire dal 13 settembre 2013. L'assegnazione del processo per l'incidente di Viareggio al Collegio III è stata fatta quando ancora lo stesso organo giudicante non era esistente, non essendo ancora costituito né potendolo essere a tale data, posto che il d.lgs. 155 del 2012, che ha disposto la soppressione della sede distaccata di Viareggio, in cui esercitavano le funzioni di Giudici i tre membri del futuro Collegio III, stabiliva che gli uffici soppressi continuassero ad essere operativi fino al 13 settembre 2013.
Quanto all'anticipazione contra legem dell'efficacia del decreto n. 15/2013, operata dal decreto del Presidente della sezione penale, essa ha di fatto comportato l'assegnazione al Collegio III di cause che non avrebbero potuto essergli attribuite in base ai criteri tabellari in vigore all'epoca del rinvio a giudizio degli imputati. La pertinente Circolare del C.S.M. non riguarda la costituzione di nuovi Collegi e, men che meno, la possibilità di assegnare agli stessi processi pendenti in data antecedente al 13 settembre 2013, riferendosi invece "ai procedimenti penali e civili che sia prevedibile non si concludano presso la sezione distaccata entro il citato 13 settembre 2013". Del resto, non a caso, l'art. 9 comma 2 del d.lgs. n. 155/2012, che costituisce una sorta di norma transitoria, prevede espressamente che "fino alla data di cui all'articolo 11, comma 2 (13 settembre 2013 - ndr), il processo si considera pendente davanti all'ufficio giudiziario destinato alla soppressione".
Che l'assegnazione della causa sia stata fatta ex post in riferimento al caso concreto è reso evidente dallo stesso provvedimento di variazione tabellare, in cui si osserva che l'esigenza di programmazione anticipata deriva dalla "previsione della sopravvenienza di una serie di complessi procedimenti penali - tra i quali merita particolare risalto quello relativo al disastro ferroviario di Viareggio".
Per sua parte, il decreto Presidenziale del 12 aprile 2013 non è semplicemente attuativo della variazione tabellare n. 15/2013, perché modificativo della stessa, atteso che fa riferimento a criteri di assegnazione differenti, sicché avrebbe dovuto essere approvato dal CSM, cosa non avvenuta. In secondo luogo, anche detto decreto è stato adottato quando il Collegio III non esisteva.
Peraltro, non risulta rispettata neppure la previsione del provvedimento di variazione tabellare n. 15/2013, nella parte in cui dispone che "il terzo collegio, di nuova composizione, riceverà le nuove assegnazioni, fino ad arrivare ad un numero pari di procedimenti penali tra i tre collegi", per poi procedersi "quando sarà raggiunta la parità tra i tre collegi (ad assegnazione) con criterio automatico, basato sull'ultimo numero del Registro Generale delle Notizie di Reato". Quanto alla presunta incompatibilità al giudizio del dott. Silvestri, la motivazione della Corte appare, a un tempo, contraddittoria ed erronea.
Contraddittoria, perché se ne assume la irrilevanza ai fini della corretta individuazione del Giudice e, nel contempo, la sua rilevanza, posto che si congettura che tale incompatibilità sarebbe stata fatta di certo valere dalle parti se il procedimento fosse stato assegnato al Collegio II al quale era assegnato il magistrato, così determinando l'incompatibilità dell'intero Collegio e lo spostamento al Collegio III.
Erronea, poiché il dott. Silvestri non era affatto incompatibile rispetto alle funzioni giudicanti, avendo esclusivamente presidiato lo svolgimento dell'indicente probatorio che, come è noto, non costituisce affatto causa di incompatibilità alle funzioni di giudicante.
In conclusione, per gli esponenti i vizi ravvisabili nel provvedimento che ha attribuito la competenza a conoscere il procedimento al Collegio III incidono certamente sulle regole di corretta attribuzione degli affari penali sia sotto il profilo formale, sia sotto quello sostanziale, ed appaiono qualitativamente assimilabili ad un provvedimento connotato da una abnormità funzionale. Viene a configurarsi una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178 n. 1 lett. a) e 179 cod. proc. pen.
29.2. Con il secondo motivo sì lamenta l'errata configurazione della colpa perché identificata nella violazione di un dovere di tracciabilità del carro estero non previsto da alcuna norma.
A tal fine la Corte di appello identifica il fondamento del dovere in norme interne al sistema ferroviario nazionale e a disposizioni della legge italiana, ritenendo irrilevanti le norme di diritto europeo che consentono la circolazione dei carri esteri in Italia purché marcati RIV.
Svolte osservazioni in ordine all'ambiguità del concetto di tracciabilità coniato dalla Corte di appello, che sostanzialmente poggerebbe sull'assunto che un carro estero non manutenuto in Italia è rotabile pericoloso, di talché occorre conoscere la provenienza dei materiali ammessi alla circolazione in Italia, gli esponenti osservano che la asserita condotta doverosa - ricavata ex post dalle iniziative assunte da ANSF dopo l'incidente - è esclusa dalla prassi ritenuta sussistente dagli stessi giudicanti. Infatti, la Corte di appello afferma più volte che all'interno di Cesifer/R***I vi era la convinzione della non necessità di richiedere i dossier di sicurezza per i carri esteri, ritenendo che essi appartengano ad un'area in cui il controllo dei processi manutentivi è garantito dal sistema europeo di interoperabilità.
Addirittura la Corte di appello costruisce - ed è questa la vera fisionomia del dovere di tracciabilità - un dovere-potere di ispezione di Cesifer, che ove Tre*** fosse stata inadempiente all'obbligo di trasmettere a Cesifer i documenti da acquisire dalle società estere, avrebbe dovuto attivarsi d'ufficio per accertare la omissione di Tre*** e fermare la circolazione del rotabile. Ma si tratta di un potere di ispezione non previsto dal legislatore nazionale e internazionale.
La sentenza impugnata ha fatto errata applicazione della legge extrapenale sovranazionale e interna, poiché questa sancisce il principio di interoperabilità dei rotabili marcati RIV, senza necessità di duplicazione di controlli strumentali o documentali, laddove la Corte di appello ha ritenuto diversamente, pur avendo affermato che non c'è norma che stabilisca un formale obbligo di tracciabilità.
Gli esponenti operano quindi un'analisi delle diverse fonti dalle quali la Corte di appello ha creduto di poter trarre conferma dell'assunto secondo il quale doveva essere richiesta la documentazione relativa alla storia del carro, giungendo alla conclusione che i giudici distrettuali hanno erroneamente interpretato le disposizioni evocate. Esse, si osserva, sono anche cronologicamente precedenti al complesso di norme europee su cui fonda il regime di interoperabilità e avrebbero dovuto essere disapplicate in quanto con questo incompatibili.
Con riferimento all'affermazione della sentenza secondo la quale il Fa.[FR.] aveva omesso di verificare che fosse eseguita la procedura di cabotaggio nel 2005, gli esponenti lamentano in primo luogo la violazione del principio di correlazione, segnalando che quest'addebito è stato introdotto per la prima volta dal P.M. nell'ambito della discussione in conclusione del dibattimento di primo grado e che ciò ha concretamente pregiudicato il diritto di difesa poiché l'imputato non è stato messo in grado, se non a istruttoria chiusa, di misurarsi con l'incolpazione, specie considerato che ad altri coimputati era stato contestato l'omesso avvio della procedura in altro periodo e la complessità tecnica del procedimento. Peraltro, a fronte di specifico motivo di appello, la Corte distrettuale ha omesso ogni motivazione.
Si lamenta, ancora, che la stessa Corte di appello ammette che la procedura di cabotaggio non prevedeva l'acquisizione di alcun dossier di sicurezza o similare; essa sarebbe prevista da una fonte esterna quale la normativa CEI-EN 51026, che però non contiene previsioni di allegazioni documentali con riguardo ai carri RIV.
Osservano gli esponenti che i controlli previsti nella procedura erano diretti al contenitore della merce pericolosa più che alla sottostruttura del carro; quindi, nessun controllo sul materiale rotabile e comunque nessuna acquisizione di dossier di sicurezza o di piani manutentivi del carro. In particolare, la scheda C dell'allegato 6 della procedura, nella parte dedicata alla sottostruttura, non prevede alcun dato che potesse assumere rilievo rispetto al corso degli eventi, trattandosi delle informazioni di base esplicitate nel cartiglio apposto sul fianco del carro. Il che evidenzia che il carro RIV non circolava in assenza di tracciabilità. La procedura prevedeva, poi, un'ispezione visiva del solo serbatoio. Soprattutto, proseguono gli esponenti, essa è da considerarsi non più vigente nel gennaio 2005 perché superata dalla decisione della Commissione UE del 29.4.2004/446 e dal d.lgs. n. 168/2004, per effetto dei quali assunse prevalenza il sistema improntato alle Specifiche Tecniche di Interoperabilità.
Ad avviso della Corte di appello ciò non risponde al vero perché non vi sarebbe stata la formale revoca della procedura, perché il Chiov. ha dichiarato che essa era ancora in vigore, perché il tecnico Bai. eseguì la verifica sul serbatoio dopo la revisione fatta da Ci***Ri***. Gli esponenti censurano la validità di tali argomenti osservando che la Corte di appello non ha tenuto conto dell'entrata in vigore del regime STI; ha illogicamente sostenuto che la procedura è divenuta incompatibile con i controlli strumentali e forse anche con quelli visivi ma non con quelli documentali; che il teste Chiov. ha mostrato di non essere affidabile, tanto da confondere la procedura in argomento con altra e da non spiegare perché, se vigente, non l'aveva osservata nel 2009; che il controllo del Bai. consistette nella prova di tenuta intermedia della cisterna e quindi non può dimostrare la vigenza della procedura di cabotaggio.
Ad avviso degli esponenti la Corte di appello ha sostanzialmente disapplicato la normativa eurounitaria, improntata al principio di pari dignità tecnologica dei diversi sistemi ferroviari. Sulla scorta di un'affermazione del Chiov., la Corte di appello ha in definitiva assunto una presunzione di inaffidabilità della manutenzione di un rotabile proveniente dall'estero. Gli esponenti rimarcano che il punto 12 del Preambolo alla Decisione n. 861/2006 precisa che "la STI è basata sulle migliori conoscenze scientifiche disponibili al momento della preparazione del relativo progetto"; la medesima decisione esplicita che la autorizzazione alla circolazione data in uno Stato membro evita la duplicazione dei controlli di interoperabilità. Pertanto, si conclude, il divieto di duplicazione fa venire meno il dovere di tracciabilità. Nessuno prima dell'incidente di Viareggio aveva interpretato la normativa del sistema ferroviario italiano nel senso della necessità della reiterazione delle verifiche su carri RIV. Per tale profilo la Corte di appello mostra di non aver compreso quanto dichiarato dal teste Capo., che ha rimarcato l'importanza della sola identificazione dell'impresa ferroviaria detentrice del carro; confermato in ciò dal Chiov., che ha anche affermato che neppure la sostituzione della sala doveva essere oggetto di segnalazione ai fini RIV. Invece la Corte territoriale ha rovesciato il senso delle parole del Capo., ricavandone che veniva violata una regola cautelare mai individuata prima.
È stato ritenuto che il Fa.[FR.] avrebbe dovuto attivare la procedura di cabotaggio nonostante non ne fosse mai stata presentata richiesta dall'impresa ferroviaria, in forza di un obbligo di verifica periodica del rispetto degli standard di sicurezza e della dotazione di dossier di sicurezza o di dossier tecnico. Anche in questo caso si tratta, sostengono gli esponenti, di un dovere inesistente, per le ragioni già esposte; e in ogni caso il dovere avrebbe presupposto una richiesta dell'impresa ferroviaria. Si denuncia il travisamento della prova in relazione ai certificati 74/2006 e 76/2006, che la Corte di appello ha erroneamente inteso riferirsi al carro merci sviato a Viareggio, mentre sì tratta di documenti che riguardano tratte dell'Alta velocità/Alta capacità. Sicché essi non possono dimostrare, diversamente da quanto vorrebbe la Corte di appello, la conoscenza da parte del Fa.[FR.] della circolazione in Italia del carro G***x. D'altronde, la stessa Corte di appello ha osservato che il carro viaggiava sulla base del certificato 2/2000. Neppure è vero che il carro viaggiava senza essere mai stato riconosciuto conforme da R***I ed essere compreso nei certificati di sicurezza rilasciati da Tre***; nel senso che, come si legge nell'art. 126 della Prefazione generale all'Orario di servizio, il materiale rotabile non immatricolato FS era ammesso a circolare sulla rete se marcato RIV o se autorizzato da R***I.
Si assume, inoltre, che non è stato dimostrato quando e da chi è stata assegnata la traccia oraria al treno 5032; sicché l'argomento utilizzato dalla Corte distrettuale per confortare la conclusione che Cesifer era a conoscenza del carro G***x è privo di riscontro probatorio.
29.3. Si lamenta anche l'erronea applicazione dell'art. 40 cod. pen. e la violazione del principio di correlazione. La Corte di appello ha rinvenuto in un comportamento tenuto nel 2005 un antecedente causale non già del deragliamento ma dell'assoggettamento a revisione del carro, sfociata nel montaggio della sala avente l'assile criccato. Si tratta di un nuovo nesso causale mai ipotizzato dalla pubblica accusa.
La Corte di appello ha utilizzato il concetto di causa indiretta offerto dalla relazione della Direzione generale delle investigazioni ferroviarie e dalle misure adottate ex post dall'ANSF; ma ciò determina una trasfigurazione profonda e inconcepibile del requisito previsto dall'art. 40 cod. pen.
29.4. Un ultimo motivo viene articolato in riferimento alle statuizioni concernenti la pena e il giudizio di bilanciamento tra circostanze del reato. Si lamenta che la Corte di appello abbia definito la pena omologando la posizione del Fa.[FR.] a quella del Ma.[EM.], senza valutare profili specifici del primo. Inoltre anche il calcolo della pena è stato errato, perché la Corte di appello è partita dal presupposto che i due imputati fossero stati condannati alla medesima pena di anni 6 e mesi sei di reclusione, mentre al Fa.[FR.] erano stati inflitti sei anni di reclusione. L'applicazione delle attenuanti generiche e l'esclusione di responsabilità per l'omessa adozione del detettore di svio dovevano condurre ad una diversa e minore pena per il Fa.[FR.], invece condannato come il Ma.[EM.] a quattro anni di reclusione. Risulta poi omessa la motivazione sia per la pena base che per l'aumento a titolo di continuazione; e la motivazione è manifestamente illogica laddove esclude la prevalenza delle attenuanti generiche.

30. Memoria nell'interesse di FA.FR.
In data 13.11.2020 è stata depositata 'Memoria' nell'interesse di FA.FR., con la quale si prende in considerazione in particolare la motivazione resa dalla Corte di appello in merito alla procedura di cabotaggio, svolgendo argomentazioni tese a dimostrare che essa non prevedeva alcun controllo sul materiale rotabile e non contemplava alcun dossier di sicurezza, né piani manutentivi del carro. Tanto si spiega proprio con l'esistenza dell'accordo RIV, che poneva in capo all'impresa proprietario la manutenzione e la tenuta del diario manutentivo che trovava espressione nel cartiglio apposto sul carro. Per questi controlli già previsti sul carro la procedura di cabotaggio era finalizzata essenzialmente al controllo della cisterna e del suo equipaggiamento.
Con la definizione delle STI è venuta meno la necessità e la possibilità di sottoporre i carri cisterna provenienti dall'estero alla procedura di cabotaggio.
Inoltre, non esiste nesso causale tra la omessa adozione di tale procedura e l'evento. Nel momento in cui l’assile venne montato sotto il carro poi deragliato il Fa.[FR.] non rivestiva più alcun ruolo che gli consentisse di tenere una condotta idonea ad impedire il disastro. La Corte di appello invoca la inedita categoria della causalità indiretta e non considerazione che il punto 12 del RIV non permette il rifiuto del carro privo di dossier manutentivi.
Ulteriori considerazioni vengono proposte in merito all'inesistenza di un obbligo di tracciabilità alla luce della normativa internazionale e nazionale.

31. Ricorso nell'interesse di El.[M.M.]
El.M.M. ha proposto ricorso per cassazione a mezzo dei difensori di fiducia, avv. A.M.S. e avv. C.M., articolando dodici motivi.
31.1. Violazione degli artt. 24, 25 e 111 Cost., dell'art. 6 Cedu; degli artt. 33, 178 lett. a) e 429 cod. proc. pen. e vizio della motivazione in relazione all'ordinanza emessa dalla Corte di appello il 19.12.2018 e a quella emessa dal Tribunale di Lucca 28.1.2014. Ad avviso degli esponenti tali provvedimenti sono incorsi nei menzionati vizi, ritenendo che il decreto del Presidente della sezione penale del Tribunale di Lucca emesso il 12.4.2013 fosse legittimo, invece che concretante una elusione del principio del giudice naturale precostituito per legge, atteso che l'assegnazione del presente procedimento al Collegio che lo ha trattato non rispetta le disposizioni che vietano la creazione di un giudice ad hoc ed è stata determinata da ragioni di mera opportunità. Si contesta la rispondenza al vero dei presupposti in fatto assunti dalla Corte di appello nel provvedimento del 19.12.2018 e si segnala, quali indici della dedotta violazione, che i decreti 15/2013 del Presidente del Tribunale di Lucca e quello del 12.4.2013 furono adottati quando l'udienza preliminare era già stata fissata ed era in corso di trattazione; che la variazione tabellare n. 15/2013 venne approvata dal Consiglio giudiziario durante lo svolgimento dell'udienza preliminare; che quando venne emesso il decreto che disponeva il giudizio il Collegio in parola ancora non esisteva, tenuto conto di quanto stabilito dall'art. 11, co. 2 d.lgs. n. 155/2012 e dalla Circolare del CSM prot. n. 25041/2012; che dal tenore del decreto n. 15/2013 emerge che la trattazione del presente procedimento è stata determinante nella decisione del Presidente del Tribunale di anticipare la programmazione del lavoro giudiziario; che il decreto del 12.4.2013 si pone in contrasto con quanto stabilito nel provvedimento n. 15/2013 e viola l'art. 7-bis d.p.r. n. 449/1988 e la Circolare del CSM del 13.12.2012; che esso è stato adottato da soggetto incompetente, senza l'osservanza delle norme procedurali previste per le variazioni tabellari, in violazione dell'art. 48-quinques r.d. n. 12/1941, in vigore fino al 13.9.2013, secondo le disposizioni transitorie dell'art. 11 d.lgs. n. 155/2012, poiché la riorganizzazione degli uffici avrebbe potuto avere effetto per i procedimenti incardinati dinanzi agli uffici incorporanti a partire dal 13.9.2013; inoltre viola il principio di precostituzione del giudice per legge, di cui all'art. 25 Cost, e all'art. 6 Cedu, come interpretato dalla Corte europea. Infine, si rileva che la previsione del decreto del 12.4.2013 è stata disattesa in concreto.
31.2. Viene denunciata la violazione degli artt. 178 lett. c) e 521 cod. proc. pen., per aver la Corte di appello escluso che la sentenza di primo grado avesse violato il principio di correlazione e per aver essa stessa modificato la contestazione originaria. Sotto il primo profilo si osserva che il Tribunale aveva condannato l'El.[M.M.] per condotte mai contestate prima e connesse alla verifica dei processi manutentivi del materiale rotabile: a) omessa revoca del certificato di sicurezza a Tre***; b) omessa verifica dell'attivazione da parte della impresa ferroviaria della procedura cd. di cabotaggio regolata dalla procedura operativa R***I TCCS PR PO 02002 adottata da R***I 1'8 luglio 2003 a firma dell'ing. El.[M.M.].
La Corte di Appello ha riconosciuto la mancata contestazione formale all'ing. El.[M.M.] dei profili indicati ma ha ritenuto che non fosse stato leso il diritto di difesa, con motivazione manifestamente illogica, giacché ha fatto riferimento all'attribuzione di quelle omissioni a tutto il personale operante nelle società del gruppo Fe***I***, fatta dal P.M. nel corso del dibattimento di primo grado, mentre l'El.[M.M.] avrebbe dovuto potersi difendere almeno sin dalla fase delle richieste istruttorie; ed invece la Corte di appello ha anche rigettato la richiesta di rinnovazione di prova che atteneva alle verifiche sul cabotaggio. La sentenza è viziata anche per aver ritenuto che i profili di addebito in questione sono null'altro che specificazione della contestazione originaria, laddove si tratta di condotte profondamente diverse.
A ciò si aggiunge l'immutatio libelli operata dalla Corte stessa; infatti, riconosciuto il passaggio di competenze ad ANSF sul materiale rotabile e sul rilascio del certificato di sicurezza a far data dal 16.6.2008, la Corte trasforma la contestazione nell'omessa assunzione di un provvedimento di "divieto di circolazione per quel carro a far data dal suo ingresso in Italia, nel 2005", da parte dell'El.[M.M.], del Mo.[MA.] e del Fa.[FR.], in una data compresa tra il 2005 e il 16.6.2008. Con ciò si è passati dall'aver omesso di valutare il rischio sotteso a standard manutentivi diversi in Europa all'aver omesso di vietare la circolazione del singolo carro.
Anche in riferimento al dovere di regolazione della velocità la Corte di appello, ha individuato solo a posteriori il limite di 60 km/h, senza che esso fosse indicato dalla contestazione.
31.3. Violazione degli artt. 520 cod. proc, pen., 24, 25 e 111 Cost, degli artt. 6 e 7 CEDU, in relazione alla omessa notifica all'El.[M.M.] della modifica del capo di imputazione operata nei confronti di MO.MA. quale amministratore di fatto di R***I s.p.a.
Con l'appello era stata eccepita la nullità della sentenza di primo grado perché all'El.[M.M.] non era stata notificata la modifica dell'imputazione operata nei confronti del Mo.[MA.], al quale era stato attribuito anche il ruolo di amministratore di fatto di R***I s.p.a. La Corte di appello respingeva l'eccezione con motivazione che gli esponenti non condividono perché quella modifica si riflette in una variazione della contestazione elevata all'El.[M.M.], implicando una cooperazione colposa tra i due imputati. Il vulnus difensivo è stato negato dalla Corte di appello con motivazione manifestamente illogica.
31.4. Violazione di legge e vizio di motivazione vengono ravvisati laddove la Corte di appello ha ritenuto che gravasse su R***I e non sull'ANSF il compito di valutare il rischio correlato alla manutenzione del materiale rotabile anche trasportante merci pericolose. La Corte di appello è incorsa nella erronea applicazione della direttiva CE 49/2004, del d.lgs. n. 162/2007 e del d.lgs. n. 41/1999 e ha fatto affermazioni contraddette da documentazione in atti, che dimostra come l'ANSF avesse assunto la gestione del rischio anche per le merci pericolose in data anteriore a quella del sinistro.
La Corte di appello afferma che il rischio deragliamento e delle sue conseguenze avrebbe dovuto essere valutato perché noto, in quanto già verificatisi casi simili. Ma, osservano gli esponenti, da un canto l'ordinanza EBA del 10.7.2007, che menzionava tali incidenti, al tempo del sinistro era nota solo in Germania; dall'altro, gli incidenti menzionati nella sentenza non sono assimilabili a quello di Viareggio, come spiegato dal c.t. Diana, le cui considerazioni non sono state considerate dalla Corte di appello. Anche i due casi italiani di Albate Camerlate e di Firenze Castello non sono rilevanti ai fini di interesse. Inoltre, la Corte di appello cita il Rapporto sulla sicurezza ferroviaria del 2011 dell'Era, senza considerare che i dati noti e quindi la percezione del rischio nel 2009 non era quella del 2011, dopo il verificarsi dei fatti di Viareggio. Di conseguenza la Corte di appello giunge a conclusioni viziate dalla fallacia delle premesse assunte.
Inoltre, la Corte territoriale non ha tenuto conto di quanto dedotto con l'appello, in relazione al fatto che un'analisi del rischio per il trasporto di merci pericolose era stata effettuata da parte di R***I, che nel 2002 aveva dato incarico a tre Università italiane. L'analisi venne eseguita secondo criteri elaborati in ambienti anglosassoni e considerati i più all'avanguardia; da essa non emersero criticità. Osservano gli esponenti che ancora nel 2020 non esistono criteri di riferimento da utilizzare come tertium comparationis, per affermare che l'analisi effettuata dalle tre università italiane non fosse corretta. La Corte di appello afferma che sarebbe stato necessario uno studio scientifico che tenesse conto degli effetti di un possibile impatto del materiale rotabile deragliato su elementi fissi e delle conseguenze di tale impatto ma non è stata in grado di indicare lo studio assunto a termine di comparazione. Gli esponenti contestano che esso possa essere rintracciato nelle consulenze del PM, anche tenuto conto di quanto asserito dal prof. Ton., circa l'inesistenza di modelli fisico-matematici capaci di simulare il comportamento di un treno o di una parte di esso dopo che lo svio è avvenuto.
Ancora: la Corte di appello non ha individuato il criterio alla luce del quale definire il cd. rischio consentito, che peraltro compete all'autorità pubblica.
Lo studio commissionato da R***I era esso stesso un'analisi del rischio.
R***I ha puntualmente dato attuazione a quanto suggerito dagli accademici - orari e tratte (v., tra i vari documenti dell'analisi, la presentazione Mazza. prodotta all'udienza del 20.5.2015, le cui mappe di rischio- comprensive della tratta passante per Viareggio - sono state recepite dalla disposizione Giovine). R***I ha ritenuto di rientrare per Viareggio, come per il resto della rete, in quella parte di rischio ineliminabile seppur prevedibile.
Solo nel 2018 è stato costituito dall'ANSF un gruppo di lavoro per la definizione della metodologia per la valutazione ed accettazione del rischio nelle ferrovie; circostanza non considerata dalla Corte di appello, come lo studio di R***I. In sostanza, la Corte di appello ha formulato un giudizio in assenza del necessario sapere scientifico.
Ancora, la sentenza opera una indebita confusione tra analisi del rischio per la circolazione ferroviaria e DVR, laddove rileva che mancava una valutazione del rischio complessiva perché era stata delegata la redazione dei DVR alle singole unità produttive del territorio nazionale. In realtà l'art. 221, co. 3 d.lgs. n. 81/08 contiene uno specifico rinvio al d.lgs. n. 41/1999 e quindi al RID. Pertanto, la verifica sul rischio "trasporti merci pericolose" è effettuata dal RID sul piano internazionale.
R***I non era titolare di posizione di garanzia.
31.5. Il quinto motivo è articolato in due sottomotivi.
A) Violazione di legge e vizio della motivazione si ravvisa a riguardo delle affermazioni che hanno condotto la Corte di appello a ritenere che R***I avesse competenza a pretendere che il carro fosse munito di un dossier informativo, in assenza del quale disporre il divieto di circolazione del medesimo.
Gli esponenti osservano che per la Corte di appello si tratterebbe del dossier informativo che venne richiesto dall'ANSF ad EBA a seguito del sinistro; ma ciò dimostra la competenza dell'ANSF (sin dal giugno 2008). La stessa Corte territoriale afferma che R***I avrebbe dovuto ricevere la documentazione, che Tre*** avrebbe dovuto acquisire, "quanto meno sino al passaggio all'ANSF delle competenze di controllo sulle imprese ferroviarie, avvenuto il 16.6.2008". Ciò non spiega perché R***I sarebbe responsabile per non aver adottato i controlli dal 2005 al 2008.
Si aggiunge che non è rispondente al vero che R***I e Tre*** non avevano informazioni sul carro oltre quelle del cartiglio apposto sullo stesso; la Corte di appello confonde il cartiglio e la marcatura RIV; quest'ultima è l'attestato formale che il carro è stato sottoposto ai controlli previsti dalla normativa europea.
Anche in relazione alla procedura di cabotaggio gli esponenti rilevano che per il carro in questione essa non era ipotizzabile perché i piani di manutenzione erano depositati presso l'ERA e ciò si associava al superamento della procedura per i carri marcati RIV. In ogni caso, essa andava attivata dall'impresa ferroviaria con richiesta al Cesifer (poi all'ANSF). Ma quand'anche fosse stata eseguita, essa non avrebbe condotto ad accorgersi della sostituzione di un assile e della manutenzione non eseguita a regola d'arte dagli operatori della Ju***l.
La Corte di appello ha affermato che la procedura avrebbe dovuto essere attivata nel 2005, all'atto dell'ingresso in Italia del carro, e nel 2009, dopo la revisione presso la Ci***Ri***; osservano gli esponenti che allora l'impresa ferroviaria avrebbe dovuto farne richiesta all'ANSF.
In definitiva, la responsabilità di R***I è affermata sulla base di un inammissibile procedimento di regresso all'infinito, per cui se il carro non fosse stato ammesso alla circolazione nel 2005, non sarebbe stato "riammesso" nel 2009. Mentre il montaggio dell'assile criccato esclude e recide il nesso causale tra il sinistro e le condotte precedenti al montaggio; questo ha introdotto un rischio del tutto nuovo, non governabile antecedentemente, sganciato dalla immissione in circolazione del carro, con altri assili, nel 2005.
B) Analoghi vizi vengono segnalati a riguardo del giudizio controfattuale operato dalla Corte di appello. In particolare, nell'appello si rilevava che il Tribunale era incorso in contraddizione rimproverando all'El.[M.M.] di non aver considerato l'esistenza di procedure non uniformi in Europa sulla manutenzione dell'assile e al contempo condannato gli operatori Ju***l per aver eseguito male la procedura manutentiva prevista; che in realtà a quest'ultimi era stato ascritto non un errore nella scelta della procedura manutentiva ma un errore di esecuzione di essa. Sicché non si era trattato di una procedura diversa o qualitativamente inferiore rispetto a quella seguita in Italia. Ciò implica che non aver tenuto conto di standard qualitativi diversi non ha avuto alcuna efficienza causale rispetto all'evento; ed altrettanto vale per la mancanza del dossier di manutenzione, perché questo non avrebbe posto in luce l'errore di esecuzione. Tali rilievi non hanno trovato replica nella motivazione impugnata, nonostante la Corte di appello ripeta le affermazioni del Tribunale.
Analoghe osservazioni vengono proposte dagli esponenti a riguardo della procedura di cabotaggio: poiché tutte le verifiche RID riguardano la sovrastruttura del carro, l'esecuzione delle stesse non avrebbe evitato il sinistro. In ogni caso la verifica è stata eseguita il 19.2.2009. In conclusione, le condotte ascritte all'El.[M.M.] sono prive di rilievo causale, perché la documentazione che sarebbe stata acquisita dava conto della effettuazione della manutenzione e non dell'errore di esecuzione.
31.6. Ancora la violazione dell'art. 43 cod. pen. e il vizio della motivazione vengono dedotti a riguardo della ritenuta titolarità da parte dell'El.[M.M.] di una posizione di garanzia. Nonostante si mostri consapevole che la normativa europea preveda che ciascun operatore ferroviario risponda per la propria parte di sistema, la Corte di appello ha attribuito all'El.[M.M.] una responsabilità per il tutto, postulando di fatto un principio di non affidamento nel corretto adempimento da parte degli altri operatori del sistema, tanto da richiedere la replicazione dei controlli.
Gli esponenti rilevano che non vi è una norma che possa valere ad attribuire al gestore dell'infrastruttura la cattiva manutenzione da parte del proprietario del carro estero; come riconosce la stessa Corte di appello a pg. 707. Una ipotetica colpa generica può essere sostenuta solo se la regola di prudenza si estende a ciò che è nella sfera di azione dell'agente. Nel caso di specie, un intervento come quello preteso dalla Corte di appello sarebbe stato addirittura illegittimo perché titolare dei relativi poteri era divenuta nel 2008 l'ANSF.
Per la Corte distrettuale R***I avrebbe dovuto applicare le proprie disposizioni 13/2001, 1/2003, 23/2004; quindi, commentano gli esponenti, disapplicare la contraria normativa comunitaria. Peraltro, la procedura 13/2001 non trovava applicazione per i rotabili omologati all'estero, diversamente da quanto asserito dalla Corte di appello con un'interpretazione dell'art. 4.3.1 lett. c) che gli esponenti ritengono errata, oltre che in contrasto con le regole comunitarie in tema di interoperabilità.
Quanto alla procedura 1/2003, essa va in senso inverso a quello ritenuto dalla Corte di appello, giacché all'art. 5 abroga il registro dei rotabili circolanti in Italia; sicché nel 2005 R***I non aveva alcuna fonte grazie alla quale conoscere la circolazione di carri sulla rete italiana e svolgere compiti di vigilanza sullo status manutentivo.
La procedura 23/2004 ha ad oggetto solo rotabili immatricolati in Italia. Quanto alla procedura di cabotaggio, la Corte di appello dapprima esclude che essa fosse venuta meno in ragione dell'instaurarsi del sistema di interoperabilità e poi la reputa confliggente con le norme internazionali.
Le conclusioni tratte dagli esponenti sono che non esisteva alcun obbligo di R***I di procedere ad una verifica puntuale di carattere documentale sulla correttezza della manutenzione eseguita sul carro.
31.7. Inosservanza del d.lgs. n. 41/1999 e del RID nonché vizio della motivazione vengono dedotti in relazione alla individuazione della condotta doverosa. Si osserva che la Corte di appello ha individuato in modo perplesso il comportamento alternativo lecito che, consistendo nella riduzione della velocità del convoglio, avrebbe determinato almeno la mitigazione degli effetti dello svio. Infatti, essa ha fatto riferimento ora ad un provvedimento quale quello adottato dall'ANSF dopo il sinistro, ora ad un provvedimento specifico di riduzione della velocità per tutti i convogli trasportanti merci pericolose e in tutti gli attraversamenti residenziali, ora ad un provvedimento per la sola stazione di Viareggio. Il ricorrente ha svolto rilievi in rapporto a tutte e tre le evenienze.
Riguardo alla prima ipotesi, viene rilevato che il provvedimento adottato dall'ANSF non ha precedenti in alcun paese aderente al RID; i due precedenti noti riguardano il trasporto di cloro. Assumendo quelle misure a termine di riferimento la Corte di appello è anche caduta in contraddizione, perché proprio per l'assenza di regolamentazione che descrivesse il picchetto come una fonte di pericolo ha pronunciato l'assoluzione con riferimento alla condotta ad esso attinente.
Sotto altro profilo si rileva che R***I non era titolare dei poteri necessari per disporre la riduzione di velocità per i convogli non muniti di adeguato dossier informativo trasportanti merci pericolose negli attraversamenti residenziali (spettanti al Ministero delle Infrastrutture); la diversa affermazione della Corte di appello mostra che essa non ha preso in esame le Brevi note in relazione alle disposizioni del RID depositate all'udienza del 26.3.2019, che gli esponenti sintetizzano per dimostrare l'errore in cui è incorso il Collegio territoriale nell'interpretare le norme del RID. Quanto alla considerazione della Corte distrettuale, secondo la quale la riduzione della velocità sarebbe stata raccomandata anche dall'ERA il 7.5.2009, si rileva che tale raccomandazione era per l'appunto indirizzata agli Stati Membri e richiamava il Capitolo 1.9 del RID, così confermando la competenza in materia del MIT. Peraltro si trattava di misura tollerata e non di misura raccomandata.
Venendo alla ipotesi di riduzione della velocità nella stazione di Viareggio, gli esponenti formulano osservazioni critiche in merito alla individuazione di tale stazione come avente caratteristiche diverse dalle altre; rimarcano che R***I aveva il potere di disporre in merito alla velocità ma solo con riferimento agli standard di progetto e di costruzione della infrastruttura e del rotabile, e in situazioni di emergenza e localizzate; evenienze non ricorrenti nel caso di specie. Né assume significato in senso diverso il provvedimento emesso dopo il sinistro su prescrizione dell'ASNF, perché appunto successivo, imposto ed esulante dall'ambito del Capitolo 1.9. RID. La motivazione è manifestamente illogica, poi, quando sostiene che sin dal 2005 R***I avrebbe dovuto imporre al convoglio specifico di non superare la velocità di 60 km/h nell'attraversamento delle stazioni ferroviarie; si sarebbe trattato di un provvedimento in conflitto con il RID.
Venendo poi a quanto sostenuto in sentenza a riguardo del giudizio controfattuale, gli esponenti osservano che esso è minato in radice dalla individuazione a posteriori della regola cautelare. La Corte ha ragionato a partire dalla condotta che avrebbe evitato (secondo le risultanze esperte, che comunque vengono contestate nel merito e per l'errata impostazione utilizzata dalla Corte per il confronto con il contributo dei c.t. della difesa) le conseguenze disastrose dello svio (riduzione della velocità) per poi individuare in essa la condotta ex ante doverosa. Un'inversione di metodo, che peraltro utilizza condizioni specifiche del caso concreto (il punto in cui il treno è sviato, ad esempio), che contrastano con il carattere astratto della regola cautelare. In sostanza, la Corte di appello non ha adottato una logica ex ante ma ha confuso il giudizio controfattuale di verifica dell'idoneità impeditiva della regola cautelare con la fonte della regola medesima.
Si considera che ai fini della identificazione della regola cautelare, l'evento dannoso non deve essere solo prevedibile ma anche evitabile. Nel caso di specie esso non sarebbe stato evitabile con una riduzione della velocità ma si sarebbe solo determinato altrove. Ad altro riguardo, ovvero con riferimento alla apposizione di barriere che avrebbero contenuto il gas, la Corte di appello ha correttamente escluso che esse fossero doverose perché non avrebbero comunque evitato che gli effetti dello svio e della rottura della cisterna si producessero in aree vicine a quella attinta, con conseguenze che potevano essere anche peggiori. Altrettanto correttamente la Corte di appello ha ritenuto che l'omessa rimozione dei picchetti non fosse configurabile, per l'assenza di una regola cautelare che la imponesse, osservando che la misura era stata definita ex post dall'accusa; egualmente per l'omessa adozione del detettore di svio. Ma questi criteri sono stati poi disattesi quando si è trattato della riduzione della velocità, facendosi il giudice creatore della regola cautelare. L'affermazione che si tratta di una misura nota e abitualmente applicata non trova riscontro nei dati di fatto esposti dalla Corte di appello. Non è stato accertato che fosse indicata dal più accreditato sapere scientifico e tecnologico, come documentano anche le norme del RID, il parere dell'ERA del 7.5.2009 e la creazione nel 2018 di un gruppo di lavoro per trovare V un criterio di accettazione del rischio, nonché il fatto che dopo l'incidente nessuna autorità nazionale o europea ha adottato la misura mitigativa ipotizzata dalla Corte di appello, salvo il provvedimento dell'ANSF per gli assili non tracciabili.
31.8. Si lamenta la mancata assunzione di prova decisiva costituita dalla deposizione del Mala.. Questi era stato indicato nella lista dei testi della difesa come portatore di conoscenze in merito agli studi sulla tipicità della circolazione ferroviaria e sui criteri di determinazione della velocità; la Corte di appello ha negato la rinnovazione istruttoria, dopo che il Tribunale ne aveva revocato l'ammissione, sostenendo contraddittoriamente che essa avrebbe avuto ad oggetto le questioni della velocità nell'infrastruttura ferroviaria, mentre la condotta doverosa era rappresentata dall'adozione di un provvedimento da applicarsi in circostanze specifiche limitate a singoli attraversamenti e convogli. Motivazione contraddittoria perché contrasta con la condanna dell'El.[M.M.] per non aver eseguito la valutazione del rischio attinente al trasporto di merci pericolose in Italia; con la individuazione operata dalla Corte di appello di una circoscritta misura di riduzione di velocità senza cognizioni esperte pur nel quadro di una colpa generica. La testimonianza era quindi decisiva perché del tutto carente la prova in sua assenza.
31.9. Violazione di legge in relazione alla ritenuta applicabilità delle norme del d.lgs. n. 81/2008.
Gli esponenti criticano le argomentazioni con le quali la Corte di appello è pervenuta all'affermazione della sussistenza delle aggravanti previste dall'art. 589, co. 2 e 590, co. 3 cod. pen., osservando che nessuna delle norme in materia di sicurezza del lavoro evocate dalla contestazione mossa all'El.[M.M.] è stata posta a fondamento della colpa attribuita al medesimo; la natura dell'attività come lavorativa non è rilevante nei confronti di R***I, che si limita a mettere a disposizione l'infrastruttura; per parlare di responsabilità datoriale occorre che siano detenuti i relativi poteri. Si aggiunge che il richiamo fatto all'art. 2087 c.c. non è sufficiente perché la colpa presuppone una specifica norma antinfortunistica mentre la disposizione in parola è invece generica; essa, inoltre, presuppone la titolarità del rapporto di lavoro o almeno la responsabilità dell'organizzazione o dell'unità produttiva. La sentenza, al contrario, postula doveri di sicurezza che R***I ha verso il pubblico e non verso il lavoratore.
Sotto diverso profilo si contesta la correttezza del giudizio per il quale troverebbero applicazione al trasporto ferroviario le norme del Titolo I del d.lgs. n. 81/2008.
31.10. Il nono motivo ha ad oggetto l'asserito difetto di motivazione in tema alla misura soggettiva della colpa; si lamenta che la Corte di appello abbia pronunciato la condanna del ricorrente per non aver egli adottato un provvedimento illegittimo; sulla base di un'assente posizione datoriale; che per l'El.[M.M.] ricorrono quelle stesse condizioni fattuali che hanno fondato l'assoluzione del Co.[GI] e del D.M.[G.].
31.11. Vengono denunciati la violazione dell'art. 62, co. 1 n. 6 cod. pen. ed il vizio della motivazione in relazione al motivo di appello che lamentava l'omessa motivazione del mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62, co. 1 n. 6 cod. pen. Motivo, osservano gli esponenti, che non ha trovato replica nonostante la Corte di appello abbia tenuto conto dell'avvenuto risarcimento dei danni nel riconoscere all'ente R***I l'attenuante di cui all'art. 12, co. 2 lett. a) d.lgs. n. 231/2001.
Gli esponenti criticano l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale l'attenuante in parola non potrebbe applicarsi all'omicidio colposo.
Si censura poi il giudizio di equivalenza delle concorrenti circostanze eterogenee, sia sotto il profilo della insussistenza della aggravante della commissione del fatto con violazione di norme prevenzionistiche, sia sotto il profilo dell'omessa motivazione.
Infine, viene lamentato il difetto di motivazione in merito alla determinazione della misura della pena base.
31.12. Violazione degli artt. 74 cod. proc. pen. e 91 ss. cod. proc. pen. e vizio della motivazione vengono lamentati a riguardo della motivazione con la quale la Corte di appello ha replicato al motivo che contestava la legittimazione attiva degli enti costituitisi parti civili, mancando la verifica in concreto delle condizioni di tale legittimazione, in primo luogo una patita lesione da reato subito in proprio dall'ente.
Si lamenta anche la violazione dell'art. 61 d.lgs. n. 81/2008 perché da questo deriva all'ente sindacale solo la facoltà di presentare un atto di intervento ex artt. 91 ss. cod. proc. pen. Sul tema, sollevato con l'appello, non vi è stata motivazione ed è comunque erronea ed illogica la sentenza laddove indica le ragioni per le quali sarebbe derivato alle organizzazioni sindacali un danno all'immagine e un danno per il pericolo al quale furono esposti i lavoratori operanti sulla linea Trecate- Gricignano. Del pari si contesta la motivazione con la quale la Corte di appello ha rigettato il motivo che attaccava la ammissione quali parti civili delle associazioni Codacons onlus e di Cittadinanzattiva, perché in contrasto con il principio secondo il quale occorre un pregiudizio effettivo e concreto degli interessi di cui l'associazione è portatrice.
Anche a riguardo di Medicina Democratica si rileva che non può valere per essa quanto stabilito dalle SS.UU. nel processo Thyssenkrupp non essendo presenti le stesse condizioni fattuali.
Con riferimento alla ammissione quale parte civile dell'Associazione 'Comitato Matteo Valenti' si lamenta che per essa mancano tutti gli indici richiesti dalla giurisprudenza per poter riconoscere la legittimazione attiva e che la Corte di appello ha superato le censure con motivazione illogica e contraddittoria.
Per gli enti territoriali Regione Toscana, Provincia di Lucca e Comune di Viareggio, si lamenta che la Corte di appello abbia confermato l'ammontare del danno da risarcire in quanto è stata omessa la motivazione in ordine ai criteri di determinazione del quantum debeatur.
31.13. Infine, si avanza richiesta di rimessione alle SSUU per l'implicazione di questioni di particolare importanza concernenti: la individuazione di un comportamento alternativo lecito che si concreta nella disapplicazione di norme sovranazionali, comunitarie ed internazionali; il rapporto di causalità; la configurabilità dell'infortunio sul lavoro anche in caso di eventi occorsi al di fuori dell'ambiente di lavoro. Nonché per la risoluzione di un contrasto interpretativo a riguardo della compatibilità tra l'aggravante di cui all'art. 62, co. 1 n. 2 cod. pen. e il delitto di omicidio colposo.

32. Motivi nuovi per El.[M.M.]
In data 12.11.2020 sono stati depositati 'Motivi nuovi di ricorso', a firma dei difensori di El.[M.M.]. Si ribadisce:
- che il giudizio controffattuale è motivato in modo manifestamente illogico perché, anche qualora il dossier informativo fosse stato acquisito, esso non avrebbe permesso di sapere che la manutenzione era stata malamente eseguita; e quindi il comportamento alternativo lecito non avrebbe evitato l'evento. Allo stesso modo, la presenza della cricca non sarebbe stata rivelata dall'esecuzione della procedura di cabotaggio;
- la mancata esclusione dalla circolazione degli assili esteri non tracciati non è rimproverabile all'El.[M.M.] perché quando l’assile è stato montato sul carro il 2.3.2009 e la competenza ad adottare provvedimenti sui rotabili era in capo all'ANSF; inoltre l'ordinanza EBA del 2007 venne conosciuta in Italia solo dopo il disastro;
- anche il giudizio controfattuale concernente la riduzione di velocità è lacunoso perché non può utilizzare strumenti di simulazione convalidati e quindi non può ipotizzare cosa sarebbe realmente accaduto ove ridotta la velocità (lacuna che ha indotto la Corte di appello ad escludere il rilievo causale della omessa adozione di barriere);
- la Corte di appello ha rimproverato all'El.[M.M.] di non aver eseguito la valutazione del rischio connesso al trasporto ferroviario di merci pericolose senza considerare che tale valutazione è concretizzata nelle regole comunitarie pertinenti; la Corte di appello avrebbe dovuto dimostrare l'esistenza di un ulteriore e diverso sapere scientifico in grado di definire altrimenti l'area del rischio consentito ed invece si è limitata ad assumere il contributo del c.t. Orsi., rifiutando, illogicamente, di procedere all'escussione del teste Mala. e non considerando che ancora nell'attualità le istituzioni preposte non sono riuscite a definire il rischio consentito in questo settore. Ne consegue che le regole che la Corte di appello ritiene non applicate non esistono in alcun paese europeo;
- la regola della limitazione di velocità a 60 km/h è stata creata ex post dai giudici;
- l'art. 8 d.lgs. n. 162/2007 rende ciascun attore responsabile della propria parte di sistema; nel caso di specie R***I non aveva competenza per il controllo sulle imprese ferroviarie, che dal giugno 2008 era passata a ANSF. Né sussistevano segnali che dovessero far venire l'affidamento nella corretta esecuzione dei loro compiti da parte del manutentore e del noleggiatario estero;
- infine, si ribadisce che ai fini del riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. deve esistere una stretta correlazione tra la nozione di luogo di lavoro e la specifica organizzazione imprenditoriale.

33. Il ricorso nell'interesse di MO.MA. a firma dell'avv. F.C.
MO.MA. ha proposto un atto di ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, avv. F.C., articolando nove motivi.
33.1. Il primo motivo attiene alla violazione degli artt. 43, 423, 430, 449, commi 1 e 2, 589, commi 1, 2 e 4, 590, commi 1, 2, 3 e 5 cod. pen., nonché alla carenza e manifesta contraddittorietà della motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità. L'esponente ripercorre la ricostruzione della Corte di appello delle cause del sinistro e delle ragioni fondanti le responsabilità degli imputati esponenti delle società estere, evidenziando da un canto che, secondo gli stessi giudici di merito, al momento della manutenzione dell'assile esisteva una esaustiva normativa tecnica europea, frutto dell'esperienza e dell'evoluzione delle conoscenze scientifiche del settore, che imponeva una serie di controlli periodici sugli assili, da eseguirsi secondo indicazioni tecniche precise e ben determinate che, se correttamente eseguiti, erano idonei ad impedire in termini di certezza (o in termini di probabilità assai vicina al 100%) la rottura dell'assile per effetto della presenze di "cricche"; che in base alla normativa europea e ai relativi accordi di c.d. "interoperabilità" tali obblighi di manutenzione incombevano sul proprietario del carro e, una volta correttamente assolti, consentivano al carro dotato delle relative certificazioni di circolare liberamente sulla rete europea, senza alcun ulteriore obbligo per il noleggiatore del carro di ripetere i controlli di manutenzione già eseguiti (si cita, a conferma, un passo di p. 699 della sentenza impugnata); che il disastro si era dunque verificato per effetto di una serie di gravi e imprevedibili errori, commessi secondo una imprevedibile successione da una serie di soggetti operanti in contesti diversi e con diverso grado di responsabilità, ognuno dei quali, se avesse operato correttamente, avrebbe potuto impedire con un grado di probabilità pari o molto prossimo alla certezza, la verificazione dell'evento. Dall'altro, l'esponente ripercorre la individuazione delle diverse condotte colpose ascritte agli operatori delle società G***x, Ju***l e Ci***Ri*** s.p.a. per poi rimarcare che, con riferimento alla posizione del Mo.[MA.], la Corte di appello è venuta meno alla premessa da essa stessa posta, ovvero la necessità, ai fini del giudizio di responsabilità, della riconoscibilità della situazione di pericolo e della prevedibilità della classe di eventi da scongiurare.
Si sostiene che la sentenza impugnata avrebbe dovuto preoccuparsi di dimostrare che l'asserita situazione di pericolo, legata a problemi o disfunzioni nell'effettuazione di operazioni di manutenzione dei carri in Germania, fosse stata portata specificamente a conoscenza dei dirigenti e dei funzionari del gruppo "Fe***I***", mentre questo passaggio è stato del tutto pretermesso. La Corte di appello afferma l'esistenza di un rapporto di causalità fra alcune condotte omissive genericamente attribuite a dirigenti e funzionari del gruppo "Fe***I***" e l'evento che si è in concreto verificato senza aver preventivamente scandagliato la posizione di ciascuno degli imputati, verificando per ognuno quale fosse il suo personale grado di conoscenza delle possibili criticità presenti nel processo di manutenzione dei carri che si svolgeva in Germania e, dunque, la sua concreta possibilità di attivarsi per contenerle.
L'esponente rinviene una contraddizione nell'aver la Corte di appello dapprima negato che l'omessa valutazione del rischio di deragliamento sia da porsi in diretta relazione causale con l'evento verificatosi e dall'altro affermato che l'omessa adozione di presidi cautelari individuati con la valutazione del rischio è causalmente efficiente.
Inoltre, ravvisa un errore nell'aver individuato la Corte di appello il rischio non adeguatamente gestito senza tener conto della specifica causa che ha determinato l'evento, ovvero la rottura dell'assile, e la pluralità e la gravità delle condotte inosservanti a monte della rottura dell'assile. L'errore concettuale e giuridico consiste, quindi, nell'aver trattato l'evento " deragliamento di un treno merci" in via del tutto astratta, come se, nell'effettuare le necessarie valutazioni in tema di colpa e di nesso di causalità, si potesse prescindere completamente dalle specifiche modalità con cui tale deragliamento si è verificato.
Il principio secondo il quale la prevedibilità dell'evento deve essere correlata non ad uno specifico fatto nelle sue minute connotazioni ma ad una classe di eventi non giustifica la considerazione del deragliamento in termini generici ed astratti, dovendosi considerare il deragliamento derivante dalla rottura di un assile, non sottoposto in altro paese europeo ad una corretta manutenzione. Posta questa premessa l'esponente ribadisce che la stessa sentenza impugnata dà atto che il sistema di manutenzione in vigore in tutta Europa era perfettamente idoneo, se correttamente applicato, ad impedire il verificarsi proprio di quello specifico rischio che si è concretizzato nel caso di specie (deragliamento di un treno a causa della rottura di un assile non correttamente sottoposto a manutenzione). Pertanto, il rischio che si è concretizzato nel caso di specie non è quello genericamente legato alla possibilità astratta dello sviamento di un carro, ma quello connesso al possibile prodursi di gravi falle nelle procedure di manutenzione degli assili. Ne consegue che per affermare che sugli amministratori e i dirigenti del gruppo Fe***I*** gravava l'obbligo giuridico di fronteggiare tali rischi, introducendo nuove misure cautelari, la sentenza avrebbe dovuto innanzitutto dimostrare che l'esistenza delle suddette falle nell'esecuzione delle procedure di manutenzione in Austria e in Germania fosse stata portata all'attenzione dei suddetti soggetti o che questi ultimi fossero comunque nelle condizioni di percepirla, quantomeno come apportatrice di un significativo e non calcolato aumento del rischio di disastri ferroviari in tutto il sistema europeo.
Questa dimostrazione è assente; non è stato provato che la ordinanza dell'Eba del 10.7.2007, peraltro impugnata, venne portata a conoscenza di taluno degli esponenti del Gruppo Fe***I*** (tanto più che il Mo.[MA.] cessò dall'incarico di AD di R***I nel 2006); ed è incongrua la replica della Corte di appello, che la notizia dei sette incidenti era pubblica e quindi almeno conoscibile. Osserva l'esponente che nessun sistema complesso come la rete ferroviaria di un qualsiasi Paese, potrà ritenersi mai del tutto "perfetto", cosicché il fatto che, nell'ambito del funzionamento di tale sistema si verifichino statisticamente alcuni "incidenti", non ha evidentemente alcun particolare significato sugli standards generali di sicurezza di quel sistema, a meno che essi non siano effettivamente indicativi, una volta attentamente analizzati nella loro dinamica e nelle loro cause, di disfunzioni specifiche riguardanti l'intero sistema di sicurezza, sulle quali occorre invece tempestivamente intervenire. Ma questo è compito delle autorità nazionali che si occupano della sicurezza ferroviaria; le quali all'esito delle analisi degli incidenti, identificano l'eventuale assenza nel sistema di una norma adeguata a fronteggiare il particolare profilo di rischio concretizzatosi, impartendo le disposizioni necessarie. Non era dunque certamente compito degli amministratori del Gruppo FS, anche se avessero avuto conoscenza degli incidenti citati dalla sentenza impugnata, andarne ad esaminare dinamica e cause per trarne indicazioni sulle regole D cautelari da implementare nel proprio sistema.
Il sistema europeo della interoperabilità prevede che la manutenzione di ogni carro ferroviario spetta al Paese in cui ha sede la società proprietaria del medesimo e che, una volta che le operazioni di manutenzione siano state compiute e siano documentate, attraverso le certificazioni che, in base alla normativa europea, devono accompagnare il carro quando viene introdotto in un altro paese europeo, esse non devono essere ripetute. L'operatività di tale sistema si basa dunque essenzialmente sul "principio di affidamento", in forza del quale ciascuno Stato europeo, che noleggi un carro dotato delle certificazioni che attestino l'effettuazione con esito positivo dei necessari controlli, può legittimamente confidare che le manutenzioni siano state effettuate in base agli elevati standards di sicurezza cui si uniformano tutti gli Stati europei, attraverso l'applicazione di norme tecniche la cui validità è anche comunemente riconosciuta. È in relazione all'evento così come è stato determinato dalla particolarissima serie causale, che la sentenza impugnata avrebbe dovuto verificarne l'effettiva prevedibilità da parte degli amministratori e dei dirigenti del Gruppo FS, domandandosi per l'appunto se, prima della verificazione dell'incidente, fossero emersi elementi concreti o specifici "segnali d'allarme", portati alla loro diretta e personale conoscenza, tali da poter far emergere in loro quantomeno il dubbio che il sistema tedesco di manutenzione degli assili potesse andare incontro a falle cosi vistose e imprevedibili come quelle che hanno generato il disastro di Viareggio.
La sentenza impugnata non è assolutamente in grado di indicare quali particolari segnali di allarme avrebbero dovuto indurre gli amministratori del Gruppo FS e, in particolare, l'attuale imputato a dubitare della complessiva tenuta del sistema di manutenzione degli assili in Germania e nega la possibilità di applicare il principio di affidamento sulla scorta di argomentazioni palesemente fragili, che si pongono in radicale contrasto con quanto affermato in precedenza. Ci si riferisce all'uso fatto dalla Corte di appello delle parole del Chiov. riportate a pg. 760 della motivazione, circa la diversità dei sistemi manutentivi rispettivamente di Italia, Germania ed Austria; diversità dalla quale la Corte ha ritenuto di poter desumere l'inapplicabilità del principio di affidamento, "non potendosi avere la certezza che le manutenzioni eseguite fossero conformi ai criteri che il gestore della rete aveva imposto alle imprese ferroviarie italiane, e che i carri provenienti dall'estero fossero conformi ai requisiti richiesti da R***I spa".
Ma, osserva l'esponente, è la stessa Corte di appello ad asserire che le norme tecniche applicate in Germania sarebbero state in grado di impedire il disastro.
33.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 40, 41, 43, 423, 430, 449, commi 1 e 2, 589, commi 1, 2 e 4, 590, commi 1, 2, 3 e 5 cod. pen., nonché la carenza e la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto responsabile il Mo.[MA.] dei reati colposi a lui ascritti per non aver introdotto e adeguatamente implementato, prima dell'incidente, le misure prudenziali concernenti la tracciabilità degli assili che l'ANSF ha introdotto dopo la verificazione dell'incidente.
L'esponente contesta l'affermazione della Corte di appello secondo la quale «sia la società noleggiataria, la Ca*** Che*** S.r.l. poi acquisita da FLog*** S.p.a., sia Tre*** S.p.a., sia R***I S.p.a. non possedevano alcuna informazione sul carro in questione, al di là di quanto riportato sul cartiglio applicato sul carro stesso... le scarse in formazioni presenti sul cartiglio apposto al carro non davano la conoscenza dello stato manutentivo di questo e dei suoi singoli componenti e tantomeno e dei suoi singoli componenti, e tantomeno ne raccontavano la storia... così come la targhetta apposta alla sala montata dopo la revisione ... contiene solo indicazioni relative all'ultimo intervento di manutenzione svolto». Osserva che la sentenza medesima afferma che, al momento dell'incidente, esisteva in Europa un consolidato e aggiornato sistema di controllo degli assili, standardizzato e normato in tutti i suoi aspetti e perfettamente adeguato rispetto alle conoscenze scientifiche in argomento, che, una volta correttamente applicato, avrebbe consentito di rilevare con grado di probabilità pari o prossimo al 100% la cricca presente sull'assile e di evitare pertanto l'evento che si è poi verificato. Pertanto, si conclude, i dati a disposizione della società noleggiataria del carro erano esattamente quelli richiesti dalla normativa di settore - definita dalla stessa sentenza impugnata del tutto soddisfacente rispetto all' esigenze di prevenzione degli incidenti del tipo di quello che si è verificato - per poter essere ragionevolmente certi che l’assile era stato correttamente revisionato e che nessun rischio di rottura era dunque prospettabile e prevedibile in relazione al medesimo.
Non è un caso che si tratti proprio dei dati, citati dalla sentenza impugnata, che vengono apposti sul "cartiglio di manutenzione" del carro (e sulla targhetta applicata alla sala montata) e dai quali si ricava la data dell'ultima manutenzione svolta e la scadenza della manutenzione periodica progressiva. Né può prospettarsi alcuna valida ragione - e in effetti neanche la sentenza la prospetta - per la quale, all'epoca dell'introduzione del carro in Italia, la società noleggiatrice potesse sospettare che tutti i diversi soggetti incaricati delle operazioni di manutenzione avessero sistematicamente violato la normativa di riferimento e che, pertanto, la certificazione relativa all'effettuata manutenzione a regola d'arte del carro e degli assili dovesse ritenersi completamente inaffidabile.
Si ripete che la sentenza non spiega perché e sulla base di quali particolari elementi di allarme, i titolari della società noleggiataria (e via via tutti gli altri amministratori e dirigenti del Gruppo di Fe***I***, sino al Mo.[MA.]) avrebbero dovuto improvvisamente cessare di confidare nella funzionalità del sistema dei controlli sugli assili operante in Europa nel periodo considerato e adottare cautele ulteriori rispetto a quelle che, in base alla stessa sentenza impugnata, devono ritenersi, anche dopo l'incidente, perfettamente idonee, se correttamente applicate, ad impedire eventi dello stesso genere di quello che si è concretamente realizzato nel caso di specie.
Ad avviso dell'esponente la Corte di appello ha adottato una prospettiva ex post nell'accertamento della colpa; l'errore giuridico e metodologico emerge a pg. 703 della motivazione, laddove la Corte territoriale, affermata l'esistenza di un deficit informativo trascura del tutto di verificare se esso sia comunque riconducibile alla violazione di una regola cautelare il cui rispetto poteva ragionevolmente esigersi, al momento del fatto, da ciascuno degli imputati, e passa direttamente ad esaminare i profili relativi al nesso di causalità.
Le uniche fonti dalle quali la pronuncia di secondo grado ritiene di poter ricavare l'esistenza della pretesa regola cautelare sono rappresentate dalla relazione redatta dalla DGIF del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti in merito alle cause dell'incidente di Viareggio e dalle prescrizioni in merito alla tracciabilità degli assili che l'ASNF ha impartito dopo che il suddetto incidente si era verificato. Ma la Corte distrettuale non considera che l'ASNF impartì le prescrizioni solo dopo l'incidente di Viareggio, che fece emergere una possibile falla di un sistema di controlli diffuso in tutta Europa che, per quel che riconosce la stessa sentenza impugnata, se viene correttamente applicato, era (ed è tuttora) in grado di impedire.
Al riguardo del nesso causale, sostiene l'esponente che affermare, come fa la Corte di appello, che esso va valutato rispetto a condotte che, indipendentemente dagli errori dei manutentori, avrebbero comunque impedito la circolazione del carro, è una petizione di principio, in contrasto con le regole dell'accertamento del rapporto di causalità.
Le misure adottate dopo l'incidente dall'ANSF non coincidono con quelle che avrebbero dovuto essere adottate, alla luce degli accertamenti compiuti ex post. Esse rispondono ad una logica genericamente prudenziale, in presenza di un sospetto della possibile rilevanza causale della rottura dell'assile; tanto che non si adottarono misure per migliorare la qualità dei controlli sulla manutenzione degli assili ma misure per un ventaglio più ampio e indeterminato di rischi.
Pertanto, la sentenza impugnata parametra gli standards di prudenza che, secondo un giudizio ex ante e in concreto, avrebbero dovuto essere adottati per prevenire la verificazione dell'evento, così come puntualmente descritto dalla sentenza impugnata, sulla scorta delle misure precauzionali generali e straordinarie, doverosamente adottate dall'Autorità della Sicurezza Ferroviaria, dopo la verificazione dell'incidente, quando ancora non se ne conoscevano precisamente le cause.
L'esponente confuta che dalle parole del Mo.[MA.] dinanzi al Senato della Repubblica e alla Commissione di indagine sugli infortuni sul lavoro poco dopo l'incidente si possa sostenere, come ritenuto dalla Corte di appello, che egli riteneva la tracciabilità una misura di prevenzione; infatti, allorquando quelle parole furono pronunciate ancora non si conoscevano le cause del sinistro.
La stessa sentenza impugnata dà atto che l'ulteriore misura genericamente precauzionale, relativa alla riduzione della velocità per tutti i carri trasportanti merci pericolose e dotati di assili privi di tracciabilità, è stata imposta dall'ANSF, ancora una volta in via straordinaria, solo dopo aver constatalo che le misure precauzionali straordinarie adottate subito dopo l'incidente e, in particolare, quella relativa alla completa tracciabilità degli assili non erano immediatamente implementabili per la difficoltà di reperire dalle Autorità straniere tutti i dati relativi agli assili appartenenti alla stessa tipologia di quello di cui si era verificata la rottura nell'ambito dell'incidente di Viareggio. Ne deriva l'assurdità sul piano logico, ancor prima che giuridico, dell'affermazione della sentenza impugnata secondo la quale la responsabilità dell'attuale ricorrente trarrebbe origine dal fatto di non avere adottato, prima dell'incidente, quelle misure straordinarie, genericamente precauzionali (fra cui la riduzione di velocità) che, come riconosce essa stessa, non hanno nulla a che vedere con la verificazione dell'evento che si è prodotto nel caso concreto.
L'impostazione della Corte di appello mostra incongruenze anche sul piano della efficacia impeditiva della tracciabilità. Si sostiene, da parte della Corte di appello, che anche conoscere l'origine e la storia dell'assile e quindi la sua provenienza da una fonderia (forse) della ex DDR e la sua costruzione nel 1974, dando informazioni sull'impiego di acciaio di qualità diversa da quella già all'epoca in uso nei Paesi occidentali ed avente una quantità di microinclusioni non più consentita sugli assili di più recente fabbricazione, poteva indurre a richiedere controlli più pregnanti sulla sua resistenza; mentre l'epoca della sua costruzione, e quindi la presumibile durata del suo impiego, imponeva di ipotizzare un già avvenuto utilizzo per un numero di chilometri e con una quantità di sollecitazioni tali da far valutare più elevato il rischio di rottura. Osserva l'esponente che si tratta di considerazioni che giustificano una logica prudenziale ma non la ricostruzione del nesso causale, posto che le sentenze di merito hanno definitivamente accertato che la data di costruzione dell'assile o il materiale impiegato per la realizzazione del medesimo (e quindi tutti gli eventuali accertamenti che si sarebbero potuti compiere in merito alla "storia" di quel componente ferroviario) non hanno nulla a che fare con la produzione dell'evento concreto che si è verificato, che è unicamente riconducibile ad una imprevedibile serie di clamorosi errori compiuti durante la fase di manutenzione di quello specifico assile.
D'altro canto, continua l'esponente, seguendo il ragionamento fatto dalla Corte di appello medesima, il giudizio controfattuale eseguito a partire dalla ipotetica acquisizione delle informazioni si dimostrerebbe avere esito negativo, nel senso che essa non avrebbe evitato l'evento perché la documentazione non avrebbe condotto a conoscere gli errori di esecuzione commessi durante le operazioni di manutenzione, non evidenziabili dalla documentazione relativa alla storia dell'assile. D'altro canto, in modo del tutto contraddittorio, la stessa Corte di appello, nell'affrontare la posizione di G***x Rail Austria, ha affermato che la mancanza da parte dell’officina Ju***l di piani di manutenzione relativi all’assile n. 98331, o comunque di una completa documentazione sulle pregresse condizioni di esercizio dell’assile stesso, non ha prodotto ripercussioni decisive sul modo, inadeguato, in cui le operazioni di revisione sono state eseguite nel 2008.
Ulteriore prova dell'errore della sentenza impugnata è nel risultato del giudizio prognostico operato a partire dalla ipotesi della corretta manutenzione; è evidente che in tal caso il carro avrebbe potuto circolare in totale sicurezza nonostante la carenza informativa; o avrebbe dovuto essere scartato in quanto non in regola con la tracciabilità. Pertanto, non solo la regola cautelare pretesa dalla Corte di appello non avrebbe avuto alcuna valenza impeditiva ma avrebbe anche avuto l'effetto paradossale di escludere dalla circolazione carri perfettamente in regola sul piano sostanziale.
In realtà, segnala l'esponente, la Corte di appello ha individuato unicamente una connessione casuale tra la pretesa condotta doverosa e l'evento. Se infatti la norma genericamente prudenziale, introdotta immediatamente dopo l’incidente, e relativa all’acquisizione della completa tracciabilità dei carri e degli assili, non ha, sul piano generale ed astratto, alcuna potenzialità impeditiva dell’evento che si è verificato nel caso di specie e potrebbe paradossalmente favorire l’esclusione dalla circolazione, per motivi meramente formali, di carri che in realtà sono perfettamente sicuri sul piano sostanziale, vi è solo un caso in cui potrebbe in concreto intravedersi una connessione fra l’applicazione di tale regola genericamente prudenziale e la possibilità di impedire eventi analoghi a quello che si è in concreto verificato.
Il caso è appunto quello in cui l’assile, che risulti mancante anche solo in parte della documentazione relativa alla sua tracciabilità, sia anche stato sottoposto, per motivi del tutto contingenti ed occasionali (e completamente indipendenti dalla irregolare tenuta della documentazione), a controlli di manutenzione non eseguiti a regola d’arte i quali, pertanto, in occasione dell'ultimo e decisivo intervento manutentivo, non abbiano consentito di rilevare la presenza di processi corrosivi capaci di poter produrre, in tempi più o meno lunghi, la rottura dell'assile stesso.
Questa ipotesi non segnala alcuna regolarità causale fra la regola cautelare che la sentenza impugnata ritiene avrebbe dovuto essere introdotta prima dell'incidente e l'impedimento di eventi analoghi a quello che si è in concreto verificato, ma conferma appunto che, solo in via del tutto casuale, tale regola potrebbe essere astrattamente in grado di impedire il deragliamento di un carro non correttamente manutenuto; e cioè quando si combinino due fattori (l'insufficiente documentazione e la errata effettuazione dell'ultimo e decisivo controllo manutentivo) che non sono legati fra loro da alcun nesso causale di carattere necessario.
Venendo al tema della rinvenibilità di un obbligo di tracciabilità, l'esponente muove dalla considerazione che se esistono certamente per i gestori dell'impresa ferroviaria obblighi di documentazione sulla vita e sulla manutenzione dei componenti dei rotabili rilevanti per la sicurezza ferroviaria di cui essi sono proprietari; occorre però verificare come tali obblighi si combinino con le norme europee sulla interoperabilità. Al riguardo, la stessa sentenza ammette che la normativa tecnica europea assicurava elevati standards di sicurezza.
Osserva ancora l'esponente che la Corte di appello ha individuato la norma cautelare con estrema genericità, sì che ad intenderla come prescrittiva dell'esclusione di un componente ferroviario in presenza di un qualsiasi difetto documentale essa avrebbe portato alla paralisi del sistema di interoperabilità e non è neppure certo che tale regola fosse effettivamente idonea a impedire l'evento. La Corte di appello ha individuato tale regola consapevole che un sistema di doppio controllo, quale quello instaurato in via straordinario dopo il sinistro, sarebbe in contraddizione con la normativa eurounitaria. Ma anche la regola asserita dalla Corte è illegittima perché in contrasto con il principio di affidamento a base del sistema della interoperabilità e perché determinerebbe il blocco di tale sistema.
33.3. Con il terzo motivo vengono denunciate la violazione degli artt. 40, 41, 43, 423, 430, 449, commi 1 e 2, 589, commi 1, 2 e 4, 590, commi 1, 2, 3 e 5 cod. pen., nonché la carenza e la manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo stesso del provvedimento impugnato (con riferimento all'art. 606, lett. b ed e, cod. proc, pen.) nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto responsabile il Mo.[MA.] dei reati colposi a lui ascritti per non aver introdotto, prima dell'incidente, per i soli treni trasportanti merci pericolose, dotati di assili privi di completa tracciabilità, il limite di velocità dei 60 chilometri orari, almeno nei tratti della rete ferroviaria più pericolosi.
L'esponente censura la motivazione con la quale la Corte di appello ha affermato essere esigibile già prima dell'incidente la misura della riduzione di velocità dei convogli in quanto l'assunto fonda sull'adozione di misure cautelari disposte in via straordinaria a posteriori, in assenza di conoscenza delle specifiche cause del sinistro, al fine di stabilire un regime particolare e di indifferenziata cautela; come a dire, pretende di dedurre regole valevoli per un sistema ordinato da eccezioni adottate in via temporanea e straordinaria. Si rimarca che se fosse come ha inteso la Corte di appello l'ANSF avrebbe imposto quella regola prima del sinistro. La sussistenza di essa non può essere tratta, come invece fa illogicamente la Corte di appello, dal fatto che non venne contestata dagli operatori di settore, stante il suo carattere straordinario. L'ANSF ha correttamente operato in una logica ex post, disponendo in via temporanea e straordinaria, fino all'acquisizione della completa tracciabilità degli assili, il limite di velocità di 60 km/h in certe zone della rete ferroviaria per i carri trasportanti merci pericolose; ma in una logica ex ante il rimprovero per non aver disposto analoga limitazione di velocità è in contrasto con l'ulteriore rimprovero di non aver introdotto norme che prevedessero il divieto di immissione nella R***I di rotabili privi di completa tracciabilità. Ed infatti date queste, non c'è ragione di prevedere limitazioni di velocità. Ma il fatto che la Corte di appello l'abbia ritenuta necessaria sta a significare l'ineffettività dell'ulteriore obbligo.
Venendo al tema della causalità della colpa, l'esponente asserisce che l'affermazione secondo la quale la riduzione della velocità avrebbe impedito l'urto della cisterna con uno degli elementi sospettati di aver provocato lo squarcio è approssimativa e meramente congetturale. Approssimativa perché non risolve il problema della precisa ricostruzione dell'accadimento e quindi delle cause dello squarcio della cisterna; congetturale perché in assenza di certezze sulla dinamica non è possibile dire che lo squarcio sarebbe stato sicuramente evitato. Viene anche ravvisata la contraddizione tra l'affermazione della Corte di appello secondo la quale quando un treno svia non è possibile ricostruire l'esatta dinamica di ciò che può accadere in seguito e quella per cui con la limitazione di velocità, che non avrebbe impedito lo svio, non si sarebbe determinata la rottura della cisterna anche se forse non se ne sarebbe potuto evitare il ribaltamento. Ad avviso dell'esponente la questione non è trovare risposta al quesito se la marcia a velocità ridotta avrebbe evitato l'impatto con gli elementi sospettati dello squarcio ma se la riduzione di velocità avrebbe evitato l'impatto con uno qualsiasi degli elementi presenti nella stazione in grado di provocare la rottura della cisterna. Nel riconoscere come possibile che, mutata la velocità di ingresso in stazione, l’assile si rompesse in un punto diverso del percorso e il carro, una volta sviato, andasse ad impattare su ostacoli diversi da quelli "sospettati" di averlo squarciato, la Corte di appello non si accorge che la formulabilità di tale ipotesi sovverte l'esito del giudizio controfattuale sviluppato.
33.4. Il quarto motivo lamenta la nullità della sentenza impugnata, ex art. 522 cod. proc. pen. per difetto di correlazione fra accusa e sentenza (con riferimento all'art. 606, lett. c, c.p.p.), in relazione alla condanna del Mo.[MA.] per la mancata introduzione ed applicazione di norme cautelari in tema di tracciabilità del materiale rotabile e degli assili, ancorché provenienti da altri paesi europei e marcati RIV.
All'imputato si rimprovera di non aver valutato il rischio della fuoriuscita di sostanze pericolose a seguito di un possibile svio dei carri adibiti al loro trasporto; di non aver proposto o segnalato la necessità dell'installazione di un detettore di svio; di non aver emanato o contribuito ad emanare prescrizioni di riduzione della velocità di attraversamento delle stazioni come quella di Viareggio. Tuttavia, il Mo.[MA.] è stato condannato per non aver imposto la tracciabilità dei carri e le procedure di cabotaggio anche per i carri RIV.
33.5. Con un quinto motivo viene censurata la violazione degli artt. 40, 41, 43, 423, 430, 449, commi 1 e 2, 589, commi 1, 2 e 4, 590, commi 1, 2, 3 e 5 cod. pen., nonché la carenza e la manifesta illogicità della motivazione in relazione all'intervenuta condanna del Mo.[MA.], per le asserite condotte colpose da lui tenute in qualità di Amministratore Delegato di R***I S.p.a. Ed ancora, la violazione degli art. 589, comma 2 e 590, comma 3 cod. pen., in relazione alla ritenuta sussistenza dell'aggravante relativa alla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Il fatto che l'evento decisivo che ha dato luogo al sinistro, ovvero la sostituzione dell'assile con quello poi rottosi, risale al 2.3.2009, quando ormai il Mo.[MA.] era cessato da due anni e mezzo dall'incarico di A.D. di R***I esclude che il sinistro possa essergli attribuito. La Corte di appello ha però sostenuto che occorre guardare al 2005, epoca di immissione nella rete ferroviaria nazionale del carro al quale verrà poi sostituito l’assile. Tuttavia, il sistema di interoperabilità escludeva ulteriori controlli e il 16.6.2008 le competenze in materia di controlli di sicurezza sulle imprese ferroviarie erano passate da R***I s.p.a. all'ANSF, come accertato dalla Corte di appello stessa.
Neppure è spiegato da dove la Corte di appello ricava che, una volta richiesta della documentazione del carro, G***x non l'avrebbe fornita. Quanto alla procedura di cabotaggio e il dossier informativo, essi non consentono di verificare se le manutenzioni sono state eseguite a regola d'arte; come ammette la stessa sentenza laddove tratta delle attenuanti generiche.
Viene censurata anche l'affermazione dell'esser state, le condotte ascritte al Mo.[MA.], commesse nel quadro di una politica aziendale probabilmente diretta a limitare gli impegni di spesa per il trasporto merci. Si tratta di ipotesi rimasta priva di riscontro e che l'esponente contesta rappresentando gli investimenti operati nel settore della sicurezza ferroviaria, in particolare per il trasporto merci. Investimenti che, secondo il ct della difesa El.[M.M.], prof. Dia., avrebbero reso impossibile il verificarsi di uno degli incidenti avvenuti negli U.S.A. La Corte di appello ha ignorato tali affermazioni. Non risponde al vero neppure che Tre*** non fosse proprietaria di un parco di carri merci; pertanto, è infondata l'affermazione di un vantaggio economico derivatogli dall'aver noleggiato e non acquistato carri.
Né può ritenersi che un carro noleggiato sia meno sicuro; nuovamente emerge il tema dell'assenza di segnali di allarme che dovessero indurre il Mo.[MA.] ad adottare misure cautelari. L'esponente critica la motivazione con la quale la Corte di appello ha affermato l'esistenza dei segnali di allarme, rilevando che:
- l'ordinanza Eba del 10.7.2007, intervenuta dopo la cessazione dalla carica di AD del Mo.[MA.], non era stata portata a conoscenza delle imprese italiane;
- la diversità tra Italia, Germania ed Austria dei sistemi di manutenzione non significa ipso facto una più scadente qualità degli stessi, come dimostrato anche dal fatto che non sono state rimproverate le procedure di manutenzione in vigore;
- il solo incidente avvenuto mentre il Mo.[MA.] era in carico riguardò una carrozza passeggeri, peraltro non noleggiata ma di proprietà di Tre***;
- la nota n. 283/2006 attiene a materiale rotabile omologato, mentre per i carri RIV un problema di omologazione non si poneva.
In realtà, conclude l'esponente, a tutt'oggi non esiste una metodologia per l'analisi e la valutazione del rischio nelle ferrovie che sia normativamente prevista e riconosciuta.
Quanto all'aggravante dell'aver commesso il fatto con violazione di norme prevenzionistiche, ad avviso dell'esponente la motivazione resa sul punto non è convincente. Innanzitutto, l’oggetto delle norme poste a tutela della circolazione ferroviaria è ben diverso da quello delle norme poste a tutela dei lavoratori: la sicurezza della circolazione attiene alla incolumità pubblica e, in questo quadro, la sicurezza dei lavoratori riceve solo una tutela indiretta. In secondo luogo, il concetto di attività lavorativa è del tutto improprio rispetto alle condotte contestate, tanto più in relazione a R***I, la funzione della quale è semplicemente quella di mettere a disposizione la rete ferroviaria. In terzo luogo, il Sistema Integrato di Gestione della Sicurezza (SIGS) elaborato da R***I e poi certificato, è stato successivamente "integrato", come la stessa sentenza espressamente riconosce, con la sicurezza del lavoro e la sicurezza ambientale, confermandosi così che si tratta di aree di gestione del rischio del tutto diverse. L'evocazione dell'art. 2087 c.c., norma generica, attesta che le condotte contestate non possono essere qualificate ai sensi dell'art. 589, co. 2 cod. pen.
33.6. Il sesto motivo lamenta il vizio della motivazione determinato dal mancato rispetto del canone di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio e per l'omessa rinnovazione istruttoria, con riferimento alle prove dichiarative ritenute decisive dalla pronuncia assolutoria del Tribunale. In ciò anche la violazione dell'art. 6, par. 1 e 3 lett. d della CEDU.
Il Tribunale aveva assolto il Mo.[MA.] dall'accusa di essersi ingerito, allorquando ricopriva il ruolo di A.D. della Holding, nelle attività delle società del Gruppo, il Pubblico Ministero aveva proposto appello affermando che la sentenza di primo grado aveva offerto in motivazione una visione solo "parcellizzata" del materiale di prova acquisito in primo grado e che non aveva tenuto conto, fra l'altro, delle dichiarazioni dei testi Lando., Braccia., Gui., Patri., D.Ang., Targe., Anto., Peda., D.Va., Monte. e Scia..
La sentenza di secondo grado non ha provveduto a rinnovare l'istruttoria dibattimentale neanche per acquisire nuovamente le dichiarazioni di quei testi, che, secondo il Pubblico Ministero, non erano state adeguatamente interpretate dal Giudice di primo grado.
La Corte di appello ha giustificato la decisione asserendo che la reformatio non si è basata su un diverso apprezzamento delle prove dichiarative ma su prove trascurate dal Tribunale. Ma la lettura della motivazione dimostra che così non è.
Neppure è stato rispettato l'obbligo della motivazione rafforzata; la Corte di appello ammette che nessuna delle prove acquisite è singolarmente decisiva nel senso dell'accusa, ivi compresi i documenti esaminati dal et delle parti civili. Tuttavia, essa utilizza il ragionamento tipico della prova indiziaria per accertare l'esistenza di un dato, la qualifica di amministratore di fatto di R***I s.p.a. e di Tre*** s.p.a., che dovrebbe essere dimostrata con prove documentali e fattuali e comunque non contro queste.
L'esponente prende quindi in considerazione i diversi pertinenti passaggi motivazionali della sentenza impugnata per svolgere osservazioni critiche della confutazione delle affermazioni del Tribunale, la cui valutazione nega possa dirsi frutto di un esame parcellizzato delle prove, come invece ritenuto dalla Corte di appello, la quale ha ripreso argomenti superati dal primo giudice senza farsi carico dell'ulteriore materiale acquisito in appello (il riferimento è alle deleghe rilasciate al Mo.[MA.]). Nel complesso, l'esponente ripercorre gli elementi che per la Corte di appello dimostrerebbero il ruolo di fatto assunto dal Mo.[MA.], per dimostrare la erroneità delle valutazioni fattane dalla Corte di appello.
Infine, si censura l'affermazione della Corte di appello secondo la quale per affermare l'esistenza di un'ingerenza della controllante nel settore della sicurezza non è necessario che il potere di disposizione abbia portato a delle scelte limitanti essendo sufficiente il fatto di essere titolari del potere di intervenire in quel settore.
Osserva l'esponente che l'affermazione poggia su premesse di fatto erronee: che la Direzione Centrale della controllante svolgesse ispezioni periodiche sulla controllata anche per il settore della sicurezza; che la holding avesse il potere di elaborare e diffondere politiche di gruppo in materia di sicurezza del lavoro.
Conclusivamente, si osserva che la sentenza impugnata ritiene che i poteri di controllo in capo alla capogruppo non abbiano dato vita a una "direzione unitaria" bensì ad una "gestione unitaria" del gruppo, con tutte le rilevanti conseguenze, in tema di esistenza in capo all'amministratore della holding di una generale posizione di garanzia sulle scelte relative alla sicurezza di tutto il gruppo, che la sentenza impugnata vorrebbe farne derivare.
Tuttavia, si tratta di tesi insostenibile sul piano giuridico poiché non è dalla maggiore o minore intensità dei poteri di direzione e di controllo esercitati dalla Holding che si può far dipendere l'esistenza di una posizione di garanzia, la quale deve essere invece individuata con quei caratteri di certezza e di precisione che sono tipici del diritto penale.
Il concetto giuridico, di nuova elaborazione, che la sentenza individua nella "gestione unitaria del gruppo" non trova riscontro nel codice civile, anche perché esso non rappresenta niente più che una variante terminologica che la sentenza impugnata adotta per designare il rapporto di direzione e di coordinamento, giuridicamente disciplinato, quando esso si caratterizza per la particolare intensità dei poteri esercitati dalla società controllante.
La sentenza impugnata non è riuscita a fornire la dimostrazione che il Mo.[MA.] sarebbe stato l'amministratore di fatto di tutto il gruppo societario.
33.7. Il settimo motivo denuncia la violazione dell'art. 62-bis cod. pen. e il vizio della motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche come prevalenti sulle concorrenti aggravanti. Si ritiene contraddittoria la motivazione quando afferma che il Mo.[MA.] escluse o limitò gli investimenti relativi al settore merci, posto che la stessa Corte di appello cita le migliorie introdotte sull'intera infrastruttura ferroviaria. Ed errato in diritto l'aver escluso la prevalenza in ragione della gravità degli eventi, posto che nel caso specifico (imprevedibilità degli effetti dello svio) la gravità degli eventi è indipendente dal grado della violazione della regola cautelare causalmente rilevante. Né al ricorrente è mai stata contestata la colpa cosciente. La personalizzazione della sanzione avrebbe dovuto tener conto della gravità della colpa, laddove per il Mo.[MA.] si è fatto leva su una circostanza ad essa estranea quale la gravità delle conseguenze lesive.
33.8. Con un ottavo motivo si denuncia la violazione dell'art. 597, co. 4 cod. pen. e il vizio della motivazione per aver la Corte di appello determinato in misura maggiore rispetto al Tribunale la pena base per il reato di omicidio colposo plurimo.
La pronuncia di primo grado aveva irrogato la pena finale di anni sette di reclusione sulla base del seguente calcolo: "pena base anni cinque e mesi sei di reclusione ex art. 589, comma 4, c.p. (già ricompreso in essa l'aumento, calcolato in quattro mesi di reclusione, per il reato di lesioni personali colpose plurime) aumentata per il disastro colposo ad anni sei e mesi dieci di reclusione, ulteriormente aumentata per il reato di incendio colposo alla pena finale di anni sette di reclusione".
A seguito della concessione delle attenuanti generiche, la sentenza impugnata avrebbe dovuto prendere in considerazione la pena base applicata in primo grado per il reato (ritenuto più grave) di omicidio colposo plurimo e rideterminare tale pena base dando evidenza sia all'entità dell'aumento di pena irrogato a seguito della ritenuta rilevanza penale della condotta successiva all'assunzione del ruolo di amministratore delegato di FS S.p.a., sia dell'entità della diminuzione da applicare alla pena base così rideterminata per effetto della concessione delle attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti.
La sentenza impugnata ha tuttavia completamente pretermesso tale essenziale passaggio della motivazione, necessario per consentire alla difesa e al giudice dell'impugnazione di valutare la legittimità e la logica dei criteri seguiti nella commisurazione della pena.
La Corte di appello ha determinato la pena base per il delitto di omicidio colposo plurimo, comprensiva della parte relativa al delitto di lesioni personali plurime, in anni 5 e mesi 11 di reclusione (di cui 4 mesi di reclusione relativi al reato di cui all'art. 590 cod. pen.), con aumento quindi della pena applicata in primo grado per gli stessi reati di mesi cinque di reclusione.
Ad avviso dell'esponente si rinviene in ciò un errore di diritto, che consiste nel fatto che le attenuanti generiche devono essere applicate sulla pena stabilita per il reato più grave. La sentenza impugnata avrebbe dovuto individuare intanto la pena base per il solo reato di omicidio colposo plurimo, specificando l'entità dell'aumento applicato in forza dell'estensione della condanna anche alle condotte commesse dal Mo.[MA.] quale amministratore delegato di FS S.p.a. e, successivamente, l'entità della diminuzione della pena, rispetto a quella applicata in primo grado, dovuta al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante. Ricorre poi una contraddizione logica derivante dal fatto che, contrariamente alle premesse, la concessione delle attenuanti generiche non ha inciso sull'aumento applicato per il concorso formale del reato di omicidio colposo con quello di lesioni colpose plurime, che è esattamente analogo, per entità, a quello applicato in primo grado. L'elisione dell'aumento dovuto all'applicazione dell'aggravante per effetto della concessione delle circostanze attenuanti generiche, avrebbe dovuto riverberarsi in modo assai drastico e significativo sulla determinazione della pena base per il reato di omicidio colposo plurimo e ciò tanto più in funzione delle ragioni per le quali le suddette circostanze sono state concesse.
Palese è la sproporzione fra l'aumento di pena che la sentenza impugnata ha applicato (ancorché senza indicarne esplicitamente l'entità) per giungere alla pena finale irrogata all'attuale ricorrente e la natura e la rilevanza delle condotte rispetto alle quali tale aumento è stato applicato.
La violazione dell'art. 597, co. 4 cod. proc. pen. è data dal fatto che la doverosa diminuzione della pena per effetto della concessione delle attenuanti generiche è stata completamente annullata e pretermessa, per effetto dell'inasprimento della pena base.
33.9. Infine si denuncia la violazione dell'art. 133 cod. pen. e il vizio della motivazione, per l'eccessività della pena inflitta alla luce dei positivi apprezzamenti fatti per la personalità e le capacità manageriali del Mo.[MA.]; eccessività espressa anche dall'omologazione con il trattamento sanzionatorio riservato ai responsabili delle gravissime condotte connesse alla manutenzione dell'assile.

34. Il ricorso nell'interesse del Mo.[MA.] a firma degli avv. F.C. e V.A.D.A.
MO.MA. ha proposto altro atto di ricorso per cassazione, a mezzo dei difensori di fiducia, avv. V.A.D.A. e F.C., articolando cinque motivi, dopo aver svolto una premessa che segnala come non sia ravvisabile, al riguardo del Mo.[MA.], la conformità delle due decisioni di merito. Infatti, la Corte di appello ha omesso di confrontarsi realmente con le deduzioni difensive dell'atto di appello, limitandosi ad un acritico recepimento delle argomentazioni del Tribunale. Ragion per cui, afferma l'esponente, possono essere avanzate censure di travisamento del dato probatorio.
34.1. Il primo motivo attiene alla violazione dell'art. 43 cod. pen. e al vizio della motivazione, con riferimento alle regole cautelari che la Corte di appello ha individuato come di doverosa osservanza da parte del Mo.[MA.] e da questi disattese.
Sostiene l'esponente che il fulcro dell'addebito mosso in punto di tracciabilità dell'assile ruota intorno alla violazione di una regola cautelare secondo la quale, sebbene mercato RIV, l'utilizzo sull'infrastruttura nazionale di un carro immatricolato presso un'analoga rete europea, non esimerebbe l'impresa ferroviaria italiana dall'acquisire la documentazione attestante la storia e la correttezza dei processi manutentivi subiti da ogni suo singolo componente rilevante per la sicurezza. Tale acquisizione sarebbe propedeutica ad un'attività di controllo, da svolgere sul piano cartaceo, all'esito della quale dubbi sulla qualità e sulla bontà dei requisiti costruttivi e manutentivi del materiale rotabile dovrebbero condurre ad inibirne l'uso. Andrebbe quindi formato anche per i carri immatricolati all'estero un dossier di sicurezza da trasmettere al gestore dell'infrastruttura, che consenta di verificare l'affidabilità delle parti degli organi di un veicolo a prescindere dalla sua marcatura RIV, nonostante quest'ultima si fondi sul principio del mutuo riconoscimento dei processi di sicurezza cui il materiale rotabile viene sottoposto all'interno di uno Stato aderente al sistema che disciplina lo spazio ferroviario europeo. L'esponente rammenta i rilievi che al riguardo erano stati formulati con l'atto di appello. In particolare, la distinzione tra accertamento dell'efficacia delle operazioni di manutenzione eseguite dalle imprese italiane all'interno delle proprie procedure di sicurezza e la verifica sulla validità dell'omologazione del materiale rotabile in servizio omologato al di fuori delle procedure di certificazione di sicurezza. Ciò significa che per i rotabili omologati all'estero il sistema presuppone che il controllo sulla rintracciabilità e sull'efficacia delle operazioni di manutenzione si è già stato svolto dal soggetto identificato come responsabile. La Corte di appello non ha risposto a tale rilievo perché nella motivazione si sostiene che la difesa voleva negare la possibilità di controllo materiale e strumentale sul carro; circostanza priva di rilevanza. Ed invece si intendeva proprio sottoporre l'erroneità di una ricostruzione che ammette un doppio controllo, il secondo mediante analisi documentale, dei processi manutentivi di un carro immatricolato all'estero e marcato RIV. Il ragionamento svolto dalla Corte di appello per giustificare l'individuazione della predetta regola cautelare è per l'esponente manifestamente illogico, perché da un canto si ammette il divieto di un doppio controllo strumentale posto dalle norme sovranazionali per i carri marcati RIV e dall'altro si afferma la sua compatibilità con l'obbligo di un penetrante controllo documentale sulla storia manutentiva di tutti i suoi componenti. Il controllo del controllo snaturerebbe la funzione del sistema RIV, che riposa sul principio del mutuo riconoscimento dei processi operativi nel comune spazio ferroviario sovranazionale.
Peraltro, la censura è stata affrontata dalla Corte di appello con riferimento agli imputati di lingua tedesca ma non nei confronti degli imputati del gruppo FS.
Ulteriore vizio viene rinvenuto nella circostanza che la Corte di appello ha compreso nell'indistinto concetto di tracciabilità sia l'attività sull'assile del 2009 che ogni ulteriore lavorazione condotta negli anni precedenti su altri componenti, senza che esse abbiano avuto alcuna incidenza causale rispetto all'evento che interessa. Infatti, rimprovera che l'assenza d documentazione circa la loro manutenzione e la loro storia avrebbe imposto di rifiutare il carro in questione. Ciò viola il principio consolidato che rende rilevante unicamente la regola cautelare che avrebbe permesso di individuare il difetto dal quale si è dipanata la sequenza dei tragici fatti. Sicché la correttezza delle lavorazioni su organi diversi dall'assile e la loro tracciabilità sono inconferenti.
Lo stesso dicasi per la cd. procedura di cabotaggio: con l'appello era stata denunciata la contraddizione tra l'identificazione della ragione della responsabilità del Mo.[MA.], ovvero l'esistenza di difetti strutturali dell'organizzazione, con esclusione della significatività di disfunzioni del sistema dei presidi e delle garanzie, e il rilievo responsabilizzante accordato alle disfunzioni nell'applicazione della procedura di cabotaggio, che era stata prevista; inoltre, era stata rimarcata l'insignificanza causale della mancata applicazione della procedura di cabotaggio nell'anno 2005, posto che al tempo l’assile non era stato ancora revisionato e montato.
La Corte di appello è incorsa in un travisamento del dato regolamentare sostenendo che ove fosse stato eseguito il cabotaggio sarebbe stato formato un dossier tecnico relativo alla vita e alla storia manutentiva del carro, con evidenza dei singoli processi lavorativi subiti dagli assili. La ragione esposta dalla Corte di appello per dimostrare l'esigibilità di tale obbligo (la certificazione rilasciata dal tecnico ispettivo di Cesifer) viene contestata dall'esponente, per il quale i contenuti della scheda modello C non permettono le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte distrettuale. D'altronde, la documentazione pretesa dalla Corte di appello era esistente e consisteva nei cartigli, la cui portata attestativa (risultante anche dalle dichiarazioni del Paol. e del Laur.) è stata negata dalla Corte di appello con motivazione carente e tautologica.
L'obbligo di un controllo aggiuntivo, nei termini indicati dai giudici di merito, non può essere ricavato da quanto preteso dall'ANSF dopo il sinistro, perché si tratta di iniziativa di carattere straordinario, che non attiene al comportamento che, ex ante, si sarebbe dovuto tenere.
Anche dalla Relazione della DGIF non si possono ricavare argomenti per ritenere diversamente, giacché essa formula suggerimenti che sono rivolti al futuro e a soggetti quali l'ERA, l'OTIF, l'ANSF e il Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti. Mentre nella stessa Relazione si chiarisce che i carri marcati RIV possono circolare liberamente sulle reti nazionali dei diversi paesi che hanno riconosciuto quel regime.
Non risponde al vero quanto ritenuto dalla Corte di appello, ovvero che l'obbligo di controllo sul controllo è previsto dai punti 3.3.1.3 e 3.3.1.4 della Fiche UIC 433 e dai punti 7.2 e 7.3 del CUU. Peraltro, ciò è stato affermato senza considerare l'analisi che ne era stata fatta con i motivi di appello.
Non è utilmente reclutabile in favore della tesi della Corte di appello neppure la testimonianza Chiov., nella parte in cui ha affermato che il Sistema di gestione della sicurezza di un'impresa ferroviaria deve prevedere anche una procedura per controllare la manutenzione svolta da soggetti terzi, in quanto essa si riferisce alla manutenzione che compete all'impresa ferroviaria medesima; come d'altronde stabilito dalla prescrizione n. 283 del 10.4.2006 del gestore dell'infrastruttura.
L'esponente censura analiticamente il rinvenimento della fonte normativa dell'obbligo di controllo in questione operato dalla Corte di appello nella norma tecnica europea CEI-EN 50126 (si sostiene che si tratta di norma attinente alle sole apparecchiature elettriche per sistemi di energia e per trazione); nell'art. 14- bis della direttiva 2004/49/CE, introdotto dalla direttiva 2008/110/CE del 16.12.2008 (perché le relative prescrizioni non erano ancora vigenti alla data del fatto); nell'art. 14 della direttiva 2004/49/CE, recepita con d.lgs. n. 162/2007 (perché attinente ad imprese che operano all'estero che svolgono servizio in Italia con materiali propri e a materiali non iscritti in classe RIV [art. 9, co. 1 lett. c), co. 2 e co. 3 d.lgs. n. 162/2007]); nel punto 4.3.1 del capo c) dell'allegato b) della disposizione n. 13/2001 di R***I, (perché non è vero che esso si riferisce anche ai rotabili omologati all'estero, mentre i controlli sulle attività di manutenzione sono previsti se l'attività è appaltata da Tre*** a terzi); nella disposizione R***I 1/2013 (perché non risponde al vero che il previsto dossier di sicurezza fosse previsto a seconda che il materiale rotabile fosse marcato RIV o meno); nella disposizione R***I 23/2004 (perché la procedura ivi prevista si riferisce alla sola attività di immatricolazione dei veicoli). Censura altresì che non sia stata considerata l'argomentazione con la quale nell'atto di appello era stata rimarcata la incompatibilità del preteso controllo con il sistema del mutuo riconoscimento delle operazioni manutentive, anche facendo riferimento a specifiche disposizioni (rammentate nel ricorso).
34.2. Il secondo motivo denuncia i medesimi vizi in relazione alla seconda delle regole cautelari che la Corte di appello ha individuato come di doverosa osservanza da parte del ricorrente, nella qualità. L'esponente rammenta che al Mo.[MA.] è stato rimproverato di aver eseguito una valutazione del rischio incompleta perché limitata all'ambiente di lavoro ferroviario, senza esame delle sue implicazioni sull'esterno; pertanto di non aver individuato ed adottato la misura di prevenzione (degli effetti catastrofici derivanti dal deragliamento) costituita dalla limitazione della velocità in rapporto a circostanze specifiche connesse al tipo di trasporto effettuato, alla linea o tratta ferroviaria percorsa. In particolare, nello scalo di Viareggio la velocità adeguata (a mitigare le conseguenze di un deragliamento) era di sessanta km/h.
L'esponente contesta l'esistenza di un obbligo di analisi di quanto può accadere a valle di un deragliamento perché si tratta di una valutazione impossibile, non essendo disponibili misure atte ad evitare le prevedibili conseguenze catastrofiche.
L'errore di diritto nel quale è incorsa la Corte di appello sta nell'aver ritenuto che prevedibilità equivalga ad evitabilità.
Il c.t. Ton. ha affermato che quando un carro è sviato non è possibile sapere quale sarà l'interazione con l'infrastruttura e con ciò che si trova nel contesto circostante, sì che risulta impossibile adottare misure di protezione efficaci (si citano anche i c.t. DRo. e Res.). Ancora proponendo le dichiarazioni del Ton. l'esponente rimarca che ciò che risulta doveroso eliminare è l'evento svio, che pertanto è l'oggetto della valutazione del rischio. L'esponente contesta che possa ritenersi diversamente sulla scorta dell'art. 18, lett. q) d.lgs. n. 81/2008, laddove menziona i rischi per la salute della popolazione e per l'ambiente esterno, posto che si tratta di norma che attiene all'impatto delle misure tecniche adottate a seguito di valutazione del rischio.
Per superare queste osservazioni la Corte di appello ha evocato misure precauzionali, genericamente idonee a ridurre le conseguenze di un deragliamento. Ma in questo modo ha deviato dall'insegnamento secondo il quale la responsabilità colposa presuppone che il comportamento alternativo lecito avesse sicuro effetto salvifico o mitigativo.
Ha altresì omesso di considerare che la legislazione nazionale impone che i treni debbano viaggiare alla massima velocità consentita dalle caratteristiche strutturali della linea e del materiale rotabile [art. 96 lett. h) d.p.r. n. 753/1980; art. 3 lett. n) decreto del 22.5.2000 del Ministero dei Trasporti e dell'Ambiente], come confermato dalla c.t. Tor. e dai testi Geno. e LSp.. Anche le STI relative ai carri merci (decisione n. 61/2006/CE, par. 1.1.2) sono nel medesimo senso. Per calcolare la velocità sulla base di ragioni diverse da quelle previste occorre una valutazione di natura politica. Il dato non può essere superato, come ha provato a fare già il Tribunale, anche su ciò attinto da motivo di appello, affermando che gli scambi sono per definizione elementi pericolosi e ampliando la nozione di linea, ricomprendendovi il territorio circostante. Questi rilievi non sono stati esaminati dalla Corte territoriale. Quanto al dispositivo di detezione dello svio, esso non è menzionato nell'elenco dei requisiti costruttivi previsti dal RID, dal RIV, dal CUU e dalla decisione 2006/861/CE; e neppure risponde al vero che il dispositivo EDT- 101 sia di comprovata efficacia perché la stessa Corte di appello afferma che esso può addirittura aumentare la portata catastrofica del deragliamento.
La Corte di appello ritiene che il potere di riduzione della velocità in ragione di caratteristiche situazioni locali competa al Gestore dell'infrastruttura; ma in tal modo incorre in contraddizione perché poi rammenta che nel RID è previsto che tale misura venga adottata dagli Stati membri (come riconosciuto anche dall'Agenzia ferroviaria europea).
A fronte della documentata affermazione dell'appellante secondo la quale una riduzione della velocità implica necessariamente l'intervento statuale perché ha implicazioni sistemiche, la Corte di appello ha sostenuto che le limitazioni straordinarie decise dall'ANSF dopo l'incidente di Viareggio per i carri non tracciati non ebbero alcuno degli effetti paventati dalla difesa. Ma ciò, ad avviso dell'esponente, è manifestamente illogico perché le conclusioni sull'impatto generato dalla riduzione di velocità per un numero circoscritto di rotabili non possono essere trasferite sul piano generale e costituire criterio d'inferenza. Anche l'art. 7 del d.lgs. n. 35/2010 (che ha sostituito l'art. 35 del d.p.r. n. 753/1980) depone nel senso della esclusiva competenza statuale e il documento di costituzione da parte di ANSF di un gruppo di lavoro con il compito di definire la metodologia per la valutazione ed accettazione del rischio nelle ferrovie. Di tali prove la Corte di appello ha omesso ogni valutazione.
Come è mancata la motivazione sui rilievi mossi alle argomentazioni utilizzate dal Tribunale per accreditare che il potere di adottare una limitazione di velocità fosse in capo a R***I; si allude alla inconferenza della delega che il MIT avrebbe conferito al Gestore della rete con atto dell'8.9.2005; al divieto di assegnare una delega quale pretesa dalla Corte di appello, posto dall'art. 16, co. 1 della direttiva 2004/49/CE; alla circolare MIT del 23.11.2017 e al decreto MIT n. 31 del 22.5.2018, che delineano il ruolo di mero supporto tecnico di R***I.
Si rinviene una contraddizione tra l'aver ritenuto che R***I può impartire, anche per la materia del trasporto di merci pericolose, prescrizioni di carattere generale e poi affermato che tali prescrizioni devono essere conformi alle norme regolamentari del MIT e dell'ASNF nonché al RID.
La Corte di appello ha anche travisato la prova costituita dalle dichiarazioni della Torchia, laddove, in relazione alla disposizione n. 2685 che R***I emanò dopo l'incidente su domanda del Sindaco di Viareggio, e con la quale si dispose che i convogli trasportanti merci pericolose attraversassero lo scalo cittadino con una velocità di 50 km/h, ha asserito che la c.t. non abbia negato che la competenza ad emettere il provvedimento fosse di R***I. La consulente ha affermato che la decisione di R***I mancava del presupposto tecnico richiesto dalle norme. Ed è manifestamente illogico fare perno, per validare l'affermazione principale, sulla circostanza che altre imprese ferroviarie non impugnarono il provvedimento. Così come non può trarsi argomento a favore della tesi della Corte di appello che R***I abbia eseguito le disposizioni impartite dall'ASNF dopo l'incidente, trattandosi di obbligo gerarchico. Piuttosto è l'iniziativa straordinaria dell'ASNF a destare perplessità, come evidenziato dal Chiov. e come si ricava dal parere Era del 7.5.2009.
A fronte della censura mossa al Tribunale, di aver individuato la velocità adeguata solo ex post, la Corte di appello ha affermato che quella di 60 km/h era velocità nota ed esigibile ante factum perché la stessa R***I l'aveva adottata da tempo: l'esponente contesta la idoneità dimostrativa della menzionata circostanza dei dati enucleati dalla Corte di appello, o perché emersi successivamente all'incidente o perché privi di analogie con esso.
In conclusione, prima dell'incidente non era disponibile la misura della limitazione della velocitò stimata impeditiva dell'evento.
34.3. Violazione dell'art. 40 cpv. cod. pen., della normativa in materia di prevenzione degli infortuni e degli artt. 589, co. 2 e 590, co. 3 cod. pen. e vizio della motivazione vengono denunciati a riguardo dell'affermazione della esistenza di una posizione di garanzia in capo al ricorrente, unitamente alla violazione dell'art. 522 cod. proc. pen.
Osserva l'esponente che i giudici di merito hanno compreso il ruolo e i compiti primari di cui era titolare la Direzione Tecnica di R***I, tali che le attribuzioni dell'amministratore delegato si focalizzavano sulla gestione manageriale in vista del conseguimento degli obiettivi di efficienza e di ottimizzazione anche economica del sistema nel suo complesso. Tuttavia, essi hanno errato nel trarne le conseguenze. È alla Direzione Tecnica che sono assegnati ab origine, e non in virtù di delega, le sfere di competenza ed i poteri elencati nel decreto dirigenziale del Ministero della Navigazione e dei Trasporti del 22.5.2000 e nel d.m. 31.10.2000 n. 138T.
La Corte di appello non si è confrontata con tale argomento. Né risultano pertinenti le affermazioni di supposti obblighi di alta vigilanza gravanti sul vertice societario e di indelegabilità della valutazione dei rischi: tra Direzione Tecnica e A.D. non vi era alcun rapporto di subordinazione gerarchica e, volendo assecondare la pur contestata impostazione della Corte di appello, secondo la quale troverebbe applicazione la normativa antinfortunistica, la valutazione dei rischi competeva alla D.T., garante a titolo originario. Proprio a riguardo dell'applicabilità della normativa antinfortunistica e dell'aggravante prevista dagli artt. 589 e 590 cod. pen., l'esponente considera che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, devono essere distinte le regole sulla sicurezza della circolazione da quella sulla sicurezza dei lavoratori; le prime sono poste a proteggere tutti dai rischi sociali dell'esercizio ferroviario, laddove le seconde sono volte a proteggere i lavoratori ed i terzi che si trovino esposti ai pericoli implicati dallo svolgimento del lavoro.
Si censura, inoltre, la motivazione con la quale la Corte di appello ha respinto il motivo che lamentava la violazione del divieto di immutazione per aver il Tribunale fondato la responsabilità del Mo.[MA.] sulla sua qualità di datore di lavoro, ancorché questa non gli fosse mai stata contestata. La Corte di appello ha replicato che l'imputato non aveva mai contestato tale attribuzione e in tal modo ha omesso di confrontarsi con le deduzioni al riguardo sviluppate dall'appellante. Viene poi ravvisato anche un secondo profilo di violazione del predetto divieto, laddove al Mo.[MA.] sembrerebbe attribuito - per la prima volta in appello e senza che se ne sia fatta discussione - anche un comportamento attivo.
34.4. Vizio di motivazione in ordine alla rilevanza causale delle omissioni colpose attribuite al Mo.[MA.], per aver la Corte di appello omesso di piegare su quali basi fattuali la condotta di coloro che succedettero al Mo.[MA.], a far tempo dal 25.9.2006, non interruppe la catena eziologica. Il solo argomento utilizzato dalla Corte di appello, secondo il quale il Mo.[MA.] non abbandonò il mondo ferroviario ma venne nominato AD della FS Holding è per l'esponente manifestamente illogico.
34.5. Violazione dell'art. 40 cpv. cod. pen. e dell'art. 603, co. 3-bis cod. proc. pen. nonché vizio della motivazione, in relazione alla ritenuta posizione di garanzia del Mo.[MA.] quale A.D. della Holding Fe***I*** S.p.A.
Il ricorrente si duole in primo luogo che la Corte di appello sia venuta meno all'obbligo di motivazione rafforzata sussistente allorquando, come nel caso di specie, si riformi la sentenza di primo grado. Il Tribunale, infatti, aveva assolto il Mo.[MA.] dai reati ascrittigli quale AD di Fe***I*** S.p.A. non rinvenendo atti di ingerenza nella gestione delle controllate, mentre la Corte di appello lo ha condannato anche per essi.
L'esponente ravvisa in primo luogo una contraddittorietà della motivazione perché la Corte di appello da un verso ha respinto l'appello del P.M. nei confronti di FS per vederla condannata ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 affermando che non è corretta l'estensione alla società capogruppo degli obblighi giuridici gravanti sulle controllate - segnatamente la valutazione del rischio poi sostiene che le società controllate erano prive di reale autonomia tanto da essere un'unica impresa dal punto di vista economico e organizzativo; infine parla di una holding che gestiva un'area di rischio che si sovrapponeva parzialmente alle aree di rischio gestite dalle società controllate.
Per la Corte di appello la prova è data in primo luogo dallo Statuto di FS; ma l'esponente critica l'interpretazione datane dal giudice di secondo grado, in particolare negando che FS gestirebbe le cd. funzioni essenziali (rete e servizio di trasporto) e che la CGUE e l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato abbiano sanzionato l'assenza di autonomia tra i vari settori del trasporto ferroviario italiano. Piuttosto è vero il contrario. Così come la valutazione del verbale della riunione del C.d.A. di R***I del 2.7.2001 è frutto di un travisamento del testo dello stesso, giacché non vi legge di 'approvazione da parte della capogruppo' (della richiesta di finanziamenti allo Stato), ma di 'propedeutica attività di analisi tra le competenti strutture delle società e della capogruppo'. Più in generale la Corte di appello non ha considerato che le operazioni societarie che hanno modificato il quadro degli operatori nazionali del trasporto ferroviario a partire dalle Fe***I*** S.p.A. hanno determinato un periodo di transizione con connessa incertezza dei confini dei rapporti economici e contabili tra i vari soggetti titolari delle cd. funzioni essenziali. Si cita, al riguardo, la testimonianza Fior., anche per il contiguo tema della funzione di tesoreria in capo a FS (essa pure ritenuta dimostrazione dell'ingerenza della capogruppo), per la quale si lamenta che il giudizio di inattendibilità formulato dalla Corte di appello non sia stato preceduto da una rinnovazione dell'esame ai sensi dell'art. 603, co. 3-bis cod. proc. pen. Ancora sul tema della funzione di tesoreria l'esponente rileva che la Corte di appello ha enfatizzato la determinazione n. 40/2008 della Corte dei conti nonostante essa fosse precedente al periodo in cui il Mo.[MA.] assunse la carica di AD di FS; e che, per contro, la Corte di appello ha omesso di considerare la determinazione della Corte dei conti n. 56/2009, nella quale si esprimono giudizi positivi.
I dati probatori che la difesa aveva evidenziato per dimostrare che il Mo.[MA.], una vola assunta la carica, si era operato per la separazione tra le funzioni della holding e quelle delle controllate, soprattutto in tema di esercizio, e che quando egli aveva sottoscritto contratti per attività di competenza delle controllate lo aveva fatto sulla scorta di procure ad acta rilasciate dai rispettivi amministratori, non sono stati considerati dalla Corte di appello. Mentre sono state apprezzate le dichiarazioni del Braccia., in realtà, per l'esponente, inconferenti. Questi contesta anche che risponda al vero che il progetto di Tre*** di dotarsi di una propria flotta di ferrocisterne si fosse fermato per volontà del Mo.[MA.] e lamenta, al proposito, che la Corte di appello non considerato la documentazione che al riguardo del tema era stata depositata.
Ancora, l'esponente contesta la valutazione che la Corte di appello ha operato della circostanza dell'esistenza di un sistema informativo dell'intero gruppo, di un unico contratto di lavoro integrativo, di una provenienza 'interna' al gruppo del management delle controllate (si richiamano, sul punto, le testimonianze Po. e Braccia.). Rimarca che né la Corte dei Conti, né la CGUE avevano rilevato criticità. In ogni caso, ove la Corte di appello avesse voluto disattendere le dichiarazioni dei testi avrebbe dovuto provvedere alla rinnovazione dell'istruttoria.
L'esponente sostiene che la Corte di appello ha valorizzato la procedura prevista dalle disposizioni di gruppo n. 29/AD del 23.11.2004 e n. 100/AD del 17.5.2007 a partire da una errata ricostruzione di quella procedura e che ha ribaltato la valutazione che ne era stata fatta dal Tribunale sulla base di un diverso giudizio sull'attendibilità del c.t. di p.c. Riv., con ulteriore violazione dell'art. 603, co. 3- bis cod. proc. pen. L'esponente contesta la valutazione che la Corte di appello ha dato delle menzionate disposizioni di gruppo.
Anche la disposizione n. 113/AD del 1.4.2008 è stata erroneamente valutata, poiché essa, lungi dal dimostrare un potere di intromissione della holding nella materia della sicurezza del lavoro, è espressione dell'esercizio dei poteri di indirizzo che competono alla capogruppo, come aveva riferito anche il teste Braccia..
Allo stesso modo, con riguardo alla Comunicazione organizzativa di Tre*** n. 296/DRUO del 3.3.2009, gli esponenti rilevano che la stessa Corte di appello è consapevole che è stata emanata nell'ambito dell'attività tesa ad assicurare l'omogeneità e la coerenza delle procedure adottate dalle partecipate con le linee programmatiche elaborate dalla capogruppo. Infine, la valutazione delle attività di controllo ispettivo della Direzione Centrale Audit della capogruppo - dimostrerebbero che la capogruppo si ingeriva anche in tema di sicurezza - è meramente apodittica, in quanto sfornita di supporto probatorio ed anzi contraddetta dalla testimonianza Greco, per come riportata nella sentenza medesima. La Corte di appello ha travisato le dichiarazioni del Chiov., che non ha mai affermato che R***I all'epoca era priva di una struttura di audit propria; e non ha considerato che nella motivazione stessa si dà conto della testimonianza Vari, che ha confermato il mancato svolgimento da parte della capogruppo di audit in materia di sicurezza del lavoro. Manifestamente illogica è anche la valutazione della circostanza che dopo l'incidente il MIT si relazionò con la capogruppo anche per aspetti che riguardavano le attività gestite dalle controllate; non si considera, infatti, il rapporto già risalente esistente tra istituzioni pubbliche ed holding.

35. Motivi aggiunti per MO.MA.
Il 13.11.2020 è pervenuta Memoria con motivi aggiunti nell'interesse di MO.MA., a firma degli Avv. F.C. e V.A.D.A..
Con un primo motivo, che si rapporta ai motivi di ricorso che attengono al tema della sussistenza di un dovere di acquisizione di informazioni ulteriori rispetto a quelle contenute nei cartigli apposti sui carri esteri RIV, gli esponenti ribadiscono che le affermazioni fatte al riguardo dalla Corte di appello non trovano conferma nella normativa che definisce i contenuti delle informazioni in parola. Si riporta quindi il testo pertinente della decisione 861/2006/CE e fotografie che comproverebbero l'assunto.
Con un secondo motivo si ribadisce la doglianza indirizzata alla Corte di appello per aver affermato che poteva e dovere il gestore dell'infrastruttura disporre, all'esito della valutazione dei rischi, limitazioni di velocità dei convogli sia pure in relazione ad alcuni di essi e a particolari tratte; lo si fa rimarcando nuovamente che la valutazione del rischio ferroviario e l'adozione delle conseguenti misure compete all'autorità politica e rappresentando che tanto trova conferma nella Determina n. 3889 del 25.8.2020 del MIT, della quale si riportano i passi valutati pertinenti.
Con il terzo motivo, dopo aver operato un excursus delle iniziative adottate da R***I in tema di definizione della governance e della valutazione dei rischi, si rinnova la censura alla sentenza impugnata laddove ha rimproverato l'assenza di un DVR generale e la mancata adozione di misure che in realtà vennero identificate ma non attuate perché ritenute né necessarie né adeguate; e laddove non ha valutato la complessità strutturale di R***I e quelle iniziative allorquando ha esaminato la posizione dell'AD. La Corte di appello avrebbe dovuto dimostrare che il particolare profilo di rischio che si è concretizzato nel disastro fosse stato percepito dal responsabile dell'unità produttiva competente e poi portato all'attenzione dell'AD.
Con un quarto motivo si tratta nuovamente delle valutazioni operate dalla Corte di appello a riguardo della posizione del Mo.[MA.] quali AD di Fe***I*** s.p.a., rinnovando i rilievi già mossi alla motivazione offerta dalla Corte distrettuale e rimarcando, anche in forza di una ricognizione delle acquisizioni dottrinarie sul tema, come non sia rinvenibile nella fattispecie altro che l'esercizio di quei poteri di direzione e controllo che sono previsti dagli artt. 2497 ss. c.c. Nel caso che occupa la holding non compì mai direttamente concreti atti di gestione delle società controllate e dirette e la Corte di appello ha sovrapposto gli indici dell'amministrazione di fatto della controllante nei confronti della controllata con gli elementi fondanti l'attività di direzione e coordinamento.

36. Ricorso nell'interesse di R***I s.p.a, quale ente condannato per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001
R***I s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, avv. P.S., articolando sette motivi.
36.1. Violazione degli artt. degli artt. 6 CEDU, 25 e 111, co. 2, Cost., nonché 5 del d.lgs. n. 155/2012 e 33 cod. proc, pen., e nullità dell'ordinanza emessa dalla Corte di appello il 19.12.2018 nonché di quella emessa dal Tribunale di Lucca 1'8.1.2014, del decreto del Tribunale di Lucca n. 15 del 21 marzo 2013 (variazione tabellare urgente), del decreto del Presidente della sezione penale del Tribunale di Lucca in data 12 aprile 2013, del decreto che dispone il giudizio e della sentenza di primo grado.
Ad avviso dell'esponente l'assegnazione del presente procedimento al Terzo Collegio del Tribunale di Lucca non concreta unicamente una violazione delle regole tabellari ma integra una designazione extra ordinem idonea a determinare la nullità degli atti ai sensi dell'art. 178, n. 1 lett. a) cod. proc, pen., sanzionata ai sensi dell'art. 179, co. 1 cod. proc. pen.
Rammentata la cronologia dei fatti pertinenti, l'assunto è sostenuto dai seguenti rilievi:
- il provvedimento di assegnazione del processo è stato adottato dal Presidente della sezione penale in palese violazione delle disposizioni intertemporali contenute sia nel d.lgs. n. 155 del 7 settembre 2012 ("Nuova organizzazione dei tribunali ordinari e degli uffici del pubblico ministero, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148"), del decreto di Variazione Tabellare n. 15/2013 e del decreto emesso dal Presidente del Tribunale di Lucca; secondo il dettato normativo, le soluzioni organizzative predisposte dal Presidente della sezione penale (e dal Presidente del Tribunale di Lucca) prima della data prevista per la soppressione delle sedi distaccate avrebbero potuto acquisire efficacia soltanto dopo I' operatività della soppressione e cioè dal 13 settembre 2013; l'anticipazione dell'assegnazione del processo era subordinata alla circostanza che si attivasse la procedura di cui all'art. 48-quinques O.G. e che si trattasse di processi per i quali non era stata ancora fissata la prima udienza; non vi era quindi la possibilità di anticipare gli effetti del decreto n. 15/2013;
- i criteri enunciati dal decreto di Variazione Tabellare n. 15/2013, e quelli contenuti nel provvedimento del Presidente della sezione penale risultano essere stati violati nell'assegnazione dei procedimenti ai Collegi e comunque la circostanza che i (nuovi) criteri tabellari abbiano trovato applicazione soltanto per il processo de quo corrobora la tesi per cui nell'assegnazione del processo di Viareggio è stato seguito un procedimento volto alla costituzione di un giudice ad hoc per la trattazione della vicenda;
- ricorre la violazione dell'art. 111, co. 2 Cost, e dell'art. 6 Cedu, sotto il profilo della mancanza di apparenza di imparzialità del giudice assegnatario, stante le dedotte irritualità e il fatto che il Collegio designato era costituito ex novo da giudici che, fino a quel momento, avevano esercitato la funzione di tribunale monocratico esclusivamente presso il luogo in cui si è verificato il fatto.
36.2. Inosservanza degli artt. 6, § 3, lett. a) CEDU, 34, 61, co. 2, del d.lgs. n. 231/2001, in relazione alla nullità del decreto che dispone il giudizio per genericità del capo d'imputazione quanto alla descrizione dell'illecito amministrativo dipendente dal reato; vizio della motivazione.
L'eccezione di nullità è stata rigettata dalla Corte di appello disconoscendo la natura autonoma della responsabilità degli enti - e pertanto ritenendo che il mero richiamo in sede di contestazione alle disposizioni che si assumono violate o, al più, al capo di imputazione relativo alle persone fisiche sia sufficiente per desumere l'interesse o il vantaggio per l'ente - e sostenendo che dalla previsione di legge discende che non grava sull’organo dell’accusa l'obbligo di specificare quali siano i presupposti - in chiave oggettiva e soggettiva - dell’illecito dell’ente, avendo particolare riguardo a un (ritenuto) «inesistente obbligo di specificare nell'imputazione i difetti organizzativi e l'interesse o vantaggio dell'ente».
Si osserva, criticamente, che è errato l'assunto della Corte di appello della non estensibilità dei principi costituzionali e convenzionali che governano la materia penale al regime di responsabilità degli enti, stante il carattere indubbiamente punitivo del relativo sistema sanzionatorio. Ciò posto, l'illecito ascrivibile all'ente non coincide con il reato ma è qualcosa di diverso, che questo ricomprende. Si tratta di un fatto che ha una componente oggettiva ed una componente soggettiva; la prima è costituita dall'esser stato commesso il reato nell'interesse o a vantaggio dell'ente, il secondo dalla colpa organizzativa.
Alla stregua di tali premesse, l'esponente lamenta l'assoluta genericità del riferimento contenuto nella contestazione all'interesse o vantaggio che R***I avrebbe conseguito dalle condotte dei propri esponenti e la assoluta mancanza della descrizione della colpa organizzativa dell'ente. Non risulta specificato né in che cosa sarebbe consistita la presunta carenza del modello di organizzazione e gestione adottato da R***I, né se essa si sia sostanziata in un difetto di natura originaria e sostanziale, relativo cioè ai suoi contenuti e, quindi, alla sua adozione, ovvero nella sua concreta attuazione. Pertanto, la difesa di R***I che non è stata posta in grado, nel contesto del dibattimento, di comprendere quale fosse il preciso addebito che veniva mosso nei confronti della Società.
Il decreto che dispone il giudizio assumeva l'esistenza sia di un "interesse" che di un "vantaggio", individuandoli entrambi «nell'evitare un impegno, economico e o finanziario, sicuramente gravoso e rilevante, che sarebbe stato necessario sostenere per predisporre e/o realizzare le misure tecniche, relative all'armamento ed al materiale rotabile, atte a minimizzare i rischi del trasporto di merci pericolose, soprattutto in aree densamente abitate». L'assoluta genericità della contestazione si è concretizzata anzitutto nell'attribuzione di una sostanziale fungibilità dei presupposti dell'imputazione oggettiva dell'illecito all'ente, cosa che ha consentito alla Corte d'Appello di qualificare l'omessa riduzione della velocità come "interesse" piuttosto che, come in precedenza fatto dal Tribunale, come "vantaggio". La contestazione, nel fare (mero) rinvio alle imputazioni relative alle persone fisiche che si assumono autrici dei reati presupposto, non specifica in alcun modo quali sarebbero state - tra le numerose indicate ai capi sub 35, 33, 13, 18, 21, 24, 27, 79, 82 e 85 - le specifiche «misure tecniche, relative all'armamento ed al materiale rotabile», la cui adozione si sarebbe tradotta in «un impegno, economico e/ o finanziario, sicuramente gravoso e rilevante»; il capo d'imputazione si guarda bene dall'indicare, quanto meno in via approssimativa, quale sarebbe stata l'entità di tale presunto risparmio di spesa.
Per ciò che concerne la colpa organizzativa, il decreto che dispone il giudizio non fa nemmeno richiamo alle disposizioni di cui agli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 231 del 2001, per cui la circostanza che l'illecito dell'ente si assuma dipendente dalla condotta sia di soggetti apicali che di dipendenti si può desumere solo in via deduttiva dal complesso della contestazione e in particolare dal richiamo ai capi sub 33, 35, nonché 13, 18, 21, 24, 27, 79, 82 e 85. Soprattutto, il capo d'imputazione non precisa in alcun modo in che cosa consisterebbe lo specifico profilo di colpa organizzativa che qui verrebbe in considerazione; ed è significativo che mentre in primo grado era stata oggetto di accertamento la mancata adozione del MOG, con l'esito di risultare provata tale adozione. La Corte di appello ha ritenuto l'inidoneità del modello e la inadeguata attuazione dello stesso. Per di più, quanto al secondo grado, ciò è stato fatto sulla base di censure che non erano mai state mosse in precedenza (omessa valutazione dei «rischi della mancanza di tracciabilità per i carri di proprietà estera trasportanti merci pericolose e la conseguente omissione della adozione di misure di prevenzione come la riduzione di velocità» e la composizione dell'organismo di vigilanza). A dimostrazione dell'assoluta genericità della contestazione. Ne è derivata la necessità per la difesa di argomentare al buio e a tutto campo.
36.3. Violazione degli artt. 6 § 3, lett. a) CEDU, 34, d.lgs. n. 231 del 2001, 521 cod. proc, pen., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza, ai sensi dell'art. 606, lett. c) ed e) cod. proc, pen., per assoluta mancanza di correlazione tra la contestazione formulata nel decreto che dispone il giudizio e le ragioni poste a fondamento della sentenza di condanna.
In primo luogo, la Corte di appello ha rigettato la pertinente eccezione avanzata dalla difesa affermando che vi è sempre stata una ampia possibilità difensiva per gli imputati, essendo stati i vari profili di colpa esposti dal PM nel corso del dibattimento di primo grado ed attribuiti all'intero personale operante nelle società del "gruppo Fe***I***", cosicché ciascun imputato ha in effetti esperito le proprie difese anche in ordine a profili a lui non specificamente contestati. Ciò rileva un inammissibile appiattimento della responsabilità delle persone giuridiche su quella delle persone fisiche.
In secondo luogo, la contestazione fa riferimento all'art. 25-septies, co. 2 e 3; per contro, agli imputati esponenti di R***I è stata ascritta l'omessa valutazione del rischio, che assume rilievo ai sensi dell'art. 25-septies, co. 1. E ciò, peraltro, dopo che era sempre stata contestata l'inadeguatezza delle misure di sicurezza poste in essere a presidio della rete, stante l'omessa rimozione dei picchetti di tracciamento e l'omesso allestimento di barriere contenitive. A R***I si contestava di aver inteso risparmiare sui costi della rimozione dei picchetti. Essendo stato accertato già in sede di incidente probatorio che il picchetto non poteva essere stato causa dello squarcio della cisterna e l'irrilevanza dell'omesso allestimento delle barriere, era stata rimproverata l'omessa installazione del detettore di svio. Ma l'ipotesi d'accusa non veniva accolta dalla Corte di appello che ha quindi riconosciuto la responsabilità degli esponenti di R***I per aver omesso la valutazione del rischio connesso alla circolazione sulla rete di carri esteri trasportanti merce pericolosa e, di conseguenza, per non aver correttamente tracciato la storia manutentiva del carro in questione e non aver provveduto a prescrivere una riduzione della velocità rispetto a carri trasportanti merci pericolose e circolanti in prossimità di centri abitati.
Orbene, la Corte di appello ha disatteso l'eccezione difensiva affermando che «nessuna nullità può poi derivare dalla individuazione, da parte del Tribunale, di un interesse o vantaggio diversi da quelli descritti nelle due predette imputazioni, sia perché, come detto, l’indicazione specifica e dettagliata nell'imputazione non è un elemento necessario dell'accusa, sia soprattutto perché, applicando i principi che la giurisprudenza ha da tempo elaborato in tema di correlazione tra accusa e sentenza "anche con riguardo alla responsabilità degli enti, il parametro di valutazione ai fini della verifica della correlazione tra contestazione e sentenza non può che essere quello del rispetto del diritto di difesa" (Cass. n. 54640 del 25.9.2018)», laddove, per converso, «nel presente caso il tema dell'interesse o vantaggio dell'ente è stato discusso, durante il dibattimento di primo grado, con riferimento a tutti i suoi possibili aspetti, consentendo ai difensori di pronunciarsi in ordine a ciascuno di essi esplicando così al massimo le proprie difese». In definitiva, ha osservato la Corte di appello, «il vantaggio individuato dal Tribunale è sufficientemente correlato a quello contestato, consistendo pur sempre nel mancato intervento sull'armamento con misure tecniche, quale è anche la riduzione della velocità».
La ricorrente contesta tal ultima affermazione rilevando che le omissioni relative ai processi di manutenzione e l'omessa attivazione della procedura di cabotaggio erano stati rappresentate dall'accusa nella memoria depositata dai p.m. il 17.6.2016, in primo grado; ed osserva che secondo la giurisprudenza di legittimità quando si sia in presenza di una accusa eterogenea rispetto al fatto addebitato nella contestazione il diritto di difesa non è assicurati dalla possibilità di accedere alla totalità del materiale processuale utilizzabile.
Nel caso di specie si tratta per l'appunto di un fatto radicalmente eterogeneo; per ciò che concerne il vantaggio, che la Corte di appello ha riferito all'omesso controllo sulla documentazione che le imprese ferroviarie avrebbero dovuto fornire e all'omessa effettuazione della procedura di cabotaggio, esso non è riconducibile alla violazione dei commi 2 e 3 dell'art. 25-septies contestata nel decreto che dispone il giudizio. È infatti il primo comma a prendere in considerazione l'omessa valutazione del rischio. Si contesta, inoltre, che nella nozione di armamento e in quella di misure tecniche possano ricomprendersi cautele di natura organizzativa o procedurale. Quanto all'interesse dell'ente, correlato alla omessa riduzione della velocità, il capo di imputazione elevato all'ente non ne faceva menzione; il Tribunale aveva ritenuto che essa avesse procurato un vantaggio all'ente perché aveva inciso favorevolmente sui costi di esercizio. La Corte di appello, dopo che la difesa aveva dimostrato che una diminuzione della velocità avrebbe determinato un aumento del pedaggio dovuto a R***I ha affermato che essa era correlata ad un interesse dell'ente, che manteneva in tal modo una fetta di mercato e non riduceva la propria concorrenzialità con il trasporto su gomma. Quindi un nesso del tutto nuovo, mai fatto oggetto di contraddittorio. Quanto alla colpa organizzativa, dall'originaria accusa per l'assenza del MOG si è passati ad un primo giudizio di inidoneità dello stesso (il Tribunale) e poi a giudicare tale inidoneità con motivi del tutto nuovi (omessa considerazione dei rischi della mancanza di tracciabilità per i carri di proprietà estera trasportanti merci pericolose e composizione ed attività dell'organismo di vigilanza).
36.4. Violazione dell'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 e degli artt. 589, co. 2 e 590, co.3 cod. pen., e vizio della motivazione in relazione alla asserita applicabilità a R***I della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
La Corte di appello ha ritenuto integrato l'illecito di cui all'art. 25-septies sul presupposto che il reato ascritto agli esponenti di R***I sia stato commesso con violazione delle norme antinfortunistiche. Tale giudizio è errato in quanto il disastro di Viareggio non può essere qualificato come infortunio sul lavoro; questo presuppone che l'evento si verifichi in danno di un lavoratore o anche di un terzo ma pur sempre nell'ambiente di lavoro. L'esponente osserva che il richiamo degli artt. 2 lett. n) e 18 lett. q) del d.lgs. n. 81/2008 non sono pertinenti perché, lungi dal fondare un obbligo di governo del rischio professionale anche oltre i confini spaziali del luogo di lavoro, esse esprimono la necessità che le misure adottate dal datore di lavoro per la protezione dei lavoratori nei luoghi di lavoro non diventino causa di pericolo per la popolazione. Con ampia esposizione dei principi formulati in materia dalla giurisprudenza di legittimità, si sostiene che questa ha esteso la tutela alle persone estranee all'attività lavorativa ma sempre a condizione che vi sia un collegamento diretto ed immediato della vittima con l'ambiente di lavoro o con le attrezzature di lavoro. D'altro canto, il dovere di sicurezza si fonda sul potere di signoria sulle fonti di pericolo. La casistica citata dalla Corte di appello non depone nel senso dalla stessa auspicato la pretesa di estendere l'area di operatività della normativa antinfortunistica astraendo da qualsivoglia collegamento con il contesto lavorativo costituisce una violazione delle norme sopra richiamate.
Nel caso di specie tutte le vittime erano estranee al luogo di lavoro e all'attività lavorativa; non è stata elevata alcuna contestazione concernente l'omicidio o le lesioni in danno di lavoratori; il gravissimo rischio di lesioni al quale sarebbero stati esposti i due macchinisti del convoglio non assume alcun rilievo ai fini che occupano; al momento dell'incidente non era in atto alcuna attività lavorativa che potesse essere ricondotta a R***I e ai suoi luoghi di lavoro, non potendosi ritenere l'intera rete ferroviaria nazionale luogo di lavoro permanente nel tempo, indipendentemente dallo svolgimento di una specifica prestazione lavorativa di R***I; perché possa ritenersi integrata l'una o l'altra delle circostanze aggravanti in parola, occorre che l'inosservanza attenga ad una regola propria del sistema prevenzionistico, ovvero che nell'accadimento si sia manifestato il rischio lavorativo.
La Corte di appello riconosce che al momento del deragliamento non era in corso alcuna attività che potesse essere ricondotta al gestore dell'infrastruttura e che imponesse una gestione del relativo rischio da parte di R***I; al più, quindi, nell'incidente si sarebbe concretizzato un rischio lavorativo la cui gestione spettava ad altri, posto che tutte le imputazioni connesse a presunti vizi fisici della rete sono state ritenute prive di rilievo causale. Sicché l'evento non può essere imputato a R***I e ai suoi esponenti. In ogni caso, le colpe addebitate dalla Corte di appello a questi pertengono tutte ad un diverso ambito normativo, ovvero a quello della circolazione ferroviaria, non considerato dall'art. 25-septies. Ad avviso dell'esponente, le norme la cui violazione è presupposta dalla responsabilità dell'ente non sono tutte quelle che direttamente o indirettamente perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro ma possono essere solo le norme del d.lgs. n. 81/2008. Ciò perché l'art. 25-septies fa espresso richiamo cd. al Testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro; e seppure una estensione si accettasse per le circostanze aggravanti essa sarebbe irricevibile per un elemento costitutivo dell'illecito. Diversamente opinando ci si porrebbe in contrasto con il principio di tassatività e di determinatezza della norma penale.
Nell'ambito del d.lgs. n. 81/2008 le sole norme applicabili al trasporto ferroviario sono quelle del Titolo I, stante la previsione dell'art. 3, co. 3 e 3 d.lgs. n. 81/2008. Agli imputati riferibili a R***I (Fa.[FR.], El.[M.M.] e Mo.[MA.]) sono stati addebitati reati commessi con violazione delle norme del d.lgs. n. 626/1994, del d.lgs. n. 81/2008 e dell'art. 2087 c.c. Secondo l'esponente, la violazione degli artt. 17, 18 e 28, che attengono all'obbligo di valutazione dei rischi, non può essere posta alla base della affermazione di responsabilità dell'ente perché non gli sono state contestate, avendo fatto riferimento l'imputazione all'art. 25-septies, co. 2 e 3.
L'art. 71 non può essere preso in esame perché estraneo al Titolo I. L'art. 15, che non è chiaro se sia stato tenuto in conto dalla Corte di appello, ha un contenuto talmente generico e la sua violazione non è sanzionata penalmente sicché la sua violazione non può integrare un'ipotesi di colpa specifica o la circostanza aggravante che qui rileva. Quanto all'art. 2087 c.c., essa è posta a protezione del prestatore di lavoro e quindi non si applica al caso che occupa; è norma che fornisce un parametro generale di diligenza ma non contiene una regola cautelare idonea a fondare una colpa specifica perché non descrive in modo preciso le cautele che l'imprenditore è chiamato ad adottare. Esso è assimilabile all'art. 41 d.lgs. n. 277/1991, per cui valgono per esso le considerazioni fatte al riguardo dalla Corte costituzionale.
La Corte di appello ha condannato l'ente anche in relazione a presunte violazioni delle disposizioni in tema di circolazione ferroviaria, nonostante si tratti di ambito a nessun effetto sovrapponibile a quello della sicurezza del lavoro. La tracciabilità delle manutenzioni di un carro estero, la procedura di cabotaggio e la riduzione della velocità attengono, appunto, alla gestione dei rischi intrinseci e tipici della circolazione ferroviaria.
Infine, l'esponente chiede che venga rimessa alle Sezioni Unite, per la speciale importanza, la questione della possibilità di configurare l'infortunio sul lavoro anche rispetto ad eventi lesivi che intervengano a carico di terzi e fuori dal luogo di lavoro.
36.5. Con il quinto motivo si deduce in primo luogo l'erronea interpretazione dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001. Operata un'ampia ricognizione della giurisprudenza di legittimità e di merito in materia, l'esponente ribadisce che la Corte di appello ha erroneamente fatto coincidere la responsabilità della persona fisica con quella dell'ente, disconoscendo il carattere autonomo di quest'ultima; ha altresì contraddittoriamente ritenuto, a riguardo di Ci***Ri***, che l'omissione di un controllo non può essere stata commessa nell'interesse dell'ente e però ritenuto che l'omesso controllo ascritto agli esponenti di R***I sia stato commesso nell'interesse di questa. In termini conclusivi si sostiene che l'art. 5 presuppone "che la carenza organizzativa si traduca in un - effettivo e concreto - interesse o vantaggio dell'ente ... che non può risiedere nella mera constatazione dell'omessa attuazione di misure precauzionali ... Tale requisito è volto infatti a evitare che la responsabilità dell'ente, immedesimandosi con quella della persona fisica che per esso ha agito, assuma natura meramente oggettiva ...".
In secondo luogo, si censura la sentenza impugnata per la sua mancanza, contraddittorietà e palese illogicità della motivazione quanto alla esistenza del vantaggio e interesse di R***I.
Emerge dalla lettura della decisione come la società non abbia risparmiato nell'approntamento delle cautele procedimentali necessarie a prevenire l'evento del tipo di quello concretamente verificatosi; la Corte di appello, d'altronde, ha posto in evidenza un presunto risparmio del personale da adibire ai controlli documentali, la cui esistenza è stata affermata, tuttavia, in modo apodittico. È invece verosimile che il costo dell'omesso controllo fosse assorbito negli ordinari costi connessi all'attività del personale di R***I.
Altre contraddizioni si rinvengono laddove la Corte di appello ha escluso la responsabilità di FLog*** per la condotta del Ca.[MA.] e però ritenuto quella di R***I ancorché agli esponenti di questa si rimproverino le medesime omissioni; e nella disposta revoca della misura interdittiva sull'assunto della mancanza di prova della effettiva entità del profitto conseguito.
Con riferimento al profilo dell'interesse, si lamenta il difetto di motivazione laddove non vengono illustrate le ragioni per cui R***I avrebbe subito un pregiudizio dalla riduzione della velocità in termini di concorrenzialità rispetto al trasporto di merci su gomma e non considera che solo alla Stato compete fissare criteri e tariffe - nonostante essa stessa ne dia atto: pg. 686 - e che è stata dimostrazione che la riduzione di velocità avrebbe determinato un aumento del pedaggio. La Corte di appello non spiega perché una maggiore lentezza dei treni avrebbe determinato una minore convenienza di tale forma di trasporto.
Il profilo del vizio motivazionale in tema di interesse e vantaggio dell'ente viene poi sviluppato censurando le contraddizioni nelle quali sarebbe incorsa la Corte di appello laddove ha individuato le attività che sarebbero state omesse a favore dell'ente. Si sottolinea che è la Corte di appello ad evidenziare che la procedura di cabotaggio, che pure viene richiamata in relazione alla verifica del carro, ha in realtà ad oggetto la sola cisterna; e che il passaggio delle competenze all'ANSF avvenne il 16.6.2008.
La sentenza imputa a R***I di non aver rilasciato un certificato di sicurezza specifico per il carro in questione, nonostante affermi che Tre*** è stata continuativamente in possesso del certificato di sicurezza e che i certificati rilasciati da R***I non si estendevano ai carri europei conformi alle STI e al RIV. Per questo, con radicale cambio di prospettiva, la Corte di appello ha infine ascritto di non aver richiesto la documentazione sulla tracciabilità, ponendosi in contrasto, il giudice di secondo grado, con la normativa in tema di interoperabilità. La Corte di appello afferma che il controllo documentale pretesi da R***I sarebbe compatibile con le regole vigenti e con il sistema di RIV di circolazione dei carri esteri, senza considerare che si tratta di previsioni che a) stabiliscono facoltà e non obblighi (anzi affermando espressamente che non vi è norma nazionale o internazionale che stabilisca un formale obbligo di tracciabilità); b) sono indirizzate alle imprese ferroviarie e non ai gestori della rete ferroviaria. L'esponente contesta che l'obbligo in parola possa discendere, come affermato dalla Corte di appello, dalla norma tecnica europea CEI-EN 50126; sostiene che sono usati in modo illogico l'argomento della richiesta di documentazione avanzata dall'ANSF dopo l'incidente, la proposta di tracciabilità completa degli assili fatta dal MIT sempre dopo l'incidente, quanto dichiarato dal Mo.[MA.] nell'audizione al Senato del 2.7.2009.
L'esponente opera una ricognizione della legislazione eurounitaria reputata pertinente, per concludere che né l'impresa ferroviaria italiana né il gestore della infrastruttura potevano definire o imporre propri standards manutentivi diversi o ulteriori rispetto a quelli adottati dal responsabile della manutenzione e che non sussisteva alcun obbligo di controllare l'operato delle officine di manutenzione abilitate allo scopo su incarico del proprietario-detentore.
Ribadito che la norma CEI non attiene alla circolazione dei carri ma alle componenti elettriche ed elettroniche degli impianti tecnologici - e che essa non è stata citata nell'imputazione all'ente o ai suoi esponenti - la ricorrente osserva che la Corte di appello ha a tal punto sovrapposto la posizione dell'impresa ferroviaria Tre*** con quella del gestore dell'infrastruttura da non dice nulla quanto alla fonte e alla natura della responsabilità di quest'ultima. L'esponente asserisce che anche il d.lgs. n. 162/2007 non contiene norme dalle quali discenda un obbligo del gestore dell'infrastruttura di acquisire un dettagliato dossier sulla storia manutentiva dei carri marcati RIV, come già riconosciuto dal Tribunale.
Quanto alle disposizioni interne di R***I, che pure la Corte di appello ha inteso quali fonti di una posizione di garanzia, l'esponente osserva che esse possono in astratto valere allo scopo ma che nello specifico non possono svolgere tale ruolo se in contrasto con la normativa eurounitaria.
Con riferimento alla disposizione n. 13/2001, l'esponente censura l'errata interpretazione data dalla Corte di appello all'art. 4.3.1. lett. b), chiaramente relativo al materiale rotabile omologato e immatricolato presso il G.I., in ciò non contrastante con la successiva lett. c), malamente interpretata dalla Corte di appello. Ulteriori osservazioni vengono svolte a riguardo della motivazione con la quale la Corte di appello ha giustificato il richiamo alla disposizione n. 1/2003, le Norme per la verifica tecnica dei veicoli, la disposizione n. 23/2004, la procedura R***I del'8.7.2003 (relativa al cabotaggio). Con particolare riferimento a quest'ultima, viene denunciata la violazione di legge ed il travisamento della prova. Da un canto la Corte di appello ha dato una lettura di tale procedura (peraltro non citata nell'imputazione e ciò è pure motivo di doglianza) che concreta un vero e proprio travisamento della prova, poiché in nessuna parte del testo si stabilisce che in sede di richiesta di messa in servizio di carri cisterna debba essere messa a disposizione di R***I la documentazione relativa alla manutenzione svolta nei termini pretesi dalla Corte di appello. In secondo luogo, la procedura riguarda le cisterne e non i carri; la documentazione da fornire è specificamente indicata e non corrisponde a quella individuata dalla Corte di appello; anche se la procedura fosse stata applicabile la sua omissione non avrebbe avuto alcun rilievo causale perché ove acquisita non avrebbe permesso di individuare l'errore dell'attività manutentiva all'origine del sinistro. Ancora, la procedura era divenuta inapplicabile a seguito dell'instaurazione del regime RIV; sul punto la Corte di appello ha reso una motivazione - non era stata dimostrato che la procedura era stata revocata con atti formali - che non è congrua perché il tema posto era quello della sopraggiunta inapplicabilità in virtù del primato del diritto comunitario.
Con riferimento alla titolarità di competenze in materia di sicurezza, l'esponente segnala che la difesa ha sostenuto che al momento dell'omissione relativa alla tracciabilità del carro le relative competenze erano state già trasferite all'ANSF in forza dell'art. 4 d.lgs. n. 162/2004. La Corte di appello ammette che dal 16.6.2008 i controlli sulle imprese ferroviarie erano stati trasferiti all'ANSF tanto che il 12.12.2008 i connessi poteri erano stati in concreto esercitati estendendo il certificato di sicurezza rilasciato a Tre***. Ma per la Corte di appello la riduzione della velocità era ancora nella competenza di R***I mentre la verifica del dossier sicurezza e l'esecuzione della procedura di cabotaggio avrebbero dovuto essere eseguiti nel 2005, all'ingresso del carro in Italia.
In ciò si ravvisa illogicità della motivazione, giacché i giudici di merito non traggono le dovute conclusioni dal fatto che nessuna verifica venne effettuata dall' ANSF nel 2009, allorquando il carro venne reimmesso sulla R***I a seguito della manutenzione del marzo 2009. L'esponente contesta il ragionamento causale che la Corte di appello svolge osservando che il fattore che ha innescato il rischio inveratosi nell'evento non è la ammissione alla circolazione del carro nel 2005 ma la sua riammissione nel marzo 2009, posto che solo in occasione dell'intervento di Ci***Ri*** era stata montata la sala revisionata presso Ju***l. La sostituzione dell'assile ha interrotto ogni rapporto di causalità con quanto avvenuto in precedenza. Ad avviso della ricorrente, se anche R***I avesse operato un approfondito controllo sull'operato del proprietario/detentore del carro e delle ditte addette alla manutenzione, acquisendo la documentazione relativa a quella eseguita sul carro, non avrebbe comunque potuto impedire la circolazione dello stesso poiché da quella documentazione sarebbe emerso che la manutenzione era stata svolta secondo le cadenze temporali previste ma non come essa era stata fatta; il come non emergeva dalla documentazione. Da qui l'assenza di efficacia impeditiva del presunto comportamento alternativo lecito.
Sotto diverso ma contiguo profilo l'esponente osserva che l'obbligo di verifica documentale di carri trasportanti merci pericolose non era comunque finalizzato a prevenire incidenti del tipo di quello occorso a Viareggio.
Quanto all'interesse di R***I connesso all'omessa riduzione della velocità, il tema viene nuovamente affrontato ma sotto la visuale della non configurabilità in capo al gestore ferroviario di un dovere e del potere di disporre tale riduzione per tratti di rete poste in prossimità di centri abitati.
L'esponente svolge considerazioni critiche in ordine al fatto che la Corte di appello ha individuato solo ex post il limite di velocità utile a ridurre le conseguenze dello svio (e quindi ad evitare la perforazione della cisterna); essa ha creato la regola cautelare, al contempo disattendendo quanto espresso sul punto dallo stesso c.t. del p.m. Dimostrazione ne è il fatto che la stessa Corte di appello afferma che nessuna norma prevede uno specifico obbligo di riduzione di velocità ma che esso risulta suggerito da molte disposizioni normative che però mai indica specificamente, finendo per evocare una indeterminata norma prudenziale. L'esponente analizza alcune disposizioni di legge per dimostrare che la riduzione della velocità o è in funzione della capacità del mezzo e dell'infrastruttura o (RTD) costituisce una facoltà e non un obbligo, peraltro posta in capo allo Stato membro e quindi, per l'Italia, al MIT. Ciò è dovuto al fatto che una simile misura applicata ai carri trasportanti merci pericolose è essa stessa causa di un maggiore appeal del trasporto su strada, con elevazione del rischio. Sul punto la Corte di appello ha travisato la prova, omettendo di considerare gli esiti dei consessi internazionali tenutisi sul tema; ed ha omesso di motivare in merito alla richiesta di rinnovazione istruttoria sul punto del presunto vantaggio connesso a un asserito maggior sfruttamento delle tracce orarie.
Ancora con riguardo alla competenza a disporre la riduzione della velocità, l'esponente contesta come errata l'interpretazione fatta dalla Corte di appello degli artt. 24, 27 e 33 d.lgs. n. 188/2003 e richiama gli artt. 3, co. 4, 96 lett. h) d.p.r. n. 753/1980, l'art. 1.9.1. RID per sostenere la tesi che la competenza era in capo al MIT; contesta altresì l'affermazione della Corte di appello secondo la quale R***I sarebbe stata da questa indicata come autorità delegata per tutti gli adempimenti di natura e competenza tecnica. La Corte di appello erra nel dilatare oltre misura i compiti conferiti dal MIT a R***I. Anche la portata dimostrativa di talune circostanze fattuali indicate dalla Corte di appello per dimostrare la competenza di R***I è contestata dall'esponente. D'altronde, si conclude, la misura individuata dalla Corte di appello non è mai stata adottata dalle competenti autorità nazionali e sovranazionali, né prima né dopo l'incidente di Viareggio.
Nell'affermare che R***I avrebbe conseguito vantaggi consistiti in risparmi di spesa l'esponente lamenta che la Corte di appello ha omesso di considerare le prove addotte in ordine ai rilevantissimi investimenti operati dalla società al fine di garantire la sicurezza ferroviaria: 15,5 mid. di euro tra il 2002 ed il 2009 per manutenzione della infrastruttura, sistemi di controllo della circolazione e della marcia dei rotabili, sistemi per il controllo dei rotabili, diagnostica predittiva, telecomunicazioni e GSM-R, itinerari merci e soppressione dei passaggi a livello.
Non esisteva quindi una politica di impresa volta ad attuare un risparmio sui costi connessi alla sicurezza della rete e delle persone.
Inoltre, è lo Stato a determinare la misura e le specifiche voci di destinazione delle risorse per la sicurezza, dallo stesso elargite a R***I nell'ambito del contratto di programma; sicché eventuali mancati investimenti non avrebbero potuto tradursi in un risparmio di spese da parte di R***I, posto il vincolo esistente sulle somme stanziate. Sul punto la Corte di appello ha omesso ogni motivazione. L'esponente rammenta il precedente di merito che su tali basi ha escluso la responsabilità di R***I.
In subordine viene avanzata richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE in ordine alla compatibilità con la normativa eurounitaria - in particolare dell'art. 5 della dir. 1996/49/CE, degli artt. 5, 9, 10,15 e 16 della dir. 2001/16/CE, dei punti 2, 7.3, 7.4, 7.5, 7.5.1, 7.6 della decisione 2006/861/CE, degli artt. 12 e 20 della dir. 2008/57/ CE, punto 1.9 .2 RID - delle norme contenenti standard tecnici o delle norme nazionali dalle quali la Corte di Appello di Firenze o, nei limiti dell'integrazione, il Tribunale di Lucca hanno ritenuto di poter desumere in capo a R***I, quale gestore dell'infrastruttura ferroviaria, obblighi di verifica, ancorché di natura meramente documentale, sul carro sviato a Viareggio o sui suoi componenti, ovvero sulla manutenzione dei medesimi componenti, in particolare degli assili, diversi ed ulteriori da quelli previsti in sede europea, riguardanti la "tracciabilità" dei componenti del carro o delle operazioni manutentive su di essi praticate nel tempo, nonché obblighi di riduzione della velocità dei carri trasportanti merci pericolose in prossimità di centri abitati.
36.6. Con il sesto motivo si deduce l'erronea applicazione degli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231/2001 ed il vizio di motivazione, in relazione all'affermata inidoneità e alla inefficace attuazione del Modello organizzativo di gestione.
Si lamenta, in primo luogo, che la Corte di appello non abbia svolto valutazioni in merito all'assolvimento da parte dell'accusa dell'onere della prova della colpa organizzativa dell'ente, rammentando che la giurisprudenza di legittimità lo ha configurato in ragione della natura sostanzialmente sanzionatoria della responsabilità amministrativa dell'ente. Peraltro sul punto la Corte di appello è incorsa in una contraddizione, avendo assolto FLog*** e Fe***I*** proprio perché l'accusa non aveva fornito la prova della colpa di organizzazione dell'ente e disattendendo l'assunto di quella per il quale sarebbe stata la società a dover provare l'efficace attuazione di un idoneo MOG.
Si censura, quindi, che la Corte di appello abbia erroneamente sovrapposto la responsabilità della persona fisica (per mancata elaborazione di una complessiva ed unitaria valutazione dei rischi) e la responsabilità dell'ente, ricavando dalla assenza di un documento di valutazione dei rischi unitario (si rammenta che la scelta di R***I era stata nel senso di costituire datori di lavoro le unità territoriali, con redazione di autonomi e specifici DVR) la inidoneità del MOG. Si svolgono al riguardo argomentazioni volte a dimostrare come nella disciplina del decreto 231 il MOG non si identifica nel Sistema di gestione della sicurezza del lavoro definito dal d.lgs. n. 81/2008 e dalle altre disposizioni prevenzionistiche. Si osserva che la scelta da parte della società di adottare un sistema anche decentrato non può essere considerata di per sé sintomo di inidoneità del MOG, atteso che è lo stesso d.lgs. n. 81/2008 a prevedere la possibilità per il datore di lavoro di istituire strutture organizzative territoriali che, dotate di adeguati poteri, assumono la qualifica datoriale. In secondo luogo, la Corte di appello non si avvede che il documento complessivo del quale lamenta l'assenza è costituito proprio dal MOG, oltre che dal Sistema integrato di gestione della sicurezza.
La Corte distrettuale ha ignorato che dal 2003 era stato adottato il Piano Operativo Merci Pericolose, che la Corte di appello ha ridotto erroneamente in sintesi di un convegno; esso ha integrato il Piano della sicurezza di R***I del 2004 e i DVR delle singole unità produttive, trovando una sua applicazione nella disposizione n. 134 del 5.11.2004 a firma Gio.. Vi è stata quindi una errata valutazione della prova sulla adozione ed attuazione del MOG.
La Corte di appello non ha tenuto conto del fatto che il DVR ha ad oggetto il rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori laddove il MOG attiene al rischio che esponenti dell'ente commettano reati, nella specie omicidi o lesioni colpose con violazione delle norme prevenzionistiche, nell'interesse o a vantaggio dell'ente. Pertanto, il MOG attiene alle precondizioni organizzative che consentono alle persone fisiche di osservare i propri doveri. La Corte di appello, trascurando tali caratteri, ha imputato al MOG la mancata previsione di un DVR unitario.
Si lamenta, in secondo luogo, che la Corte di appello non abbia considerato che il SGSL recepito nel MOG di R***I e i manuali del SGSL della Direzione Compartimentale Infrastruttura di Firenze e delle Unità territoriali Firenze Nodo, Firenze Sud, Pisa e Livorno avevano ottenuto il certificato di conformità al British Standard OHSAS 18001:2007, e che quindi si producevano gli effetti di cui all'art. 30, co. 5 d.lgs. n. 81/2008.
Quanto al giudizio in merito alla mancata attuazione del MOG per essere l'OdV privo del requisito dell'indipendenza, in quanto il suo presidente era al contempo responsabile della funzione Audit di R***I, l'esponente osserva che il giudizio si fonda su una errata interpretazione degli artt. 6 e 7. La legge non offre indicazioni in ordine alla composizione dell'ODV ed è dunque necessario fare riferimento alle prassi e alle Linee Guida di categoria, come ritenuto da Trib. Napoli 26.6.2007.
Le Linee Guida di Confindustria del tempo e anche quelle successive indicavano la funzione di Internai Auditing come idonea a fungere da OdV; dal che discende che, a maggior ragione, l'OdV può essere integrato anche da membri dell'Audit, sempre che non svolgano compiti operativi nell'ente; il che è escluso nel caso che occupa. Quanto al rilievo operato dalla Corte di appello che l'OdV non avrebbe svolto effettivamente il compito di vigilanza, l'esponente rileva che le relazioni dell'Audit dal 2008 al 2011 documentano il contrario e che già nell'ambito di diversi procedimenti penali è stato escluso che la mancata irrogazione di sanzioni possa far ritenere inadempiuti gli obblighi di vigilanza se non è dimostrata la ricorrenza di eventi dannosi che abbiano coinvolto la società.
Infine, si rammenta che l'art. 6, co. 1 richiede che venga dimostrato dall'ente che il reato è stato commesso eludendo fraudolentemente il MOG ma che la dottrina e le linee guida di Confindustria reputano delusione fraudolenta non compatibile con il carattere colposo delle violazioni che danno luogo a responsabilità ex art. 25-septies.
Si conclude segnalando che il Tribunale di Sassari ha con sentenza 1018 del 28.6.2018, ritenuto l'idoneità del MOG di R***I in ipotesi di imputazione elevata ai sensi dell'art. 25-septies.
36.7. Con il settimo motivo si lamenta l'erroneità della motivazione n ordine al trattamento sanzionatorio per più profili:
- violazione di legge in relazione alla ritenuta applicabilità dell'art. 25-septies nel testo previsto dall'art. 9 legge n. 123/2007 invece che nel testo di cui all'art. 300 del d.lgs. n. 81/2008; violazione del divieto di reformatio in peius, non essendo stata impugnata dal P.M. la statuizione del Tribunale che fondava sull'applicazione di tale seconda norma; applicazione di una disciplina meno favorevole all'ente. Si ravvisano, sul medesimo tema, anche la manifesta illogicità della motivazione che per R***I adotta una sanzione pecuniaria fissa mentre per le società del gruppo G***x adotta la sanzione proporzionale;
- erronea applicazione dell'art. 11 d.lgs. n. 231/2001 perché la Corte di appello non distingue tra parametri che giustificano la scelta del numero delle quote da quelli che attengono all'importo di ciascuna quota. La Corte di appello ribadisce senza motivazione l'importo di ciascuna quota fissato dal Tribunale, che a sua volta non aveva reso motivazione sul punto; ha utilizzato i parametri della gravità del fatto e del grado di responsabilità che invece attengono al numero delle quote. Ha inoltre omesso di considerare circostanze che attengono specificamente alla posizione di R***I, così infliggendole un trattamento sanzionatorio sproporzionato rispetto a quello inflitto alle società estere, per le quali afferma una maggior gravità della colpa;
- è stata riconosciuta l'attenuante di cui all'art. 12, co. 2 lett. a) d.lgs. n. 231/2001, ma non è dato comprendere la misura della riduzione;
- nonostante per la stessa Corte di appello R***I non abbia ricavato alcun vantaggio o questo sia stato comunque minimo, non è stata riconosciuta l'attenuante di cui all'art. 12, co. 1 lett. a) prevista per il caso di vantaggio minimo dell'ente. Lamenta che non sia stata riconosciuta l'attenuante di cui all'art. 12, co. 2 lett. b).

37. Ricorso nell'interesse di R***I s.p.a., quale responsabile civile
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza R***I s.p.a., in qualità di responsabile civile, per atto sottoscritto dall'avv. A.M.S.. Questi i motivi.
37.1. Con il primo motivo si assume la violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla identificazione della posizione di garanzia in capo a R***I.
In particolare, si sostiene che:
- il soggetto al quale, al tempo in considerazione, spettava la valutazione del rischio correlato alla manutenzione del materiale rotabile, anche quando trasportante merci pericolose, era l'ANSF; di conseguenza sempre a tale ente spettava adottare le misure ritenute necessarie ovvero la riduzione della velocità per i convogli. Tale assunto è sostenuto dalla ricostruzione del quadro normativo, dal quale si trae che dal 16.6.2008 il controllo sulle imprese ferroviarie era stato posto in capo all'Autorità Nazionale per la Sicurezza Ferroviaria; il controllo sui rotabili era assegnato, sulla base di convenzioni internazionali, alle autorità nazionali di riferimento (EBA, essendo il treno tedesco); L'agenzia Ferroviaria Europea (ERA) è deputata a svolgere le analisi sui rischi correlati alla sicurezza della circolazione, anche delle merci pericolose; il trasporto merci pericolose è regolato a livello sovranazionale dal RID, che per l'Italia è il Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture.
Si contesta, quindi, l'affermazione della Corte di appello secondo la quale nessuna competenza fosse transitata in capo all'ANSF per le merci pericolose, anche per la sua manifesta illogicità e per la contrarietà ad alcuni documenti acquisiti al giudizio: nota ANSF 6846/09 dell'ANSF intitolata 'Misure mitigative a f breve-medio termine riguardanti il trasporto merci pericolose'; prescrizione dell'ASNF a R***I di ridurre la velocità di alcuni convogli trasportanti merci pericolose non muniti di sistema di sicurezza SCMT; rapporto annuale 2008 dell'ANSF; relazione dell'ANSF per l'anno 2007; relazione dell'ANSF per la Camera dei Deputati del 24.11.2010; resoconto dell'ERA del 7.5.2009.
Si denunciano analoghi vizi in relazione alla competenza di R***I sulla cd. tracciabilità dei terni esteri.
L'esponente premette che, rispetto alla originaria contestazione, la Corte di appello ha circoscritto l'addebito rivolto ai dipendenti R***I al fatto di aver consentito la circolazione del carro in Italia dal 2005 senza verificare la detenzione, da parte dell'impresa ferroviaria, del c.d. dossier informativo sulla manutenzione e senza eseguire la verifica sulla procedura cd. di cabotaggio. Ove fosse stata tenuta simile condotta, già dal 2005 Ca*** Che*** non avrebbe dovuto noleggiare il carro, Tre*** non avrebbe dovuto accettarne la consegna e R***I avrebbe dovuto vietarne la circolazione o disporre la riduzione della velocità.
Tuttavia, contraddittoriamente, la stessa Corte di appello dà atto che a seguito dell'incidente fu l'ANSF a chiedere la documentazione storica sul carro a Tre*** prima e poi ad Eba, senza mai rivolgersi a R***I; che fu l'ANSF ad imporre la tracciabilità di tutti gli assili e il controllo strumentale di quelli non tracciabili. È ammesso dalla stessa Corte di appello che il passaggio di consegne tra R***I e l'ANSF avvenne il 16.6.2008; inoltre l'ordinanza emessa da EBA che costituì un allarme su alcuni tipi di assili risale al 2007 e non venne notificata a R***I.
Pertanto illogicamente afferma la responsabilità di R***I perché dal 2005 al giugno 2008 non avrebbe adottato i controlli sulla tracciabilità.
Contesta, poi, che RF non fosse in possesso di alcuna informazione sul carro oltre quanto riportato sul cartiglio apposto sullo stesso; si sostiene che la marcatura RIV attesta che la complessa procedura di certificazione di costruzione, di manutenzioni periodiche prefissate e di eventuali manutenzioni correttive era stata eseguita innanzi all'EBA.
Si rinviene motivazione contraddittoria anche per quanto concerne le argomentazioni attinenti al cabotaggio; si sostiene che tale procedura è stata superata dalla direttiva n. 49/2004, per la quale non è necessario alcun provvedimento di autorizzazione di uno Stato membro. Anche la decisione europea 2006/861/CE ha confermato che i carri marcati RIV non hanno obbligo di notifica ad alcuna autorità nazionale e possono circolare liberamente sulle reti nazionali. I piani di manutenzione dei rotabili sono detenuti dalle agenzie nazionali di riferimento, nella specie l'EBA; quindi, non era ipotizzabile alcuna procedura di cabotaggio, che in ogni caso avrebbe dovuto essere attivata dall'impresa ferroviaria con richiesta al CESIFER (nell'ANSF dal 16.6.2008).
Anche per l'ingresso del carro in Italia R***I non poteva sindacarne la presenza in assenza di richiesta dell'impresa ferroviaria. Comunque la procedura in parola, che prescrive solo verifiche sul serbatoio/cisterna (come riconosciuto in sentenza alla pg. 716) non avrebbe fatto emergere la sostituzione dell'assile e l'operato non a regola d'arte di quanto descritto nel verbale di manutenzione.
La circostanza che il carro è stato riammesso in servizio nel 2009 e che, secondo la Corte, la procedura andasse rinnovata indica che il compito spettava ad ANSF e che il montaggio dell'assile il 2.3.2009 costituisce circostanza che elide la relazione causale tra evento e condotte precedenti a tale data. Si sostiene che sul carro prima del 2.3.2009 non era collocato il pezzo che si è rotto e quindi risulta irrilevante che il carro fosse in servizio già dal 2005, con altri assili. A ritenere diversamente si verificherebbe un regresso all'infinito, che pone in capo ai dirigenti di R***I una responsabilità per fatto altrui.
Violazione di legge e vizio motivazionale anche in relazione alle competenze di R***I in merito alla disciplina della velocità dei treni trasportanti merci pericolose.
In primo luogo, si censura che la Corte di appello non abbia indicato con univocità quale comportamento doveroso si sarebbe dovuto tenere, indicandone tre, non compatibili tra loro:
a) riduzione della velocità dei carri non dotati di completo documento informativo;
b) riduzione della velocità per tutti i convogli trasportanti merci pericolose durante gli attraversamenti residenziali;
c) riduzione della velocità nella sola stazione di Viareggio.
Il comportamento sub a) competeva all'ANSF, che lo ha adottato ex post e poi lo ha revocato.
Il comportamento sub b), in ragione della sezione 1.9.2. del RID (recepito con d.lgs. n. 41/1999) competeva al Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture (sin dal 2005). Secondo la Corte, poiché il MIT aveva incaricato R***I per gli adempimenti di natura e competenza tecnica e la riduzione di velocità sarebbe stata oggetto di una prescrizione, di competenza R***I, allora questa avrebbe dovuto provvedere in merito. Tali rilievi erano stati avanzati nella nota depositata all'udienza del 26.3.2019 ma la Corte di appello non l'ha presa in considerazione; si segnalava anche che le materie di cui alla sezione 1.9 non sono mai state oggetto di delega al gestore dell'infrastruttura, essendo peraltro oggetto di una procedura che prevede l'intervento del legislatore nazionale, la preventiva notifica al Segretario generale dell'OTIF e la delimitazione a merci pericolose determinate.
Nessun provvedimento risulta adottato in ambito europeo con riferimento al GPL; due provvedimenti attengono al cloro e sono stati emanati dalle autorità politiche in Olanda e Svizzera.
La Corte di appello ha citato un documento ERA del 7.5.2009 nel quale si suggerisce la riduzione della velocità; ma tale raccomandazione si rivolge agli Stati membri. In conclusione, non si tratta di un adempimento tecnico ma di una scelta politica, in quanto connessa ad altri interessi da considerare.
Quanto alla terza ipotesi, ove la Corte di appello abbia effettivamente ritenuto di ascrivere che non fosse stata disposta la riduzione della velocitò ella stazione di Viareggio, si rileva che le circostanze indicate dalla sentenza per significare la competenza di R***I risultano in contraddizione con l'assunto della Corte, posto che i citati provvedimenti di riduzione della velocità in due tratte sono stati adottati su prescrizione dell'ANSF e dopo il sinistro di Viareggio. Il provvedimento del 3.9.2009 adottato per la stazione di Viareggio viene citato senza che si riesca ad indicare per quale ragione dovesse esserlo (essendolo stato non per adempimento doveroso ma per andare incontro alla richiesta del Sindaco di Viareggio). Si rimarca che R***I ha la competenza a ridurre la velocità in presenza di specifiche situazioni ma deve trattarsi di provvedimenti diversi da quelli previsti dalla sezione 1.9 del RID.
L'affermazione che sin dal 2005 si sarebbe dovuto imporre a quel convoglio (specifico) di non superare i 60 km/h contrasta con l'impossibilità giuridica di farlo, alla stregua della citata normativa RID.
37.2. Violazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. e omessa motivazione in ordine al primo e al motivo II.1 dell'atto di appello.
Si espone che con l'appello era stata censurata la contraddittorietà della sentenza di primo grado rilevata laddove da un canto rimprovera a R***I di non aver tenuto conto che gli standard qualitativi e le prassi manutentive di altri paesi non erano affidabili quanto quelli richiesti dall'Italia e dall'altro di aver fondato la condanna dei dipendenti Ju***l non per aver errato nella scelta della procedura o della prassi manutentiva, ma per un errore nella esecuzione.
L'accertamento deponeva per la valenza impeditiva di una corretta esecuzione della procedura UT; ma questo non era avvenuto. Sicché non assume rilievo causale quanto era stato rimproverato a R***I. Analoghi rilievi erano stati avanzati con riguardo alla ritenuta mancanza presso Tre*** del dossier di manutenzione e della mancanza di censura sul punto da parte di R***I. In esso non avrebbe mai potuto essere registrato l'errore di esecuzione. Questi rilievi incidevano sulla correttezza del giudizio controfattuale operato dal Tribunale. Essi non hanno avuto alcuna risposta nella sentenza impugnata, pur venendo ribadito il decisivo errore umano dell'operaio Ju***l. La sentenza non spiega come qualcuno all'interno di R***I avrebbe potuto accorgersi della errata manutenzione ove presente il dossier informativo.
Per quanto concerne la procedura di cabotaggio, assume l'esponente che la sentenza la confonde con la verifica effettuata dal Bai. il 19.2.2009. Ma le verifiche RID riguardano la sovrastruttura e non la sottostruttura del carro, come riconosciuto anche dalla sentenza. In ogni caso la verifica più approfondita venne eseguita il 19.2.2009. In sostanza, quand'anche acquisiti i documenti, da essi sarebbe risultato soltanto che tutti i controlli erano stati eseguiti, non potendo il soggetto italiano andare oltre il dato documentale.
Il giudizio controfattuale è errato anche per ciò che attiene al profilo della riduzione della velocità.
In primo luogo, l'esponente osserva, anticipando una argomentazione più diffusamente esplicata in prosieguo che la Corte di appello, sulla scorta della consulenza del prof. Ton., muove dal particolare - "a quale velocità si sarebbe evitato il ribaltamento del treno?" - per risalire alla regola cautelare che assume violata.
L'individuazione della velocità avente valenza impeditiva è stata fatta sulla base della conoscenza delle circostanze di fatto concrete, conosciute ex post il punto dove il treno è sviato, il punto dove era collocato l’assile criccato. Mutando tali dati la velocità in grado di evitare il sinistro sarebbe stata calcolata in una diversa misura. In questo modo però la Corte di appello ha confuso il giudizio controfattuale con la fonte della regola cautelare.
Nel fare ciò la Corte di appello ha ritenuto attendibili i consulenti Ton. ed Orsi. perché ciò era funzionale alla individuazione ex post della regola cautelare. Ma tale giudizio di attendibilità non è coerente con l'insegnamento del giudice di legittimità perché non fondato su una valutazione dei contributi esperti alla luce di un criterio esterno, bensì fondato sull'assunto che i consulenti della difesa non avevano eseguito verifiche della velocità - invece eseguita dal prof. Ton. e dall'Orsi. come a dire che il metodo corretto di accertamento era quello utilizzato da questi ultimi ed essendo diverso quello dei cc.tt. della difesa essi non sono attendibili.
37.3. Vizio della motivazione e violazione dell'art. 43 cod. pen. sono denunciati con il terzo motivo. La Corte di appello ha ritenuto che l'omessa valutazione del rischio sulla scorta di una serie di precedenti sinistri, che avrebbero reso consapevoli del rischio, che tuttavia non sono omologhi a quello di Viareggio - nonostante la diversa affermazione della Corte - perché verificatisi per lo più negli Stati Uniti d'America, ovvero in un sistema di trasporto ferroviario molto diverso da quello europeo; per ragioni attinenti alle infrastrutture e non al materiale viaggiante; per fattori già considerati e fronteggiati dal sistema ferroviario europeo ed italiano. Lo stato delle conoscenze all'anno 2009 è esplicitato dal rapporto Era del 7.5.2009; significativamente diverso da quello espresso dal rapporto del 2011, che teneva conto del sinistro di Viareggio. Gli stessi incidenti verificatisi ad Albate Camerlata e a Firenze Castello, fecero ipotizzare responsabilità di dipendenti Tre*** solo dopo che le competenze passarono all'ANSF, mentre alcuna responsabilità venne mai ipotizzata a carico del gestore.
L'esponente lamenta che la Corte di appello, nel ritenere che R***I non avesse effettuato una corretta analisi del rischio per il trasporto di merci pericolose, non abbia preso in considerazione e reso motivazione sulla circostanza segnalata nell'atto di appello, dell'aver R***I commissionato nel 2002 uno studio ad esperti di tre università italiana, sulla base del quale vennero assunte misure di prevenzione. Ma la Corte sembra rimproverare di non aver valutato il rischio indotto da uno svio, ovvero le conseguenze di uno svio.
Orbene, per poter affermare che un'attività non è fatta a regola d'arte occorre individuare le regole dell'arte; la Corte afferma che sarebbe stato necessario uno studio scientifico; ma questo venne fatto; inoltre non esistevano conoscenze scientifiche che permettessero di individuare il rischio, come ammesso dallo stesso prof. Ton. laddove ha asserito che non esistono modelli fisico-matematici capaci di simulare con la necessaria affidabilità il comportamento di un treno o di una parte di esso dopo lo svio. E la Corte non ha risposto al rilievo secondo il quale la definizione del rischio consentito spetta solo all'autorità politica e non al gestore della infrastruttura, come attestato dal RID che assegna questa competenza al MIT.
In ogni caso, non esistevano conoscenze relative al rischio in questione maggiori ed ulteriori rispetto a quelle individuate da R***I attraverso lo studio del 2002, attestato sulle migliori conoscenze del tempo. La Corte non ha spiegato perché non ha ritenuto che questo studio fosse una valutazione del rischio; nonostante ancor oggi non vi sia uno strumento scientifico valido per valutare la correttezza di un'analisi e accettazione del rischio nella circolazione ferroviaria, come dimostrato dal fatto che solo nel 2018 l'ANSF ha costituito un gruppo di lavoro per la definizione di una metodologia per la valutazione ed accettazione del rischio nelle ferrovie.
Inoltre, la sentenza persiste nell'errore di confondere l'analisi del rischio in parola con il documento di valutazione dei rischi di cui al TU d.lgs. n. 81/2008. Invero l'art. 221, co. 3 di esso fa salve le disposizioni del d.lgs. n. 41/1999; proprio perché la verifica del rischio connesso al trasporto di merci pericolose è fatta dal RID. I singoli DVR vengono effettuati per tratta dai responsabili delle singole unità produttive e attengono alla sicurezza dei lavoratori.
Stante la previsione normativa del d.lgs. n. 162/2007, per la quale ciascun operatore è responsabile della propria parte, la Corte distrettuale ha errato nel pretendere da ciascuno la verifica della manutenzione ed ha negato l'affidamento che correttamente ciascun operatore riponeva nel rispetto altrui delle regole comunitarie.
Viene dedotta l'errata applicazione dell'art. 43 cod. pen. e il vizio della motivazione anche in relazione all'applicazione del principio di affidamento.
Alla Corte di appello si contesta di aver erroneamente interpretato il quadro normativo ed in particolare la disposizione dell'articolo 8 del decreto legislativo 162 del 2007 nella parte in cui prevede che ciascun operatore è responsabile nell'ambito del settore ferroviario per la propria parte di sistema. Ad avviso dell'esponente la Corte, lungi dal dare il corretto significato a tale previsione, ha reso ciascun operatore responsabile del tutto, mentre il sistema di interoperabilità affida il controllo sui requisiti del carro al relativo proprietario con validità in tutto il territorio europeo; in altri termini la Corte di appello postula un principio di non affidamento richiedendo che la verifica sulla manutenzione venga ribadita, dopo il proprietario, dal detentore, dal noleggiatore del carro, dall'impresa ferroviaria e, da ultimo, persino dal gestore d'infrastruttura. Per contro, quest’ultimo poteva correttamente fare affidamento sul rispetto da parte dei diversi operatori delle regole comunitarie. D'altronde, non vi è norma di riferimento cui possa ancorarsi la colpa del gestore dell'infrastruttura per la cattiva manutenzione fatta in ipotesi del proprietario del carro estero. Lo riconosce la stessa sentenza, laddove afferma che non esiste una esplicita norma internazionale o nazionale che stabilisca un formale obbligo di tracciabilità dei componenti rotabili rilevanti per la sicurezza ferroviaria; tanto che essa deve fare riferimento alla norma tecnica CEI 50126, che però non si applica ai componenti del materiale rotabile. Va inoltre considerato che il controllo sulla manutenzione del carro spettava a EBA, in Germania, e che il controllo sulle imprese ferroviarie era passato all'Autorità nazionale sulla sicurezza ferroviaria dal 16 giugno 2008. La Corte di appello richiama come fonte del dovere in capo al gestore dell'infrastruttura la disposizione numero 13/2001 che imponeva controlli informativi alle imprese ferroviarie e che secondo la Corte si estenderebbe anche ai rotabili esteri; la disposizione 1/2003 e la 23/2004. In tal modo essa oppone alle direttive comunitarie e alle legislazioni nazionali delle disposizioni emanate dall'ente gestore antecedentemente alla adozione della normativa comunitaria. Implicitamente la Corte imputa al gestore di aver omesso di disapplicare la normativa comunitaria sulla base di previgenti disposizioni regolamentari. Il medesimo rilievo concerne la procedura di capo cabotaggio, che per l'esponente risulta superata dalla direttiva 49 del 2004. Più analiticamente, si osserva che la procedura 13/2001 è stata ritenuta applicabile anche i carri esteri sulla scorta di una motivazione contraddittoria e che è la stessa Corte di appello a riconoscere che questa procedura era stata dettata solo per il materiale rotabile omologato e immatricolato presso il gestore dell'infrastruttura, come emerge dall'articolo 4.3.1 lettera B. L'interpretazione correttiva che la Corte d'appello cerca di fornire guardando alla successiva lettera c) è in realtà una vera e propria riscrittura della disposizione, che si pone in contrasto con il tenore letterale e con le regole comunitarie in tema di interoperabilità, che prevedono che un carro mercato RIV non può essere sottoposto a controlli ulteriori rispetto a quelli relativi alla verifica delle informazioni contenute nel cartiglio di manutenzione. Quanto alla procedura 1/2003, ad avviso dell'esponente il suo richiamo evidenzia soprattutto che l'articolo 5 abroga la procedura operativa del 20 novembre 2000 che prevedeva la tenuta da parte di Cesifer di un registro dei rotabili circolanti in Italia, inclusi anche quelli esteri ammessi a circolare. Pertanto, è la deduzione che ne ricava l'esponente, nel 2005 il gestore dell'infrastruttura non disponeva di alcun registro dal quale potesse essere ricavata la circolazione del carro estero sulla rete italiana, così da fondare un obbligo di vigilanza anche sul suo status manutentivo. Con riferimento poi alla procedura 23/2004, si sostiene che questa si rivolge esclusivamente ai rotabili immatricolati in Italia. E quanto alla procedura di cabotaggio si rileva che nessuna parte di detta procedura stabilisce che in sede di richiesta di messa in servizio di carri cisterna debba essere messa a disposizione del gestore dell'infrastruttura la documentazione relativa alla manutenzione svolta. Si rileva che la Corte di Appello ha escluso l'incompatibilità di detta procedura con il regime di interoperabilità sul presupposto che la tesi difensiva non è dimostrata perché non vi sono atti formali che abrogano detta procedura. Ma pochi passi dopo la stessa Corte riconosce che in virtù del primato del diritto comunitario la procedura in esame non potesse trovare attuazione nella parte in cui prevedeva la facoltà del gestore della rete di sottoporre i carri ad una visita tecnica a cura del Cesifer. In conclusione, nessun obbligo era previsto in capo a R***I di procedere a una verifica puntuale ancorché di natura solo documentale sulla correttezza della manutenzione effettuata sul carro.
Si svolgono poi alcuni rilievi a riguardo del rinvenuto obbligo di riduzione della velocità, la maggior parte dei quali si indirizzano all'individuazione di una regola cautelare che prescrivesse di riduzione la velocità di transito all'interno della stazione di Viareggio a 60 km/h: si assume che una simile regola è stata creata ex post dalla Corte di appello, la quale non ha svolto alcun accertamento in ordine all'esistenza di un accreditato sapere scientifico e tecnologico conducente a tale prescrizione; che si è richiesta una diminuzione del rischio, pendant della tesi dell'aumento del rischio; che si è omesso di considerare che in atti vi è la prova che grandi incidenti si sono verificati anche a velocità minori. La valorizzazione di una colpa generica (ovvero il ricavare la l'obbligo di riduzione della velocità da regole di ordinaria diligenza, prudenza ed imperizia: n.d.r.) viene contestata sotto il profilo della mancata considerazione che il rischio consentito è definito normativamente a livello internazionale dall'ERA e dall'OTIF per mezzo del RID e a livello nazionale dal MIT. Non vi è, assumono gli esponenti, un criterio di accettazione di rischio comune in merito agli incidenti più gravi che coinvolgono merci pericolose né a livello internazionale né al livello nazionale. Tanto che anche dopo l'incidente tale misura non è stata né prescritta né adottata, se non per alcuni convogli sui quali erano montati assili dello stesso tipo di quello fratturato; provvedimento che dopo la regolarizzazione della tracciabilità è stato revocato
37.4. Con il quarto motivo ci si duole della mancata assunzione di prova decisiva rappresentato dalla testimonianza del professor Mala.. La decisività di questa deposizione è dimostrata dalle ragioni della condanna, ovvero la mancanza di una valutazione dei rischi attinenti il trasporto di merci pericolose, che per la Corte di appello, qualora eseguita, avrebbe indotto a limitare la velocità del treno a 60 km/h. Il professor Mala. avrebbe riferito sul concetto di 'limite di rischio accettabile' e sui criteri per la valutazione del rischio. Anche in considerazione del fatto che la Corte di Appello ha fondato la condanna su ipotesi di colpa generica, sarebbe stato necessario acquisire informazioni sulla esistenza di un accreditato sapere scientifico e tecnologico, anche per sottrarre la Corte dal rischio di creare la regola cautelare. Nel caso di specie non si tratta di introdurre un elemento di prova che va posto a confronto con altri elementi di prova concernenti il medesimo tema ma piuttosto di introdurre un elemento di prova che risulta unico rispetto al tema della esistenza di una regola sulla velocità del convoglio prima del verificarsi del sinistro. Per questo la testimonianza del Mala. risulta decisiva e quindi erronea la sentenza nella parte in cui ha rigettato la richiesta di rinnovazione dell1 istruttoria dibattimentale in appello.
37.5. Con il quinto motivo si denuncia la violazione della legge sostanziale per aver la Corte di appello riconosciuto la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. L'erroneità è dimostrata dal fatto che la Corte di appello non è riuscita ad individuare alcuna norma avente funzione prevenzionistica dalla cui violazione fosse derivato l'evento. Tale non è l'art. 18, lett. q) TUSL. D'altronde, la sentenza non spiega quale sia l'attività lavorativa di R***I che venga in gioco; riferisce indebitamente a R***I l'art. 2087 c.c., che presuppone un rapporto di lavoro; sostiene erroneamente che si è trattato di una unica attività, con ineliminabile natura lavorativa, per cui anche l'obbligo cautelare non può che essere unico. Gli esponenti rimarcano, per contro, che vanno distinte le norme a tutela della circolazione ferroviaria e quelle a tutela dei lavoratori, come d'altronde fa la stessa Corte di appello quando rammenta che il Sistema Integrato di Gestione della Sicurezza di R***I nacque come volto alla sola sicurezza della circolazione e venne poi integrati con la sicurezza del lavoro.
Altra violazione di legge viene rinvenuta laddove la Corte di appello non ha considerato la necessità di un'autonoma disciplina del trasporto ferroviario.
Si chiede quindi di escludere la responsabilità civile di R***I.
37.6. Con il sesto motivo si denuncia la violazione degli artt. 74, 91 cod. proc. pen., 185 cod. pen., 1226, 2056 e 2059 c.c. e 2 Cost, nonché il vizio della motivazione, in relazione alla ammissione della costituzione di parte civile degli enti esponenziali e degli enti territoriali.
Quanto ai primi si lamenta che la costituzione sia stata ammessa nonostante la non ricorrenza delle condizioni alle quali la giurisprudenza di legittimità subordina l'ammissibilità. In particolare, quanto alle organizzazioni sindacali, si è determinata la violazione dell'art. 61 d.lgs. n. 81/2008, perché sulla base di esso si è ritenuto che la legittimazione delle stesse possa derivare sic et simplicter dall'essersi verificato un infortunio sul lavoro. Si osserva che nessun lavoratore si è costituito in giudizio, mancando quindi quella lesione che deve conseguire in via diretta ed immediata dallo specifico fatto di reato. La Corte di appello ha fatto perno sul danno all'immagine e sulla lesione dell'interesse alla salute dei lavoratori. Ma il danno all'immagine che si è detto derivato dall'impatto mediatico dell'accadimento non è quindi derivato dall'evento tipico. Quanto alla lesione dell'interesse dei lavoratori, poiché essa si è ritenuto consistere nel pericolo al quale essi erano stati esposti durante il tempo delle corse del carro lungo la tratta, la Corte di appello è incorsa nell'errore giuridico di condannare al risarcimento del danno in ordine ad un mero pericolo, in assenza di una lesione concreta subita dal lavoratore.
Del tutto irragionevole è l'affermazione secondo la quale la condotta degli imputati di R***I abbia determinato nella collettività e negli aderenti alle associazioni l'idea di una scarsa efficienza ed utilità di queste.
Per ciò che concerne la legittimazione attiva di Codacons onlus e di Cittadinanzattiva onlus, si lamenta che essa sia stata ritenuta pur in assenza di un effettivo collegamento tra l'interesse statutario di esse e i reati accertati. Quella legittimazione, che non può derivare dalla sola iscrizione dell'apposito elenco ministeriale, deve essere commisurata agli atti che siano idonei a interferire con specificità ed immediatezza sulla posizione dei consumatori e degli utenti.
In relazione a Medicina Democratica, si rileva che erroneamente sono stati richiamati argomenti che sono valsi a fondare la legittimazione attiva nella vicenda Thyssenkrupp posto che nella vicenda che occupa non risulta che MD abbia operato in concreto ma ha rivendicato un'attività assolutamente generica di tutela della salute dei lavoratori.
Quanto all'Associazione 'Comitato Matteo Valenti', gli esponenti contestano la decisione in ragione del fatto che essa venne costituita solo dopo l'accaduto e per difetto di rappresentatività e di concreta attuazione dello scopo statutario.
Per gli enti territoriali si espongono le pertinenti statuizioni della Corte di appello e si rileva in chiave critica solo che contraddittoriamente la stessa ha affermato la legittimazione delle organizzazioni sindacali in ragione dell'essersi verificato un infortunio sul lavoro e per gli enti territoriali che non si è trattato di un infortunio sul lavoro.
37.7. Dopo che ci si era doluti che il Tribunale avesse liquidato i danni in via equitativa a talune parti civili in assenza della prova di danno derivato loro dal reato e di indicazione dei criteri di liquidazione, la Corte di appello ha reso motivazione sull'an debeatur ma non sui criteri adottati per la quantificazione del risarcimento.
Si contesta poi che la Corte di appello possa legittimamente disporre il rinvio al giudice civile alla determinazione dell'ammontare dei danni non patrimoniali patiti dal Comune di Viareggio in presenza di una pattuizione tra le parti avente tale oggetto.
Infine si chiede che il ricorso venga rimesso alle SU per le numerose questioni di particolare importanza che esso pone e segnatamente per la questione della disapplicazione delle norme sovranazionali preteso dal ritenuto comportamento alternativo lecito; per la questione del regresso all'infinito nell'interpretazione dell'art. 41 cod. pen.; per la questione della configurabilità di un infortunio sul lavoro anche quando l'evento lesivo - realizzatosi a carico di terzi legittimamente presenti - si verifichi fuori dal luogo di lavoro.

38. Ricorso nell'interesse di Fe***I*** S.P.A., responsabile civile
Fe***I*** s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, avv. V.A.D.A., quale responsabile civile, articolando i seguenti motivi:
38.1. Il primo motivo attiene alla ritenuta posizione di garanzia del Mo.[MA.] quale amministratore delegato di Holding Fe***I*** s.p.a.; la relativa motivazione viene censurata per essere carente, contraddittoria e manifestamente illogica nonché perché emittente la valutazione di prove decisive e viziata dal travisamento di dati probatori. Si lamenta, altresì la violazione dell'art. 40 cod. pen. e dell'art. 603, co. 3-bis cod. proc. pen. L'articolazione delle censure coincide quasi integralmente, e comunque sostanzialmente, con quella del quinto motivo del ricorso del Mo.[MA.] a firma dell'avv. D.A..
38.2. Il secondo motivo lamenta l'inosservanza dell'art. 43 cod. pen. e al vizio della motivazione, con riferimento alle regole cautelari che la Corte di appello ha individuato come di doverosa osservanza da parte del Mo.[MA.] e da questi disattese; si fa riferimento all1 addebito mosso in punto di tracciabilità dell'assile.
L'articolazione delle censure coincide sostanzialmente, con qualche variamente stilistica, a quella del primo motivo del ricorso del Mo.[MA.] a firma dell'avv. D.A..
38.3. Il terzo motivo denuncia i medesimi vizi in relazione alla seconda delle regole cautelari che la Corte di appello ha individuato come di doverosa osservanza da parte del ricorrente, nella qualità. L'esponente rammenta che al Mo.[MA.] è stato rimproverato di aver eseguito una valutazione del rischio incompleta perché limitata all'ambiente di lavoro ferroviario, senza esame delle sue implicazioni sull'esterno; pertanto di non aver individuato ed adottato la misura di prevenzione (degli effetti catastrofici derivanti dal deragliamento) costituita dalla limitazione della velocità in rapporto a circostanze specifiche connesse al tipo di trasporto effettuato, alla linea o tratta ferroviaria percorsa. In particolare, nello scalo di Viareggio la velocità adeguata (a mitigare le conseguenze di un deragliamento) era di sessanta km/h.
L'articolazione delle censure coincide sostanzialmente con quella del secondo motivo del ricorso del Mo.[MA.] a firma dell'avv. D.A..
38.4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione degli artt. 74 cod. proc. pen. e 185 cod. pen., in relazione alla ritenuta legittimazione attiva di UGL-UTL Trasporti Provincia di Lucca, UGL Trasporti Regione Toscana, FILT CGIL Lucca, CGIL Lucca, CGIL Toscana, CGIL Nazionale, ORSA Ferrovie Segreteria Nazionale, ORSA Regionale, ORSA Provinciale, Federazione Nazionale Cub Trasporti, D.A.D. (RLS), G.M.o (RLS), C.F. (RLS), C.V. (RLS), P.G. (RLS), P.A. (RLS), Dopolavoro Ferroviario, Codacons Onlus, Cittadinanzattiva Onlus, Medicina Democratica, Associazione "Comitato Matteo Valenti".
L'esponente rammenta i principi posti dalle Sezioni Unite a riguardo delle condizioni in presenza delle quali è possibile riconoscere la legittimazione attiva degli enti esponenziali; principi ai quali, osserva l'esponente, la Corte di Appello ha dichiarato di volersi attenere ma che in sede di applicazione ha disatteso. In particolare, con riferimento a Medicina democratica, la Corte d’appello ha osservato che l’associazione avrebbe comunque dimostrato lo svolgimento della propria attività anche in quel territorio e nell'ambiente lavorativo specifico e che di tanto avrebbero dato prova le testimonianze Anto., Pez., Men. e Ner.. Ad avviso dell'esponente, tuttavia, dalla lettura delle trascrizioni dibattimentali emerge che l’attività evocata si è limitata all'organizzazione di convegni e dibattiti, per di più successivi al disastro.
Quanto a Cittadinanzattiva Onlus e Codacons Onlus, la Corte d'appello ha omesso l'indicazione di un qualsiasi dato capace di collegare le iniziative dei due r» enti al territorio e alla locale realtà aziendale; mentre per Dopolavoro Ferroviari le finalità di tutela della salute dei lavoratori appartenenti al mondo ferroviario ' espresse nel suo statuto sono state affermate ma non fattualmente dimostrate, non essendo dimostrativo del loro concreto perseguimento il fatto che i relativi «locali ospitavano anche la mensa per i ferrovieri e la mera asserzione che molti soci si sarebbero allontanati dopo l'evento del 29 giugno 2009. Con riguardo all’Associazione "Comitato Matteo Valenti" si osserva criticamente che essa è stata costituita dopo il sinistro e annovera solo dodici soci. L'affermazione della Corte di appello secondo la quale l'Associazione "Comitato Matteo Valenti" sarebbe sviluppo del comitato omonimo sorto nel 2005è insufficiente perché la giurisprudenza richiede che l'originario comitato abbia svolto concreta attività di attuazione dello scopo programmato attraverso l'utilizzazione di beni a tal fine destinati e vincolati. Attività della quale non è stata fornita prova. Carente anche la motivazione in merito al requisito della rappresentatività.
Per ciò che concerne le organizzazioni sindacali, i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza e gli enti che hanno radicato la domanda risarcitoria sul presupposto che gli eventi contestati si sarebbero verificati per violazioni alla normativa antinfortunistica, l'esponente lamenta l'erronea applicazione della legge, illustrando le ragioni per le quali a suo avviso nel caso che occupa non può ritenersi integrata la circostanza aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. In particolare, osserva che per integrare la trasgressione di una disposizione per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, deve trattarsi della violazione di una disciplina pensata e posta per tutelare innanzitutto chi è impegnato a svolgere quell'attività dai pericoli implicati dal suo svolgimento, ossia i lavoratori. Ove ciò ricorra l'aggravante va riconosciuta ricorre anche se, in concreto, l'evento lesivo colpisca terzi o la collettività intera, oppure si materializzi spazialmente al di fuori del luogo di lavoro.
Nel caso che occupa sono state violate norme sulla sicurezza della circolazione ferroviaria.
38.5. Violazione di legge per aver la Corte di appello disposto la condanna del Mo.[MA.], quale amministratore delegato di Fe***I*** S.p.A., al risarcimento dei danni in favore di A.K., H.F., N.W.L.E., P.A., P.M. in proprio e quale genitore di P.L., P.R., P.D., O.A., R.R., R.S., P.M., O.V.M., P.C., P.F., S.C., Comune di Viareggio, Codacons Onlus, Associazione "Comitato Matteo Valenti", Medicina Democratica, Cittadinanzattiva Onlus, FILT CGIL Lucca, CGIL Lucca, CGIL Toscana, CGIL Nazionale, Federazione Nazionale Cub Trasporti, Regione Toscana, UGL-UTL Trasporti Provincia di Lucca, UGL Trasporti Regione Toscana, nonostante tali parti civili non avessero proposto appello avverso la sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti dell'imputato nella qualità.
L'esponente rammenta l'evoluzione della giurisprudenza di legittimità sul tema e argomenta a favore della interpretazione sostenuta da SU Loparco (1998), ovvero della necessità dell'appello della parte civile ai fini della condanna al risarcimento dei danni.

39. Il ricorso del Procuratore Generale della Corte di appello di Firenze
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Firenze.
39.1. Con i primi sei motivi ha esposto doglianze indirizzate alla assoluzione pronunciata nei confronti di CO.GI. e D.M.G., sostanzialmente coincidenti con quelle argomentate dall'avv. M. per i ricorrenti Comune di Viareggio e signori P., ai quali ha fatto ripetutamente rinvio.
In sintesi, dopo aver posto in evidenza quanto esposto dal Tribunale per sostenere l'assunto secondo il quale allorquando, con la redazione del verbale n. 1 del 6-10.6.2008, furono trasferite all'ANSF alcune competenze già in capo al gestore di rete, lamenta che la Corte di appello abbia ritenuto diversamente - ovvero che il Co.[GI], quale responsabile della Direzione Tecnica di R***I, fosse stato privato della competenza ad emettere o revocare il certificato di sicurezza e ad eseguire o verificare l'esecuzione della procedura di cabotaggio - senza considerare che il d.lgs. n. 162/2007 aveva previsto una norma transitoria, contenuta nell'art. 27, per la quale nelle more del trasferimento delle competenze rimaneva fermo il preesistente quadro giuridico. Il ricorrente censura, quindi, l'erronea interpretazione fatta dalla Corte di appello dell'art. 27 cit. Con riferimento al medesimo tema di prova il ricorrente lamenta anche il vizio della motivazione, evocando al riguardo la deposizione del teste Chiov., nella parte in cui questi ha affermato che non vi era stato alcun trasferimento di funzioni quanto al trasporto ferroviario di merci pericolose.
Contenuto nel motivo indicato come III, vi è in primo luogo il rilievo critico che imputa alla Corte di appello di aver erroneamente limitato l'obbligo di riduzione della velocità ai soli treni integralmente sforniti di tracciabilità; quindi la doglianza per aver la Corte di appello ritenuto inesigibile dal Co.[GI] il comportamento doveroso perché alla data del sinistro egli era titolare della Direzione tecnica da poco più di un anno e ciò perché l'imputato in parola era dotato di elevatissima competenza specifica. Sicché la motivazione impugnata sarebbe carente, insufficiente e comunque contraddittoria, posto che la stessa Corte di appello rileva che la assenza di controlli sui carri esteri trasportanti merci pericolose costituiva effetto di una "radicata prassi aziendale". Il Co.[GI] era in possesso di tutti i mezzi per venire a conoscenza di tale prassi e della presenza sulla rete di quei carri.
Pertanto egli avrebbe dovuto adottare tutte le cautele necessarie, compresa la riduzione della velocitò dei convogli costituiti da tali carri.
Con riferimento alla posizione del D.M.[G.], il ricorrente censura la valutazione della Corte di appello della insufficienza del periodo durante il quale egli ricoprì la carica (fu responsabile della Direzione Tecnica per poco più di un anno prima di avvicendarsi con il Co.[GI]), tanto più perché essa considera incidente l'assenza di occasioni di attenzione verso il settore del trasporto di merci pericolose (segnali di allarme et similia). Il ricorrente evidenzia, al riguardo, la funzione di prevenzione e non di riparazione del danno delle norme poste a presidio della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Anche al D.M.[G.] era nota la casistica degli incidenti citata dai giudici di merito, fermo restando che un segnale di allarme è la stessa circolazione di carri che trasportano merci pericolose; ciò imponeva al D.M.[G.] di disporre la riduzione della velocità degli stessi.
Quanto al fatto che, secondo la Corte di appello, il D.M.[G.] non può essere ritenuto responsabile della mancata adozione della misura della tracciabilità perché ciò costituiva esito di decisioni adottate dai vertici aziendali, il ricorrente osserva che il D.M.[G.] avrebbe potuto opporre una propria contraria interpretazione delle disposizioni pertinenti, poiché ciò gli era consentito dal ruolo ricoperto. È errato ritenere, come fatto dalla Corte di appello, che il suo cessare il servizio prima del verificarsi del sinistro a Viareggio possa escluderne la responsabilità.
39.2. Con il settimo motivo ha dedotto la violazione di legge ed il vizio motivazionale nella parte in cui la sentenza impugnata esclude la responsabilità del Co.[GI], del D.M.[G.], del Fu.[AL.], del Ma.[GI.] e del Ma.[EN.] ed uno dei profili di colpa contestati al Ca.[MA.], al So.[VI.], al Ma.[EM.] e al Fa.[FR.], per l'omessa adozione del detettore di svio. La Corte di appello ha ritenuto che l'ammissione alla circolazione solo di carri muniti del dispositivo fosse opportuna ma non doverosa stante la persistente incertezza in merito agli effetti dell'uso dello stesso; e che le condotte a quella alternative, come l'annullamento dei contratti in essere con FLog*** o la sostituzione di tutti i carri circolanti privi del dispositivo con altri che ne fossero muniti non era esigibile.
Ad avviso del ricorrente, l'adozione del detettore di svio è misura doverosa perché lo svio è un pericolo destinato a concretizzarsi, la cui utilità era stata riconosciuta in Svizzera e in Germania. Tre*** avrebbe dovuto adottarlo nella sua veste di datore di lavoro; l'adempimento è esigibile perché, come prospettato dal Tribunale ma non fatto dalla Corte di appello, sarebbe stato possibile distinguere nella totalità dei carri viaggianti quelli per i quali la misura era una necessità prioritaria.
Il ricorrente afferma che, stante la sicura efficacia precauzionale del dispositivo, non si comprende in che modo le limitate esperienze applicative che lo hanno avuto ad oggetto possano escludere l'obbligo della sua adozione e quindi l'obbligo di annullare o modificare i contratti in essere con FLog***. Ove la concreta adottabilità del dispositivo fosse resa problematica dalla lunghezza dei tempi necessari, si sarebbe potuto limitare il ricorso ai detettori di svio ai carri trasportanti merci pericolose e a singoli percorsi (e pertanto è manifestamente illogico quanto affermato dalla Corte di appello in tema di inesigibilità della condotta attesa). Ai fini della messa in opera di misure cautelari non è necessario attendere riconoscimenti ufficiali della loro efficacia ove vi sia consapevolezza di tale efficacia.
In conclusione, la sentenza impugnata fornisce una lettura errata degli obblighi gravanti sui titolari di posizioni di garanzia nell'ambito lavorativo, nella misura in cui non ricollega alla consapevolezza dell'efficacia della misura disponibile un dovere di attivarsi per l'utilizzo della stessa, ipotizzandosi la necessità di riconoscimento ufficiale da parte di organismi internazionali. La manifesta illogicità della motivazione è ravvisata laddove non si considera la determinante rilevanza della accertata idoneità del detettore di svio e della consapevolezza di tale idoneità. Nonché laddove l'inesigibilità della condotta alternativa viene dedotta da una proiezione di essa sulla totalità dei carri circolanti, mentre si sarebbe dovuto tener conto delle sole situazioni di maggiore pericolosità.

40. Ricorso delle parti civili patrocinante dagli avv. A., C., D.L., M.
Le parti civili D.R. e la Provincia di Lucca, con l'assistenza dell'avv. E.M.; C.M., con l'assistenza dell'avv. R.C.; F.C., D.D.A., F.C., M.G., G.P., V.C., A.P., S.F., A.M., Associazione Sindacale CVUB Trasporti, con l'assistenza dell'avv. G.D.L.; G.M., I.B., ORSA Ferrovie, ORSA Regionale, ORSA Provinciale, M.G.A., con l'assistenza dell'avv. F.A., hanno proposto ricorso per la cassazione della menzionata sentenza, articolando motivi che si indirizzano alla esclusione della mancata adozione del detettore di svio quale omissione penalmente rilevante nei confronti di Ma.[EM.], Mo.[MA.], Co.[GI], Fu.[AL.], Ma.[GI.] e Tre*** s.p.a.
Deducono l'erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione; ad avviso degli esponenti, l'adozione del dispositivo in questione era doverosa ai sensi dell'art. 2087 c.c. non potendo essere subordinata alla sussistenza di una condivisione generale degli organismi internazionali.
Nel tempo anteriore al 29.6.2009 gli imputati avevano acquisito la consapevolezza dell'idoneità del dispositivo perché vi erano in commercio diversi tipi di dispositivi e quello EDT 100 aveva ottenuto l'omologazione con la specifica tecnica UIC 541-08, che implicava la sua rispondenza a canoni di sicurezza. Gli esponenti elencano una pluralità di circostanze a sostegno dell'assunto, tra le quali le seguenti:
1) Il 2.11.1998 l'ASA Materiale Rotabile e Trazione delle FS comunicava alle proprie unità produttive l'avvenuta messa a punto da parte di enti svizzeri del dispositivo automatico rilevatore di svio.
2) Nel 2005 l'Otif prendeva atto dell'omologazione del detettore EDT 100.
3) Nel Contratto uniforme di utilizzazione dei carri, in vigore dal 1.7.2006, veniva contemplato il dispositivo rivelatore di deragliamento.
4) Il dispositivo EDT 101 era stato omologato nel luglio 2007 ed era utilizzato in diversi paesi europei.
Oltre agli esiti di diversi studi. In particolare, uno studio del 2006 di Tre***, non giunto alla fase di sviluppo unicamente per ragioni economiche e non per la pericolosità del dispositivo. Dimostrata la nota efficacia del dispositivo è manifestamente illogica la motivazione e fa erronea applicazione dell'art. 2087 c.c. perché l'imprenditore è tenuto ad adottare le misure suggerite dalla migliore scienza, quale era il dispositivo in parola per le stesse circostanze evidenziate dalla Corte di appello. È poi illogica la valutazione sulla correttezza del comportamento di Tre*** che non aveva provveduto ad annullare i contratti in essere con FLog***, stante la constatata efficacia del dispositivo e la natura pubblicistica della norma prevenzionistica, la cui cogenza rendeva invalido il privatistico contratto di noleggio.
La Corte di appello cade in contraddizione quando afferma che solo dopo il 1 luglio 2007 si realizzò la possibilità di utilizzare carri dotati di dispositivo idoneo perché si ebbe la omologazione Uic e poi sostiene che tale omologazione non atteneva alla funzionalità prevenzionistica del dispositivo. Diversamente aveva ritenuto il Tribunale. Quanto al tempo necessario all'adozione del detettore di svio, gli esponenti lamentano che la Corte di appello non abbia operato un distinguo tra i carri viaggianti, laddove il Tribunale aveva correttamente rilevato che occorreva dare priorità ai carri adibiti al trasporto di merci pericolose e tra questi ai carri che viaggiavano in zone densamente abitate, non separate dalla rete ferroviaria.

41. Il ricorso del Comune di Viareggio e dei signori P.
Ricorrono per la cassazione della sentenza il Comune di Viareggio, P.M., in proprio e come esercente la potestà genitoriale su L.P., questi in proprio e P.R., con atto sottoscritto dal comune difensore di fiducia avv. G.M., impugnando la pronuncia di assoluzione di CO.GI. e di D.M.G..
41.1. Con il primo ed il secondo motivo si deducono la violazione di legge ed il vizio della motivazione. L'esponente passa in rassegna la motivazione resa dal Tribunale a riguardo della permanenza in capo al gestore dell'infrastruttura delle competenze in materia di controlli di sicurezza sulle imprese ferroviarie anche dopo la redazione del verbale del giugno 2008, rimarcandone la compiutezza e l'aderenza ai fatti e al quadro normativo. In particolare, la aderenza a quanto riferito dal teste Chiov. e a quanto emergente dal verbale del 6,10,16 giugno 2008. A fronte di ciò la Corte di Appello ha affermato in modo apodittico che i controlli sulle imprese ferroviarie dal 16 giugno 2008 erano divenuti di competenza dell'autorità nazionale della sicurezza ferroviaria sì che il Co.[GI] non aveva più i poteri necessari al rilascio e alla revoca del certificato di sicurezza di Tre*** e all'effettuazione o alla verifica della mancata effettuazione della procedura di cabotaggio. Si tratta di affermazione carente di motivazione e in contrasto con il quadro normativo perché l'articolo 27 del decreto legislativo 162 del 2007 stabilisce una disciplina transitoria in ragione della quale per i compiti non trasferiti all'agenzia nazionale permane il regime preesistente al decreto legislativo 162. Inoltre, l'assunto della Corte distrettuale contrasta con la mancanza di tracce fattuali dell'asserito passaggio di consegne tra R***I e l'ANSF; e con la circostanza che il Chiov. non è mai stato giudicato teste inattendibile.
41.2. Con il terzo motivo si lamenta ancora la violazione di legge ed il vizio della motivazione laddove la Corte di appello ha sostenuto che non fosse esigibile dal Co.[GI] la condotta cautelare consistente nella riduzione di velocità dei convogli. Tale affermazione è per l'esponente del tutto carente di giustificazione argomentativa ed anzi è del tutto indimostrato che un anno non fosse sufficiente ad adottare il pertinente provvedimento. La Corte di appello non ha considerato la preparazione professionale del Co.[GI], la sua accettazione dell'incarico, la notorietà dell'utilizzazione di carri RIV o CUU che non venivano verificati neppure a livello documentale, in forza di una risalente politica aziendale. Sicché l'assunto che un anno non sarebbe stato sufficiente ad adottare il comportamento dovuto è manifestamente illogico; anche perché non è mai stata acquisita la prova di un tentativo del Co.[GI] di verificare il reale stato della situazione. Parimenti è manifestamente illogico giustificare l'omissione del Co.[GI] adducendo l'asserita improprietà di comportamento da parte dell'ANSF, che non revocò il certificato di sicurezza a Tre*** anche dopo le indagini sul sinistro. Peraltro, non è pertinente chiamare in causa la revoca del certificato di sicurezza quando il provvedimento che il Co.[GI] avrebbe dovuto adottare era certo di minore impatto e del tutto nelle sue possibilità. Infatti, anche il richiamo alla necessità di esaminare tutta la documentazione depositata nel tempo da Tre*** risulta privo di capacità dimostrativa della ritenuta inesigibilità, attesa l'accertata mancanza di documentazione dei carri RIV.
41.3. Con un quarto ed un quinto motivo si denunciano la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla assoluzione del D.M.[G.] in riforma della sentenza di primo grado. Dopo aver ritenuto la competenza del D.M.[G.] a verificare la mancanza di tracciabilità dei carri cisterna utilizzati da Tre*** e a richiedere alla stessa di documentare la vita e la storia manutentiva di tali carri, nonché di disporre la riduzione della velocità di attraversamento di stazioni come quella di Viareggio, l'esponente osserva che la Corte territoriale ha mandato assolto il D.M.[G.] per la inesigibilità nei suoi confronti delle condotte doverose stando il breve periodo dal 3 ottobre 2006 al 31 Dicembre 2007 in cui egli ricoprì il ruolo di responsabile della direzione tecnica. In ciò l'esponente ravvisa una carenza di motivazione e la violazione degli articoli 15 e 28 del testo unico sulla sicurezza del lavoro, criticando che le impostazioni del sistema di gestione sicurezza adottato dal gestore dell'impresa ferroviaria fosse improntato alla verifica degli indici di incidentalità sulle varie tratte poiché questa impostazione non permette di svolgere correttamente un'attività di prevenzione del rischio che può verificarsi. Il fatto che non ci fossero verificati i campanelli d'allarme, secondo l'avviso della Corte d'appello, non è rispondente al vero poiché ogni carro merci trasportante sostanze pericolose rappresenta esso stesso una fonte di pericolo che avrebbe quindi dovuto essere governata attraverso una compiuta valutazione dei rischi secondo le previsioni degli articoli 15 e 28 già citate. Valutazione dei rischi che anche per il consulente tecnico ingegnere Orsini non venne concretamente attuata. Ciò era stato ritenuto anche dal tribunale e con le argomentazioni del primo giudice la Corte territoriale omette di confrontarsi.
L'ulteriore circostanza evidenziata la Corte di Appello a sostegno del giudizio di inesigibilità della condotta doverosa, ovvero il fatto che l'interpretazione normativa che escludeva la doverosità della tracciabilità dei carri esteri era attestata dai vertici dell'azienda, concreta per l'esponente un travisamento giacché si trattava non della interpretazione erronea del quadro normativo ma dell'applicazione di una politica aziendale intesa all'utilizzo di un'intera flotta di carri esteri marcati RIV o CUU, allo scopo di sottrarsi alle regolari necessarie manutenzioni.
41.4. Con un ultimo motivo si censura la sentenza impugnata ancora per violazione di legge e per vizio motivazionale rilevando che l'aver accomunato il D.M.[G.] al Co.[GI] nelle ragioni della loro assoluzione non considera che il D.M.[G.] cessò dalla carica prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 162/2007 e dei verbali del 2008 ai quali ha inteso riferirsi la Corte di appello trattando della posizione del Co.[GI].

42. Memorie degli imputati e delle parti civili non ricorrenti
42.1. In data 27.10.2020 è pervenuto atto denominato 'Note difensive per l’ing. Gi.Co.’, a firma dell'avv. LS, con il quale si svolgono argomentazioni critiche a riguardo della motivazione della sentenza di secondo grado, per aver ritenuto sussistenti alcune delle accuse formulate nell'imputazione, e si sostiene che i ricorsi delle parti civili e del P.G. sono inammissibili: quanto al ricorso del P.G. nulla è detto riguardo alla posizione del Co.[GI], facendosi sempre riferimento a Tre*** e ai suoi esponenti; quanto al ricorso delle parti civili patrocinate dagli avv. M., C., D.L. e A., in esso nulla si dice a contestare le motivazioni assolutorie della sentenza di appello in punto di omessa adozione del detettore di svio. Per contro, la Corte di appello ha dato puntuale dimostrazione dell'inesigibilità di tale adozione, sicché i ricorsi sono quanto meno infondati. Inoltre il P.g. non ha fornito alcuna argomentazione a sostegno della critica alla Corte di appello in merito all'avvenuto passaggio di competenze avvenuto nel maggio-giugno del 2008 tra R***I ed ANSF. Quanto alle censure mosse al giudizio espresso sulla inesigibilità dal Co.[GI] di un provvedimento di riduzione della velocità, osserva l'esponente che anche a consentire alla prospettazione del P.g. secondo la quale un simile provvedimento avrebbe dovuto riguardare tutti i carri merci trasportanti merci pericolosi, resterebbe confermata la inesigibilità di un simile adempimento da parte del Co.[GI], perché questi ricopriva il ruolo di direttore tecnico solo da un anno e non gli erano mai giunti segnali di allarme.
42.2. Nella medesima data è pervenuto atto di 'Note difensive per l'ing. Al.Fu. e per l'ing. Gi.Ma.', a firma dell'avv. L.S., con la quale sia argomenta la richiesta di declaratoria di inammissibilità del ricorso del P.g., che non espone alcuna ragione a sostegno della richiesta avanzata nei confronti dei predetti imputati, riferendosi il ricorrente sempre e solo a Tre*** e ai suoi esponenti, e di quello delle parti civili, afflitto dalla medesima lacuna. Si soggiunge che i ricorsi sono comunque infondati giacché alla esaustiva argomentazione della Corte di appello in merito alla inesigibilità dell'adozione del detettore di svio si oppone che le ferrovie svizzere lo avevano adottato e che non ha rilievo che gli studi ad esso relativi non avessero ancora superato la fase sperimentale. L'esponente contesta nel merito tali affermazioni.
42.3. Il 7.11.2020 è pervenuta 'Memoria difensiva ex art. 121 c.p.p.' delle parti civili non ricorrenti P.C. e P.F., assistite dall'avv. F.B., con la quale si svolgono osservazioni in merito alla prevedibilità e alla evitabilità del deragliamento, alla luce delle conoscenze note all'epoca dei fatti (che vengono illustrate anche con riferimenti ai sinistri occorsi) e si sostiene che il disastro di Viareggio fu il frutto di una sistema di politica aziendale e si ripercorrono gli snodi essenziali della ricostruzione accusatoria per ribadirne la fondatezza. Infine si illustrano i danni riportati dalle parti civili in parola.
42.4. Il 10.11.2020 è pervenuta 'Memoria' redatta nell'interesse di MA.EN. dall'avv. A.G., con la quale si osserva che i ricorsi proposti dal P.G. e dalle parti civili patrocinante dagli avv. M., C., D.L. ed A. compiono il medesimo errore fatto dal Tribunale e censurato dalla Corte di appello, ovvero dilatare le aree di competenza e di intervento del Ma.[EN.], forzando la lettura dell'organizzazione aziendale di R***I, andando oltre il perimetro dell'imputazione. Peraltro i ricorsi sono inammissibili perché si soffermano sull'omessa adozione del detettore di svio nonostante tale omissione non sia mai stata contestata al Ma.[EN.]; ma ancor più radicalmente, i ricorsi non svolgono censure nei confronti delle statuizioni concernenti specificamente il Ma.[EN.]. Sono anche infondati perché propongono una lettura alternativa delle emergenze processuali in ordine alla esigibilità dell'adozione del detettore di svio.
42.5. Il 10.11.2020 è pervenuta ulteriore 'Memoria' redatta dall'avv. A.G., questa, nell'interesse di D.M.G., con la quale si osserva che i ricorsi proposti dal P.G. e dalle parti civili patrocinante dagli avv. M., C., D.L. ed A. non propongono alcuna reale argomentazione a sostegno delle richieste concernenti il D.M.[G.], e peraltro i ricorsi non si confrontano con il contenuto della sentenza di secondo grado. Ne deriva la loro inammissibilità. Ma i ricorsi sono anche infondati, risultando compiute e logiche le affermazioni fatte dalla Corte di appello. La critica si indirizza anche al ricorso presentato a firma dell'avv. M..
42.6. Il 13.11.2020 è pervenuta 'Memoria illustrativa per la parte civile D.D.A.', a firma dell'avv. A.G., con la quale si ripropongono adesivamente le affermazioni svolte dalla Corte di appello a riguardo della legittimazione attiva degli enti esponenziali, delle associazioni, delle organizzazioni sindacali e dei 'rappresentanti per i lavoratori per la sicurezza' e si conclude, quanto al merito, che i ricorsi dei soggetti condannati propongono per larga parte una rivalutazione dei fatti non consentita in sede di legittimità.
42.7. Il 14.11.2020 è pervenuta 'Memoria difensiva ex art. 121 c.p.p.' a firma dell'avv. T.P., A.A.B., M.D.C., T.N., G.M., quali difensori delle parti civili, Associazione Comitato Matteo Valenti, R.R., S.R., A.O., M.P., in proprio e per L.P., R.P. e il Comune di Viareggio, con la quale si sviluppano osservazioni critiche ai motivi di ricorso che attengono alla nullità degli atti per violazione del principio del giudice precostituito per legge.
42.8. Il 14.11.2020 è pervenuta 'Memoria ex art. 121 c.p.p.' a firma dell'avv. F.A. e G.D.L., quali difensori delle parti civili M.G.A., I.B., Orsa-Ferrovie Toscana, Orsa-Ferrovie Lucca, A.M. ed altri, con la quale si svolgono considerazioni critiche in opposizione ai motivi di ricorso con i quali gli imputati e gli enti condannati hanno contestato la sentenza impugnata nella motivazione concernente l'obbligo di riduzione della velocità.
42.9. Il 16.11.2020 è pervenuta 'Memoria ex art. 121 c.p.p.' a firma dell'avv. F.A. e G.D.L., quali difensori delle parti civili Orsa- Ferrovie Toscana-3, e Sindacato C.U.B. Trasporti Nazionale +7, con la quale si svolgono considerazioni critiche in opposizione ai motivi di ricorso con i quali gli imputati e gli enti condannati hanno contestato la legittimazione attiva dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza e della Associazione sindacale Cub Trasporti Nazionale, di ORSA Ferrovie e la determinazione del danno in via equitativa.
42.10. In pari data è pervenuto atto denominato 'Controdeduzioni della parte civile Or.S.A. Ferrovie- Segreteria Generale, a firma dell'avv. S.C., nella quale si svolgono considerazioni a sostegno della ricostruzione dei fatti e delle valutazioni in diritto operate dai giudici di merito, soffermandosi in particolare sul tema della compatibilità di controlli e verifiche anche sui carri marcati RIV; compatibilità che si afferma.
42.11. Nella medesima data è pervenuto a firma dell'avv. E.M., quale difensore delle parti civili D.R. e Provincia di Lucca, con il quale si tratta in termini critici rispetto ai correlati motivi di ricorso proposti nell'interesse degli imputati e degli enti condannati, il tema della qualificazione dell'evento realizzatosi come infortunio sul lavoro, che viene sviluppato prendendo in esame la riconducibilità del settore ferroviario alla disciplina del TUSL; l'applicabilità della normativa antinfortunistica ove siano interessati soggetti terzi e in ambienti diversi dai luoghi di lavoro; l'applicabilità di alcune delle norme cautelari contestate e l'individuazione delle posizioni di garanzia coinvolte.
42.12. Ancora il 16.11.2020 è pervenuta 'Memoria ex art. 121 c.p.p.' a firma degli avv. M., C., E.M., D.L. e A., per le parti civili G.M., D.R., Provincia di Lucca, C.M., Dopolavoro Ferroviario, S.F. (e altri), Orsa. Ferrovie-Toscana e altri, con la quale presentano osservazioni di critica ai motivi di ricorso proposti nell'interesse di Mo.Ma. quale AD di Fe***I*** s.p.a.
42.13. Il 16.11.2020 è pervenuto atto denominato 'Motivo unico aggiunto', a firma dell'avv. G.M., per il Comune di Viareggio, M.P., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale su L.P., L.P. (chiarire questa cosa, per non liquidare, eventualmente, una quota in più) e R.P.. Con l'atto si lamenta la violazione di legge ed il vizio della motivazione in merito alla parte della motivazione ove si argomenta intorno alla inesigibilità dal Co.[GI] delle condotte doverose consistenti nell'adozione del detettore di svio e nella riduzione della velocità.
42.14. Il 26.11.2020 è pervenuta memoria di replica ex art 611 cpp a firma degli avv. M., C., A. e D.L., per i propri assistiti.
42.15. Il 27.11.2020 è pervenuta 'Memoria di replica alla memoria delle parti civili patrocinate dall'avv. M., presentata dai difensori di El.M.[M.].
42.16. Nella medesima data è pervenuta memoria dei difensori di El.M.[M.], di replica alla memoria presentata dall'avv. B.
42.17. Il 30.11.2020 è pervenuta memoria del Sindacato UGL-Federazione trasporti Autoferrotranvieri Toscana e Sindacato Unione Territoriale del lavoro UTL dell'UGL Provincia di Lucca.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La violazione del principio di precostituzione del giudice e la conseguente nullità ex art. 178, lett. c) cod. proc. pen.
1.1. Tutti i ricorrenti hanno censurato la motivazione con la quale la Corte di appello ha rigettato l'eccezione di nullità della sentenza di primo grado per essere stata emessa in violazione del principio di pre-costituzione del giudice.
Nella superiore parte narrativa si sono analiticamente riportate le scansioni argomentative offerte dagli esponenti. Volendo sintetizzare al massimo grado, si censura che:
a) il giudice che ha deciso non sia stato individuato previamente, rispetto al tempo di commissione del reato, di iscrizione della notizia di reato nell'apposito registro, di esercizio dell'azione penale, di fissazione dell'udienza preliminare; il Collegio assegnatario del processo non esisteva ancora alla data dell'emissione del decreto che disponeva il giudizio;
b) tale Collegio avrebbe dovuto avere assegnazioni solo a partire dal 13.9.2013, data prevista dal d.lgs. n. 155/2012 quale giorno di entrata in vigore delle proprie disposizioni;
c) in ogni caso, i criteri dettati dal decreto n. 15/13 del Presidente del Tribunale di Lucca non furono rispettati dal successivo decreto emesso dal Presidente della sezione penale dello stesso Tribunale e neppure nella concreta applicazione;
d) le assegnazioni eseguite sulla scorta dei criteri adottati dal Presidente della sezione penale non hanno rispettato la procedura prevista dall'art. 7-bis del Regio decreto n. 12/1941 (O.G.);
e) l'entità delle violazioni delle disposizioni vigenti, accompagnate da altre circostanze anomale, dimostra che il Collegio assegnatario del processo è stato individuato in modo arbitrario, al di fuori di ogni regola tabellare, senza il rispetto del principio di pre-costituzione del giudice, di tal chè risulta integrata una nullità assoluta ai sensi dell'art. 178 lett. a) cod. proc. pen.
In conclusione, si denuncia che l'assegnazione del processo al Terzo Collegio del Tribunale di Lucca fu determinata unicamente da ragioni estranee alle necessità organizzative imposte dalla concomitante ridefinizione della geografia degli uffici giudiziari italiani, compresi quelli lucchesi.
1.2. Le società di diritto straniero hanno anche lamentato che l'ordinanza con la quale la Corte di appello ha rigettato l'eccezione processuale sia stata adottata in chiave di soluzione delle questioni preliminari, venendo così leso il loro diritto alla relazione della causa. La censura non ha fondamento.
Infatti, la relazione della causa prevista dall'art. 602, comma 1, cod. proc. pen. ha una funzione meramente espositiva, il suo svolgimento non incide sulla regolarità del contraddittorio e la sua mancanza non determina una nullità della successiva sentenza (cfr. Sez. 1, n. 207 del 04/12/2017, dep. 2018, Rv. 271982).
Pertanto, anche ove si ritenesse che l'eccezione dovesse essere esaminata, come ogni altro motivo di appello, all'esito della discussione, non risulterebbe alcuna nullità della sentenza qui impugnata.
1.3. Secondo l'orientamento più risalente nel tempo, "la capacità del giudice, quale capacità di esercizio della funzione giurisdizionale, va distinta in capacità generica e capacità specifica: la prima concerne la nomina e l'ammissione alla funzione giurisdizionale; la seconda, invece, la costituzione del giudice nel singolo processo. La nullità prevista dall'art. 178 lett. a) cit. (cod. proc, pen.) ha riferimento soltanto alla capacità generica di esercizio della funzione, mentre la capacità specifica, che presuppone la regolare costituzione del giudice nell'ambito di un determinato processo, non è assistita da uguale sanzione, avendo il legislatore voluto evitare che la violazione delle regole concernenti il funzionamento interno degli uffici giudiziari potesse dar luogo a nullità processuali". Tale interpretazione è stata assunta nella piena consapevolezza sia di quanto esposto nella Relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura, sia di quanto affermato dal Giudice delle leggi, chiamato a valutare la legittimità costituzionale dell'art. 33, co. 2 cod. proc. pen.
Si è quindi rilevato che con la n. 419/1998 la Corte costituzionale ha ritenuto che, «a riguardo della capacità degli organi titolari della funzione giurisdizionale, ... "i criteri di assegnazione degli affari nell'ambito di tali organi esulano dalla nozione generale della loro capacità che, riguardando la titolarità della funzione, non comprende quanto attiene all'esercizio della funzione stessa"; che la costruzione normativa della capacità del giudice come idoneità generica all'esercizio della funzione giurisdizionale, alla cui definizione non concorrono le regole sulla destinazione agli uffici giudiziari e alle sezioni, sulla formazione dei collegi e sulla assegnazione dei processi, risponde a criteri di razionalità e, dall'altro, che il principio del giudice naturale precostituito per legge ha avuto attuazione - in relazione all'esigenza di impedire che un determinato giudizio sia assegnato ad un giudice allo scopo discrezionalmente costituito - con le norme per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario ai nuovo processo penale (approvate con d.P.R. 22.9.1988 n. 449), la cui violazione non deve necessariamente essere sanzionata dalla nullità degli atti, così come è previsto dall'art. 178 lett. a) per la diversa e autonoma fattispecie della mancanza delle condizioni di costituzione del giudice, ma può trovare rimedio in altri strumenti apprestati dall'ordinamento giuridico considerato nel suo complesso».
La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto quindi confermata la scelta compiuta dal legislatore ordinario, il quale ha ritenuto di soddisfare l'esigenza di pre-costituzione del giudice attraverso la predeterminazione di criteri obiettivi, la cui definizione è rinviata al Consiglio Superiore della Magistratura, che vi provvede deliberando le relative tabelle, e ha altresì predisposto una disciplina per cui "l'ipotesi di violazione di quanto disposto nelle tabelle o dei criteri di assegnazione degli affari rimane senza rilievo processuale, ma implica la messa in opera delle procedure amministrative proprie del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che, eventualmente, dell'iniziativa disciplinare" (come si legge nella Relazione al progetto preliminare delle norme per l’adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale) (Sez. 6, n. 24077 del 10/05/2001, PM in proc. Cossu e altri, Rv. 21953601).
Tale interpretazione, che in definitiva confina le violazioni tabellari nell'ambito amministrativo e disciplinare, è stata in parte rimodulata dalla successiva giurisprudenza, incline a riconoscere una loro possibile rilevanza processuale. Si è infatti statuito che le irregolarità in tema di formazione dei collegi e di destinazione dei giudici agli uffici giudiziari incidono sulla capacità del giudice, con conseguente nullità ex art. 178, lett. a), cod. proc, pen., solo quando hanno per scopo l'elusione o la violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge (Sez. 1, n. 16214 del 05/04/2006, P.G. in proc. Moccia e altri, Rv. 23421601), ossia quando risultino o siano comprovate situazioni extra ordinem, caratterizzate dall’arbitrio nella designazione del giudice e prodottesi al di fuori di ogni previsione tabellare, proprio per costituire un giudice "ad hoc", situazioni dinanzi alle quali non può più affermarsi che la decisione della regiudicanda è stata emessa da un giudice precostituito per legge (Sez. 1, n. 13445 del 30/03/2005, Perronace, Rv. 23133801). Occorre, pertanto, che si determini uno stravolgimento dei principi! e dei canoni essenziali dell'ordinamento giudiziario, per la violazione di norme quali quelle riguardanti la titolarità del potere di assegnazione degli affari in capo ai dirigenti degli uffici e l'obbligo di motivazione dei provvedimenti (Sez. 6, n. 46244 del 15/11/2012, P.G., Filippi e altri, Rv. 25428401; in tal senso Sez. 6, n. 39239 del 04/07/2013, Rossoni, Rv. 25708701, alla quale sono consonanti Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama e altri, Rv. 25657001; Sez. 6, n. 13833 del 12/03/2015, Valle, Rv. 26307901; Sez. 4, n. 35585 del 12/05/2017, Schettino. P.G., P.C. in proc. Schettino, Rv. 27077501).
L'approdo interpretativo appare in linea con quanto può evincersi dall'art. 6 Cedu, secondo l'interpretazione fornitane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. La Carta non menziona espressamente il principio di pre-costituzione del giudice ma pretende che il processo si svolga dinanzi ad un giudice costituito per legge, essenzialmente in funzione di tutela della persona umana dalle ingerenze del potere esecutivo; autorevoli commentatori ritengono che il principio della predeterminazione normativa della competenza dell'organo giurisdizionale sia ricavabile in via interpretativa.
In un recente arresto la Grande Chambre ha rammentato "che la violazione da parte di un "giudice" delle disposizioni di diritto interno che disciplinano la costituzione e la competenza degli organi giudiziari comporta in linea di principio una violazione dell'articolo 6 § 1" e quindi che la Corte europea è competente a decidere sul rispetto delle norme di diritto interno su questo punto. "Tuttavia" - ha precisato - "alla luce del principio generale secondo H quale spetta in primo luogo agli stessi giudici nazionali interpretare la legislazione interna, la Corte ha anche ritenuto di poter mettere in discussione la loro valutazione solo in caso di chiara violazione di tali norme" (Gudmundur Andri Àstradsson c. Islanda, 1.12.2020, § 216).
Anche le difese sono del tutto consapevoli che la mera inosservanza delle disposizioni tabellari non è sufficiente a dar luogo alla nullità dell'atto processuale ed hanno quindi valorizzato quelli che, a loro avviso, costituiscono indici fattuali della radicale violazione delle disposizioni concernenti l'assegnazione dei processi.
1.4. Per una migliore intelligenza delle considerazioni che seguiranno appare necessaria riproporre una sintesi dei fatti rilevanti.
Il 13.9.2012 entrava in vigore il d.lgs. n. 155/2012 che ha ridisegnato la geografia degli uffici giudiziari, tra l'altro prevedendo la soppressione delle sezioni distaccate dei Tribunali. Ferma l'entrata in vigore di tutte le disposizioni da esso recate il giorno successivo alla pubblicazione della legge nella Gazzetta ufficiale, per gli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 7 venne previsto il differimento dell'efficacia delle relative previsioni al termine dell'anno dall'entrata in vigore. L'art. 9 dettò disposizioni transitorie, tra le quali assume rilevanza ai fini che qui occupano essenzialmente quella recata dal primo comma: "Le udienze fissate dinanzi ad uno degli uffici destinati alla soppressione per una data compresa tra l'entrata in vigore del presente decreto e la data di efficacia di cui all'articolo 11, comma 2, sono tenute presso i medesimi uffici. Le udienze fissate per una data successiva sono tenute dinanzi all'ufficio competente a norma dell'articolo 2".
Sulla scorta di tale decreto, il 12.12.2012 il Consiglio Superiore della Magistratura adottò una delibera (la n. 25041/2012) con la quale diede indicazioni e disposizioni ai dirigenti degli uffici per la migliore organizzazione della transizione. Si invitavano «i dirigenti di tutti i Tribunali nel cui circondario siano presenti sezioni distaccate accorpate all'ufficio di appartenenza originaria ad apprestare tutte le opportune soluzioni organizzative al fine di consentire la piena attuazione delle previsioni legislative di cui al D.lgs. n. 155/2012 e, segnatamente, a far sì che il 13 settembre 2013 l'accentramento degli affari delle suddette sezioni distaccate sia pieno ed effettivo, anche attraverso l'utilizzo di strumenti che consentano una parziale o totale anticipazione di detto accentramento, quantomeno dei procedimenti penali e civili che sia prevedibile non si concludano presso la sezione distaccata entro il citato 13 settembre 2013; in particolare, i dirigenti possono procedere, previa attivazione della procedura di cui all'art. 48 quinquies O.G.:
■ ad un graduale accentramento degli affari che non necessitino, in genere, di una attività di udienza;
■ per il settore penale ad attrarre presso la sede centrale i processi per i quali non è stata ancora fissata la prima udienza; ...».
Nella parte motiva del provvedimento si osservava che «Per quanto riguarda il contenzioso civile, caratterizzato dall'impulso di parte e con udienze che, nella sezione distaccata, spesso hanno ad oggetto cause che riguardano materie diverse e si trovano in fasi diverse del giudizio, questa modalità di anticipazione appare meno agevole da adottare e, tuttavia, può prospettarsi la possibilità di fissare direttamente dinanzi alla sede centrale tutte le cause iscritte a ruolo a partire da una data prefissata (es. 1 gennaio 2013) ...» e poi si aggiungeva che «Questo modello appare compatibile, con le variazioni collegate alla diversità di materia, anche con riguardo ai settore penate ove non possa essere disposto un accentramento anticipato», raccomandando un ampio ricorso alla procedura di cui all'art. 48quinquies O.G. Quest'ultima disposizione, anche in questo caso considerata solo nella parte ai presenti fini pertinente, dispone che "I magistrati assegnati alle sezioni distaccate dei tribunale ordinario possono svolgere funzioni anche presso la sede principale o presso altre sezioni distaccate, secondo criteri determinati con la procedura tabellare prevista dall'articolo 7-bis". Il riferimento è in particolare al comma 2 dell'art. 7-bis, dal seguente tenore: "Le deliberazioni di cui al comma 1 sono adottate dal Consiglio superiore della magistratura, valutate le eventuali osservazioni formulate da! Ministro di grazia e giustizia ai sensi dell'art. 11 della legge 24 marzo 1958, n. 195, e possono essere variate nel corso del triennio per sopravvenute esigenze degli uffici giudiziari, sulle proposte dei presidenti delle corti di appello, sentiti i consigli giudiziari. I provvedimenti in via di urgenza, concernenti le tabelle, adottati dai dirigenti degli uffici sulla assegnazione dei magistrati, sono immediatamente esecutivi, salva la deliberazione del Consiglio superiore della magistratura per la relativa variazione tabellare".
Il 21 marzo 2013 il Presidente del Tribunale di Lucca adottava il decreto di Variazione Tabellare n. 15, che il 5 aprile 2013 riceveva il parere positivo del Consiglio Giudiziario e il 5 giugno 2013 veniva approvato dal C.S.M.
Il provvedimento n. 15/13, facendo proprio "il progetto di modifica tabellare proposto dal Presidente della sezione penale, già discusso e concordato con tutti i magistrati della sede centrale e della sede distaccata di Viareggio", disponendo oltre che per gli affari del giudice monocratico anche per quelli attribuiti al tribunale in composizione collegiale, prevedeva la costituzione di un terzo Collegio composto dai magistrati accentrati dalla sede distaccata e che, a partire dal 13 settembre 2013, i tre collegi si dividessero in modo paritario i procedimenti a rito collegiale; al secondo Collegio andavano devoluti i procedimenti pendenti presso i preesistenti secondo e terzo Collegio mentre al nuovo Collegio andavano le nuove assegnazioni sino a raggiungere lo stesso carico degli altri due.
Al raggiungimento della parità di affari le assegnazioni sarebbero state fatte con criterio automatico fondato sull'ultimo numero del Registro Generale Notizie di Reato.
Il 12 aprile 2013 il Presidente della sezione penale del Tribunale di Lucca emetteva un decreto con il quale dettava disposizioni organizzative; il provvedimento non veniva sottoposto al C.G. e al C.S.M.
Con tale decreto il Presidente della sezione penale operava la variazione di una delle previsioni del decreto presidenziale (della quale le difese contestano la legittimità perché non attuativa del decreto 15 e non proceduralizzata come da previsioni consiliari): si disponeva che venissero assegnati sin da subito al terzo nuovo Collegio i primi quindici processi e quelli successivi agli altri due collegi in proporzione al numero delle udienze.
In sostanza, individuati pendenti 76 processi tra i tre collegi esistenti, si manteneva la ripartizione esistente per quelli e si smistavano sul nuovo Collegio le prime nuove quindici assegnazioni. Con la previsione di una perequazione da compiersi a fine settembre sulla base dei processi pendenti al tempo.
Il 18.7.2013 il G.u.p. del Tribunale di Lucca emetteva il decreto che disponeva il giudizio nel presente procedimento, nel quale si faceva esplicita indicazione,
quale giudice assegnatario, del Collegio III del Tribunale di Lucca, con specificazione anche dei nomi dei magistrati che lo avrebbero composto.
1.5. Questo risultando il quadro fattuale, possono essere espresse le seguenti osservazioni.
Come si è rammentato sopra, la giurisprudenza più recente ha abbandonato posizioni intransigenti rispetto alla irrilevanza delle violazioni delle disposizioni sulla capacità del giudice, dando rilievo anche a queste allorquando concretino uno "stravolgimento dei principii e dei canoni essenziali dell'ordinamento giudiziario". Il che sta a significare che non deve trattarsi dell'ordinario esercizio - sia pure erroneo - dei poteri che la legge riconosce ai dirigenti, ma del perseguimento di finalità estranee agli scopi per i quali sono attribuiti quei poteri, al quale viene asservito il loro cattivo esercizio. Volendo mutuare categorie usuali al diritto amministrativo, si potrebbe parlare di sviamento di potere, giacché il potere organizzativo viene esercitato per scopi diversi da quelli che gli sono tipici.
Le difese hanno segnalato non a caso quella che a loro avviso è una pluralità di violazioni, quali indizi dello sviamento. L'analisi di questa Corte muoverà alla verifica dell'esistenza di tali indizi, prescindendo dalla motivazione data dai giudici territoriali in replica alla eccezione difensiva, trattandosi di tema processuale in ordine al quale il giudice di legittimità opera una valutazione di merito.
a) Quanto alla 'inesistenza' del Terzo Collegio del Tribunale di Lucca alla data di emissione del decreto che disponeva il giudizio e alla ritenuta correlata violazione della Circolare del CSM ad opera del decreto n. 15/13, il giudizio delle difese non è condiviso da questa Corte.
Come già rilevato dalla Corte di appello, il provvedimento dell'organo di autogoverno non solo non vietava che in vista del nuovo assetto si adottassero le misure necessarie ad un immediato avvio del nuovo regime, se del caso anche con l'immediata formazione o integrazione dei ruoli dei giudici della sede centrale, ma apertamente sollecitava i capi degli uffici a valutare "la possibilità di fissare direttamente dinanzi alla sede centrale tutte le cause iscritte a ruolo a partire da una data prefissata (es. 1 gennaio 2013) previsione esplicitata con riferimento alle cause civili ma espressamente suggerita anche per il settore penale "ove non possa essere disposto un accentramento anticipato".
D'altro canto, lo stesso organo di autogoverno aveva indicato ai capi degli uffici di perseguire l'obiettivo che "il 13 settembre 2013 l'accentramento degli affari delle suddette sezioni distaccate sia pieno ed effettivo". Il che non poteva essere in alcun modo realizzato ove i nuovi affari non fossero stati assegnati alla sede centrale sin da subito.
Chiarito tale aspetto risulta conseguente la piena legittimità del decreto n. 15/13 che, per la parte che qui rileva, definiva il nuovo assetto delle sezioni penali presso la sede centrale e indicava i criteri per formarne sin da subito i ruoli, in modo che il 13.9.2013 anche gli affari che secondo il regime 'morente' sarebbero stati da attribuire alle sezioni distaccate potessero essere immediatamente trattati.
b) Quanto al decreto del Presidente della Sezione penale del Tribunale di Lucca, merita di essere rimarcato che la previsione del decreto n. 15 non era particolarmente esplicita. Non si parlava espressamente di assegnazioni da farsi sin da subito; si stabiliva che alla data del 13.9.13 i processi sarebbero stati suddivisi in modo paritario tra i tre collegi ma poi si prevedeva che mentre il secondo Collegio avrebbe avuto assegnati quelli del secondo e del terzo, il nuovo Collegio avrebbe ricevuto le nuove assegnazioni. Il che può essere inteso in duplice modo: a) tutti i processi pendenti presso i collegi già esistenti al 13.9.2013 sarebbero stati suddivisi in quote uguali tra i (nuovi) tre collegi; ma allora le nuove assegnazioni avrebbero subito determinato una sperequazione a danno del terzo collegio; b) quei processi si suddividevano tra due collegi mentre al terzo erano riservate le sole nuove assegnazioni; che però a questo punto dovevano essere necessariamente anticipate se si voleva raggiungere una condizione paritaria al 13.9.2013.
Per questa compatibilità della previsione con quanto poi disposto dal Presidente della sezione penale non si può sostenere che il relativo decreto si sia discostato da quanto previsto nel provvedimento n. 15/13, posto che esso si muove nel solco della ipotesi sub b).
Risulta quindi l'infondatezza dell'assunto di una illegittimità dell'assegnazione del processo al Collegio III di nuova istituzione fatta prima del 13.9.2013.
1.6. Ma le difese hanno dubitato della coerenza dell'assegnazione del processo al Collegio III rispetto ai criteri dettati dal Presidente del Tribunale di Lucca anche per un diverso aspetto. Si è censurato il decreto del Presidente della sezione penale in quanto non meramente attuativo del decreto n. 15/13 ma anzi in aperto contrasto con il medesimo.
Come scritto, con tale decreto si disponeva che venissero assegnati sin da subito al terzo nuovo Collegio i primi quindici processi e quelli successivi agli altri due collegi in proporzione al numero delle udienze. Ad avviso di questa Corte si tratta di una disposizione non già di mera attuazione di quella del Presidente del Tribunale (si rammenta che ai sensi del § 52.1. della Circolare sulle tabelle del periodo 2012-2014, "L'articolazione dei criteri di assegnazione spetta al dirigente dell'ufficio... l'attuazione è demandata al presidente della sezione per la quale al terzo Collegio di nuova istituzione dovevano essere assegnati tutti i nuovi procedimenti, sino a raggiungere la parità con gli altri due, al secondo dei quali andavano i processi già pendenti presso il secondo ed il terzo Collegio già esistenti.
Il secondo provvedimento, infatti, pone una non prevista limitazione alle nuove assegnazioni al Terzo collegio.
Si è in presenza, è del tutto evidente, di una motivata modifica tesa a porre i tre collegi in pari condizioni alla data del 13.9.2013, come palesa la espressa previsione, nel provvedimento in parola, di una verifica da compiersi alla fine del settembre 2013: "in ogni caso, alla fine del mese di settembre 2013 verrà effettuata una più precisa ricognizione della pendenza di ciascun Collegio e magistrato e, tenendo comunque conto dei procedimenti esauriti dall'l marzo 2013 al 30 settembre 2013, con le nuove assegnazioni si perseguirà la finalità di pareggiare le pendenze dei rispettivi ruoli".
In effetti, tenuto conto dei dati indicati nel provvedimento a riguardo dei processi assegnati al I ed il II Collegio (nascente dalla fusione del II e del III preesistenti), si registra che gli stessi avevano un carico di lavoro all'incirca paritario (40 pendenti+22 non rientrati dal G.u.p., il I; 36 pendenti +30 non rientrati dal G.u.p., il II); deve poi tenersi conto che la disposizione data dal Presidente della sezione penale considerava, pur non esplicitandolo, il probabile numero di processi definiti nel periodo dal 1 marzo al 30.9.2013.
Tanto conduce a ritenere che con il decreto dell'aprile si sia introdotta una modifica del decreto n. 15/13, consentita ai sensi dell'art. 57.2., ma la cui adozione era riservata al dirigente dell'ufficio, che avrebbe dovuto adottare la procedura di cui all'art. 14.3., ovvero emettere il provvedimento in via d'urgenza e sottoporlo al C.S.M. per la relativa deliberazione, ferma l'esecutività dello stesso dal momento in cui il Consiglio giudiziario avesse espresso parere favorevole.
Quel che però assume rilievo preminente nella prospettiva introdotta dai ricorrenti è che il presente processo venne assegnato in coerenza con questo secondo provvedimento organizzativo. Le difese sostengono che la previsione non è stata attuata perché un controllo in Cancelleria ha fatto emergere che "alla data del 30 ottobre 2013 risultavano affidati al Collegio III, oltre a quello che qui occupa, solamente due procedimenti, dei quali soltanto uno frutto di nuova assegnazione". In realtà la previsione presidenziale non sarebbe stata attuata se il processo che occupa fosse stato assegnato nonostante già precedenti quindici assegnazioni; e quindi in esubero. La circostanza segnalata, oltre al fatto di non essere assistita da altri dati pur rilevanti ai fini di una completa ricostruzione, conduce al più a interrogarsi in ordine all'attuazione del decreto nell'assegnazione dei processi agli altri Collegi. Che è appunto la replica fornita già dalla Corte di appello, censurata pertanto senza fondamento dai ricorrenti.
1.7. È stata segnalata, quale indice di un esercizio dei poteri deformato da finalità estranee, la circostanza che per giustificare l'assegnazione del processo al Terzo Collegio sia stata dalla Corte di appello (e prima ancora dal Presidente del Tribunale) valorizzata una futura e insussistente incompatibilità di un componente del Secondo Collegio, che sarebbe stato assegnatario del processo in via tabellare. Ad avviso di questa Corte la circostanza non depone nel senso indicato dalle difese; ricorrente o meno che fosse in concreto una causa di incompatibilità del magistrato in questione, non vi è dubbio che anche l'erronea rappresentazione di essa è sufficiente ad escludere il perseguimento di fini diversi da quelli istituzionali. Occorre considerare che in forza dei provvedimenti adottati tra il marzo e l'aprile 2013 è pacifico che il processo non fosse da assegnare al Secondo Collegio; sicché la precisazione del Presidente del Tribunale si deve intendere come riferita alle ragioni tenute presenti nella definizione del nuovo assetto organizzativo.
Altra anomalia viene individuata nel fatto che il G.i.p. fece indicazione nominativa dei componenti del Collegio assegnatario del processo. In realtà la circostanza sembra avere una genesi chiara e legittima. Al momento in cui veniva fissata la data dell'udienza dibattimentale era operante un Terzo Collegio della sezione penale del Tribunale di Lucca (dottori Pezzuti, Di Grazia e Silvestri), articolazione della organizzazione preesistente al decreto n. 15/13 (e da questo citato); ed era stato previsto un nuovo Terzo Collegio, operante a far tempo dal 13.9.2013. Pertanto la indicazione nominativa dei componenti trovava giustificazione nella necessità di segnalare quale fosse, tra i due ipotizzabili, il Terzo Collegio al quale il processo veniva assegnato.
È stato anche rimarcato che il 28.4.2013 era stato anticipato dalla stampa locale che il processo sarebbe stato assegnato ai magistrati che provenivano dalla sezione distaccata. È sufficiente rilevare che non è stata neppure allegata l'attribuibilità della informazione ai dirigenti del Tribunale di Lucca; e d'altronde, essendo state già predisposte le direttive organizzative con i decreti del marzo e del 12 aprile 2013, era ben possibile agli osservatori del mondo dell'informazione prevedere l'assegnazione del processo al nuovo Collegio e quindi le persone fisiche dei giudici che lo avrebbero trattato.
Un'ultima notazione concerne la circostanza che i magistrati che andavano a comporre il nuovo Terzo Collegio provenivano dalla sezione distaccata di Viareggio.
Secondo la tesi di taluni tra i ricorrenti, ciò "pone infatti un problema sul piano del rispetto del principio del "giusto processo", con particolare riferimento alle esigenze di imparzialità e terzietà del Giudice per come declinate sia nel diritto interno che in sede internazionale". Si ritiene che "la loro designazione finiva con l'incrementare il vulnus all'apparenza di imparzialità che deve assistere l'esercizio della giurisdizione".
Rilevato che l'affermazione riposa su un presupposto fattuale rimasto del tutto indimostrato e su un postulato teorico ripudiato dalla disciplina della competenza territoriale (cfr. art. 4, co. 1 e 2 cod. proc. pen.), è sufficiente aggiungere che nel vigente assetto codicistico i motivi di legittimo sospetto derivanti da una grave situazione locale in grado di turbare il processo, e che investa l'ufficio giudiziario nel suo complesso, non già singoli giudici o magistrati del pubblico ministero, in astratto assumono rilevanza ai fini della rimessione del processo (art. 45 cod. proc. pen.); mentre ove essi attengano ai singoli magistrati, l'osservanza delle regole del giusto processo risulta assicurata dai rimedi dell'astensione e della ricusazione (cfr. Sez. 6, n. 13419 del 05/03/2019, Baldassarre, Rv. 27536601). Di certo non vi è spazio per una nullità ex art. 178, lett. a) cod. proc. pen.
1.8. In conclusione, l'accertamento in fatto condotto da questa Corte porta a ritenere che l'assegnazione del processo venne eseguita per ragioni contemplate dalle disposizioni tabellari, per quanto senza la puntuale osservanza delle forme previste dall'art. 57.2 della Circolare del C.S.M. del 12.12.2012.
Va quindi esclusa la ricorrenza di una delle ipotesi che secondo il diritto vivente determinano la nullità degli atti: l'assegnazione del processo venne fatta ad un giudice la cui individuazione fu tratta da quanto previsto da provvedimenti di carattere generale adottati da soggetti titolari dei relativi poteri e le minime deviazioni dall'esatta attuazione degli stessi risulta giustificata dall'intento di meglio perseguire il buon andamento del servizio.

2. Precisazioni preliminari in ordine ai concetti di 'posizione di garanzia', 'norme di dovere', e 'regole cautelari'; condotta attiva e condotta omissiva
2.1. Tanto le imputazioni che le sentenze di merito propongono una pluralità di riferimenti normativi e testuali che adombrano una varietà di posizioni di garanzia in capo al medesimo soggetto e descrivono condotte certamente molto articolate, nelle quali si associano profili attivi e tratti omissivi. Il Tribunale prima e la Corte di appello poi hanno reso più asciutto e lineare il quadro risultante dalle contestazioni; tuttavia, ancora nella sentenza di secondo grado è ravvisabile una insufficiente precisazione concettuale, nella quale mettono radice diverse censure avanzate dai ricorrenti; il cui esame richiede, pertanto, alcune puntualizzazioni preliminari.
2.2. Per quanto approfonditi e definiti da una copiosa giurisprudenza, in misura crescente consonante con la prevalente dottrina, concetti come posizione di garanzia, regola cautelare, condotta commissiva e condotta omissiva presentano ancora profili di indubbia problematicità. In particolare, la definizione delle reciproche relazioni rappresenta un difficile banco di prova, specie a fronte della complessità dei fatti, che presentano in forma fluida e dinamica quanto le necessità dell'applicazione del diritto tende ad ipostatizzare.
La posizione di garanzia è concetto che la teoria generale del reato associa ai reati omissivi impropri (e pertanto essenzialmente all'art. 40 cpv. cod. pen.), identificandola nella titolarità di un dovere (di protezione, di controllo) che si concreta nell'obbligo di impedire un evento (tipico, in rapporto alla pertinente fattispecie incriminatrice). Per un significativo lasso di tempo la prevalente giurisprudenza ha inteso la posizione di garanzia come premessa sufficiente per l'affermazione di responsabilità ogni volta che fosse rinvenibile il nesso di causalità e il prescritto elemento soggettivo.
Emblematico, al riguardo, il più risalente (ma ancor oggi vivo) orientamento formatosi nel settore della responsabilità datoriale per eventi commessi con violazione di norme prevenzionistiche. Secondo il suo insegnamento l'art. 2087 c.c. costituisce disposizione che, ponendo in capo al datore di lavoro (in realtà all'imprenditore, ma è diffusamente riconosciuta la lettura corrente) l'obbligo di "adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro", è da sola in grado di giustificare l'attribuzione dell'evento infausto, pur quando non sia rinvenibile una specifica regola cautelare dalla quale si sarebbe dovuto trarre indicazione della misura da adottare.
Questa concezione che eleva la posizione di garanzia a unico polo dell'elemento oggettivo del reato (omissivo improprio colposo) è stata tuttavia sottoposta a revisione critica da un numero crescente di pronunce di questa Corte, le quali hanno formulato il principio per il quale la responsabilità colposa per reati omissivi impropri presuppone non solo la titolarità di una posizione di garanzia ma anche la violazione di una o più regole cautelari che a quella si coordinano. Si è affermato che "la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso (Sez. 4, n. 5404 del 08/01/2015, P.C. in proc. Corso e altri, Rv. 262033; conforme Sez. 4, n. 24462 del 06/05/2015, Ruocco, Rv. 264128).
Il tema è stato ulteriormente approfondito in un caso nel quale l'impostazione accusatoria poneva il quesito in ordine alla correttezza giuridica di una tesi che, in relazione ad eventi luttuosi connessi al violento sisma che nell'aprile 2009 offese il territorio di L'Aquila, rimproverava ai componenti della Commissione Grandi Rischi - organo di consulenza scientifica inserito nella organizzazione della Protezione civile - di aver svolto una "valutazione dei rischi connessi all'attività sismica in corso sul territorio aquilano dal dicembre 2008 approssimativa, generica ed inefficace in relazione alle attività e ai doveri di "previsione e prevenzione" imposti dall'art. 3 legge n. 225/92.
Nell'occasione questa Corte, ponendosi in posizione critica rispetto a quanto era stato ritenuto in Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, P.G. in proc. Catalano e altri, Rv. 24701501, ha rimarcato che norme come l'evocato art. 3 legge n. 225/92 (abrogato dal Codice della protezione civile, ovvero dal d.lgs. n. 1/2018), che identificano unicamente una posizione di garanzia (rectius: una competenza; ma di ciò si tratterà più diffusamente infra) mentre i concreti contenuti della stessa, il come fare, risultano descritti da regole cautelari, ovvero da prescrizioni che hanno necessariamente contenuto modale [peraltro, che la regola cautelare debba necessariamente avere carattere "modale", "cioè indicare con precisione le modalità e i mezzi ritenuti necessari ad evitare il verificarsi dell'evento (ovviamente la regola cautelare che impone l'astensione dall'attività pericolosa non ha carattere modale)" era già stato affermato nella stessa sentenza n. 16761/2010].
Più in generale, si è rammentato che la recente riflessione teorica a riguardo della responsabilità colposa ha assunto come caposaldo l'alterità concettuale tra "dovere di diligenza", inteso quale situazione giuridica soggettiva di dovere e più precisamente quale "dovere di adottare le cautele opportune per evitare il verificarsi degli eventi dannosi", e "diligenza doverosa", intesa come contenuto della predetta situazione giuridica soggettiva. Il primo è posto da norme (di dovere), le quali vietano di agire in modo imprudente oppure impongono di agire in modo diligente; nella forma concettuale, tali norme non specificano le concrete modalità comportamentali che valgono a soddisfare la prescrizione di astenersi da un agire imprudente o di agire in modo diligente. Tale specificazione viene dalle regole cautelari, che identificano per l'appunto la diligenza doverosa. Da una diversa prospettiva si è affermato che fanno parte dello status del cittadino (o di speciali status riconosciuti dall'ordinamento) "doveri giuridici logicamente preesistenti rispetto alla tipicità" i quali definiscono la sfera di competenza alla quale va ricondotto il giudizio sul comportamento colposo; la regola cautelare concretizza, nella situazione data, quei doveri, definendo il livello di diligenza atteso.
Si è inoltre rimarcato come da questa classificazione conseguano importanti effetti.
Mentre il dovere di diligenza deve fondarsi su norme giuridiche di necessaria fonte legale, che come tali sottostanno ai principi costituzionali in materia penale (e ciò le rende sensibili al fenomeno della successione di leggi penali nel tempo), le regole cautelari non sono necessariamente giuridiche e, trovando origine la loro validità ed efficacia nell'effettiva attitudine preventiva, non risentono delle vicende concernenti l'eventuale forma della loro positivizzazione. Vale, al loro riguardo, il principio "veritas, non auctoritas facit legem".
Inoltre, anche in presenza di una regola cautelare contenuta in fonti formali (tanto legislative che sub-legislative), saliente è la reale efficacia preventiva della misura indicata (per quanto, viene da aggiungere, la positivizzazione rappresenti un forte indizio a favore); il che permette di confinare nell'irrilevanza l'eventuale vizio dell'atto che ad essa dà veste formale. Infine, la regola cautelare positiva può non esaurire il novero delle cautele doverose, se il patrimonio scientifico ed esperienziale ha sedimentato pertinenti regole cautelari non ancora positivizzate (ma su questo occorrerà svolgere più estese considerazioni infra').
Sulla scorta di tali premesse teoriche, si è ritenuto che le norme evocate come fondative dei compiti della Protezione civile, indicati nella "attività di previsione e di prevenzione", non descrivessero quali particolari misure dovessero essere adottate per conseguire l'obiettivo della protezione della popolazione dagli eventi naturali capaci di generare danni alle persone e alle cose in larga scala e quindi non fornissero il parametro necessario a giudicare se l'opera di previsione, di prevenzione e di analisi fosse stata eseguita correttamente (Sez. 4, N. 12478 del 19/11/2015, (dep. 2016), P.G. in proc. e altri in proc. Barberi e altri, Rv. 267813).
Conclusivamente sul punto, anche in questa sede si intende ribadire la necessità di tener distinti dovere di diligenza/norma di dovere e diligenza doverosa/regola cautelare. Chi è titolare di una posizione di garanzia non assume un obbligo di risultato ma di mezzi: per quanto estesi i suoi poteri e quindi il suo dovere, essi sono 'finiti' e ciò implica la possibilità che l'evento si sia verificato nonostante l'esercizio del potere secondo le modalità prescritte dal sapere cautelare del tempo. Detto altrimenti, la posizione di garanzia non è concetto da solo sufficiente a definire quale comportamento si sarebbe dovuto porre in essere; l'indagine va estesa alle pertinenti regole comportamentali, che si impongono nel caso concreto per la loro riconosciuta efficacia cautelare.
Non sfugge che l'evidenza della distinzione si fa problematica nel passaggio dal piano statico dei concetti a quello dinamico dell'identificazione della regola cautelare.
Si tratta di discriminare in concreto la norma di posizione dalla regola modale. L'operazione può risultare particolarmente complessa perché, come è stato evidenziato da attenta dottrina, le norme "stabiliscono, in maniera strettamente intrecciata, sia posizioni di obbligo, sia contenuti comportamentali"; e a rendere ancora più problematica l'opera è la collocazione di essi nell'ambito di una procedimentalizzazione dei doveri, con una distribuzione tra diversi centri di competenza. In effetti, la sempre più frequente opzione legislativa per le cautele procedurali degrada, se non ad un ruolo marginale, almeno a quello di co- protagonista il modello classico di regola cautelare, caratterizzato dalla indicazione di un determinato comportamento in funzione preventiva di uno specifico evento.
Ne deriva che la relazione di prossimità tra misura ed evento che s'intende prevenire, tipica della regola cautelare (e che assicura al massimo grado l'implementazione del principio di colpevolezza nel circuito della responsabilità colposa), si smarrisce; e la nuova fenomenologia impone il conio di nuove definizioni: cautele procedurali, cautele indirette, cautele mediate, per rammentarne solo alcune.
In un panorama tanto incerto da non consentire ricostruzioni sufficientemente condivise, la stessa attività di valutazione dei rischi, ad esempio, viene da alcuni estromessa dal novero delle regole cautelari, da altri si vede riconosciuta tale dignità.
2.3. Per la migliore economicità della presente motivazione appare opportuno trattare qui, subito dopo le osservazioni attinenti il concetto di posizione di garanzia, un tema a questo prossimo.
Nella giurisprudenza, anche di legittimità, che si è prodotta sino al secondo decennio di questo secolo, il concetto di posizione di garanzia ha finito per occupare spazi che non gli sono pertinenti. La sua impropria evocazione ha condotto a ricostruzioni fattuali e giuridiche errate.
Il rilievo è stato espresso con particolare nitidezza da Sez. 4, n. 49821 del 21/12/2012, Lovison e altri, Rv. 254094. Nell'occasione la Corte ha segnalato che affinchè l'imputazione sia realmente personalizzata, come pretendono i principi a base della responsabilità penale, occorre "una accurata analisi delle diverse sfere di responsabilità gestionale ed organizzativa all'interno di ciascuna istituzione". Ha quindi osservato che tale analisi è tradizionalmente tematizzata entro la categoria giuridica della posizione di garanzia; espressione che esprime in modo condensato l'obbligo giuridico di impedire l'evento che fonda la responsabilità in ordine ai reati commissivi mediante omissione, ai sensi dell'art. 40 cpv. cod. pen. Tuttavia, ha ammonito, la focalizzazione sul concetto di posizione di garanzia non deve far perdere di vista che in realtà l'orizzonte della responsabilità colposa va oltre le condotte omissive. Ed anzi, la consueta 'traduzione' dei reati colposi come illeciti omissivi non sempre corrisponde pienamente alla realtà; il preposto che consegna una scala rotta al lavoratore che conseguentemente cade compie un'azione e non un'omissione; la connotazione colposa della condotta evoca una 'omissione' - la mancata adozione della prescritta misura cautelare - che non corrisponde alla nozione penalistica dell'omissione ma al tratto caratteristico della colpa in senso oggettivo.
Tuttavia, si è notato nella sentenza Lovison, "pure in tali contingenze, chiaramente riconducibili alla causalità commissiva e quindi estranee alla disciplina di cui all'art. 40 capoverso ed alla strumentale categoria giuridica del garante, si è soliti parlare ugualmente di garante, di posizione di garanzia". Ripercorrendo i limiti intrinseci alla teoria condizionalistica della causalità e la funzione delimitativa della responsabilità insita nella teoria del rischio, la pronuncia ha posto in evidenza come l'esigenza di delimitazione delle sfere di responsabilità, tanto intensamente connessa all’essere stesso il diritto penale scienza del giudizio di responsabilità, si sia fatta strada nella giurisprudenza attraverso lo strumento normativo costituito dall’art. 41 cpv. cod. pen., allorquando si è ritenuto che la diversità dei rischi interrompe, "per meglio dire separa le sfere di responsabilità". E così, si è insegnato che nel caso di abusiva introduzione notturna da parte del lavoratore nel cantiere irregolare, va distinto il rischio lavorativo dal rischio da ingresso abusivo (anche se il datore di lavoro aveva violato le prescrizioni antinfortunistiche) (Sez. 4, n. 44206 del 25/9/ 2001, Intrevado, Rv. n. 221149); che nel caso di un dipendente di un albergo in una località termale che, terminato il turno di lavoro, si era diretto verso l’auto parcheggiata nei pressi e si era introdotto abusivamente in un'area di pertinenza di un attiguo albergo, cadendo in una vasca con fango termale alla temperatura di circa 80 gradi, si versa in ipotesi di rischio extralavorativo e non di rischio lavorativo (Sez. 4, n. 11311 del 7/5/1985, Bernardi, Rv. 171215).
Più in generale, inizia con questa pronuncia la chiara tematizzazione del principio secondo il quale l'interruzione del nesso causale che trova disciplina nell'art. 41, co. 2 cod. pen. si determina allorquando interviene un fattore che innesca un rischio diverso da quello affidato alla gestione del soggetto la cui condotta colposa viene ipotizzata causalmente efficiente. Secondo la espressiva formulazione della pronuncia in parola è "interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore quando essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è "interruttivo" (per restare al lessico tradizionale) non perché "eccezionale" ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare. Tale eccentricità renderà magari in qualche caso (ma non necessariamente) statisticamente eccezionale il comportamento ma ciò è una conseguenza accidentale e non costituisce la reale ragione dell'esclusione dell'imputazione oggettiva dell'evento".
Posta in evidenza la 'circolazione' nella giurisprudenza penale del concetto di area di rischio, la sentenza definisce "la sfera di rischio come area che designa l’ambito in cui si esplica l’obbligo di governare le situazioni pericolose che conforma l’obbligo del garante" e richiama alla necessità di individuare concretamente la figura istituzionale che può essere razionalmente chiamata a governare il rischio medesimo e la persona fisica che incarna concretamente quel ruolo, mettendo sull'avviso in merito alla complessità che sovente riveste l'operazione, per la transitività delle condizioni che si susseguono all'interno di una catena causale; l'intreccio di obblighi che spesso coinvolgono diverse figure e diversi soggetti nella gestione di un rischio; la complessa figura della cooperazione colposa.
Il medesimo ordine di idee è stato espresso dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri), le quali hanno ribadito che «l'individuazione della responsabilità penale passa non di rado attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all'interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche (...), dall'altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno. Si tratta, in breve, di una ricognizione essenziale per un'imputazione che voglia essere personalizzata, in conformità ai sommi principi che governano l'ordinamento penale; per evitare l'indiscriminata, quasi automatica attribuzione dell'illecito ai diversi soggetti». Anche il S.C. ha rimarcato che «esistono diverse aree di rischio e, parallelamente, distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare. Soprattutto nei contesti lavorativi più complessi, si è frequentemente in presenza di differenziate figure di soggetti investiti di ruoli gestionali autonomi a diversi livelli degli apparati; ed anche con riguardo alle diverse manifestazioni del rischio. Ciò suggerisce che in molti casi occorre configurare già sul piano dell'imputazione oggettiva, distinte sfere di responsabilità gestionale, separando le une dalle altre. Esse conformano e limitano l'imputazione penale dell'evento al soggetto che viene ritenuto "gestore" del rischio. Allora, si può dire in breve, garante è il soggetto che gestisce il rischio».
Si tratta di una impostazione che ormai si è ampiamente diffusa nella giurisprudenza di questa Corte, che ne fa emergere le implicazioni principalmente, ma non solo, sul piano della causalità.
Come per la posizione di garanzia (che d'altronde potrebbe intendersi anche come specie del più ampio genere 'competenza per il rischio'), l'accertamento di una competenza gestoria deve essere seguito dalla ricognizione delle specifiche modalità di assolvimento del compito, indicate dalle pertinenti regole cautelari. Pertanto, l'identificazione di un soggetto competente e di una sfera di competenza è solo premessa logico-giuridica della verifica della 'colposità1 della condotta. Emblematica, al riguardo, è Sez. 4, n. 31490 del 14/04/2016, Belli, Rv. 267387, che ha annullato la condanna pronunciata (come già dal Tribunale) dalla Corte di appello nei confronti di un medico accusato di aver cagionato la morte del paziente al quale aveva asportato del tessuto osseo dalla teca cranica in vista di un successivo intervento maxillo-facciale, così come indicato dalle leges artis. Questa Corte ha ritenuto che, ferma restando la competenza per il rischio del medico, la mancanza di conoscenza in ordine al modo in cui egli era intervenuto sul paziente (se con uno strumento meccanico o con uno elettronico) non permetteva di individuare le regole cautelari che ne governavano l'azione e quindi di fondare il giudizio di responsabilità. Con la formulazione di un ulteriore, rilevante principio; ovvero, che non può ritenersi individuata la regola cautelare quando il giudice si limita a fare ricorso ai concetti di prudenza, perizia e diligenza senza indicare in concreto quale sia il comportamento doveroso che tali regole cautelari imponevano di adottare.
2.4. Da quanto si è esposto deriva che in taluni casi è appropriato parlare di gestore del rischio mentre in altri è maggiormente pertinente evocare la posizione di garanzia. Infatti, se in entrambe le evenienze si registra l'esistenza di un rischio affidato alla gestione di taluno, ove si postuli una condotta omissiva l'esistenza di una norma come l'art. 40 cpv. cod. pen. impone una differenziazione concettuale, sintetizzata nella evocazione della 'posizione di garanzia'. Come è noto, nel quadrante del reato omissivo improprio si danno elementi strutturali e percorsi ricostruttivi profondamente diversi da quelli propri al reato commissivo.
Di qui l'importanza della qualificazione della condotta come attiva o passiva, come commissiva o omissiva. Operazione che, è notorio, può essere non priva di difficoltà. Come questa Corte ha rilevato sin da una pronuncia ormai risalente, «nella stragrande maggioranza dei casi sono presenti condotte attive e passive che interagiscono tra di loro rendendo ancor più difficile l'accertamento della natura della causalità» (Sez. 4, n. 26020 del 29/04/2009, Cipiccia e altri, Rv. 243931).
Un primo ausilio viene dalla considerazione che, nei reati omissivi impropri, il concetto normativo di omissione rende marginali le eventuali componenti positive di una condotta che assume rilevanza unicamente per il suo essere 'mancato impedimento dell'evento'. Rispetto alla deliberata omissione dell'opera di soccorso da parte del genitore che veda il figlio soccombente ai flutti non assume alcun rilievo nella delineazione della condotta tipica che questi abbia con comportamenti attivi distratto i pochi bagnanti presenti, in modo che non potessero accorgersi della persona in pericolo.
Nel caso di reati omissivi impropri colposi si rinviene una ulteriore difficoltà, connessa al fatto che essi sono plausibilmente rappresentabili come la risultante di due comportamenti omissivi. Una prima omissione è data dal non aver impedito l'evento; una seconda omissione è data dal non aver tenuto la condotta imposta dalla regola cautelare. Questa rappresentazione non è però corretta ed è foriera di equivoci.
Infatti, va tenuta ben distinta la natura omissiva o commissiva del reato e le componenti omissive della colpa. Il caso dell'agente che pone in essere una condotta attiva colposa omettendo di adottare quella diligente non rientra nella causalità omissiva ma in quella attiva.
Ciò posto, secondo una prima impostazione, nei reati colposi, quando l'agente trasgredisce ad un divieto, agendo quindi in maniera difforme dal comportamento impostogli dalla regola cautelare, la condotta assume natura commissiva e non omissiva; questa ricorre allorquando venga violato un comando e quindi si ometta di attivarsi nonostante l'intervento fosse necessario (Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, P.G. in proc. Catalano e altri). Più di recente è emerso nella giurisprudenza di legittimità anche il criterio che impone di cogliere il ruolo che, nella spiegazione dell'evento, abbia avuto la condotta dell'imputato, selezionandone l'indole commissiva od omissiva in dipendenza della maggiore significatività o preponderanza dell'una o dell'altra (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, cit.).
Quest'ultima posizione si intravede già in una precedente decisione che presenta particolare interesse in questa sede. La vicenda che aveva dato luogo al procedimento atteneva alle lesioni patite da alcuni pazienti ai quali erano state impiantate delle protesi valvolari cardiache di tipo meccanico prodotte in Brasile rivelatesi difettose. La contestazione mossa agli amministratori della società che aveva fabbricato quei dispositivi rimproverava loro la violazione di una pluralità di obblighi, la cui fonte era rinvenuta nella Direttiva 93/42/CE. Gli imputati in parola avevano lamentato il ricorso, da parte della Corte di appello, al criterio della prevalenza per definire le condotte attribuite loro come commissive od omissive, stante l'incertezza che ne veniva e l'incompiutezza della motivazione in merito alla relazione eziologica.
La Corte di appello aveva ritenuto che i cc.dd. ’fabbricanti" delle protesi avessero fabbricato le valvole utilizzando dei materiali di scarsa qualità; che tale comportamento fosse stato preceduto da altra condotta apparentemente omissiva (trattandosi di violazione degli obblighi ai quali si sarebbero dovuti attenere perché le protesi rispondessero alle caratteristiche che dovevano avere secondo la Direttiva 93/42/CE), e poi seguito da un'ulteriore condotta (apparentemente) omissiva, consistente nel non aver eseguito i necessari controlli. L'attività 'prevalente' era stata, però quella della fabbricazione, eseguita non correttamente.
La Corte di cassazione ha ritenuto corrette le conclusioni ma ha precisato le premesse teoriche, osservando che "il divieto trasgredito è quello di aver commercializzato le protesi valvolari fabbricate senza l'osservanza di quelle regole, imposte dalla legislazione comunitaria, circa il possesso da parte di tali meccanismi delicatissimi di standard di sicurezza, e, quindi, con violazione della norma comunitaria (Direttiva 93/42/CE) che consente la commercializzazione solo di quelle protesi fabbricate secondo le indicazioni dalla stessa richieste". La condotta tipica era di natura commissiva e si concretizzava nella commercializzazione; "tutta l'attività precedente alla fabbricazione, sebbene significativa nella produzione delle protesi non munite di quei requisiti richiesti dalla normativa CE, ..., non assume rilevanza nella connotazione della condotta, in quanto sarebbe rimasta del tutto indifferente, se le protesi non fossero state commercializzate". In sostanza, ha concluso la Corte, "l'avere fabbricato una protesi valvolare in maniera non corrispondente alla normativa comunitaria ed, in particolare, il non aver disposto gli adeguati controlli o il non aver eliminato gli inconvenienti con riferimento all'assemblaggio e alla lucidatura ecc., sono tutte condotte assimilabili all'esempio ... del medico che somministra una cura diversa da quella prevista da protocolli ordinariamente accettati dalla comunità scientifica", che costituisce certamente condotta commissiva.
Del tutto analoga l'impostazione seguita da questa Corte per qualificare le condotte dei datori di lavoro e dei dirigenti ai quali era stato imputato di aver cagionato morte e/o lesioni personali ai lavoratori esposti durevolmente alle fibre di amianto. Si tratta di una ricostruzione condivisa da larga parte della dottrina, che esclude possa ritenersi omissiva la responsabilità dell'imprenditore che ha mancato di adottare le cautele per ridurre entro i limiti consentiti il contatto dei lavoratori con la sostanza pericolosa; infatti, il criterio della creazione, della contribuzione alla creazione o dell'incremento del rischio (che nulla ha a che vedere con la teoria dell'aumento del rischio ripudiata sin dalla sentenza Sez. U. n. 30328 del 10/7/2002, Franzese, Rv. 222138), significa porre indebitamente in non cale la previa condotta positiva dell'imputato, che ha predisposto la struttura produttiva al cui interno è avvenuta l'esposizione della vittima all'agente tossico. Si è in presenza di una situazione riconducibile all'archetipo dell'avvelenamento somministrato con dosi quotidiane; la componente omissiva della colpa (non aver adottato misure di contrasto all'inalazione dell'agente nocivo) non muta la natura della condotta. Secondo taluno, nell'ambito di attività pericolose come quella industriale o della circolazione stradale si determina sempre una causalità commissiva.
2.5. Alla luce di queste premesse deve essere considerato che nell'ambito del presente procedimento sovente si è evocata una posizione di garanzia pur dovendosi qualificare come attiva la condotta causalmente rilevante; condotta che, perché colposa, presenta certamente aspetti omissivi, i quali tuttavia non si riflettono sulla natura della condotta tipica. Allo stesso modo, sovente si è fatta menzione di obblighi come si trattasse di doveri la cui violazione concreta condotta omissiva (ad esempio, l'omessa valutazione del rischio); ben diversamente si tratta di comportamenti la cui mancata esecuzione rende 'scorretto' e quindi colposa una condotta che rimane commissiva. 
Ne consegue che, per quanto si avrà modo di precisare nell'esame dei rispettivi ricorsi, quasi tutti gli imputati ricorrenti sono stati ritenuti responsabili di condotte che vanno qualificate come commissive colpose; ed in effetti i comportamenti che hanno rilievo causale sono di natura attiva, mentre la violazione delle pertinenti regole cautelari valgono a connotarli come colposi (attestazione di esito positivo del controllo tecnico - UT o MT noleggio; messa in circolazione del carro montante l’assile difettoso). Solo per alcuni dei soggetti coinvolti può correttamente ritenersi che siano stati autori di condotte omissive.

3. Le 'norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro' nel contesto degli artt. 589, co. 2 e 590, co. 3 cod. pen.
3.1. Appare opportuno trattare in via preliminare anche un ulteriore tema, ovvero la nozione di 'norme per la prevenzione degli infortuni', quale viene in considerazione ai fini della integrazione delle circostanze aggravanti rispettivamente previste dall'art. 589, co. 2 e dall'art. 590, co. 3 cod. pen.
L'analisi in questa sede si giustifica per la diretta connessione con quanto si è appena scritto e per il fatto che le aggravanti in parola sono state contestate a tutti gli odierni ricorrenti persone fisiche (salvo le precisazioni che si faranno per il Kr.[UW.]) e tanto gli imputati che gli enti incolpati si sono doluti dell'interpretazione data dai giudici di merito alle menzionate disposizioni. La trattazione preliminare si impone anche perché il riconoscimento di detta aggravante è presupposto di una particolare misura del termine di prescrizione degli omicidi, della legittimazione attiva di talune tra le parti civili costituite nonché della ritenuta responsabilità degli enti morali per l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001. Dare sin d'ora soluzione alla questione permette una maggiore leggibilità della presente motivazione.
Orbene, i relativi motivi di ricorso sono fondati.
La locuzione "fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro" situa l'aggravante prevista dalle menzionate disposizioni codicistiche nel contesto concettuale della cd. concretizzazione del rischio. Come è noto, secondo i dettami della imputazione oggettiva dell'evento, ormai consolidato riferimento della giurisprudenza di legittimità, nei reati colposi di evento alla causalità materiale deve aggiungersi la causalità della colpa, che viene accertata verificando che l'evento verificatosi corrisponda alla classe di eventi il cui accadere la regola cautelare violata intende evitare (cd. concretizzazione del rischio) e che il comportamento doveroso mancato avrebbe effettivamente evitato l'evento realizzatosi qualora adottato (efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito). Se la condotta colposa coincide con la trasgressione della regola cautelare, allora il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni se nell'evento si è concretizzato il rischio da queste governato; non è sufficiente il solo rapporto di causalità materiale.
L'accertamento impone due necessità; la prima è del tutto evidente: si tratta di portare in supeR***Icie quale sia la classe di eventi che la regola vuole scongiurare. In specie la dottrina parla al proposito anche di 'fine di tutela della norma' o di scopo della norma. A fronte di regole cautelari positivizzate occorre certamente interrogare la disposizione, accostandosi ad essa con i consueti strumenti dell'interprete. Ma in realtà la 'primazia' dell'interpretazione di un enunciato, anche nelle sue relazioni con il contesto nel quale è posto, non mette in ombra il fatto che la regola rappresenta la sintesi deontica delle sottostanti assunzioni fattuali. Si tratta di una struttura che è condivisa con le regole cautelari non positivizzate.
Tutte le regole, ovvero i precetti generali ed astratti, si basano su generalizzazioni che nascono dalla ripetuta osservazione di fenomeni; la reiterata osservazione del fatto che determinati comportamenti producono una conseguenza che si intende evitare sta alla base della formulazione di enunciati normativi che vietano quel tipo di comportamenti.
L'analisi della regola cautelare identifica tre generalizzazioni ad essa sottese. C'è la generalizzazione che attiene al rapporto di implicazione tra una determinata situazione X e un rischio Y; c'è la generalizzazione che attiene al rapporto di implicazione tra la misura Z e il rischio Y; c'è la generalizzazione che attiene al rapporto di implicazione tra il rischio Y e un (dis)valore ad esso assegnato. Ma la regola non ha una sintassi del tipo: dato che la situazione X produce il rischio Y, il quale è oggetto di disvalore, e che la misura Z elimina il rischio Y allora si deve adottare Z. La regola è contratta: data la situazione X si deve la misura Z.
Tener presente queste generalizzazioni aiuta a comprendere a cosa si allude quando si afferma che la regola cautelare sorge da un ripetuto giudizio di prevedibilità e di evitabilità. La generalizzazione che considera la correlazione tra la situazione ed il rischio esprime il giudizio di prevedibilità; quella che considera la correlazione tra il rischio e la misura esprime il giudizio di evitabilità.
Sicché la differenza tra le due specie (regola positivizzata-regola sociale) risiede nel fatto che per le regole assunte in disposizioni l'interprete può avvalersi di un più ampio corredo di 'indizi' relativi allo scopo di tutela, ovvero alla classe di eventi, al rischio fronteggiato. Ma l'oggetto dell'accertamento è il medesimo nei due casi. Per portare alla luce il rischio traguardato dalla regola sociale può quindi essere necessario accertare in quale contesto delle attività umane si è fatta esperienza di una certa classe di eventi pregiudizievoli, si è formato il patrimonio conoscitivo compendiato nella morfologia del precetto.
Tuttavia c'è una seconda necessità, forse di minore immediata evidenza. A ben vedere l'interprete non può compiere l'opera senza procedere contestualmente anche alla (ri)descrizione dell'evento. È una necessità imposta dal raffronto con la 'classe' di eventi. Un evento concreto è come tale irripetibile, essendo connotato da una miriade di dati non più riproponibili (si pensi, per quanto banale, alla sua collocazione temporale). Ma poiché si tratta di verificare se l'evento concreto appartiene ad una classe di eventi, quella ricchezza di connotazioni che ne determinano l'unicità perde di rilievo, dovendo essere ricercata soltanto la presenza dei profili che qualificano la classe che interessa.
Occorre ora mettere a fuoco il concetto di 'norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro'. La locuzione è stata introdotta dalla legge 11.5.1966, n. 296, allorquando la legislazione in materia di protezione dei lavoratori era incentrata sui decreti presidenziali emanati tra il 1955 ed il 1956. Il testo principale era senz'altro costituito dal d.p.r. del 27.4.1955, n. 547, recante "Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro"; una titolazione che stava a rappresentare anche la volontà di mantenere distinta tale disciplina da quella approntata con il d.p.r. del 19.3.1956, n. 303, recante "Norme generali per l'igiene del lavoro". Una simile articolazione rese dubbia la riconducibilità alla fattispecie circostanziale qui considerata anche della commissione del fatto con violazioni delle norme per l'igiene del lavoro. L'interpretazione affermatasi in giurisprudenza insegnò che "in tema di reato colposo, per norme sulla disciplina per la prevenzione di infortuni sul lavoro vanno intese non soltanto quelle contenute nelle leggi specificamente dirette ad essa, ma anche tutte le altre che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che, in genere, tendono a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi (Sez. 4, n. 5327 del 7/3/1978, Sottiletta, rv. 138904; Sez. 4, n. 4477 del 14/12/1981, dep. 1982, Gaibiotti, Rv. 153473).
Già in queste pronunce si coglie l'estensione della nozione di 'norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro' sino a ricomprendervi non solo le 'norme per l'igiene del lavoro' ma anche tutte quelle disposizioni che, anche non collocate nei decreti presidenziali esplicitamente dedicati alla materia, pure, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali.
Esaminando la giurisprudenza che ne è seguita ci si accorge, tuttavia, che il principio è stato utilizzato essenzialmente con riferimento all'art. 2087 c.c., a riguardo del quale si è scritto che anche la sua violazione vale ad integrare l'aggravante in parola.
Nella sentenza Sez. 6, n. 3431 del 08/02/1979, Galluzzo, Rv. 14170401 si rimarcò che l'aggravante di cui all'art 589 cod. pen. sussiste non solo quando sia contestata la violazione di specifiche norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ma anche quando la contestazione abbia ad oggetto la omissione della adozione di misure ed accorgimenti per la più efficace tutela della integrità fisica dei lavoratori, in violazione dell'art 2087 cod. civ. La norma, si scrisse, lungi dall'avere "valore astratto ed ammonitivo", prevede un preciso obbligo dell'imprenditore, diretto ad eliminare, nell'esercizio dell'impresa, ogni situazione di pericolo dalla quale possa verificarsi un evento dannoso; anche la violazione di quest'obbligo rientra, pertanto, tra le violazioni di norme antinfortunistiche che aggravano, ai sensi del citato art. 589 il comportamento colposo del soggetto attivo del reato.
Analogamente Sez. 4, n. 5063 del 04/03/1982, Kratter, Rv. 15372901 puntualizzò che in tema di reato colposo, sussiste l'aggravante della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nell'ipotesi di inadempienze al generico precetto dell'art. 2087 cod. civ., in forza del quale l'imprenditore è tenuto ad adottare tutte le misure che, in relazione al tipo di lavoro da esplicare, sono necessarie alla tutela dell'integrità fisica e personalità morale dei prestatori di lavoro. E così Sez. 5, n. 2825 del 18/11/1982, dep. 1983, Fontana, Rv. 15824401, per la quale la circostanza aggravante di cui agli artt. 589 comma secondo e 590 comma terzo cod. pen. sussiste non solo per la violazione di specifiche norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ma anche per l'omessa adozione di ogni idonea misura a protezione della integrità fisica dei lavoratori, in violazione dell'art. 2087 cod. civ..
Si possono ancora citare Sez. 4, n. 3495 del 04/03/1994, Stellan, Rv. 19794701 (''L'aggravante del fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro prevista dall'art. 589, comma secondo, cod. pen., sussiste anche quando la contestazione abbia ad oggetto la violazione dell'art. 2087 Cod. Civ., in forza del quale l'imprenditore è tenuto ad adottare tutte le misure che, in relazione al tipo di lavoro da espletare, sono necessarie a tutelare la integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori") e Sez. 4, n. 18628 del 14/04/2010, Lascioli, Rv. 24746101, secondo la quale per la configurazione della circostanza aggravante di cui all'art. 590, comma terzo, cod. pen. non occorre la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ma è sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 cod. civ. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore.
La riconduzione dell'art. 2087 c.c. al novero delle norme per la prevenzione degli infortuni (a prescindere dalla assegnazione al genere 'regole cautelari', errata per quanto sopra si è scritto) non segna però nulla più che un ampliamento topografico, non potendosi dubitare che la disposizione pone a carico dell'imprenditore-datore di lavoro un obbligo di garanzia avente ad oggetto la salute e la vita dei lavoratori.
Anche quando l'interpretazione più lata della locuzione che qui interessa non ha riguardato l'art. 2087 c.c., si è trattato pur sempre di norme nelle quali la direzione teleologica era chiaramente quella della tutela dei lavoratori. Nella pronuncia Sez. 4, n. 10048 del 16/07/1993, P.G. ed altri, Rv. 19569701 si statuì che ai fini della prevenzione degli infortuni sul lavoro sono da rispettare non soltanto le norme specifiche contenute nelle speciali leggi antinfortunistiche ma anche quelle che, se pure stabilite da leggi generali, sono ugualmente dirette a prevenire gli infortuni stessi, come l'omissione di impianti o di segnali destinati a tale scopo di cui all'art. 437 cod. pen. Si concluse, quindi, che tale omissione, anche se ascritta come reato autonomo, opera altresì come circostanza aggravante del concorrente reato di omicidio colposo, essendo distinti e giuridicamente autonomi gli interessi offesi, rispettivamente la pubblica incolumità e la vita della persona, il che giustifica l'applicabilità al reato ex art. 589 cod. pen. della circostanza aggravante della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui al comma secondo del detto articolo, che pure costituisce la condotta tipica descritta dall'art. 437 cod. pen.
Occorre venire a tempi più recenti per un'applicazione del principio oltre questo limitato orizzonte.
Sez. 4, n. 33244 del 17/04/2019, De Falco, Rv. 27668801 ha ribadito il principio della rilevanza, ai fini dell'applicazione degli artt. 589, secondo comma, e 590, terzo comma, cod. pen., anche delle norme che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che, in genere, tendono a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi, in un caso nel quale è venuto in considerazione il d.m. 22 gennaio 2008, n. 37, che reca prescrizioni volte a garantire la sicurezza dei lavori attinenti agli impianti, sia per i lavoratori che per gli utilizzatori. Anche in questo caso si è sottolineato che deve trattarsi di regole cautelari di sicura proiezione finalistica verso un rischio connesso all'attività lavorativa.
In altra pronuncia è stato affermato che anche la violazione di una norma del codice della strada, come quella che riguarda l'obbligo della distanza di sicurezza tra i veicoli, può dare luogo ad una trasgressione di un precetto antinfortunistico se questa, verificandosi in ambiente o in occasione di lavoro, integra la violazione di una misura di sicurezza atta ad evitare pregiudizi per i lavoratori e per i terzi (Sez. 4, n. 22022 del 22/02/2018, Tupini e altri, Rv. 273585).
Da quanto sin qui esposto si trae che la locuzione "norme in materia di prevenzione per gli infortuni" chiama in causa regole cautelari volte a eliminare o ridurre non già un generico rischio (di eventi intermedi in quanto prevedibilmente produttivi) di morte o lesioni ma specificamente eventi in danno di lavoratori o di soggetti a questi assimilabili scaturenti dallo svolgimento dell'attività lavorativa. Consegue, altresì, che il dato meramente nominalistico e topografico non assume rilievo dirimente.
Ciò posto, va però considerato che la locuzione opera all'interno e agli effetti di una fattispecie circostanziale aggravatrice. Pertanto, la tradizionale interpretazione estensiva dell'art. 589, co. 2 e dell'art. 590, co. 3 cod. pen. deve essere adeguatamente controllata, perché non sconfini in una vietata interpretazione analogica in malam partem. Né può essere ignorato l'ulteriore vincolo interpretativo che deriva dal canone di prevedibilità della condotta sanzionata con la limitazione della libertà personale, quale contenuto in generale nell'art. 7 CEDU e in particolare nell'art. 2 del Protocollo n, 4, e rilevante come parametro interposto ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost.
Ne consegue che in assenza di chiari indici della tipologia di rischio al cui governo è posta la regola cautelare va adottata una interpretazione pro reum.

4. La valenza causale della trasgressione alla regola prevenzionistica
4.1. Tuttavia, che sia stata violata una regola prevenzionistica (così, più sinteticamente, ci si riferirà alle norme citate dall'art. 589, co. 2 cod. pen.) non garantisce che l'evento sia stato commesso proprio con violazione di essa. È un'implicazione della causalità della colpa, e segnatamente della cd. concretizzazione del rischio, come si è visto fondamento dell'aggravante in parola.
Occorre essere ben avvertiti di ciò, per non incorrere nell'errore di ritenere che la violazione causale attiene a regola volta alla tutela da quel rischio, sicché il fatto è stato commesso con violazione di norma per la prevenzione degli infortuni, sol perché si registra la presenza di dati che solitamente si accompagnano al rischio lavorativo e che pertanto possono esserne indicatori (ad esempio: il soggetto passivo è un lavoratore; l'evento si è verificato nel corso dell'attività lavorativa; soggetto passivo è un terzo estraneo all'organizzazione lavorativa ma l'evento si è verificato nell'ambiente di lavoro).
È utile considerare quanto sostenuto dalla più recente giurisprudenza in tema di cause interferenti (art. 41 cod. pen.). Essa pone in luce che anche quando si registrano importanti indicatori che farebbero concludere che l'evento è concretizzazione del rischio lavorativo (contesto lavorativo, evento in danno del lavoratore, persino violazione di regola prevenzionistica) può accadere che esso invece sia concretizzazione di altro tipo di rischio, perciò definito 'eccentrico'.
Della vasta casistica qui appare di particolare interesse una selezione tra le decisioni che prendono in considerazione il comportamento del lavoratore rimasto infortunato.
Un lavoratore addetto ad una pala meccanica, constatando che questa si era bloccata, era sceso dal mezzo senza spegnere il motore e, sdraiatosi sotto di essa tra i cingoli, aveva sbloccato a mano la frizione difettosa. Il veicolo, muovendosi, aveva travolto il lavoratore. La Corte di cassazione annullò con rinvio la pronunzia di condanna del titolare dell'impresa, ritenuto responsabile di omicidio colposo, stabilendo il principio secondo il quale "la responsabilità dello imprenditore deve essere esclusa, in tutto o in parte, allorché l'infortunio si sia verificato a causa di una condotta del lavoratore inopinabile ed esorbitante dal sistema di lavorazione oppure a causa di inosservanza di precise disposizioni antinfortunistiche da parte del predetto lavoratore". Affidò al giudice del rinvio il compito di valutare in tale prospettiva il comportamento del lavoratore di disinserire la frizione senza curarsi di spegnere il motore della macchina (Sez. 4, n. 3510 del 10/11/1989, dep. 1990, Addesso, Rv. 18363301).
In altra occasione si era trattato del comportamento del lavoratore che, addetto ad una macchina dotata di fresatrice, con il compito di introdurvi manualmente degli elementi di legno, aveva imprudentemente inserito la mano all'interno dell'apparato per rimuovere residui di lavorazione, subendone l'amputazione. A fronte della affermazione di responsabilità del datore di lavoro e del preposto per la mancata adozione di idonei dispositivi di sicurezza, il giudice di legittimità annullò con rinvio la decisione, ancora una volta sollecitando a valutare se l'incongruo intervento del lavoratore fosse stato richiesto da particolari esigenze tecniche, tenuto conto che l'operazione compiuta era rigorosamente vietata, che la macchina era dotata di idoneo strumento aspiratore, che il lavoratore era perfettamente consapevole che la fresatrice era in movimento, che qualunque accorgimento tecnico volto ad obbligare l'operatore a tenere ambo le mani impegnate per far andare la macchina avrebbe dovuto fare i conti con il tipo di lavorazione, nel quale la manualità dell'operatore era totalmente assorbita nell'introduzione del legno nell'apparato (Sez. 4, n. 10733 del 25/09/1995, Dal Pont e altro, Rv. 20322301).
Pertinente al discorso che si va conducendo è anche quanto statuito da Sez. 4, n. 30039 del 26/01/2006, Giovine, Rv. 23517401, secondo la quale "la condotta del lavoratore che abbia contravvenuto a specifiche prescrizioni impartite dal datore di lavoro in ragione di una sussistente ragione di emergenza e sia esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive organizzative ricevute, è qualificabile come causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento (articolo 41, comma secondo, cod. pen.), con il conseguente esonero di responsabilità da parte del datore di lavoro per l'incidente occorso al dipendente".
Tra le decisioni più recenti è sufficiente segnalare, atteso che ci si potrebbe fermare al richiamo di quanto sul punto affermato dalle SU n. 38343/2014, quella che ha confermato l'assoluzione di un datore di lavoro per le lesioni che ad un lavoratore erano state causate da altro lavoratore con condotta del tutto imprevedibile ed eccentrica rispetto alle mansioni assegnate nell'ambito del ciclo produttivo. Più specificamente, era accaduto che un dipendente dell'imputato avesse ceduto gratuitamente un fusto di gasolio di proprietà del suo datore di lavoro, ormai vuoto - il cui uso normale era quello di un qualunque recipiente di combustibile, utilizzato per contenerlo e trasportarlo - al dipendente di un'altra impresa attiva nello stesso cantiere, che lo aveva richiesto per farne un uso personale e privato, in nulla attinente al lavoro che si svolgeva in loco. Quest'ultimo aveva operato il taglio della lamiera con un flessibile munito di disco abrasivo, con l'assistenza del lavoratore poi infortunato. La Corte di cassazione ha convalidato l'assunto dei giudici di merito, per i quali si era trattato di un comportamento che aveva introdotto un rischio estraneo a quello lavorativo ed ha precisato che, in rapporto a ciò, è "irrilevante che il fatto si sia verificato sul luogo in cui i predetti prestavano attività lavorativa, poiché deve escludersi ogni relazione tra i comportamenti in questione e il lavoro cui gli stessi erano addetti".
Merita menzione anche la massima per la quale "in tema di infortuni sul lavoro, la condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore, idonea ad escludere il nesso causale, non è solo quella che esorbita dalle mansioni affidate al lavoratore, ma anche quella che, nell'ambito delle stesse, attiva un rischio eccentrico od esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia" (Sez. 4, n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, PMT c. Musso, Rv. 27501701; per una applicazione nell'ambito della responsabilità medica cfr. Sez. 4, n. 15493 del 10/03/2016, P.c. in proc. Pietramala e altri, Rv. 26678601).
Il principio che si intravede in queste e simili pronunce è quello della rilevanza che assume l'autonoma decisione del lavoratore di esporsi al pericolo di lesioni o morte.
Autoesposizione che, se non trova la propria causa in un difetto di formazione o di vigilanza del garante prevenzionistico, introduce un rischio che prende il luogo di quello lavorativo e annette l'evento alla sfera di rischio del quale è gestore lo stesso soggetto passivo; evenienza che può realizzarsi persino quando l'evento si è prodotto nel corso dell'attività lavorativa, in danno di lavoratore e nella concomitante inosservanza di una regola prevenzionistica da parte del datore di lavoro.
Risulta quindi confermato quanto si è scritto in precedenza: pur in presenza di condizioni che normalmente si associano al rischio lavorativo può accadere che quello concretizzatosi nell'evento verificatosi sia altro tipo di rischio.
4.2. Ricapitolando, la formula legale impone di domandarsi quale sia il rischio concretizzatosi nell'evento e tanto significa verificare quale sia il rischio fronteggiato dalla regola cautelare la cui violazione ha spiegato efficienza causale.
Come si è già osservato, nel caso di regole positivizzate soccorrono i consueti criteri interpretativi. Nel caso di regole sociali occorrerà indagare il contesto di provenienza, che potrà essere settoriale, tecnico oppure indeterminato. In tal ultimo caso assumerà rilievo la contestualizzazione della regola, ciò lo specifico scenario entro il quale questa doveva trovare applicazione.
A ben vedere le regole cautelari, e segnatamente quelle che si stanno esaminando, presuppongono un preciso 'ambientamento', che è poi il contesto entro il quale insorge il rischio lavorativo: esse impongono comportamenti ad un soggetto costituito competente per la gestione del rischio lavorativo e per questo vedono quale beneficiario ordinariamente solo la persona del lavoratore e ordinariamente questi ne è beneficiario solo mentre svolge l'attività di lavoro.
È però un dato che la giurisprudenza di legittimità ha non di rado sostenuto che le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro tutelano anche i terzi; che in quanto tali sarebbero estranei all'area del rischio lavorativo. Il principio merita di essere ribadito anche in questa sede; ma ne va definita con miglior precisione la premessa.
Si è affermato che «le norme antinfortunistiche sono poste a tutela non di qualsivoglia persona che si trovi fisicamente presente sul luogo ove si svolge l'attività lavorativa, magari per curiosità o addirittura abusivamente, ma di coloro che versino quanto meno in una situazione analoga a quella dei lavoratori e che si siano introdotti sul luogo del lavoro per qualsiasi ragione purché a questo connessa» (Sez. 4, n. 7924 del 5/1/1999, Caldarelli, Rv. 214246, che ha di conseguenza assolto il garante dall'accusa di avere colposamente causato la morte di tre ragazzi, abusivamente entrati nell'ambiente lavorativo e annegati in una vasca con rampe viscide che non era stata debitamente protetta da parapetti né segnalata tramite cartelli di pericolo).
Nel medesimo senso, più recentemente si è scritto che, in tema di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell'ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa, di talché, ove in tali luoghi si verifichino, a danno del terzo, i reati di lesioni o di omicidio colposi, è ravvisabile la colpa per violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, purché sussista, tra siffatta violazione e l'evento dannoso, un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi, e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico (Sez. 4, n. 32178 del 16/09/2020, Dentamaro, Rv. 280070; del tutto conforme, Sez. 4, n. 44142 del 19/07/2019, De Remigis, Rv. 277691; Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013, dep. 2014, S. e altro, Rv. 258436).
In applicazione di questi principi si è ulteriormente puntualizzato che "ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante del fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, occorre che l'evento realizzatosi concretizzi il rischio che la regola cautelare violata mirava a prevenire, con la conseguenza che ove la persona offesa dal reato non sia un lavoratore ma un terzo, la circostanza è ravvisabile solo se la regola prevenzionistica sia dettata a tutela di qualsiasi soggetto che entri in contatto con la fonte di pericolo sulla quale il datore di lavoro ha poteri di gestione e non anche quando la regola prevenzionistica sia posta a beneficio precipuo del lavoratore (Sez. 4, n. 51142 del 12/11/2019, Festa, Rv. 277880). In applicazione del principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva escluso la circostanza aggravante in questione in relazione all'infortunio occorso a un vigile del fuoco durante un intervento volto a domare un incendio di sterpaglie, perché folgorato da un conduttore della linea elettrica sganciatosi da un palo, in conseguenza dell'omessa manutenzione della linea elettrica.
Anche la Corte di appello ha inteso richiamarsi ad alcune pronunce del giudice di legittimità per attestare che l'estrinsecarsi del rischio lavorativo non è negato dalla circostanza che soggetto passivo della condotta illecita siano soggetti estranei all'ambiente di lavoro (la moglie di un operaio ammalatasi per aver inalato amianto lavando in casa le tute del marito: Sez. 4, n. 27975 del 15/05/2003, Èva, Rv. 22601101; gli occupanti di una casa posta all'esterno di un cantiere distrutto dal crollo di una gru posta all'interno di questo: Sez. 4, n. 24136 del 06/05/2016, P.C., Di Maggio e altri, Rv. 26685401; il privato sul quale si era abbattuto un palo fatto cadere da errate operazioni di taglio di alberi: Sez. 4, n. 40719 del 9/9/2015, Paladini, n.m.; ed altre). Ma si tratta appunto di sentenze che non negano la possibilità che l'aggravante in parola possa essere integrata pur se la persona offesa non è un lavoratore o l'evento si è verificato all'esterno del perimetro aziendale. Tuttavia sempre a condizione che si sia concretizzato il rischio lavorativo.
In conclusione, ad avviso di questa Corte, dalla giurisprudenza che si è rammentata si trae che è ben possibile che nell'evento si sia concretizzato il rischio lavorativo anche se avvenuto in danno del terzo, ma ciò richiede che questi si sia trovato esposto a tale rischio alla stessa stregua del lavoratore. Per tale motivo, in positivo, vengono richieste condizioni quali la presenza non occasionale sul luogo di lavoro o un contatto più o meno diretto e ravvicinato con la fonte del pericolo; e, in negativo, che non deve aver esplicato i suoi effetti un rischio diverso.
Il principio che va formulato all'esito della ricostruzione operata è quindi il seguente:
"Ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante di cui all'art. 589, co. 2 (e all'art. 590, co. 3) cod. pen., la locuzione "se il fatto è commesso ... con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro" va interpretata come riferita ad eventi nei quali risulta concretizzato il rischio lavorativo, per essere quelli causati dalla violazione di doveri cautelari correlati a tale tipo di rischio. Per rischio lavorativo deve intendersi quello derivante dallo svolgimento di attività lavorativa e che ha ordinariamente ad oggetto la sicurezza e la salute dei lavoratori ma può concernere anche la sicurezza e la salute di terzi, ove questi vengano a trovarsi nella medesima situazione di esposizione del lavoratore".
4.3. Tirando le somme di quanto si è sin qui osservato, l'integrazione dell'aggravante in esame richiede:
- che sia stata violata una norma a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori;
- che l'evento, anche quello occorso in danno di un terzo, sia concretizzazione del rischio lavorativo, ovvero del rischio di nocumento del lavoratore in conseguenza dell'attività espletata o del terzo che si trova in analoga situazione di esposizione.
Appaiono evidenti gli errori nei quali sono incorsi i giudici di merito.
La Corte di appello ha esordito affermando che "il presupposto" dell'aggravante in parola "è che l'evento lesivo si verifichi in occasione dello svolgimento di un'attività lavorativa, cioè dell'attività regolata da tale normativa proprio nell'ottica della prevenzione degli infortuni ...". Si tratta di affermazione che per la sua incompletezza e perentorietà è del tutto errata. Come è evidente, l'accento posto sul verificarsi dell'evento "in occasione dello svolgimento di un'attività lavorativa" è in contrasto con la lettera della legge, la quale pretende che il fatto sia stato commesso "con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro". E se coglie il segno, la Corte distrettuale, respingendo l'assunto difensivo per il quale sarebbe necessità imposta dalle disposizioni in esame che l'evento lesivo si verifichi in danno di un lavoratore o in uno specifico luogo di lavoro, è però errato prescindere dalla verifica in merito alla natura delle regole cautelari la cui violazione si è accertata esser stata causalmente efficiente; quindi, dall'accertamento del tipo di rischio concretizzatosi nell'evento. Lo svolgimento di attività lavorativa è un presupposto necessario ma non sufficiente.
Ciò nonostante, la Corte di appello, in luogo di impegnarsi nella indagine sullo spettro preventivo delle norme allo scopo rilevanti, ha riconosciuto l'aggravante perché il sinistro "è avvenuto nel corso dello svolgimento dell'attività lavorativa del trasporto per ferrovia di quella merce pericolosa, e costituisce un 'rischio tipico' che l'imprenditore ferroviario è chiamato a governare, tutelando da esso in primo luogo i dipendenti propri, di altre imprese ferroviarie e del gestore della rete ferroviarie ...., ma in secondo luogo, ed altrettanto direttamente, tutti coloro che, trovandosi per qualunque motivo legittimo e noto nei pressi del treno nel momento del deragliamento, prevedibilmente ne verrebbero travolti...".
Quel che la Corte di appello non ha colto è che il rischio tipico dell'imprenditore ferroviario attiene alla sicurezza della circolazione ferroviaria; esso può concretizzarsi anche nei confronti dei lavoratori dipendenti, senza per questo mutarsi - addirittura per chiunque ne risulti investito - in rischio lavorativo.
Piuttosto, essendo quell'imprenditore anche datore di lavoro, egli è tenuto altresì a garantire la sicurezza del lavoro a coloro che sono esposti ai rischi insiti nell'esercizio dell'attività lavorativa.
La autonomia delle due aree di rischio e quindi delle connesse competenze non è stata colta dai giudici di merito, i quali a più riprese hanno affermato che "non è condivisibile la distinzione ... tra la 'sicurezza sui lavoro' e la 'sicurezza della circolazione', dalle quali deriverebbero per l'impresa ferroviaria e per il gestore della ferrovia obblighi cautelari diversi e distinte posizioni di garanzia: l'attività svolta è unica ed ha, ..., una indubbia e ineliminabile natura lavorativa, essendo il treno e la ferrovia l'ambiente di lavoro per tutti i dipendenti dei predetti soggetti, per cui anche l'obbligo cautelare non può che essere unico...". Assunti che contraddicono tutti i principi posti dalla giurisprudenza di questa Corte, sopra rammentati, quanto alla necessità di tener conto delle diverse sfere di rischio, alle quali si rapportano specifici gestori e specifiche regole comportamentali. In essi traspare con totale evidenza l'erronea applicazione della legge, interpretata come se desse rilievo al fatto occorso in occasione di attività lavorativa invece che a quello commesso con violazione di norme prevenzionistiche.
Ancor più radicale è l'errore di considerare i trentadue fatti omicidiari (e si tralascia di considerare le lesioni personali perché non più oggetto dei ricorsi, salvo quanto si dirà per il Le.[JO.]) come se si trattasse di un unico fatto-reato; laddove è del tutto consolidato che l'ultimo comma dell'art. 589 cod. pen. opera sul solo piano del trattamento sanzionatorio, mentre i singoli reati mantengono ad ogni altro effetto la lor autonomia. Ciò in quanto la fattispecie disciplinata dall'art. 589 u.c. non costituisce un'autonoma figura di reato complesso, né dà luogo alla previsione di circostanza aggravante rispetto al reato previsto dall'art. 589, comma primo, cod. pen., ma prevede un'ipotesi di concorso formale di reati, unificati solo "quoad poenam", con la conseguenza che ogni fattispecie di reato conserva la propria autonomia e distinzione (Sez. 4, n. 20340 del 07/03/2017, Monnet, Rv. 27016701; similmente Sez. 4, n. 36024 del 03/06/2015, P.C. e altro, Del Papa e altro, Rv. 26440801; Sez. 4, n. 47380 del 29/10/2008, Pilato e altri, Rv. 24282701).
A ciò si associa l'errore di ritenere circostanziati tutti gli omicidi in ragione della pretesa qualificazione degli stessi come infortuni sul lavoro, senza alcuna considerazione della particolare qualità soggettiva dell'autore del fatto, quasi che essi fossero stati ascritti in ragione di una cooperazione colposa con colui o coloro che fondatamente possono ipotizzarsi garanti della sicurezza del lavoro e della salute dei lavoratori più palesemente coinvolti nella vicenda (ma non nel processo: i macchinisti che conducevano il convoglio); ben diversamente la scelta dell'accusa è stata quella di definire autonome autorie, con l'effetto di non rendere neppure prospettabile l'ipotesi che la circostanza aggravante si comunichi ad ogni cooperante.
In sintesi, i Collegi territoriali non hanno accertato per ciascun fatto tipico se in esso si fosse concretizzato il rischio lavorativo ma hanno fuso i singoli eventi in un unico complessivo evento, aprioristicamente qualificato 'infortunio sul lavoro'.
Palesemente erronea è quindi l'affermazione per la quale, avendo i due macchinisti del treno deragliato e il personale operante nella stazione di Viareggio corso un gravissimo rischio di lesioni, non si può dubitare che il sinistro si sia verificato "nel corso di un'attività lavorativa, in danno di lavoratori e con violazione delle norme poste a loro tutela". In tal modo, si ripete, viene smarrito il dato, essenziale, della autonomia dei plurimi reati di omicidio e la necessità conseguente di verificare che ciascuno di essi sia stato commesso con violazione delle norme prevenzionistiche. Sicché risulta appropriato e fondato il rilievo avanzato dalle difese in merito alla estraneità alle contestazioni di reati commessi in danno dei due macchinisti.
Anche l'evocazione del fatto che il gestore della rete aveva istituito il Sistema Integrato di Gestione della Sicurezza, così componendo un modello che comprendeva tanto la gestione della sicurezza della circolazione che quelli della sicurezza del lavoro e della sicurezza ambientale, risulta del tutto illogico, se non anche privo di pertinenza. Da un canto l'interazione dimostra proprio la diversità dei rischi, che vengono opportunamente gestiti anche valutando le correlazioni tra loro esistenti; dall'altro l'argomento concreta un ulteriore passo di allontanamento dalla indagine richiesta dalle contestazioni.
Rispetto ad essa l'attenzione portata all'applicabilità al trasporto ferroviario del d.lgs. n. 81/2008 si giustifica solo per la sua propedeuticità rispetto al tema della verifica dell'avvenuta trasgressione degli artt. 23 e 24 di tale decreto (in disparte si lascia il richiamo degli artt. 2 e 18, per quanto si dirà più avanti). Applicabilità che i giudici di merito hanno ritenuto del tutto correttamente; ma che non è risolutiva, proprio perché si tratta di verificare se poi i diversi fatti ascritti a ciascun imputato si sono verificati o meno per la violazione di una o più delle norme prevenzionistiche.
In conclusione, è del tutto errata l'impostazione 'generalizzante' seguita dai giudici di merito per dare dimostrazione che l'aggravante in parola è stata integrata.
Sarebbe stato necessario accertare per ciascun imputato se le norme a contenuto cautelare da ognuno violate, con effetto sul meccanismo causale che ha condotto agli omicidi loro ascritti, siano o meno da qualificarsi come 'norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro'.

5. Analisi delle disposizioni richiamate nelle contestazioni
5.1. Onde evitare faticose ripetizioni è utile anticipare sin da questa trattazione unitaria alcune precisazioni in merito alle più rilevanti disposizioni citate nelle contestazioni, evocate come 'norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro'.
L'art. 2043 c.c. è norma generalissima, inidonea a fondare una posizione di garanzia ed è priva di ogni indicazione cautelare, men che meno per il settore della prevenzione degli infortuni; essa pone un generale divieto di recare danno ad altri ma non edifica un obbligo di protezione di definiti beni giuridici dei quali sia titolare altro soggetto né un obbligo di controllo di specifiche fonti di pericolo.
La tralaticia evocazione del principio del neminem laedere in guisa di norma fondativa di un dovere cautelare, ancora di recente proposta (si veda ad esempio, Sez. 4, n. 24692 del 29/03/2016, Rv. 267230) - e per lo più in replica alla domanda se l'appaltatore di lavori edili abbia l'obbligo di osservare tutte le cautele necessarie per evitare danni alla persona non solo nel periodo di mera esecuzione delle opere appaltate, ma anche nella fase successiva - nella realtà si cala in fattispecie nelle quali il giudizio di responsabilità mette radici nell'originaria posizione di garanzia, non venuta meno con la consegna dei lavori, visto che vi era stato un nuovo intervento dopo di essa (così nella citata n. 24692/2016); oppure nel fatto che l'opera consegnata si trovava ancora in condizioni tali da rappresentare un pericolo (Sez. 4, n. 1511 del 28/11/2013, dep. 2014, Schiano di Cola e altro, Rv. 259084); o nella circostanza che l'appaltatore aveva conservato Il controllo della zona dei lavori (Sez. 4, n. 14817 del 02/03/2006, Finato e altro, Rv. 234034).
Non vi è dubbio, quindi, che nella giurisprudenza di questa Corte si rinvengono affermazioni che reclutano anche tale disposizione tra quelle che possono dar corpo all'aggravante prevenzionistica. Si afferma, ad esempio, che il committente può rispondere per una condotta colposa, che integri gli estremi della imprudenza e della negligenza, intesa al principio generale del neminem laedere (Sez. 4, n. 8654 del 30/06/1981, Broli, Rv. 15037401).
Ma a far dubitare della correttezza della interpretazione è già il fatto che il principio del neminem laedere viene evocato quale fonte dalla quale scaturisce un generico ed immanente dovere di diligenza, da osservare quando si pongono in essere attività dalle quali possono scaturire pregiudizi a terzi.
Ad esso si ricorre, ad esempio, in materia di circolazione stradale; si è affermato che "l'osservanza delle norme precauzionali scritte non fa venir meno la responsabilità colposa dell'agente, perché esse non sono esaustive delle regole prudenziali realisticamente esigibili rispetto alla specifica attività o situazione pericolosa cautelata, potendo residuare una colpa generica in relazione al mancato rispetto della regola cautelare non scritta del "neminem laedere", la cui violazione costituisce colpa per imprudenza (Sez. 4, n. 15229 del 14/02/2008, P.G. in proc. Fiorinelli, Rv. 23960001).
Ancora, sempre nel contesto della materia della prevenzione degli infortuni, si è affermato che "l'art. 2087 cod. civ., pur non contenendo prescrizioni di dettaglio come quelle rinvenibili nelle leggi organiche per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, non si risolve in una mera norma di principio ma deve considerarsi inserito a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica, di cui costituisce norma di chiusura, per altro comportante a carico del datore di lavoro precisi obblighi di garanzia e protezione di fini individuali. Detta norma, per il richiamo alla tutela dell'integrità fisica del lavoratore e alla particolarità del lavoro, rende specifico l'illecito consumato in sua violazione sia rispetto alla colpa generica richiamata nell'art. 2043 cod. civ. che rispetto a quella di rilievo penalistico e in tal caso aggrava il reato, rendendolo perseguibile di ufficio" (Sez. 4, n. 5114 del 17/04/1996, Amenduni ed altri, Rv. 20519601).
Ad avviso di questa Corte, una simile giurisprudenza non può avere seguito. La prescrizione dell'art. 2043 c.c. non è classificabile tra le norme di dovere. Una posizione di garanzia è caratterizzata dalla relazione corrente tra uno o più titolari di beni giuridici non in grado di tutelarli e categorie predeterminate di soggetti a cui la legge extrapenale o altra fonte giuridica assegni poteri per l'impedimento di eventi offensivi di quei beni. Essa, quindi, non può discendere dal generale dovere di non ledere l'altrui sfera giuridica, che incombe su qualunque consociato e non ha alcuna capacità selettiva per la costituzione di obblighi qualificati di agire in capo soltanto a taluni soggetti a favore di chi non è in grado di provvedere autonomamente alla protezione dei propri beni (in tal senso, da ultimo, Sez. 1, n. 9049 del 07/02/2020, Pg c/o Ciontoli, Rv. 27850101, in motivazione). Dal canto suo, nell'ambito dei reati causalmente orientati, una condotta commissiva si qualifica come illecita sulla base della sua efficienza causale.
Dimostrazione del debole puntello che il richiamo all'art. 2043 c.c. offre al giudizio di responsabilità è data dalla ricorrente associazione ad altra, ben più nitida fonte dell'obbligo di impedimento: ad esempio, l'art. 2050 c.c. (a proposito del responsabile di attrezzature sportive e ricreative: Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013, dep. 2014, S. e altro, Rv. 25843401; dell'estetista professionale: Sez. 4, n. 22835 del 12/05/2015, Vangelista, Rv. 26382701) o l'art. 2087 c.c., come nei precedenti già citati.
Proprio a riguardo dell'art. 2050 c.c., pure richiamato da diverse imputazioni, va reso esplicito che non si tratta di norma per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, avendo un più ampio spettro preventivo. Norme prevenzionistiche sono solo quelle che assumono a presupposto non il generico rischio connesso all'esercizio di attività pericolose ma lo specifico rischio lavorativo. Inoltre, quando l'attività pericolosa venga svolta in forma organizzata e collettiva, la disposizione vale a costituire una posizione di gestione del rischio in primo luogo in capo al titolare dell'organizzazione, mentre per l'allocazione di responsabilità su soggetti a questo subordinati è necessario che sia dimostrata la definizione ed attribuzione di una autonoma, sia pure coordinata, sfera di gestione del rischio. Di tale disposizione si tratterà più diffusamente nel prosieguo.
A riguardo dell'art. 2087 c.c. si registrano vedute non del tutto concordanti. La giurisprudenza più risalente attribuisce alla norma tanto la funzione di individuare la competenza in materia di sicurezza del lavoro quanto la natura di regola cautelare elastica. Alcune pronunce più recenti la indicano come norma di dovere, mancandole il carattere modale che si riconosce tipico delle regole cautelari. La questione non ha rilievo in questa sede perché è incontroverso che si tratta di norma per la prevenzione degli infortuni sul lavoro; parimenti indubbio è che per identificare il contenuto precettivo della stessa occorre in ogni caso tener conto di quanto impongono, nelle circostanze concrete, la esperienza e la tecnica.
Ciò che qui occorre rilevare è che la norma eleva a gestore del rischio connesso alle attività lavorative unicamente l'imprenditore/datore di lavoro al quale quelle attività fanno capo e non un quivis de populo; di conseguenza non può valere ad identificare competenze o doveri cautelari di soggetti diversi dal datore di lavoro [per la relativa nozione occorre tener presente l'art. 2, co. 1, lett. b) d.lgs. n. 81/2008].
Nel catalogo delle norme in materia di prevenzione degli infortuni la Corte di appello colloca anche gli artt. 2 lett. n) e 18 lett. q) del d.lgs. n. 81/2008. La stessa collocazione topografica di tali disposizioni indizia fortemente di fondatezza l'assunto dei giudici di merito. Tuttavia di esse viene proposta una interpretazione che non appare corretta.
La prima disposizione definisce il termine prevenzione ai fini dell'applicazione delle norme del decreto 81: "«prevenzione»: il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità dei lavoro, l'esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno". Quanto all'art. 18, co. 1 lett. q) d.lgs. n. 81/2008, esso prevede che "Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all'articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono: ... q) prendere appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno verificando periodicamente la perdurante assenza di rischio".
La Corte di appello ha citato simili previsioni per sostenere che in capo al datore di lavoro vi è il governo "di ogni rischio derivante dallo svolgimento dell'attività lavorativa, anche relativo ai terzi o comunque tale da mettere in pericolo la 'salute della popolazione' e 'l'ambiente esterno'".
Orbene, l'interpretazione letterale delle disposizioni in questione evidenzia che esse [ma in specie l'art. 18, lett. q)] non pongono in capo al datore di lavoro l'obbligo di adottare misure di prevenzione a tutela della popolazione o dell'ambiente ma piuttosto quello di adottare le misure in grado di evitare che quelle messe in campo per lo svolgimento in sicurezza delle attività lavorativa possano determinare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno. L'intento del legislatore è quindi quello di evitare che in funzione della sicurezza delle attività lavorative e dei relativi addetti si creino rischi per la popolazione e l'ambiente esterno ai luoghi di lavoro.
La diversa interpretazione sostenuta dalla Corte di appello non è in alcun modo argomentata; e non supera le obiezioni che è agevole muoverle. In primo luogo, essa istituisce il datore di lavoro quale garante della salute della popolazione e della integrità dell'ambiente esterno al luogo di lavoro in via principale. Si tratta di una tesi che non trova conforto nei poteri dispositivi del datore di lavoro e nel tratteggio che il legislatore fa del sistema di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.
Il "servizio di prevenzione e protezione dai rischi" è definito come l'insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni o interni all'azienda finalizzati all'attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori [art. 2 lett. I)]; la "sorveglianza sanitaria" è definita come l'insieme degli atti medici, finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all'ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa [art. 2 lett. m)]. Come si può osservare, le strutture deputate a collaborare con il datore di lavoro per un ottimale sistema di gestione della sicurezza del lavoro (si rammenti l'art. 29, co. 1) devono occuparsi unicamente della salute e sicurezza dei lavoratori e la stessa valutazione dei rischi ha ad oggetto tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori (art. 28, co. 1).
In secondo luogo, non è priva di rilievo la variazione terminologica adottata dal legislatore, che menziona i 'provvedimenti' e le 'misure tecniche'. Nel corpo del d.lgs. n. 81/2008 le misure di prevenzione sono chiaramente quelle volte a prevenire i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori; l'utilizzo da parte di un legislatore che si è preoccupato delle definizioni (art. 2) della diversa locuzione 'misure tecniche' non può essere reso irrilevante facendo coincidere queste con le misure di prevenzione (ma altrettanto è a dirsi per le misure di protezione). Misure tecniche sembrano essere quelle che danno corpo al processo produttivo. In sintesi, il datore di lavoro è sì libero di decidere quale conformazione dare al modo di produzione ma le sue scelte non possono determinare un pregiudizio per la salute della popolazione e per l'integrità dell'ambiente esterno.
Non dover recare danno ad un determinato bene è cosa ben diversa dal dovere di tutelarlo.
L'art. 23 d.lgs. n. 81/2008 è certamente norma che mira a prevenire gli infortuni sul lavoro. Essa però può essere evocata solo per coloro ai quali può imputarsi la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti. Altrettanto è a dirsi per il successivo art. 24, che si riferisce unicamente agli installatori e ai montatori di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici. L'ipotesi della ricorrenza di una violazione dell'una o dell'altra norma sarà vagliata e approfondita esaminando taluni tra i ricorsi.
Quanto all'art. 8 d.lgs. n. 162/2007, la Corte di appello ne ha trattato nell'ambito del paragrafo dedicato a 'L'applicabilità della normativa antinfortunistica'; sembra di comprendere in quanto ha ritenuto che dalla disposizione scaturisca in capo all'addetto alla manutenzione dei vagoni (in specie l'officina Ju***l) e all'ente appaltante (per la Corte di appello G***x Rail Austria e G***x Rail Germania) l'obbligo di fornire un prodotto sicuro. Non è però chiaro se la Corte distrettuale, attraverso una traslazione della nozione di 'fornitore di servizi di manutenzione' di cui all'art. 8 citato al contesto disciplinare dell'art. 23 d.lgs. n. 81/2008 abbia ritenuto di poter annoverare anche la disposizione del decreto 162 tra le norme in materia di prevenzione degli infortuni. Come se la nozione di fornitore di cui all'art. 23 si definisse (anche) alla luce dell'art. 8.
Non è di nessun rilievo approfondire il tema. L'art. 8 è norma che attiene alla sicurezza della circolazione ferroviaria. In rapporto ad essa istituisce titolarità per la gestione del relativo rischio, in un contesto per intero dedicato alla sola sicurezza della circolazione ferroviaria.
Per quanto la Corte di appello non ne abbia fatto menzione replicando ai motivi di appello che contestavano il riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. ad opera del Tribunale, la circostanza che quest'ultimo abbia evocato anche le regole tecniche del Manuale VPI nel contesto grafico nel quale si è occupato del tema induce a precisare che la natura cautelare di tali regole non è sufficiente a farne 'norme in materia di prevenzione degli infortuni', proprio perché - come riconosciuto dal Tribunale medesimo quando ha scritto che esse sono intese a prevenire i rischi connessi alla rottura degli assili e ai danni che ne possono scaturire per la collettività - il loro spettro preventivo non attiene alla sicurezza delle attività lavorative ma alla sicurezza della circolazione ferroviaria.

6. Esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. e conseguenti statuizioni: a) la prescrizione dei reati di omicidio colposo
6.1. Dall'excursus sin qui condotto emerge che, nella vicenda che occupa, le sole norme per la prevenzione degli infortuni che possono astrattamente sostenere il riconoscimento dell'aggravante in parola sono quelle recate dagli artt. 2087 c.c., 23 e 24 d.lgs. n. 81/2008 (con le connesse disposizioni dettate per l'uso delle attrezzature di lavoro dal Titolo III, Capo I del D.lgs. n. 81/2008).
Andrà verificato esaminando i ricorsi dei soggetti per i quali può ipotizzarsi la posizione gestoria richiamata da tali norme se la loro violazione ha avuto un ruolo causale nella verificazione degli eventi omicidiari per cui è processo.
Sin d'ora può anticiparsi che nel caso di specie un tale ruolo va escluso, sicché devono essere esplicitate le implicazioni.
Una prima è l'inapplicabilità agli ascritti omicidi colposi della regola posta dall'art. 157, co. 6 cod. pen. (raddoppio dei termini stabiliti ai commi precedenti) e pertanto, alla luce del termine di prescrizione pari a sette anni e sei mesi, ai quali va aggiunto un periodo di sospensione del medesimo pari a settantadue giorni, deve dichiararsi l'estinzione di tali reati perché prescritti in date che si situano tra il 12.3.2017 ed il 2.9.2017 (pertanto successivamente alla deliberazione della sentenza di primo grado, risalente al 31.1.2017), a seconda dei diversi giorni in cui i reati sono stati consumati.
Ne deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, limitatamente ai reati di cui all'art. 589 cod. pen. e che va rideterminata la pena per il reato che ne residua.
Ritiene questa Corte che non possa essa stessa determinare il trattamento sanzionatorio che consegue al residuo reato di disastro ferroviario colposo, facendo applicazione dell'art. 620, co. 1 lett. I) cod. proc. pen. Invero, nel caso che occupa non ricorre la condizione posta da tale disposizione, del non essere necessari ulteriori accertamenti in fatto; condizione alla quale, tenendo presente l'insegnamento impartito da Sez. U, N. 3464 del 30/11/2017, dep. 2018, Rv. 271831 - 01, "deve essere attribuita non solo la funzione, esplicitamente prevista dalla norma, di escludere la possibilità di annullare senza rinvio il provvedimento impugnato ove tale necessità sia presente, ma anche quella di indicare negli accertamenti già effettuati dal giudice di merito gli elementi in base ai quali si esercita il potere di decidere il ricorso senza rinvio in sede di legittimità". È del tutto palese che il giudizio di questa Corte in merito alla estraneità al quadro regolatorio fondativo del giudizio di responsabilità delle disposizioni ritenute dai giudici di merito conducenti alla aggravante prevenzionistica muta radicalmente i contenuti dell'accertamento dei fatti ai quali è stato parametrato il trattamento sanzionatorio, sicché essi vanno nuovamente apprezzati dal giudice di merito.
Pertanto, occorre disporre il rinvio per la determinazione del trattamento sanzionatone alla Corte di appello di Firenze, altra sezione.
A tal riguardo appare opportuno segnalare al giudice del rinvio che pur versandosi in ipotesi di concorso formale di reati e di connesso cumulo giuridico, risulta valevole - per identità di ratio - il principio secondo il quale nella rideterminazione della pena non si incorre nella violazione del divieto di reformatio in peius se il giudice dell'impugnazione o del rinvio, per effetto del mutamento della struttura del reato continuato per essere la regiudicanda satellite divenuta la più grave, apporti per uno dei fatti unificati dalla identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653; Sez. 3, n. 1957 del 22/06/2017, dep. 2018, Vallozzi e altri, Rv. 272072],
6.1. Ad avviso di questa Corte allo stato non è possibile dichiarare l'estinzione dei reati di omicidio colposo anche nei confronti del Mo.[MA.]. Questi, all'udienza dell'11.2.2019, chiese di rendere spontanee dichiarazioni che ebbero il seguente tenore: "Ho preso atto di quello che ha detto il Procuratore. Sono parecchi anni che si discute in merito alla prescrizione, della quale naturalmente non voglio entrare nel merito. Sono stato però spesso portato a bersaglio in questa discussione proprio legando la questione della prescrizione ai gravi fatti di Viareggio. Rinuncio alla prescrizione per i reati ai quali ha fatto riferimento il Procuratore. Lo faccio non tanto per polemica alla discussione, che ho citato, ma per rispetto alle vittime, ai familiari delle vittime e al loro dolore. Lo faccio perché ritengo di essere innocente”. Il riferimento che si coglie nelle parole del Mo.[MA.] è a quanto, nella medesima udienza, dedicata alla discussione delle parti, aveva affermato il rappresentante della pubblica accusa, che anche richiamando le considerazioni espresse in tema di prescrizione del reato da altro magistrato dell'accusa, aveva sostenuto che è "poco decoroso sostenere che uno Stato, decorso uno stato temporale, non abbia più interesse alla persecuzione dei reati consumati, ma di fatto è così”. I reati per i quali al tempo era acciarato l'avvenuto decorso del termine massimo di prescrizione erano quelli di lesioni personali colpose e di incendio colposo; ragione per la quale il Procuratore generale richiese, subito dopo le parole del Mo.[MA.], di decurtare le pene inflitte di mesi sei di reclusione, corrispondenti alla pena stabilita per i delitti ormai estintisi.
Orbene, giova prendere le mosse dal principio più volte affermato da questa Corte, secondo il quale l'imputato può rinunciare validamente alla prescrizione solo se il relativo termine è già maturato al momento della rinunzia medesima.
La ratio di tale principio è tramandata con formula ripetitiva in una serie di pronunce (qui basterà citare Sez. 5, n. 13300 del 20/10/1999, Araniti, Rv. 21556001; Sez. 2, n. 3900 del 14/11/2003, dep. 2004, Rega, Rv. 22786701; Sez. 2, n. 527 del 15/11/2005, dep. 2006, Colanera, Rv. 23314501) ma è stata più diffusamente esplicitata in Sez. 6, n. 2815 del 21/01/1999, Mingon e altri, Rv. 21347201, che contrapponendosi all'opposto orientamento secondo il quale la prescrizione non può essere efficacemente rinunziata dopo che è maturata (Sez. 1, n. 4587 del 08/03/1994, Rampinelli e altri, Rv. 19827501), ha sostenuto che non è consentita altra rinunzia se non quella successiva al maturarsi della causa estintiva. E ciò sia perché non vi è in astratto alcuna incompatibilità fra la maturazione della prescrizione e la successiva rinunzia (come si evince dall'art. 2937, co. 2 cod. civ.) "sia perché in genere la rinunzia presuppone che il diritto rinunziato sia già maturato - perché solo in quel momento l'interessato può realmente apprezzare gli effetti della sua rinunzia - sia innanzitutto perché la possibilità di una rinunzia ad un diritto futuro mal si attaglia alla prescrizione in tema di reati in cui è in giuoco la libertà personale. Proprio in questa materia non sembra plausibile che l'imputato possa validamente rinunziare in prevenzione, ad una prescrizione non ancora maturata e spesso maturanda soltanto dopo il successivo (rispetto alla rinunzia) trascorrere ancora di qualche tempo, quando, cioè, egli non è ancora in grado di valutare, causa cognita, alla stregua dello sviluppo delle indagini, i suoi effettivi interessi al riguardo".
Sviluppando siffatta linea interpretativa, che di per sé fissa soltanto una determinata sequenza temporale (anteriore è il decorso del termine di prescrizione, posteriore ad esso è la rinuncia), questa Corte ha ritenuto inefficace la rinuncia alla prescrizione quando formulata prima che il giudice abbia svolto il giudizio discrezionale di bilanciamento delle concorrenti circostanze eterogenee, con esito incidente anche sul tempo necessario a prescrivere, risultato più ridotto (è l'ipotesi considerata da Sez. 4, n. 48272 del 26/09/2017, Comat srl e altri, Rv. 27129201; nel caso di specie il reato era stato commesso nell'anno 2000).
La pronuncia segna l'ingresso nella tematica della valutazione giudiziale quando essa è premessa essenziale al prodursi dell'effetto estintivo.
Come è noto la rinunciabilità della prescrizione è stata conseguita dall'ordinamento nazionale dapprima in forza di un intervento della Corte costituzionale (n. 275 del 1990) e poi grazie ad una espressa previsione normativa introdotta dalla legge n. 251/2005.
È significativo che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 157 cod. pen., nella parte in cui non prevede(va) che la prescrizione del reato possa essere rinunziata dall'imputato, abbia rimarcato la decisività della discrezionalità insita nell'applicazione della disciplina della prescrizione, la quale imponeva al legislatore di disciplinare l'istituto sostanziale della prescrizione tenendo "conto del carattere inviolabile del diritto alla difesa, inteso come diritto al giudizio e con esso a quello alla prova". Diritto che la Corte costituzionale, nell'occasione, ha definito anche 'fondamentale'. In occasione della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 151 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva la rinunciabilità dell'amnistia, la Corte costituzionale (sent. n. 175/1971) pose l'accento sul diritto dell'imputato al riconoscimento della sua innocenza e alla piena integrità dell'onore e della reputazione, ritenuto prevalente sull'interesse statuale soddisfatto mediante il provvedimento demenziale.
L'accento posto sulla discrezionalità giudiziale pone in luce la possibilità che l'estinzione del reato, che usualmente si sostiene viene 'dichiarata', sia invece effetto di più o meno complesse valutazioni giuridiche, che talvolta investono la configurazione giuridica del fatto (come nel caso che occupa, nel quale viene esclusa un'aggravante), altre soltanto il piano sanzionatorio (non può dirsi che il bilanciamento tra circostanze eterogenee incida sulla qualificazione giuridica del fatto perché esso presuppone il riconoscimento di tutte quelle poste in comparazione tra loro). Anche senza impegnarsi sul piano dogmatico è possibile osservare che ciò incide quanto meno sulla conoscibilità del fenomeno estintivo, che risulta possibile solo all'esito del giudizio, quando il diritto alla rinuncia alla prescrizione non può essere più esercitato nel grado.
Proprio il carattere fondamentale del diritto dell'imputato ad un giudizio di merito nonostante il decorso del termine di prescrizione - diritto che viene associato anche alla presunzione di innocenza - conduce a dare rilievo alla concreta possibilità del suo esercizio; beninteso alla indefettibile condizione che l'imputato abbia già manifestato di voler rinunciare alla prescrizione per il reato di cui trattasi, senza effetto perché al tempo non risultava decorso il termine che si riteneva pertinente. Possibilità che è da escludersi quando l'effetto estintivo si produce solo a seguito della decisione giudiziale conclusiva del grado, come esito, per quanto sollecitato, 'improvviso e inaspettato' (per mutuare un'espressione del Giudice delle leggi). In tali casi, ove sia prevista dalla legge processuale l'impugnazione, la rinuncia alla prescrizione può ancora sopraggiungere utilmente. A ben vedere in tali casi si determina un fenomeno per il quale il momento in cui il reato si estingue è anteriore a quello in cui ciò è reso conoscibile; ma è appunto a questo secondo momento che occorre guardare al fine di rendere effettivo il diritto alla rinuncia della prescrizione. Necessità che è alla base di quella giurisprudenza, sopra evocata, per la quale la rinuncia può essere utilmente fatta solo dopo che l'estinzione del reato si è verificata perché l'imputato deve essere in grado di deliberarsi in un senso o nell'altro. Principio che però impone, per essere fedele alla propria ratio, di essere ulteriormente articolato quando la conoscibilità dell'effetto è posteriore al tempo del prodursi di questo.
Sulla scorta di un non diverso ordine di idee questa Corte ha ritenuto ammissibile la rinuncia alla prescrizione del reato anche "quando essa sia stata già dichiarata con sentenza se l'imputato non è stato in grado, senza sua colpa, di avere notizia del processo a suo carico, cosicché il primo momento utile per la manifestazione di volontà coincida con quello dell'impugnazione" (Sez. 3, n. 4946 del 17.1.2012, Misale, Rv. 251985).
Nel caso di specie la dichiarazione fatta dal Mo.[MA.], sopra riportata, appare volta a rinunciare alla prescrizione per tutti i reati che fossero stati estinti; la limitazione per relationem a quelli indicati dalla pubblica accusa risulta indotta, mentre la protesta di innocenza chiaramente evidenzia la volontà di essere giudicato nel merito per tutti i reati e non solo per alcuni di essi, peraltro commessi con una medesima condotta. Tuttavia, se essa non può ritenersi efficace proprio perché intervenuta quando non era ancora configurato il reato avente il più breve termine di prescrizione, va anche considerato che tale circostanza si è resa conoscibile solo dalla pronuncia di questa Corte. Una interpretazione costituzionalmente orientata impone di dare rilievo a siffatta evenienza e a ricercare il rimedio processuale in grado di garantire l'effettività del diritto a rinunciare alla prescrizione del reato, in relazione a quelli di omicidio colposo.
Tenuto conto dei limiti del giudizio di cassazione e non essendosi formato il giudicato (cfr. S.U., n. 1 del 19/1/2000, Tuzzolino, Rv. 216239; Sez. 4, n. 47158 del 25/10/2007, Minardi, Rv. 236353), per quanto più avanti sarà ritenuto a riguardo della posizione del Mo.[MA.], il menzionato rimedio può essere rinvenuto nel riservare al giudizio di rinvio la verifica della volontà dell'imputato di rinunciare alla prescrizione dei reati di omicidio colposo, tenendo presente quanto sin qui esposto.

7. Segue: b) la carenza di legittimazione attiva delle organizzazioni sindacali
7.1. Dall'esclusione dell'aggravante in parola consegue altresì la carenza di legittimazione attiva degli enti morali costituitisi parti civili in ragione dell'avere tra i propri scopi statutari la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.
Le statuizioni adottate dalla Corte di appello in merito alle azioni civili introdotte nel presente giudizio sono state oggetto di censure da parte di G***x Austria, G***x Germania e Ju***l, quali responsabili civili (quarto e quinto motivo), di Mer*** Logistic (settimo motivo), di El.M.[M.] (undicesimo motivo), di R***I s.p.a. quale responsabile civile (sesto e settimo motivo), di FSI quale responsabile civile (quarto e quinto motivo), di Tre*** s.p.a. quale responsabile civile (i motivi saranno analiticamente indicati in prosieguo).
Tutti i menzionati ricorrenti hanno appuntato le proprie doglianze sul riconoscimento della legittimazione attiva anche ai soggetti operanti nel settore sindacale (delle censure relative alla costituzione di parte civile di Medicina Democratica, Cittadinanzattiva Onlus, Comitato 'Associazione Mattia Valenti', Comune di Viareggio, Provincia di Lucca e Regione Toscana si scriverà in prosieguo).
La costituzione di parte civile delle organizzazioni sindacali trova causa nella rappresentata lesione dell'interesse proprio delle medesime, a vedersi riconosciute quali soggetti vocati alla tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori. In effetti, secondo la giurisprudenza di legittimità la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica, è ammissibile, indipendentemente dall'iscrizione del lavoratore al sindacato, quando l'inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita di credibilità dell'azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali (Sez. 4, n. 27162 del 27/04/2015, Perassi e altro, Rv. 26382501; Sez. 4, n. 22558 del 18/01/2010, Ferraro, Rv. 247814). Il diritto azionato dalle organizzazioni sindacali è un diritto iure proprio, per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, patito per effetto del reato, consistente nell'offesa all'interesse perseguito dal sodalizio e posto nello statuto quale ragione istituzionale della propria esistenza ed azione. Ogni attentato a tale interesse si configura come lesione di un diritto soggettivo inerente la personalità o identità dell'ente (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn, Rv. 261110).
Ove si tratti di omicidio o lesioni commesse con violazione delle norme prevenzionistiche la lesione del diritto è ritenuta esistente in re ipsa e con essa anche il conseguente pregiudizio, quanto meno potenziale e sub specie di danno non patrimoniale, salvi gli opportuni approfondimenti sull'entità dello stesso. In ragione di tali principi è stata ritenuta inammissibile la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali della Polizia di Stato qualora si proceda per fatti produttivi di un danno che non è conseguente alla violazione di norme poste a tutela dei lavoratori e della sicurezza dell'ambiente di lavoro, bensì è espressione del rischio intrinseco della professione e del servìzio svolto dalle forze dell'ordine (Sez. 6, n. 54424 del 27/04/2018, Pg c/ Calabro, Rv. 27468006). Nel caso di specie non vi è alcun dubbio che le organizzazioni sindacali abbiano inteso far valere la lesione subita per il fatto che le morti e le lesioni erano scaturite da violazioni delle norme in materia di prevenzione degli infortuni. La stessa Corte di appello esplicitamente afferma che "la legittimazione attiva delle Organizzazioni Sindacali deriva dalla ritenuta sussistenza, quale colpa specifica di violazione alla normativa infortunistica, ovvero dalla qualificazione dell'evento come un incidente sul lavoro" e non dalla sostituzione della persona offesa, ai sensi dell'art. 61 d.lgs. n. 81/2008.
Sicché, venuta meno tale circostanza, risulta insussistente la legittimazione attiva di quelle associazioni e superfluo l'esame degli ulteriori rilievi critici proposti dai ricorrenti.
7.2. Di conseguenza, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio con riferimento alle statuizioni in favore delle seguenti parti civili: Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Provinciale di Lucca (Or.S.A Ferrovie), Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Regionale della Toscana (Or.S.A Ferrovie), Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Generale (Or.S.A Ferrovie), Sindacato UGL Federazione Trasporti Autoferrotranvieri Regione Toscana, Sindacato Unione Territoriale del Lavoro UTL dell'unione Generale del Lavoro UGL Provincia di Lucca, CGIL Provincia di Lucca, CGIL Regione Toscana, FILT CGIL Lucca, CGIL Nazionale e le relative statuizioni vanno eliminate.
Per le medesime ragioni va esclusa la legittimazione attiva dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza di Tre*** s.p.a., D.A.D., G.M., C.F., C.V., P.G., P.A..

8. Segue: c) l'insussistenza dell'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 e la giurisdizione nazionale sugli enti esteri
8.1. Ulteriore implicazione dell'impossibilità di riconoscere la fattispecie circostanziale a corredo dei reati di omicidio è la insussistenza dell'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001. Secondo la previsione di legge, la responsabilità dell'ente presuppone il "delitto di cui all'articolo 589 del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro"; pertanto essa ricorre solo quando il reato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente sia quello di omicidio colposo (o quello di lesioni colpose) commesso con violazione delle norme "sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro".
A tal proposito, va affrontato in via preliminare un tema che è stato sollevato dalle difese degli enti. Si tratta di verificare se la locuzione 'norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro' stia ad indicare il medesimo oggetto designato dalla locuzione ’norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro".
Si è già scritto di come la prima locuzione utilizzata dal codificatore abbia, per il diritto vivente, un'amplissima portata, sì da alludere a tutte le norme che costituiscono posizioni di gestione del rischio lavorativo e pongono regole cautelari volte alla prevenzione di o alla protezione da tale rischio. Questo, d'altro canto, si caratterizza per investire la salute e la sicurezza dei lavoratori e di quanti si trovino in posizione sostanzialmente equiparata nell'esposizione derivante dallo svolgimento di attività lavorativa.
Già tanto depone per il carattere sinonimico della espressione leggibile nell'art. 25-septies. L'equipollenza delle nozioni è peraltro indicata anche dal dato storico.
Nella relazione illustrativa della legge delega 3 agosto 2007, n. 123, dalla quale è scaturito il d.lgs. n. 81/2008, è scritto che «L'espressione "salute e sicurezza sul lavoro" è usata in quanto introdotta dalle direttive comunitarie e ritenuta riferibile sia al D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, che al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, ed al D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164. Si è scelto di non usare l'espressione "prevenzione degli infortuni sul lavoro", di cui alle rubriche dei citati D.P.R. nn. 547/1955 e 164/1956, per evitare ogni fraintendimento sull'area nella quale esercitare la delega, la quale non contiene la riforma del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, recante: "Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali". Pertanto, l'intervento di riforma non comprenderà misure di carattere previdenziale». In sostanza, il legislatore ha fatto ricorso ad una nuova formulazione solo per rimarcare che le norme previdenziali non sono interessate alla 'testiunificazione'.
Non vi è quindi alcun dubbio che la materia è rimasta la medesima; né si può ignorare che il cd. Testo unico ripropone, talvolta senza neppure riformularle, proprio le disposizioni recate dai citati decreti presidenziali, dal d.lgs. n. 626/1994 e altre dettate in tema di prevenzione degli infortuni e di igiene del lavoro.
8.2. Alla luce di quanto appena esposto si deve concludere che l'illecito attribuito agli enti non sussiste. Ma l'adozione della relativa formula di annullamento presuppone che venga risolta come già ritenuto dai giudici di merito la pregiudiziale questione della riconoscibilità della giurisdizione nazionale per fatti commessi sul territorio italiano da enti non aventi alcuna sede in esso. Diversamente, infatti, dovrebbe essere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice nazionale e quindi la improcedibilità dell'azione nei confronti di tali enti. Sul tema le difese degli enti stranieri hanno sviluppato ampie argomentazioni, a loro avviso conducenti verso il difetto di giurisdizione.
L'assunto delle difese è infondato, per le ragioni di seguito esplicitate.
8.3. Secondo la Corte di appello, il dato saliente è costituito dalla centralità assegnata dal legislatore del 2001 al luogo di commissione del reato presupposto.
Per la corte distrettuale il combinato disposto dagli artt. 1 e 4 del decreto attesta che "l'ambito di applicazione del decreto, ..., è dato dal luogo di consumazione del reato, e non dal luogo in cui si trova la sede o una articolazione della persona giuridica imputata..."; l'art. 1, co. 3 dimostra che quando il legislatore ha inteso escludere taluni enti dall'ambito di applicazione della disciplina lo ha fatto espressamente; d'altro canto, anche l'art. 4, che prende in considerazione gli enti che hanno in Italia la sede principale, dimostra che le esclusioni sono solo quelle esplicitate dalla disciplina. Anche la previsione dell'art. 36 prova l'irrilevanza del luogo in cui si situa la colpa di organizzazione e, all'inverso, la decisività del luogo di consumazione del reato. L'art. 34 del decreto rinvia per intero alle disposizioni del codice di procedura penale in quanto compatibili, e quindi anche all’art. 1 cod. proc. pen. (certamente non incompatibile) che attribuisce al giudice italiano la giurisdizione su tutte le violazioni commesse in Italia, qualunque sia la nazionalità del suo autore.
Le osservazioni critiche avanzate dalle ricorrenti società condannate non dimostrano la erroneità delle conclusioni alle quali sono prevenuti i giudici di merito, ancorché non tutte siano da respingere.
Alcune disposizioni citate dalla Corte di appello a conferma del proprio assunto appaiono invero poco conferenti.
Ad esempio, l'art. 1, co. 2 del decreto specifica a quali tra gli enti, genericamente evocati dal primo comma, si applicano le disposizioni del decreto. Esso attiene all'identificazione degli enti, tra i diversi conosciuti, ai quali si applicano le norme del decreto: enti con personalità giuridica e società e associazioni anche prive di personalità giuridica; enti privati e non enti pubblici, a meno che non siano enti pubblici economici. La disposizione reca, pertanto, norme sui soggetti che possono commettere l'illecito e non definiscono le condizioni del legittimo esercizio della giurisdizione sugli stessi. Ne consegue che questa Corte condivide la tesi della difesa degli enti che l'art. 1 non disciplina l'ambito spaziale di applicazione del decreto. Ma proprio per questo, il fatto che il comma 3 si occupi di 'enti pubblici non economici' e di enti di rilievo costituzionale non può assumere valore di argomento nel senso patrocinato dalla difesa; ovvero non può indicare che l'intera disciplina non può applicarsi agli enti esteri perché essi non si presterebbero ad essere identificati secondo parametri interni all'ordinamento nazionale. Anche questo aspetto attiene alla ’legittimazione' dell'ente a commettere l'illecito e non alla ’legittimazione' del giudice italiano a conoscere dell'illecito.
Anche l'interpretazione che la Corte di appello ha inteso dare del combinato disposto agli artt. 34 del decreto e 1 cod. proc. pen. non convince. La prima disposizione estende al procedimento relativo all'illecito dell'ente l'applicazione delle disposizioni del codice di procedura penale, in quanto compatibili; la Corte di appello ne ha tratto che trova quindi applicazione anche l'art. 1 cod. proc. pen. "che attribuisce al giudice penale italiano la giurisdizione su tutte le violazioni commesse in Italia, qualunque sia la nazionalità del suo autore".
La difesa ha correttamente rilevato, oltre alla assertività dell'affermazione che non spiega perché la previsione sarebbe compatibile con la giurisdizione del giudice nazionale anche sugli illeciti dell'ente estero, che l’art. 1 cod. proc. pen. non ha il contenuto precettivo indicato dalla Corte di appello, prevedendo piuttosto che "la giurisdizione è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario secondo le norme di questo codice". In effetti, le norme che fondano la giurisdizione del giudice italiano sono contenute nel codice penale e, per quel che interessa, nell'art. 6 cod. pen.
8.4. Bonificato il campo da improprie letture delle disposizioni sulle quali ci si è finora soffermati, va considerato che la sola pronuncia del giudice di legittimità che consta essersi occupata funditus del tema (Sez. 6 - , Sentenza n. 11626 del 11/02/2020, Calò, Rv. 278963), ha adottato una interpretazione della disciplina del decreto 231 non dissimile da quella emersa nel presente procedimento.
Nell'occasione si è osservato che la responsabilità dell'ente è sì autonoma ma anche "derivata" dal reato, di tal che la giurisdizione va apprezzata rispetto al reato-presupposto, a nulla rilevando che la colpa di organizzazione e dunque la predisposizione di modelli non adeguati sia avvenuta all'estero; che l'art. 36 del decreto affida la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi al giudice penale competente per i reati dai quali essi dipendono; ed altresì che l'art. 38 esprime un chiaro favore verso il simultaneus processus ai fini dell'accertamento del reato presupposto e dell'illecito amministrativo da esso derivante nell'ambito dello stesso procedimento.
Ulteriore conferma della decisività del reato-presupposto anche ai fini della giurisdizione è stata individuata nel menzionato art. 4. Si è osservato che la relativa disciplina implica una parificazione della regolamentazione dedicata all'ente rispetto a quella concernente l'imputato persona fisica (salvo il limite del bis in idem internazionale); e che non vi sono ragioni per ritenere che alle persone giuridiche sia applichi una disciplina speciale rispetto a quella vigente per le persone fisiche, che permetta loro di non essere assoggettate ai principi di obbligatorietà e di territorialità della legge penale codificati agli artt. 3 ("la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilire dal diritto pubblico interno e dal diritto internazionale") e 6, comma primo, cod. pen. ("chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana"). Il medesimo art. 6, co. 2, nel prevedere la giurisdizione del giudice italiano qualora sia commessa in Italia una sola frazione dell'azione o dell'emissione o si sia qui verificato l'evento di condotta delittuosa vale anche per il caso che in Italia sia stato commesso il reato- presupposto, componente la struttura complessa dell'illecito amministrativo.
Siffatta interpretazione è stata ritenuta avallata anche da elementi non strettamente testuali.
Da un canto si è considerato che l'esigenza di ripristinare la legalità e l'ordine violato non potrebbe non riconoscersi anche in relazione ad un illecito che discenda direttamente da un fatto-reato che abbia realizzato sul territorio nazionale l'offesa o la messa in pericolo del bene protetto. Dall'altro, si è osservato che a ritenere diversamente si realizzerebbe un vulnus al principio di eguaglianza, perché emergerebbe una ingiustificata disparità di trattamento fra la persona fisica straniera (pacificamente soggetta alla giurisdizione nazionale in caso di reato commesso in Italia) e la persona giuridica straniera (in caso di reato-presupposto commesso in Italia).
8.5. Questa Corte fa proprie le scansioni argomentative e le conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza Calò, giudicandole condivisibili. Ma ritiene necessario integrarne la ricostruzione con ulteriori considerazioni, che attengono ad alcuni aspetti da tale pronuncia non esplicitamente presi in esame.
La ricognizione del d.lgs. n. 231/2001 pone in evidenza che la sola disposizione che evoca il tema della giurisdizione sugli enti è quella dell'art. 4, il quale disciplina il caso in cui il reato-presupposto è stato commesso all'estero nell'interesse o a vantaggio di un ente avente la sede principale in Italia; l'ente "risponde" anche per tali reati nei casi e alle condizioni previste dagli artt. 7, 8, 9 e 10 cod. pen., purché nei suoi confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto.
Tenuto conto del campo di applicazione degli articoli da 7 a 10 del codice penale, si deve registrare che, almeno in apparenza, il decreto 231 ha esplicitamente preso in considerazione solo il caso di reati commessi all'estero nell'interesse o a vantaggio di un ente avente la sede principale in Italia.
Vi è quindi da chiedersi quale disciplina il legislatore abbia inteso delineare per le ipotesi di reato commesso in Italia nell'interesse o a vantaggio di enti che hanno sede principale nel territorio nazionale o di enti che ne sono privi; ed altresì per l'ipotesi di reato commesso all'estero da enti che non hanno la sede principale in Italia.
Secondo le difese degli enti condannati l'assenza di una esplicita disciplina implica che il giudice italiano non può conoscere del reato commesso in Italia nell'interesse o a vantaggio di un ente avente sede principale o esclusiva all'estero.
Il rilievo prova troppo, perché mancando anche una esplicita disciplina per il reato commesso in Italia nell'interesse o a vantaggio di un ente che qui vi ha la sede principale, dovrebbe concludersi che il decreto 231 si applica solo nelle ipotesi considerate dall'art. 4 e ove ne ricorrano le relative condizioni.
Conclusione che anche le difese non patrocinano.
In effetti, non si è mai dubitato che il giudice penale italiano debba conoscere dell'illecito dell'ente con sede principale in Italia che sia connesso a reato presupposto ivi commesso. La ragione di ciò non viene rinvenuta in una diretta applicazione dell'art. 6 cod. pen. al fatto dell'ente ma nella regola dettata dall'art. 36 del d.lgs. n. 231/2001, che attribuisce al giudice del reato presupposto anche la cognizione sull'illecito amministrativo dell'ente.
Va poi considerato che proprio quanto previsto dall'art. 4, per come illustrato nella Relazione governativa al decreto 231, attesta che l'intenzione del legislatore non era quella di ritrarre la giurisdizione nazionale bensì quello, opposto, di espanderla. Si legge, nel citato documento, che la previsione è "ispirata a comprensibile rigore", volendosi "evitare facili elusioni della normativa interna"; e che l'opzione espansionistica è "conforme al progressivo abbandono, nella legislazione internazionale, del principio di territorialità ed alla correlativa, sempre maggiore affermazione del principio di universalità". Quindi la volontà del legislatore storico è stata quella di reprimere gli illeciti dell'ente avente sede principale in Italia anche se il reato presupposto è commesso all'estero. Ciò dimostra che per quel legislatore era pacifica la giurisdizione del giudice nazionale per gli illeciti amministrativi correlati a reati commessi in Italia; nonostante non vi sia disposizione nel decreto 231 che la preveda espressamente.
Nel testo della legge sono diverse le disposizioni che trattano della competenza. Le difese hanno osservato che la competenza è un criterio distributivo degli affari tra giudici titolari di giurisdizione; essa presuppone già risolto il quesito in merito alla giurisdizione.
Ciò può essere condiviso su un piano generale; ma occorre pur sempre dare risposta al quesito in merito alla fonte della giurisdizione nazionale anche per gli illeciti amministrativi derivanti da reato commesso in Italia.
Ad avviso di questa Corte la chiave di soluzione del quesito interpretativo si rinviene in due considerazioni. La prima, di carattere formale, è suggerita dalla qualificazione assegnata dal legislatore alla responsabilità degli enti, esplicitamente indicata come amministrativa. La natura amministrativa può aver indotto a non fare menzione di 'giurisdizione', che tipicamente attiene a rapporti tra autorità giudiziarie, e ad inquadrare il tema della titolarità della cognizione dell'illecito amministrativo dell'ente (così definito anche nello stesso articolo 36) nell'ambito concettuale della competenza. Per quanto ricorrano significative differenze, vale considerare che anche l'art. 24 della legge n. 689/1981, attribuendo al giudice - e non all'autorità amministrativa - la cognizione delle violazioni amministrative dalle quali dipende l'esistenza di un reato, evoca il concetto di competenza; e similmente l'art. 221 del Codice della strada.
Incidentalmente può essere osservato anche che solo per il reato commesso all'estero si può ipotizzare una possibile questione di giurisdizione, ricorrente allorquando la relativa cognizione risulta assegnata ad organo giurisdizionale estero.
8.6. Ma la considerazione certamente decisiva è di carattere sostanziale. Essa ha ad oggetto il ruolo del reato presupposto nella fattispecie dell'illecito dell'ente e il luogo di commissione di quest'ultimo.
Come è noto, tra le tesi avanzate all'indomani dell'entrata in vigore del decreto 231 vi è stata quella che individua nell'adozione di un idoneo modello di organizzazione e di gestione, efficacemente attuato, il nucleo di una causa di non punibilità dell'illecito.
In tale ricostruzione la struttura dell'illecito risulta incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale corrente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno unicamente la funzione di irrobustire il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell'organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo (e, in ipotesi, persino in contrasto con quest'ultimi).
Questa Corte ha scritto che "Il fatto - reato commesso dal soggetto inserito nella compagine della societas, in vista del perseguimento dell'interesse o del vantaggio di questa, è sicuramente qualificabile come "proprio" anche della persona giuridica, e ciò in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega il primo alla seconda: la persona fisica che opera nell'ambito delle sue competenze societarie, nell'interesse dell'ente, agisce come organo e non come soggetto da questo distinto; nè la degenerazione di tale attività funzionale in illecito penale è di ostacolo all'immedesimazione".
Se ciò consente di affermare che l'ente risponde per un fatto proprio e non per un fatto altrui, non pone però ancora al riparo dall'incombere di una responsabilità meramente oggettiva. Consapevole della difficile compatibilità con l'art. 27 Cost, di una simile ricostruzione, il giudice di legittimità ha affermato "la necessità che sussista la c.d. "colpa di organizzazione" dell'ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo. Grava sull'accusa l'onere di dimostrare l'esistenza e l'accertamento dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell'interesse di questa; tale accertata responsabilità si estende "per rimbalzo" dall'individuo all’ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell'ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo" (Sez. 6, n. 27735 del 18/02/2010, Scarafia e altro, Rv. 247666).
La colpa dell'organizzazione dell'ente sembra assumere, in questa interpretazione, una funzione non troppo dissimile da quella che nel reato svolge la colpa: secondo le più aggiornate teoriche, questa è al contempo elemento costitutivo del fatto tipico, che è integrato dalla violazione della regola cautelare, ed elemento nucleo della colpevolezza, nel senso che la stessa violazione cautelare deve essere 'colpevole', ovvero rimproverabile.
In questo quadro, parte della dottrina è incline a ravvisare una diversa struttura dell'illecito a seconda che si tratti di reati commessi dagli apicali o dai sottoposti.
L'indicazione che viene dal legislatore e l'unanime giurisprudenza, tuttavia, è per un modello unitario, sia pure con la previsione di differenze quanto al contenuto delle cautele e al ruolo dell'elusione fraudolenta del modello di organizzazione e gestione, a seconda che si verta nell'ipotesi di cui all'art. 6 o dell'art. 7 del decreto; il profilo dell'onere della prova, che nei primi anni di vigenza della disciplina veniva inteso come diversificato nei due casi, è oggi dai più ritenuto coincidente.
Il dato saliente in questa sede è che la responsabilità dell'ente viene incardinata su una colpa di organizzazione. A tal proposito, il S.C. ha precisato che la colpa di organizzazione deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli (cfr. S.U. n. 38343 del 24/04/22014, Espenhahn e altri, Rv. 261113; similmente Sez. 4, n. 29538 del 28/5/2019, Calcinoni e altri, Rv. 276596). Questa Corte condivide la ricostruzione che vuole l'illecito dell'ente essere costituito da una fattispecie complessa, della quale il reato presupposto è uno degli elementi essenziali (ex multis, Sez. 6, n. 2251 del 5.10.2010, Fenu, Rv. 248791, in motivazione; Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015, dep. 2016, Bonomelli e altri, Rv. 267048, in motivazione; Sez. 6, n. 49056 del 25/07/2017, P.G. e altro in proc. Brambilla e altri, Rv. 271564, in motivazione); e ciò che fa di esso un illecito 'proprio' dell'ente, nel senso più rigoroso imposto dall'art. 27 Cost., è l'ulteriore elemento essenziale rappresentato dalla colpa di organizzazione.
Proprio l'enfasi posta sul ruolo della colpa di organizzazione e l'assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, convince che la mancata adozione e l'inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del decreto e all'art. 30 del d.lgs. n. 81/2008 non è un elemento costitutivo della tipicità dell'illecito dell'ente ma una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione (alla medesima necessità si ispira l'evocazione della redazione di un documento, fatta dalle Sezioni Unite), La quale, però, sul piano concettuale non coincide con l'inesistenza di un idoneo ed efficace modello organizzativo e di gestione; allo stesso modo in cui il fatto da provare non coincide con la circostanza che per presunzione legale vale a dimostrarlo. Ciò conferma la persuasività dell'affermazione secondo la quale incombe sull'accusa l'onere di dare dimostrazione della colpa di organizzazione, mentre l'ente può dare dimostrazione della assenza di tale colpa.
Va quindi ribadito che l'assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficacia attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell'illecito dell'ente. Tali sono la colpa di organizzazione, il reato presupposto ed il nesso causale che deve correre tra i due; nonché, perché qualifica il reato presupposto, l'immedesimazione organica 'rafforzata' (espressa dalla compresenza della relazione organica e della relazione teleologica).
8.7. Sulla scorta delle conclusioni alle quali si è appena pervenuti è possibile riconsiderare da un punto di vista sostanziale la questione della giurisdizione. Il tema è particolarmente dibattuto in dottrina, divisa in almeno tre orientamenti. Per quanti ritengono che la relazione tra ente e reo sia tale dare forma plurisoggettiva all'illecito del primo (la tesi di un concorso necessario di ente e reo sembra trovare eco anche in Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Italimpianti Spa e altri, Rv. 239926, nella quale si è scritto che il 'fatto' della persona fisica è anche 'fatto' dell'ente e che l'assoggettamento a sanzioni dell'una e dell'altra "si inquadra nel paradigma penalistico della responsabilità concorsuale"; posizione che però non sembra aver trovato conferma in S.U. n. 38343 del 24/04/2014 P.G., R.C., Espenhahn e altri, né in S.U. n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 25864601 e successive pronunce delle sezioni semplici), il luogo e il tempo di commissione dell'illecito dell'ente sono senz'altro quelli del reato presupposto. Altri ritengono che l'ente straniero sia soggetto alla giurisdizione italiana quando questo sia presente nel territorio nazionale; e che ciò possa dirsi quando il reato è stato commesso (in Italia) nel suo interesse. Un'ulteriore posizione è attestata sulla condizione che in Italia deve essere insediata la colpa di organizzazione, intesa come elemento essenziale dell'illecito dell'ente. Ciò conduce a ritenere che il luogo di commissione dell'illecito, alla stregua del quale andrebbe risolto il quesito sulla giurisdizione, è quello in cui sono state violate le regole cautelari che disciplinano l'organizzazione diligente. Sarebbero quindi sottratti alla giurisdizione italiana quegli enti che hanno la loro principale attività organizzativa e gestionale all'estero. Ulteriore delimitazione è suggerita da chi ritiene auspicabile che comunque la giurisdizione italiana venga ammessa solo nel caso di 'frammenti' di condotta avuti nel territorio nazionale che siano realmente 'significativi'.
8.8. Ad avviso di questa Corte il luogo di commissione dell'illecito dell'ente è quello in cui si consuma il reato presupposto. La questione è di notevole complessità e non ha trovato sinora particolare approfondimento da parte della giurisprudenza. Ma appare strettamente connessa alle opzioni concernenti la struttura della fattispecie tipica. Sulla scorta di quanto si è al riguardo delineato in questa sede risultano sufficientemente palesi le significative analogie che l'illecito dell'ente presenta con i reati colposi di evento (si consideri che è ormai affermazione ricorrente che il reato presupposto deve essere concretizzazione del rischio che doveva essere prevenuto dalle regole cautelari non implementate o non attuate correttamente). Depone poi nel medesimo senso la necessità di escludere surrettizie ipotesi di responsabilità oggettiva, agevolate dalla allocazione del reato presupposto all'esterno della fattispecie tipica.
Sono numerose le disposizioni del decreto 231 che attestano l'assoluta centralità accordata dal legislatore al reato presupposto, a partire dalla configurazione della responsabilità dell'ente come 'dipendente' da reato. Proprio il rapporto di dipendenza ha indotto il legislatore a stabilire che l'autorità titolare del potere di cognizione sul reato - quindi il giudice avente giurisdizione sul medesimo ed inoltre competente - abbia il potere di cognizione anche sul dipendente illecito amministrativo. Ancora una volta è utile la lettura della Relazione illustrativa: «Il sistema processuale per l'accertamento degli illeciti amministrativi degli enti esordisce con una disposizione, quella dell'articolo 36, in cui si stabilisce che il giudice penale competente a conoscere gli illeciti dell'ente è quello competente per i reati a cui accede l'illecito amministrativo. Poiché quest'ultimo, come fattispecie complessa, presuppone l'esistenza di un fatto- reato, la scelta operata dal Governo in punto di competenza si staglia alla stregua di un prevedibile corollario».
Volendo racchiudere in una formula la regola definita dall'art. 36 potrebbe dirsi che la giurisdizione sull'illecito dell'ente segue quella sul reato presupposto. Senza alcun dubbio anche la previsione della regola generale del simultaneus processus (art. 38) risulta coerente al quadro qui ricomposto.
Di indubbio rilievo è quanto osservato in dottrina: se la giurisdizione fosse connessa al luogo di commissione della condotta non sarebbe stata necessaria una disposizione con quella dell'art. 4, perché essendosi integrata in Italia la colpa di organizzazione la responsabilità per il reato commesso all'estero sarebbe già fisiologica conseguenza.
Tornando al quesito iniziale si può quindi sostenere che non vi è stata necessità di prevedere disposizioni che regolassero esplicitamente il tema della giurisdizione sull'illecito dell'ente perché esso è risolto dal nesso di dipendenza con il reato presupposto, sicché il potere di conoscerne è in capo al giudice nazionale se e in quanto egli ha giurisdizione su quest'ultimo.
Nel caso che occupa gli illeciti contestati alle persone giuridiche ricorrenti sono dipendenti da reati incontestabilmente commessi in Italia, per i quali è pacifica la giurisdizione del giudice nazionale.
8.9. Alla luce di quanto sin qui esposto è possibile valutare la fondatezza delle tesi difensive.
Secondo la dottrina più critica, poiché la condotta contra ius societatis si è radicata fuori dal territorio, allora essa è sottratta alla giurisdizione della autorità italiana, perché «non sussiste alcuna disposizione del nostro ordinamento che consenta di perseguire sul nostro territorio un illecito amministrativo commesso all'estero da società di diritto straniero». In realtà il quesito di partenza è proprio quello sulla esistenza di disposizioni aventi tale oggetto.
Sul piano sostanziale si afferma che la previsione dell'art. 7, co. 1, per la quale l'ente è responsabile quando "la commissione del reato è stata resa possibile dalla inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza", determina che il luogo di commissione dell'illecito amministrativo non può che essere individuato nel territorio in cui la società incolpata ha costituito la sua sede amministrativa e il suo apparato organizzativo nonché la sua struttura contabile.
In tale prospettazione mette radici la principale tra le obiezioni delle difese. Si sostiene che poiché la colpa di organizzazione è "il nucleo più qualificante del modello di responsabilità degli enti" allora la giurisdizione deve essere determinata dal luogo in cui tale condotta viene tenuta. Si aggiunge che a ritenere diversamente si pretenderebbe di valutare la colpa di organizzazione sulla scorta di regole cautelari non valevoli per l'ente con sede all'estero, sottoposto a previsioni normative e regolamentari che possono non prevedere l'obbligo di adozione di idonei modelli di organizzazione, da attuare efficacemente o possono prevedere differenti parametri di valutazione dell'idoneità e dell'efficacia. La premessa di fondo è che "le modalità di conformazione dell'ente al «dovere di diligenza» organizzativo sono state espressamente fissate dal legislatore. L'osservanza implica l'adozione di specifici modelli organizzativi, che abbiano una precisa evidenza documentale e un'esatta struttura e la cui attuazione deve essere "sorvegliata" da un organismo costituito ad hoc, indipendente e autonomo, dotato di ben definite funzioni: l'Organismo di Vigilanza".
Si tratta di obiezioni che non paiono fondate. Esse prendono l'abbrivio da una ricostruzione della struttura dell'illecito che annulla il ruolo del reato presupposto e che quindi, per quanto già esposto, non convince. Peraltro, essa è contrastata dal rilievo che a più fini il legislatore ha assegnato al luogo di commissione del reato presupposto.
8.10. Le difese hanno osservato che la questione in esame va risolta tenendo conto della (pretesa) oggettiva impossibilità dell'ente di orientare la propria condotta organizzativa in conformità ai parametri cautelari-organizzativi previsti nell'ordinamento interno; della necessaria riconoscibilità dei parametri ai quali adeguarsi; della possibilità per il giudice di adottare parametri legali obiettivamente conoscibili per valutare il comportamento organizzativo dell'ente. Fattori tutti che starebbero a dimostrare che per gli enti esteri non è prevista la giurisdizione italiana. Si tratta di osservazioni di sicuro spessore ma che riposano su premesse teoriche non condivise da questa Corte.
La tesi evoca in certa misura il concetto, elaborato in seno agli studi in materia di giurisdizione, di fattispecie territorialmente limitate, ovvero di quelle fattispecie tipiche (la definizione è stata posta a riguardo dei reati) che contengono, in forma esplicita o implicita, limiti precettivi che le rendono inidonee a qualificare i fatti commessi all'estero. Vengono indicati come tali, ad esempio, quei reati che contengono un elemento di illiceità espressa che non è compatibile con una sua consumazione all'estero; come la previsione di una licenza dell'autorità nazionale che non può avere efficacia che nel territorio dello Stato.
Ma nel caso di specie non si è in presenza di un'ipotesi di territorialità limitata perché l'illecito dell'ente non presenta alcun elemento che rappresenti un limite al principio di territorialità. Come si è già scritto, le regole cautelari - qui vengono in considerazione quelle che concretano il modello di organizzazione e gestione - hanno uno statuto peculiare, che trae origine dall'essere cogenti in ragione della loro efficacia preventiva. Ciò significa che non è pertinente evocare la loro inclusione in un ordinamento diverso, giacché quel che rileva è che siano riconosciute dal consesso sociale come efficaci per la gestione del rischio di cui si tratta.
Va poi ancora ripreso un dato che si è già evidenziato; ovvero che la colpa di organizzazione non si identifica con l'assenza del modello, mentre la corretta messa in campo di questo integra una presunzione legale di assenza di colpa di organizzazione. Ciò implica che l'assenza di un modello conformato all'archetipo valevole per la legislazione nazionale non è di ostacolo all'esclusione di una colpa di organizzazione quando 'l'organizzazione diligente' sia in altro modo dimostrata (né può l'accusa limitarsi a dimostrare la mancata adozione di un simile modello). Non si condivide, quindi, l'assunto secondo il quale il comportamento lecito dell'ente "implica l'adozione di specifici modelli organizzativi". La presenza di modelli conformi alla previsione normativa permette all'ente di beneficiare di una presunzione legale di assenza di colpa (di organizzazione). Mentre una limitazione della prova della insussistenza di una colpa di organizzazione pure in assenza di un modello quale quello delineato dalla legislazione nazionale finirebbe per porre evidenti dubbi di legittimità costituzionale.
La ricostruzione qui delineata conferma la conclusione alla quale è pervenuta la Corte di appello (e rinvenibile anche nella sentenza Calò), in merito alla 'defettibilità' del modello di organizzazione definito dalla legge nazionale: nel sistema italiano l'adozione di specifici modelli è una causa di esclusione della responsabilità ma non costituisce un obbligo. Tale ricostruzione esclude ogni differenza di trattamento tra enti nazionali ed enti stranieri, abbiano o meno quest'ultimi la sede principale nel territorio dello Stato.
Alla luce di quanto sin qui esposto non paiono in grado di minare l'impianto tratteggiato le difficoltà di applicazione di talune tipologie di sanzioni all'ente avente sede principale all'estero. Solo la ontologica incompatibilità tra la sanzione, considerata in astratto, e l'ente in parola potrebbe indurre riflessi di carattere sistematico. La concreta difficoltà di applicazione, per contro, si riverbera unicamente sulla adeguatezza della disciplina dell'esecuzione e dell'assistenza giudiziaria tra Stati (non si condivide la soluzione che potrebbe trarsi da Sez. 6, n. 42701 del 30/09/2010, P.M. in proc. E.N.I. e altro, Rv. 248594 che, invero in un caso non sovrapponibile a quello che qui impegna, ha indicato la via di una verifica giudiziale della sanzione che, in concreto, può essere effettivamente applicata all'ente).
8.11. La difesa ha prospettato che il riconoscimento della giurisdizione italiana sugli illeciti commessi in Italia da enti stranieri non aventi sede principale nel territorio italiano sarebbe in contrasto con il principio di colpevolezza (art. 27 Cost.). La premessa del rilievo, ovvero la ipervalorizzazione della colpa di organizzazione, con assoluta marginalizzazione del reato-presupposto ai fini della identificazione del luogo di commissione dell'illecito dell'ente, non è condivisibile.
Anche la tesi della violazione dell'art. 25 Cost, e dell'art. 117 Cost., come norma interposta dall'art. 7 Cedu, non risulta fondata. La difesa sostiene che "in assenza di un orientamento interpretativo consolidato, le società austriaca e tedesche non erano nell'obiettiva condizione di conoscere che sarebbero incorse nell'irrogazione di sanzioni a carattere punitivo per la violazione di un "dovere di diligenza" di contenuto organizzativo-cautelare, sebbene prive di qualsivoglia collegamento (sede principale o altra operativa) nel territorio dello Stato italiano". Premesso che l'argomento non sembra trovare ideale collocazione nella disciplina della giurisdizione, può comunque essere osservato che l'affermazione riposa sulle premesse che si sono sin qui respinte e sembra sottendere l'orientamento che, con riguardo alla posizione dello straniero autore di un reato all'estero, richiede la cd. doppia punibilità per ammettere la giurisdizione italiana. Tale tesi "fa leva sul principio di legalità del diritto penale e sul presupposto della conoscibilità del precetto penale, nonché sul legittimo affidamento in ordine alla liceità penale del fatto, quali premesse inderogabili per la repressione di ogni reato". Si ritiene che tale posizione interpretativa sia "rafforzata dalla portata assunta dall'art. 5 c.p. a seguito della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui non escludeva dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile (Corte cost, 24 marzo 1988, n. 364), essendo quest'ultima normalmente riconoscibile nei confronti di un soggetto estraneo all'ordinamento italiano allorché il reato non vulneri valori recepiti in tutte le comunità civili" (Sez. 1, n. 38401 del 17/09/2002, Minin, Rv. 222925, in tema di trasferimento illegale di armi estero su estero). Ma nel caso di specie non si verte nel caso di illecito commesso all'estero.
Quanto ai vincoli interpretativi che discenderebbero dalla necessità di non dare alle norme contenuti che si traducano in limiti alla libertà di stabilimento garantita dal Trattato CE, il tema trova soluzione in quanto si è già scritto a proposito dell'assenza di un obbligo di adozione di specifici modelli. Mentre appare singolare la pretesa di rinvenire limiti valevoli per l'ente morale estero e non anche per la persona fisica straniera; e a ritenere invece comuni tali limiti (nel senso auspicato dalle difese) sarebbero minati in radice i principi di obbligatorietà e di territorialità, senza che una soluzione così 'innovativa' abbia trovato una espressa presa di posizione legislativa. Inoltre, proprio la tensione della disciplina eurounitaria alla eliminazione di discriminazioni tra soggetti economici operanti nel territorio dell'unione confligge con una soluzione interpretativa che realizzerebbe un'indebita alterazione della libera concorrenza rispetto agli enti nazionali, consentendo a quelli enti privi di sede principale in Itala di operarvi senza dover sostenere i costi necessari alla implementazione e alla gestione di una organizzazione diligente.
La difesa ha invocato anche la disposizione dell'art. 25 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), secondo la quale le società, le associazioni, le fondazioni ed ogni altro ente, pubblico o privato, anche se privo di natura associativa, sono disciplinati dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione e dalla legge italiana se la sede dell'amministrazione è situata in Italia ovvero se in Italia si trova l'oggetto principale di tali enti. Come è stato già spiegato con la sentenza Calò, tale disposizione "ha chiaramente riguardo a profili civilistici (di regolamentazione degli aspetti costituitivi, statutari, organizzativi, operativi ecc. degli enti) e non può in alcun modo esonerare le persone giuridiche che 'si trovano nel territorio dello Stato', qualunque nazionalità esse abbiano, dall'osservare - al pari delle persone fisiche - la legge penale vigente in Italia a norma dell'art. 3, comma primo, cod. pen. e, dunque, dal rispondere degli illeciti commessi con le condotte e le attività che esse svolgano nel nostro Paese a mezzo dei propri rappresentanti e/o soggetti sottoposti all'altrui direzione o vigilanza".
Mentre convalida l'interpretazione anche qui ribadita la previsione dell'art. 97- bis, comma 5, del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, che ha espressamente esteso la responsabilità per l'illecito amministrativo dipendente da reato "alle succursali italiane di banche comunitarie o extracomunitarie", considerando dunque - ai fini della responsabilità ex decreto n. 231 - l'aspetto dell'operatività sul territorio nazionale a discapito di quello della nazionalità o del luogo della sede legale e/o amministrativa principale dell'ente.
8.12. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio nei confronti di G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germania GmbH e di Ju***l Waggon GmbH, ma anche nei confronti di Tre*** s.p.a., Mer*** Rail s.r.l., R***I S.p.a., perché l'illecito loro rispettivamente ascritto non sussiste.
Stante l'accoglimento dei ricorsi degli enti condannati per l'illecito di cui all'art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001 per l'insussistenza del reato presupposto non devono essere esaminati gli ulteriori motivi di censura articolati nei ricorsi medesimi.
A tal riguardo è opportuno rammentare che il principio previsto dall'art. 587 cod. proc. pen. riguarda l'estensione all'imputato non impugnante sul punto, degli effetti favorevoli derivanti dall'accoglimento del motivo di natura oggettiva dedotto dal coimputato, ma non implica l'estensione da un coimputato all'altro dei motivi di impugnazione, con conseguente dovere da parte del giudice di esaminarli (Sez. 6, Sentenza n. 21739 del 29/01/2016, Tarantini e altro, Rv. 266917 - 01).

9. La richiesta degli operatori stranieri di rinvio pregiudiziale alla CGUE
9.1. Prima di prendere in esame i ricorsi proposti dagli imputati che operarono per le società del gruppo G***x e da queste ultime appare opportuno trattare le relative istanze di rimessione alla CGUE di una questione pregiudiziale concernente l'interpretazione del diritto unionale, per quanto ciò inverta l'ordine logico delle questioni.
Le istanze prospettano la incompatibilità con il diritto dell'unione europea di una normativa nazionale che punisce anche condotte la cui tipicità è giudicata alla stregua di parametri diversi da quelli dello Stato nel cui territorio la condotta è stata tenuta e, si aggiunge, nel rispetto delle norme di tale Stato.
9.2. In primo luogo va escluso che sussista l'obbligo di rimettere la questione pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo, diversamente da quanto asserito dai ricorrenti. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'unione europea non costituisce un rimedio giuridico obbligatorio, esperibile automaticamente a sola richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità (Sez. 4, n. 50998 del 19/07/2017, Rv. 27135301; tra le diverse altre, Sez. 3, n. 41152 del 06/07/2016, Rv. 26778301).
Come è stato già osservato in tali pronunce, il principio del primato del diritto comunitario, che impone al giudice nazionale di applicare integralmente il diritto comunitario e di dare al singolo la tutela che quel diritto gli attribuisce, disapplicando di conseguenza la norma interna confliggente, sia anteriore che successiva a quella comunitaria, ha quale proiezione processuale il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia disposto dal giudice nazionale ove insorga una questione interpretativa su una norma comunitaria che non ritiene di poter risolvere interpretando la norma comunitaria. Nel caso in cui il giudice in questione sia un giudice di ultima istanza, salvo casi particolari, la facoltà di rinvio pregiudiziale sembrerebbe essere disegnata come un obbligo, volto ad evitare un consolidamento nella giurisprudenza di una interpretazione che, non passata al vaglio della Corte di Giustizia, sia erronea. Tuttavia, questa Corte di legittimità ha avuto modo di precisare (cfr. Sez. 4, n. 27165 del 24/5/2016, Battisti, non mass.) che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a sola richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità (S.U. civ., ord. n. 20701 del 10.9.2013, Savoldelli contro Proc. Generale c/o Sezione Giurisdizionale Conti; cfr. anche Corte giust. 21 luglio 2011, Kelly, in C104/I0; 22 giugno 2010, Melki in C. 88 e 189/10). Il rinvio pregiudiziale, infatti, ha la funzione di verificare la legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto dell'unione Europea e se la normativa interna sia pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali risultanti dall'evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo e recepiti dal Trattato Sull'Unione Europea; sicché il giudice, effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio solo perché proveniente da istanza di parte (cfr. Sez. 3 civ., n. 13603 del 21.6.2011, G. contro Ass. Generali Spa, Rv. 618393). D'altra parte, come sottolineato dalle Sezioni Uniti Civili di questa Corte (S.U. civ., n. 16886 del 5.7.2013, Wind Telecomunicazioni Spa contro Telecom Italia Spa, Rv. 626853) la Corte di Giustizia Europea, nell'esercizio del potere di interpretazione di cui all'art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità economica europea, non opera come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale. Pertanto, il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all'obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un "acte claire" che, in ragione dell'esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell'evidenza dell'interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (ex multis S.U. civ., 24/5/2007, n. 12067, Victoria Vericherung Ag. contro Beruffi, Rv. 597142; Sez. 1 civ., ord. n. 22103 del 22/10/2007, Agenzia Erogazioni Agricoltura contro Cons. Agrario Ravenna Scarl, Rv, 599710; Sez. 1 civ., n. 4776 del 26/3/2012, Gaz contro Rai Spa ed altri, Rv. 621620). Occorre operare, in altri termini, una delibazione di fondatezza della questione proposta.
9.3. La prospettazione dei termini della questione fatta nei ricorsi del Br.[HE.], del Ma.[JO.], del Ma.[RO.], del Ko.[RA.] e del Li.[PE.] è del tutto generica; si sostiene che "l'applicazione di parametri italiani di valutazione della condotta piuttosto che del parametro di diligenza previsto dalla legislazione austriaca ... è incompatibile con l'impianto normativo del TFUE e delle direttive europee ed in particolare della direttiva 2004/49/CE Si aggiunge che, tenuto conto della possibile esistenza di ostacoli astrattamente legittimi alla libera circolazione dovuti a norme nazionali volte a perseguire esigenze imperative, la normativa di armonizzazione preclude agli Stati membri di imporre esigenze e normative nazionali alla condotta di operatori situati in altri Stati membri.
Con riferimento agli imputati in parola non viene in considerazione alcuna normativa armonizzata, che con riferimento alla materia della circolazione ferroviaria intraeuropea è da identificarsi in quella che reca le Specifiche tecniche di interoperabilità, delle quali si scriverà diffusamente nel prosieguo. A parametro di valutazione della colpa in senso oggettivo ascritta ai menzionati imputati i capi di imputazione e le pronunce dei giudici di merito assumono regole cautelari contenute nel Manuale VPI e nelle TFA; ovvero disposizioni vigenti in Germania ed in Austria ed addirittura, le seconde, elaborate dagli stessi proprietari dei carri (quindi, nella fattispecie, da G***x Rail Austria). Laddove si evidenziano obblighi di tracciabilità (in specie il Tribunale, per il Ma.[JO.] ed il Ma.[RO.]) si chiamano in gioco disposizioni di diritto internazionale che vincolano allo stesso modo gli operatori degli Stati firmatari o un generico dovere di diligenza.
Le sole norme di diritto italiano evocate dalle sentenze sono quelle che fondano una posizione gestoria del rischio; esse non vengono considerate dai ricorrenti. È poi del tutto indimostrato l'essenziale presupposto di una normativa eurounitaria che avrebbe trovato attuazione in termini dissimili in Austria e in Italia e, soprattutto, che tali diversità assumano rilievo concreto nel caso di specie.
9.4. Il tema è affrontato con un qualche maggior dettaglio nei ricorsi del Kr.[UW.] A e dello Sc.[AN.]. In essi la richiesta di rimessione alla Corte di giustizia dell'unione europea di questione pregiudiziale si amplia alla considerazione della direttiva 2001/16/CE e si dettaglia con il riferimento al d.lgs. n. 162/2007, al d.lgs. n. 81/2008, al d.lgs. n. 231/2001 e agli artt. 2043, 2050 e 2087 c.c., fermo restando che si pone all'esame ancora una volta la pretesa rivolta a soggetti che svolgono nello Stato membro di appartenenza la propria attività di locazione o di manutenzione di carri ferroviari o loro parti di ricambio circolanti in Italia. Ma la questione è ulteriormente articolata con delle 'subordinate', chiedendo, in caso di risposta affermativa al primo quesito, se ciò valga anche quando al momento nel quale l'attività di manutenzione veniva svolta non era noto in quale Stato membro il veicolo o una sua parte di ricambio sarebbe stato utilizzato; se implichi una deroga alle norme del TFUE e alle direttive 2004/49/CE e 2001/16/CE l'applicazione del regolamento CE n. 864/2007 alle azioni relative al risarcimento dei danni occorsi nello Stato membro di destinazione il 29.6.2009 e successivamente e, in caso di risposta affermativa, se tale deroga riguarda solo le azioni risarcitorie o anche la liceità della condotta del danneggiante in ambito penale e/o amministrativo e sulla base di quali norme deve valutarsi la condotta del presunto responsabile dell'illecito che sia anteriore all'll.1.2009, data di applicazione del menzionato regolamento.
Anche così articolati i quesiti, a parere di questa Corte essi non assumono rilevanza nel caso che occupa.
Una volta ancora non è descritto in cosa consista la diversità della disciplina tedesca di recepimento della direttiva 2004/49/CE rispetto a quella recata dal d.lgs. n. 162/2007 e come tale diversità incida nel caso di specie. Si assume che la menzionata direttiva non permette di imporre requisiti di sicurezza ulteriori o diversi rispetto a quelli dello Stato membro in cui tali beni e servizi sono prodotti o prestati, sicché al Kr.[UW.] e allo Sc.[AN.] non potrebbe essere richiesto di osservare uno standard di diligenza riconosciuto nel diritto italiano ma non in quello tedesco, senza però dare alcuna dimostrazione di tale diversità. Il richiamo alla circostanza che nella legislazione tedesca le attività manutentive dei veicoli ferroviari e delle loro parti di ricambio debbano essere svolte nel rispetto delle "norme tecniche riconosciute", nella sua genericità non è in grado di documentare alcuna differenza di disciplina.
Peraltro, almeno per il Ma.[JO.] ed il Ma.[RO.], l'accertamento dei fatti operato con le sentenze di merito attesta che la loro condotta si realizzò in Italia, con la fornitura dell'assile criccato alla Ci***Ri***. Con il che risulta insussistente il principale presupposto della questione sollecitata dai ricorrenti.
Per reputare non rilevanti le questioni prospettate dai ricorrenti ciò è sufficiente (ma solo aggiunto che ad avviso di questa Corte non reca alcun contributo il Regolamento CE n. 864/2007, ancorché evocato dalla Corte di appello).
Ma quanto qui esposto risulterà integrato da ciò che si scriverà a riguardo dell'analoga ma non coincidente richiesta proposta dai ricorrenti che operarono per le società di diritto italiano.

10. Il ricorso di KR.UW.
10.1. Avendo il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. P. già trovato risposta nella trattazione dei motivi comuni, va preso in esame innanzitutto il quinto motivo articolato con il medesimo ricorso, stante il suo carattere pregiudiziale. Ove fondato, esso determinerebbe la nullità della sentenza, sia pure limitatamente alla posizione del solo Kr.[UW.].
Si tratta della censura della violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. e del vizio della motivazione, perché a fronte di una contestazione originaria incentrata sulla violazione di definite norme a contenuto cautelare e che quindi descrive una colpa specifica, la Corte di appello ha rimproverato al Kr.[UW.] una colpa generica per non aver correttamente valutato lo stato complessivo dell'assile e non aver, di conseguenza, interrotto l'esame UT. Nel replicare al motivo di appello che contestava al Tribunale la medesima indebita innovazione, la Corte distrettuale sarebbe caduta in contraddizione perché ha affermato che l'omesso esame visivo non rientra nella contestazione e poi ha ascritto all'imputato la negligente esecuzione di un simile esame.
Il motivo è manifestamente infondato: la colpa generica è esplicitamente indicata nelle imputazioni elevate al Kr.[UW.]; in esse si ascrive di aver permesso, svolgendo malamente il controllo UT, che la sala superasse con esito positivo l'esame. Come si scriverà più diffusamente nel prosieguo, la Corte di appello ha affermato che al Kr.[UW.] non si può imputare di aver eseguito scorrettamente il controllo visivo dell'assile inteso come controllo codificato ISO, sia perché non contestatogli sia perché non di sua competenza; ma l'osservazione dell'assile per eseguire l'esame che gli competeva e che doveva eseguire è prevista dalle norme che disciplinano la prova UT ed è, la sua mancanza, nella contestazione di aver eseguito l'intera procedura senza rilevare la cricca e senza riconoscere segnali che deponevano per l'inaffidabilità del controllo UT.
Peraltro, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel principio per cui in tema di reati colposi non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014, Denaro, Rv. 26016101). Nel caso che occupa non è stata neppure evocata una limitazione del diritto di difesa discendente dalla evidenziazione del profilo di colpa generica; limitazione, d'altronde, di ben difficile ricorrenza, attese l'ampiezza del contraddittorio realizzatosi tra il primo ed il secondo grado di giudizio.
10.2. Superato il motivo personale di carattere processuale (sui contenuti in merito del quinto motivo si tornerà in seguito), occorre muovere dall'esame del primo motivo del ricorso a firma dell'avv. R.A..
Infatti, in esso si contesta in radice l'accertamento della circostanza secondo la quale alla data del controllo dell'assile eseguito dal Kr.[UW.] tale componente presentava una cricca di 10-11 mm. sul collarino. La censura si concretizza non di rado nella contestazione della valutazione delle prove compiuta dai giudici di merito, dissimulandola con l'evocazione di vizi motivazionali. Ciò non di meno nel nucleo di essa si coglie che la motivazione viene ritenuta viziata per esser stata utilizzata la prova esperta in violazione dei principi posti da questa Corte, ciò in forza anche di travisamenti della prova. Più in particolare, si sostiene che la presenza della cricca al tempo è stata ritenuta sulla base di tesi specialistiche valutate maggiormente attendibili in quanto la tesi difensiva sarebbe fondata su un presupposto che è stato negato dalla Corte di appello, ovvero che sia possibile associare marcature e viaggi. Tale negazione riposerebbe su un travisamento della prova, perché diversamente da quanto sostenuto dalla Corte di appello anche gli esperti diversi dal Fred. e dal Bin. avevano affermato che è ammessa tale associazione; e sulla base di una errata applicazione delle regole in tema di valutazione della prova esperta, perché la Corte di appello ha elevato la convergenza - peraltro per l'esponente non sussistente - delle diverse valutazioni tecniche a fattore decisivo per l'attendibilità scientifica di una tesi - anch'essa messa in discussione dai rilievi critici del Fred. e del Bin. - e non si è misurata con la valenza scientifica della tesi di questi ultimi, che ha accantonato senza analisi specifica e grazie all'indicato travisamento.
Il motivo non trova riscontro nella motivazione che censura.
10.3. Sul piano dei principi occorre rammentare che è ormai divenuto patrimonio comune, quanto meno degli operatori del diritto, l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale nei giudizi debitori del sapere esperto al giudice è precluso di farsi creatore della legge scientifica necessaria all'accertamento. Poiché egli è portatore di una 'legittima ignoranza' a riguardo delle conoscenze scientifiche, "si tratta di valutare l'autorità scientifica dell'esperto che trasferisce nel processo la sua conoscenza della scienza; ma anche di comprendere, soprattutto nei casi più problematici, se gli enunciati che vengono proposti trovano comune accettazione nella comunità scientifica. Da questo punto di vista il giudice è effettivamente, nel senso più alto, peritus peritorum: custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa dal processo".
Il giudice riceve quella che risulta essere accolta dalla comunità scientifica come la legge esplicativa - si dice ne sia consumatore - e non ha autorità per dare patenti di fondatezza a questa piuttosto che a quella teoria. L'acquisizione della legge che funge da criterio inferenzìale non è però acritica; anzi è in questo segmento dell'attività giudiziale che si condensa l'essenza di questa. Non essendo esplorabile in autonomia la valenza intrinseca del sapere introdotto dall'esperto, l'attenzione si sposta sugli indici di attendibilità della teoria: "Per valutare l'attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L'ampiezza, la rigorosità, l'oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l'elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in discussione l'ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate. L'attitudine esplicativa dell'elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l'identità, l'autorità indiscussa, l'indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove". Si è aggiunto che "il primo e più indiscusso strumento per determinare il grado di affidabilità delle informazioni scientifiche che vengono utilizzate nel processo è costituto dall'apprezzamento in ordine alla qualificazione professionale ed all'indipendenza di giudizio dell'esperto".
La corretta conduzione di tale verifica rifluisce sulla "logica correttezza delle inferenze che vengono elaborate facendo leva, appunto, sulle generalizzazioni esplicative elaborate dalla scienza
In ciò è anche l'indicazione del contenuto del sindacato del giudice di legittimità, che attraverso la valutazione della correttezza logica e giuridica del ragionamento probatorio ripercorre il vaglio operato dal giudice di merito non per sostituirlo con altro ma per verificare che questi abbia utilizzato i menzionati criteri di razionalità, rendendo adeguata motivazione (così, tra le altre, Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016 - dep. 2017, Pc. In proc. Bordogna e altri, Rv. 270384-87, secondo un insegnamento risalente a Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943).
Ma è stato anche puntualizzato (Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2017, dep. 2018, Pg. in proc. Cirocco e altri, Rv. 27309401) che l'insegnamento di questo Corte implica, oltre alle prescrizioni indirizzate al giudice, anche indicazioni in ordine al contegno processuale delle parti ed un criterio di valutazione dei motivi di ricorso. Come osservato da attenta dottrina, il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio ha anche una dimensione pratica: da esso non discendono soltanto indicazioni metodologiche che, indirizzate al giudice, lo ammoniscono sul come si consegue una conoscenza processuale che a quel principio risulti informata (in ciò la dimensione epistemica), ma anche prescrizioni che investono il piano dell'azione.
In un processo tendenzialmente accusatorio qual è il vigente sistema processuale, sulle parti grava l'onere di provare, con la distribuzione ben nota che lascia il maggior peso sul capo dell'accusa. La prova che le parti sono richieste di fornire non può essere altra da quella che occorre al giudice. Dando concretezza al discorso: se il giudice ha necessità di conoscere quale sia la tesi scientifica maggiormente accreditata nella comunità degli studiosi, la parte che intende appellarsi a quella tesi ha l'onere di dimostrare tale accreditamento mentre la controparte potrà e dovrà resistere (anche) su quel medesimo terreno.
Ciò vuol dire che risultano in definitiva incongrui e di scarsa pertinenza tutti quegli argomenti che non pongono in luce la carenza di consenso scientifico e tendono piuttosto a dimostrare - ovviamente attraverso la 'voce' dell'esperto chiamato in ausilio - la intrinseca debolezza di una determinata teoria. Non ci si avvede, in tal modo, che si pretende di far coincidere il sapere accreditato con l'opinione del singolo esperto attore sul proscenio processuale. Anche gli esperti della parte che contesta la utilizzabilità di una determinata teoria quale criterio inferenziale (o quale fonte di regola cautelare, ad esempio) devono necessariamente contraddire sul medesimo campo della accettazione di quella spiegazione da parte della comunità scientifica.
La ricognizione teorica va completata considerando infine l'art. 533, co. 1 cod. proc, pen., il quale prescrive che la condanna può essere pronunciata solo quando l'imputato risulta colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Tanto implica che l'affermazione di responsabilità presuppone - limitatamente al punto in esame - che sia acquisito 'oltre ogni ragionevole dubbio' che la legge di copertura sulla quale è assisa l'impostazione accusatoria sia riconosciuta dalla comunità scientifica come quella maggiormente accreditata. Il che non richiede di escludere l'esistenza di ogni tesi avversa o divergente; evenienza - quella della solitudine di una teoria - invero puramente teorica e neppure pretesa dal principio, che si connette all'idea di certezza ottimale. Occorre pertanto dimostrare 'soltanto' la marginalità - non sul piano logico ma proprio su quello comparatistico - delle altre tesi in circolazione. Di contro, alla difesa è sufficiente dimostrare l'esistenza di un serio dubbio in ordine alla maggior 'fortuna' della teoria brandita dall'accusa; ancora una volta la dimostrazione prescinde - o quanto meno non è data - dalla confutazione degli argomenti della teoria, a meno che questa non rappresenti il riflesso delle motivazioni dello scarso seguito della legge di copertura da parte della comunità scientifica. Sicché il dubbio che può essere sufficiente a far fallire l'accusa attiene esso stesso al 'rango' della spiegazione scientifica che si vorrebbe fosse utilizzata dal giudice. Altrettanto vale per gli ulteriori presupposti del giudizio di attendibilità di una teoria scientifica.
Non sfugge certo a questa Corte che alla nitidezza dei concetti sovente non corrisponde eguale evidenza del confine che corre tra censure che attengono al merito della teoria e quelle che intendono evidenziare il vizio motivazionale in ordine al sufficiente accreditamento. Ma la gravosità del compito non solleva dal dovere di applicare con coerenza lo statuto della prova scientifica nel processo penale.
10.4. Per altro aspetto, pure investito dal ricorso, va precisato in primo luogo che il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso di cosiddetta "doppia conforme", sia nell'ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, Tassoni, Rv. 280155); fermo restando il limite derivante dal principio devolutivo, sicché il vizio nel quale è incorso il primo giudice deve essere stato denunciato al giudice dell'impugnazione e, ciò nonostante, da questi reiterato.
Quanto all'oggetto, il "travisamento della prova" si risolve nell'utilizzazione di un'informazione inesistente o nella omessa valutazione della prova esistente agli atti ed è necessario che il ricorrente prospetti la decisività del travisamento o dell'omissione nell'ambito dell'apparato motivazionale sottoposto a critica (cfr. Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, Villari, Rv. 280117). In particolare, il vizio di travisamento della prova per omissione è configurabile quando manchi la motivazione in ordine alla valutazione di un elemento probatorio acquisito nel processo e potenzialmente decisivo ai fini della decisione in quanto astrattamente idoneo a disarticolare l'impianto logico della decisione impugnata (cfr. Sez. 6, n. 8610 del 05/02/2020, P., Rv. 278457).
10.5. È opportuno riproporre le sequenze essenziali del ragionamento svolto dal Tribunale, che ha trovato condivisione da parte della Corte di appello, all'esito di un autonomo percorso motivazionale.
Dopo aver premesso che intorno alla cd. legge di Paris vi è un ampio consenso nella comunità scientifica, il Tribunale ha rammentato che il perito nominato dal G.i.p., Van., applicando tale legge ha individuato, a partire dalle dimensioni finali del difetto, le dimensioni della cricca al novembre 2008; che peraltro il valore individuato (10-11 mm.) era la risultante dell'applicazione di un criterio prudenziale ai vari parametri inclusi nel calcolo, in assenza del quale la cricca avrebbe dovuto stimarsi di dimensioni ancor maggiori e quindi ancor più elevate di quelle - 5 o 6 mm. - che, e il dato non è controverso, ne permettono la rilevazione all'esame ultrasonoro. È stato quindi disegnato un procedimento a ritroso, che a partire da alcune caratteristiche della frattura per come osservabile dopo l'incidente, porta a conoscere le dimensioni della cricca nel novembre 2008.
Il Tribunale ha dato conto di una prima obiezione difensiva, costituita dall'assenza di prova documentale dei calcoli eseguiti dai periti, che ha ritenuto di superare rappresentando come anche gli altri esperti del P.M. e delle parti civili avessero dato una concreta dimostrazione dei calcoli effettuati sulla velocità di propagazione della cricca senza darne illustrazione.
Ha quindi esposto i dati che gli hanno consentito di ribadire che anche il Ber. ed il Bon. (consulenti delle parti civili) avevano utilizzato la legge di Paris, pervenendo a risultati coincidenti o non dissimili da quelli del Van.. Soprattutto, per quel che qui rileva, ha precisato di ritenere decisivo che si trattasse di cricca di dimensioni certamente superiore a 2 mm., perché già con tali dimensioni la cricca sarebbe stata rilevabile con una probabilità vicina al 90%.
Il Tribunale ha poi rammentato che anche gli esperti degli imputati riconducibili alle società del gruppo Fe***I*** avevano concluso per la esistenza al 28 novembre 2008 di una cricca superiore ai dieci millimetri; e che anche il prof. Nico., c.t. per Ci***Ri***, aveva concluso per una "fessura di dimensioni abbastanza consistenti" pur non avendo eseguito alcun calcolo.
Pertanto, il Tribunale ha dato conto del convergere delle diverse valutazioni degli esperti sulla valenza della legge di Paris e sull'esito della sua applicazione.
Ciò fatto, il primo Collegio ha preso in esame le tesi antagoniste della difesa degli imputati sulla scorta del contributo offerto dal Fred.; tesi conducenti alla determinazione di una grandezza della cricca al tempo inferiore ai due millimetri e incentrate, in positivo, sulla associabilità di taluni segni rilevabili sull'assile ai viaggi da questo compiuti e, in negativo, dalla critica a ciascuno dei procedimenti seguiti dai diversi consulenti. In forza del fatto che i viaggi a vuoto imprimono segni diversi da quelli lasciati dai viaggi a pieno carico, grazie alla costanza dei valori rilevanti, il Fred. ha ritenuto di poter stimare la velocità di propagazione della cricca non utilizzando la legge di Paris. Per tale consulente - in ciò condiviso dal Posc. - la cricca non si era evoluta secondo tre fasi e con diversa progressività ma aveva avuto sempre una evoluzione a velocità importante.
Orbene, nel confrontarsi con tale diversità di giudizi specialistici il Tribunale si è richiamato ai principi esposti dalla sentenza Cozzini e a quelle che ad esse sono seguite confermandone l'insegnamento. Ha in primo luogo sgombrato il campo dall'obiezione che dubitava della possibilità di parlare di una unanimità di vedute degli esperti perché solo alcuni di essi avevano eseguito i calcoli, osservando che anche gli altri esperti "si erano occupati di fornire risposte certe anche riguardo ad altri e numerosi aspetti del problema che hanno diretta incidenza anche sulla tematica della dimensione della cricca”. Come a dire che essi avevano affrontato aspetti incidenti sul problema portando la propria specifica competenza, e che questa li rendeva comunque in grado di condividere o ripudiare il risultato indicato dal Van..
Ha poi esposto l'esito del giudizio di attendibilità degli esperti alla luce delle loro competenze: "si tratta di esperti di indubbio valore professionale, che si occupano di tematiche simili non solo nell'ambito della loro attività di lavoro ma anche in ambito accademico e che soprattutto non hanno espresso un punto di vista personale ma hanno riversato nel processo una loro visione del problema sulla base delle loro conoscenze scientifiche universalmente riconosciute".
Il Tribunale ha rammentato che anche il Fred. aveva riconosciuto che il modello matematico fondato sulla legge di Paris è ampiamente utilizzato nello studio dei fenomeni di propagazione della cricca.
Ha poi rimarcato che anche a seguire un diverso procedimento, segnatamente quello descritto dal Bon. e sostanzialmente utilizzato dagli esperti del gruppo Fe***I***, si perviene al medesimo risultato. Sottolineatura che ha permesso al Tribunale di concludere che il metodo scientifico applicato dai periti e dai consulenti dell'accusa pubblica e privata era "assolutamente affidabile ed attendibile, di diffusa applicazione in campo ingegneristico, su cui si registra un preponderante e condiviso consenso da parte di esperti della materia".
Dopo la pars costruens il Tribunale si è preoccupato di indicare anche le ragioni intrinseche di inattendibilità della tesi del Fred. e del Bin..
Il Tribunale riporta la tesi a p. 68: "... i consulenti della Difesa (...) hanno compiuto anche un'altra operazione, che è l'abbinamento di tutto quello che risulta sulla supeR***Icie fratturata ai viaggi complessivamente percorsi dal treno, a partire dal marzo 2009, corrispondenti ad un totale di 12. In particolare, gli ultimi cinque viaggi di andata a pieno carico, percorsi dal treno nella tratta da Trecate a Gricignano, sono stati fatti coincidere con i segnali presenti sulla supeR***Icie di frattura e coincidenti con le suddette linee di spiaggia: mentre i primi sette viaggi sarebbero stati inseriti in quella zona non visibile con il microscopio, indicata dalla Difesa 'nella parte dell'assile limitata, verso il basso, dalla linea di marcatura del viaggio di ritorno numero 7"'.
Orbene, il Tribunale ha ritenuto che la tesi fosse fondata su dati sperimentali ricavati in assenza di contraddittorio, utilizzati in luogo di valori (C ed M) al contrario definiti nell'incidente probatorio; e che assumesse l'associabilità tra viaggi e segni sull'assile denominati 'linee di spiaggia', e fosse presentata come condivisa anche dagli altri esperti nonostante il dato processuale non deponga in tal senso.
A tal riguardo il Tribunale ha escluso che a simili conclusioni fossero giunti anche gli altri esperti, esponendo o sintetizzando le relative dichiarazioni (in specie del Ghi., del Bon., del Ber., del Van. e del Licci.).
10.6. Quanto alla sentenza impugnata in questa sede, la Corte di appello ha analizzato i dati probatori relativi all'associabilità tra alcune marcature e i viaggi compresi tra il settimo e il dodicesimo (quelli successivi al controllo presso la Ci***Ri***), posto che la tesi difensiva era stata che le tracce lasciate sulla supeR***Icie dell'assile ne consentivano l'associazione ai viaggi compiuti dal carro a partire dalla revisione del novembre 2008. Lo sviluppo motivazionale è stato volto ad evidenziare che il dato probatorio non permette di associare determinate marcature a specifici viaggi.
Allorquando la Corte di appello ha menzionato le dichiarazioni del Ghi., ha rimarcato che questi aveva indicato l'esistenza di una prima marcatura posta a circa 14 mm. dall'innesco, segno che indica una prima linea di frattura molto vecchia, traendone, del tutto ragionevolmente, che non era quindi possibile "prospettare che questa prima linea di arresto ... costituisca - come si sostiene nell'appello - la 'traccia' lasciata dal progredire della cricca successivamente a! settimo viaggio sulla tratta Trecate-Grigignano, dopo la riammissione in servizio del carro ...".
Il ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia travisato il dato probatorio perché non ha riconosciuto che tutti gli esperti avevano indicato la corrispondenza tra macrolinee (anche indicate come linee di arresto o linee di spiaggia) e viaggi a vuoto. Oltre al fatto che nel caso di specie il travisamento della prova è stato dedotto senza documentare l'esistenza delle condizioni della sua deducibilità nel giudizio di legittimità (segnatamente che esso sia stato compiuto unicamente dal giudice di secondo grado), vi è che la Corte di appello non ha mai negato quella corrispondenza, avendo svolto la motivazione per evidenziare piuttosto che la tesi difensiva della riferibilità di talune macrolinee ai viaggi dal settimo al dodicesimo (dopo la riammissione del carro) era infondata.
In questa prospettiva si colloca anche la citazione della testimonianza del Ghi. per rappresentare come fosse stata indicata da questi anche la presenza di microlinee non studiate (per l'assenza in Lucchini del microscopio elettronico TEM, ma nel consenso di tutti gli esperti, anche del Fred. e del Bin.). Microlinee che rendevano ragionevole ritenere che tra due marcature vi potessero essere i segni di altri viaggi ("è credibile che più viaggi - e non uno soltanto - possano essere compresi nello spazio distinto tra due dei 'fronti' disegnati nella figura elaborata presso Lucchini, con l'ovvia conseguenza di rendere del tutto priva di certezza scientifica l'attribuzione del primo fronte, ..., al viaggio numero sette".
Anche questo rilievo non è stato considerato dal ricorrente.
Come non è stato considerato che la Corte di appello ha rimarcato che la debolezza della tesi della difesa derivava dal fatto che il Fred. ed il Bin. non avevano tenuto conto del fronte di arresto individuato dal Ber. alla distanza di 17,3 mm. dalla supeR***Icie dell'assile (confermato dal fronte individuato a 17 mm. nel report Lucchi. e anche dal Van.); e che tali esperti avessero indicato in 7,1 mm. e 3,4 mm. le misure dell'avanzamento della frattura rispettivamente tra il settimo e l'ottavo viaggio e tra l'ottavo e il nono, "in contrasto con le leggi scientifiche normalmente applicate in questa materia, che prevedono che lo sviluppo della frattura sia progressivamente più rapido in funzione dell'avanzare della stessa". Risulta palese, quindi, la manifesta infondatezza della censura elevata in particolare dal ricorso sottoscritto dall'avv. R.A., per la quale la Corte di appello avrebbe individuato delle linee intermedie senza alcun supporto probatorio.
Chiarito che nemmeno la Corte di appello ha negato l'esistenza di linee di spiaggia, macrolinee e microlinee, secondo la varia terminologia - corrispondente a diverse entità fisiche - ricorrente nel processo, alla luce di quanto si è appena esposto risulta evidente che il tema conteso non è quello dell'associabilità marcature/viaggi ma la possibilità di attribuire una particolare marcatura ad un determinato viaggio, per poi individuare la dimensione della cricca al tempo di interesse.
Orbene, mentre le sentenze si premurano di dare conto della coerenza di quanto esposto dagli esperti di accusa al sapere scientifico condiviso, il ricorrente non si è posto il compito di dimostrare che la tesi del proprio esperto era quella maggiormente accreditata dalla comunità scientifica. Ne ha patrocinato la maggiore attendibilità scientifica in forza di un valore - l'essere elaborata a partire da dati sperimentali - che in modo del tutto autoreferenziale ha giudicato preferibile. Si tratta di una prospettiva del tutto dissonante rispetto al rammentato insegnamento di questa Corte, che richiama tutte le parti che aspirino a veder prevalere una determinata teoria a dimostrarne la provenienza da soggetto indipendente, l'accuratezza degli studi, l'accreditamento presso la comunità scientifica (da ultimo, anche Sez. 4, n. 45935 del 13/06/2019, PG, Rv. 27786901).
Si lamenta che non sia stato considerato il contributo del proprio esperto: e come si è visto ciò non risponde al vero; che la tesi di difesa sia stata accantonata per un privilegio di affidabilità concesso alla tesi di accusa: e si è visto che non è vero; che sia stata ritenuta una tesi solitaria difformemente dal vero: e si è visto che i giudici hanno motivato in modo non manifestamente illogico e coerente con il dato probatorio perché si trattava proprio di tesi solitaria.
10.7. Quanto alla evocazione di una censurabile mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, ci si potrebbe limitare alla constatazione del valore
meramente argomentativo dell'allusione, non essendo stata specificata una censura avente ad oggetto la violazione dell'art. 603 cod. proc. pen.
Ciò non di meno appare opportuno rimarcare che certamente si sarebbe al di fuori dell'ipotesi di cui all'art. 603, co. 3-bis cod. proc. pen., posto che sul punto della esistenza e rilevabilità della cricca al tempo dei controlli presso l'officina Ju***l non è registrabile alcuna mutazione tra primo e secondo grado nella valutazione dell'attendibilità delle prove. Quanto all'ipotesi di cui al comma 1 dell'art. 603 cod. proc. pen., per il diritto vivente nel giudizio d'appello, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale è in tal caso subordinata alla verifica dell'incompletezza dell'indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata (Sez. 6, n. 48093 del 10/10/2018, G., Rv. 274230).
Orbene, la Corte di appello ha ampiamente dato conto della richiesta di rinnovazione istruttoria avanzata dal ricorrente (e non solo da questi).
Infatti, a pg. 494 ss. viene menzionata la richiesta delle difese degli imputati operanti nelle società del 'gruppo G***x' avente ad oggetto la rinnovazione parziale del dibattimento al fine di accertare la posizione e l'inclinazione e giacitura della frattura e, inoltre, la rilevabilità della cricca tramite l'esecuzione di un esame ultrasonoro che verificasse e dimostrasse le reali capacità di una simile prova di rilevare la cricca formatasi nel collarino dell'assile.
La Corte di appello ha rigettato tali istanze sottolineando che la prova richiesta sarebbe stata sovrapponibile alle valutazioni espresse in sede di incidente probatorio dai periti Van. e Licci.. Questi avevano concluso specificamente per la rilevabilità della cricca avente le dimensioni accertate nel caso di specie mediante un esame ad ultrasuoni eseguito secondo le prescrizioni VPI. La Corte di appello ha escluso che di quelle conclusioni si dovesse dubitare per quanto asserito in chiave difensiva a proposito della incidenza del dato rappresentato dalla inclinazione della cricca. Ha anche rilevato che la prova non sarebbe stata ripetibile nelle medesime condizioni presenti all'incidente probatorio perché l'assile era stato in tale occasione sezionato e l'utilizzo di un diverso assile non avrebbe permesso di ottenere risultati attendibili.
Più avanti nella trattazione la Corte di appello ha rammentato anche che la difesa aveva chiesto che si procedesse "ad una nuova scansione ad ultrasuoni "a partire dal fusello ...". Anche tale richiesta ha trovato nella sentenza impugnata ( una reiezione sostenuta da motivazione non manifestamente illogica, avendo la Corte distrettuale osservato che "la rinnovazione della prova consistente nella scansione ad ultrasuoni effettuata utilizzando le sonde angolate con le modalità suggerite dalla difesa sarebbe, in ogni caso, tecnicamente diversa e non comparabile in alcun modo con la scansione dell'assile integro (come effettuata ne! novembre 2008 presso l'officina Ju***l); inoltre una simile prova sarebbe del tutto superflua per le decisive ragioni esposte in precedenza".
La Corte di appello ha poi menzionato anche la richiesta di rinnovazione dell'esame ad ultrasuoni mediante perizia; richiesta che ha rigettato, tra l'altro, perché postulante in modo infondato una "non corretta taratura" dell'apparecchiatura utilizzata presso il laboratorio Lucchini nel corso delle operazioni di incidente probatorio.
10.8. Vanno ora esaminati il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. R.A. ed il terzo del ricorso a firma dell'avv. P., attinenti alla motivazione in ordine alla rilevabilità della cricca, anche in relazione alla sua giacitura, che per la Corte di appello non precludeva un esame UT eseguito secondo le regole dell'arte di rilevare la cricca.
La prima censura investe le implicazioni dell'essere la legge probabilistica, ovvero la possibilità che essa non trovi attuazione in un certo numero di casi; il suo carattere predittivo; l'applicabilità solo a classi omogenee; la necessità di accertare la cd. causalità individuale, non soddisfatta nel caso di specie. Vi è poi la cd. incertezza di misura, legata allo strumento di rilevazione, della quale nessuno dei consulenti dell'accusa avrebbe tenuto conto. Si tratta di censure proposte alla Corte di appello, che ad avviso del ricorrente non ha reso motivazione al riguardo.
Ben diversamente, a tali rilievi la Corte di appello ha dedicato l'intera trattazione sub ‘Motivo VII.e’, superandoli con motivazione in nulla manifestamente illogica, oltre che aderente ai principi posti dal giudice di legittimità in tema di gestione giudiziale della prova esperta. In merito ai giudizi predittivi è un sicuro punto di riferimento quanto affermato dalle Sezioni Unite. Si tratta di un ragionamento di carattere previsionale, rivolto al passato, che invece di offrire la chiave di comprensione di quanto è accaduto (come nel caso delle leggi esplicative) offre la legge necessaria a giudicare cosa sarebbe accaduto ipotizzando l'azione di un fattore rimasto assente. Orbene, insegnano le S.U., "per prevedere ciò che sarebbe accaduto nel singolo caso oggetto del processo è di grande importanza conoscere cosa accade nei casi simili. Occorre dunque rivolgersi alle generalizzazioni formatesi a proposito del nesso causale che c'interessa, se esistenti. Qui noi utilizziamo le generalizzazioni scientifiche o esperienziali in chiave eminentemente deduttiva e, per tale ragione, è assai importante il coefficiente probabilistico (parliamo di probabilità statistica) della regolarità causale che utilizziamo. La misura di certezza o d'incertezza che caratterizza la generalizzazione utilizzata si trasferisce, infatti, dalla premessa maggiore alla conclusione del sillogismo probatorio. L'uso dello strumento deduttivo può tuttavia implicare gravi problemi, soprattutto in ambiti complessi. Infatti, spesso non disponiamo affatto di generalizzazioni affidabili ma solo di lacunose ed in qualche caso anche contraddittorie informazioni statistiche. Ma anche quando disponiamo di informazioni sufficientemente esaustive ed affidabili, esse hanno carattere molto generale e non appaiono focalizzate sui tratti della specifica vicenda oggetto del processo... noi non disponiamo quasi mai di uno strumento deduttivo sufficientemente affidabile. Tale situazione, che rischia di frustrare in radice le inferenze della causalità omissiva, apre la strada all'introduzione di un aggiuntivo momento di tipo induttivo nella complessiva argomentazione probatoria. In breve, le eventuali generalizzazioni disponibili, di cui è già stata mostrata la vocazione, nel contesto in esame, all'utilizzazione in chiave deduttiva, vengono integrate da un passaggio di tipo induttivo elaborato dal giudice sulla base delle particolarità del caso concreto".
Orbene, da tanto consegue che il carattere statistico dell'informazione non è di per sé ostacolo al suo utilizzo nel giudizio penale; l'attendibilità della stessa si accresce in parallelo al crescere del coefficiente probabilistico. L'ineliminabile margine di incertezza va superato mediante quel 'passaggio di tipo induttivo' del quale fanno menzione le S.U, e che null'altro significa che corroborazione processuale dell'ipotesi attraverso lo studio dei caratteri del fatto storico, onde cogliere i segni dell'inveramento particolare della legge generalizzante.
Calando tali premesse nel caso che occupa va registrato che la Corte distrettuale ha dapprima dato conto dell'attendibilità degli studi che permettono di conoscere le POD (in sostanza metodi di calcolo della probabilità di ricevere un segnale UT o MT in funzione della profondità di una cricca) correlate alle differenti dimensioni delle cricche e alle diverse metodologie di esecuzione dell'esame UT; quindi ha rimarcato l'elevatissimo coefficiente di probabilità di rilevazione della cricca scaturente dalle significative dimensioni avute dalla stessa nel caso concreto, tenuto conto che già una cricca di profondità pari a 4,5 mm. viene ritenuta rilevabile con una probabilità pari al 100%; ha considerato che uno dei diagrammi dello studio Widem risultava elaborato anche utilizzando sonde del tipo corrispondente a quelle in uso presso l'officina Ju***l; ha anche considerato che quel medesimo coefficiente di probabilità risultava dall'esecuzione del controllo seguendo le prescrizioni delle VPI che avrebbe dovuto osservare il Kr.[UW.].
Risulta quindi operato il duplice accertamento richiesto dalle S.U.: si è verificata la attendibilità della legge predittiva sul piano generale e se ne è riscontrato l'inveramento nel caso concreto alla luce dei caratteri peculiari del medesimo.
L'ulteriore censura, secondo la quale avrebbe incidenza sulla appropriatezza della legge scientifica adottata la circostanza dell'essere stata la cricca inclinata di 14 gradi, giacché le POD sono definite sulla base di osservazioni di cricche ideali ovvero perfettamente perpendicolari rispetto al piano di frattura, laddove secondo il c.t. della difesa l'inclinazione annulla la riflessione del segnale, è pure infondata. La Corte di appello, lungi dal limitarsi a sostenere che la tesi difensiva comporterebbe l'inadeguatezza dell'intero sistema delle ispezioni degli assili ferroviari ha affermato che il dato è stato ritenuto irrilevante da tutti gli esperti partecipanti all'incidente probatorio e che, ancora secondo gli esperti, l'inclinazione della cricca è evenienza tutt'altro che eccezionale (si sono rammentate al proposito le parole del prof. Fred.). In altri termini, la Corte di appello ha spiegato in modo non manifestamente illogico perché il dato non influisce sulla affidabilità della legge scientifica adottata, facendo perno non su personali cognizioni ma su quanto posto a disposizione dagli esperti intervenuti nel processo. Ha anche preso in esame la sola voce dissonante, quella dr. Posc., giustificando con una sequenza di argomentazioni il giudizio di inattendibilità della tesi portata da tale esperto.
È vero che la Corte territoriale non ha esplicitamente contrapposto a quella tesi le differenti teorie scientifiche che ha ritenuto maggiormente accreditate. L'esponente lamenta che essa abbia fatto ricorso a una personale legge scientifica dissimulata nel richiamo al fatto notorio.
In realtà quel giudice ha evidenziato che:
- "I medesimi consulenti della difesa non hanno citato nessun studio scientifico che convalidi la tesi secondo cui l'inclinazione della cricca (...) dovrebbe essere valutata come fattore determinante per la rilevabilità del difetto nell'ispezione dell'assile";
- tale tesi è "in definitiva argomentata su un piano tecnico soltanto dal consulente della difesa dr. Posc.";
- "non si vede, ..., come si possa ritenere - sulla sola base di asserzioni non sostenute da studi di scienziati 'indipendenti' - che una semplice inclinazione del fronte di propagazione della frattura ... sia di per sé tale da rendere inefficaci i controlli non distruttivi...".
Detto altrimenti, conformandosi al costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità dell'ultimo decennio, la Corte di appello ha rilevato l'assenza di prove del necessario accreditamento della tesi nella comunità scientifica. In questa prospettiva si comprende meglio anche il riferimento al riflesso che la fondatezza della tesi avrebbe sul sistema di controlli; essi si rivelerebbero poggiati su una base scientifica erronea. Non si tratta quindi di un'argomentazione estranea all'incedere metodologico prescritto da questa Corte, valendo invece come ulteriore sottolineatura dell'esistenza, da un canto, di un consolidato consenso scientifico sulla irrilevanza dell'angolo di inclinazione, fenomeno frequente nelle fratture, tanto consolidato da costituire fonte di ispirazione della regolamentazione tecnica; e dall'altro della assenza di eguale consenso intorno alla tesi del Posc..
La difesa, su quest'ultimo punto, ha asserito che la Corte di appello avrebbe ignorato gli studi scientifici che supportano la tesi respinta. L'assunto, tuttavia, in questa sede risulta formulato in termini generici; il ricorrente avrebbe dovuto allegare di aver dato dimostrazione nei gradi di merito del fatto che la tesi del Posc. riceve nella comunità scientifica accoglienza sufficiente, che è stata sottoposta a prove di falsificazione, che risulta confermata in studi indipendenti. Al contrario ci si è limitati ad affermare che si era prospettato alla Corte di appello che la tesi del consulente della difesa trovava conforto in altri studi scientifici. In assenza della dimostrazione della presenza di quegli indici che sono stati definiti dalla giurisprudenza di legittimità a partire dalla già citata sentenza Cozzini, la tesi del Posc. resta tesi solitaria; la quale può certo valere a innescare un dibattito nella comunità scientifica ma non può essere utilizzata dal giudice finché rimanga tale. La giurisprudenza di questa Corte, proprio a riguardo della 'teoria solitaria' ha statuito che il giudice può porre a fondamento della propria decisione una teoria non (ancora) sottoposta al vaglio della comunità scientifica, ma occorre che ciascuna delle assunzioni a base di tale teoria sia verificabile e verificata secondo gli ordinari indici di controllo dell'attendibilità scientifica di essa e dell'affidabilità dell'esperto (Sez. 4, n. 45935 del 13/06/2019, Pg, Rv. 27786901). Anche fuori del perimetro del problema causale è stato affermato che, in tema di prova scientifica, il giudice può porre a fondamento della decisione una teoria non sottoposta al vaglio della comunità scientifica o non ancora accreditata presso di essa a condizione che risultino idoneamente documentati, da un lato, la base scientifica d'indagine, gli studi pregressi, i fondamentali criteri oggettivi ed i riscontri fattuali a supporto della teoria medesima e, dall'altro, le caratteristiche di professionalità, qualificazione ed indipendenza di chi ne è autore (nella specie si trattava della valutazione espressa dai giudici di merito di inattendibilità, sul piano scientifico, dell'indagine denominata "behavioural screening", condotta dai consulenti della difesa su filmati ritraenti la persona offesa in sede di informazioni testimoniali onde far rilevare pretese incoerenze tra il contenuto delle sue parole ed il linguaggio del suo corpo, significative della non veridicità delle sue dichiarazioni accusatorie) (Sez. 1, n. 27115 del 18/06/2020, Hurtado Patino, Rv. 27958201).
Il ricorrente sottolinea che la Corte di appello avrebbe ignorato che nella relazione di c.t. si indicavano tre studi che pure "hanno affrontato il tema della inclinazione della cricca nell'esame ultrasonoro"-, affermazione invero insufficiente, posto che la Corte di appello non si è riferita genericamente allo studio della inclinazione della cricca ma all'assenza di studi che convalidassero la tesi del Posc., per la quale l'inclinazione non permette la riflessione del segnale.
Quanto al profilo concernente la causalità individuale, esso è introdotto dal ricorrente in termini astratti. La Corte di appello ha affermato che la POD indica una probabilità di rilevazione del 100% e la percentuale non è contestata; si parla di errori di misurazione ma si sarebbe dovuto dimostrare che non sono considerati già dalla teoria come fattori di correzione; la Corte di appello ha fatto riferimento alle caratteristiche dello specifico assile, tanto da enfatizzare la misura della profondità della cricca, che rende ancor più esplicativa una teoria che si misura già con profondità inferiori (4,5 mm.).
In conclusione, i motivi sono infondati.
10.9. Il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. R.A. e l'undicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. P. sono manifestamente infondati.
Diversamente da quanto sostenuto dagli esponenti le regole cautelari che sono state ritenute di doverosa osservanza da parte del Kr.[UW.] non appartengono all'ordinamento giuridico italiano.
Gli standard tecnici che sono stati assunti a parametro di giudizio della condotta del ricorrente in parola sono quelli definiti nel Manuale di manutenzione VPI 04, nelle TFA, nella norma UNI CE 583-1 e nella normativa DIN 27201-7. Come ebbe a puntualizzare già il Tribunale, "la disciplina dei controlli di manutenzione è suddivisa tra normativa europea, la UNI 583, norma tecnica che stabilisce in generale i principi che regolano I controlli non distruttivi; la normativa tedesca, la cd. DIN 27201 -7,..., che regola le modalità e l'organizzazione dei CND... ed infine il Manuale VPI-04". Quest'ultimo è stato licenziato dall’associazione di detentori di carri merci privati tedesca che volle creare regole obiettive di condotta, norme tecniche riconosciute, raccogliendole nel menzionato manuale, entrato in vigore il 1.7.2006. Quanto alle TFA, esse sono istruzioni tecniche emanate dagli stessi proprietari dei carri, necessarie ad adeguare le norme tecniche consolidate a nuove acquisizioni.
Ciò posto, è pur vero che le imputazioni elevate nei confronti del Kr.[UW.] richiamano l'art. 8 d.lgs. n. 162/2007 e gli artt. 2043 e 2050 c.c. Tuttavia, senza neppure prendere in considerazione le implicazioni di una previsione quale l'art. 6 cod. pen., qui è sufficiente richiamare nuovamente il dato che il giudizio di responsabilità di tale imputato ha ad oggetto una condotta commissiva, per la cui tipicità le disposizioni codicistiche appena citate non svolgono alcun ruolo.
Da ciò discende anche la già espressa reiezione dell'istanza di rimessione alla CGUE avanzata dalla difesa, posto che, con riferimento alla posizione del Kr.[UW.], la questione non ha alcuna rilevanza.
10.10. Il secondo e il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. P. possono essere trattati unitariamente.
Con essi si pone il tema delle asserite lacune motivazionali in merito alla identificazione della condotta colposa tenuta dal Kr.[UW.], avente efficienza causale rispetto al disastro e alle morti. I motivi scandiscono alcune fondamentali censure: la Corte di appello non ha individuato con certezza le condotte colpose aventi efficienza causale, sia perché ne ha indicato due in contraddizione tra loro, sia perché essa stessa ha escluso che fossero state causa dell'evento; inoltre, si ascrivono al Kr.[UW.] condotte che si ammettono essere effetto di deficit organizzativi ad altri attribuibili. In particolare, il ricorrente fa perno sull'affermazione della Corte di appello che non è indispensabile accertare lo specifico fattore causale e formula l'accusa di non esser stata individuata la condotta trasgressiva e di esser stato eluso l'obbligo di accertamento della efficacia impeditiva della condotta doverosa. Prima ancora, si sostiene che la regola doverosa è stata creata dal giudice ex post, sulla base di un processo causale ricostruito a ritroso.
È opportuno ripercorrere in estrema sintesi le principali affermazioni fatte in argomento dai collegi territoriali.
Il Tribunale ha rimproverato al Kr.[UW.] di non aver eseguito il controllo visivo dell'intero assile, a suo dire imposto per ogni sala giunta in officina; per quel giudice, qualora l'imputato avesse eseguito tale esame si sarebbe avveduto dell'esistenza di sbollature diffuse e in particolare di quelle presenti nella zona del collarino, con la conseguenza che si sarebbe interrotto il controllo ultrasonoro, si sarebbe proceduto alla pulizia dell'assile, che a sua volta avrebbe permesso di identificare la presenza di crateri di corrosione e quindi determinato l'esecuzione di un controllo magnetoscopico che avrebbe svelato la cricca in situ (cfr. p. 160).
Ha poi considerato il modo in cui l'esame ad ultrasuono era stato eseguito ed ha ritenuto che il Kr.[UW.] avesse proceduto ad esso nonostante l’assile non fosse stato previamente sverniciato mediante sabbiatura e non fossero stati eliminati i danni meccanici, di talché egli aveva proceduto nonostante non fosse stata adeguatamente preparata la supeR***Icie di appoggio delle sonde. In questo passaggio il Tribunale, riportando alcune delle affermazioni del c.t. Ton., sembra far intendere che, ove non vi fossero stati simili errori e quindi il controllo fosse stato eseguito a regola d'arte, la cricca sarebbe stata rilevata (direttamente dal Kr.[UW.]). Tuttavia subito dopo, e questa volta esprimendo il proprio giudizio, ribadisce che la mancata preparazione dell'assile secondo le prescrizioni tecniche aveva precluso l'individuazione dei segni di corrosione presenti anche nella zona del collarino nonché "dell'importanza del difetto che è stato trattato attraverso la molatura nella zona", i quali avrebbero imposto l'esecuzione di un controllo magnetoscopico sull'intero assile, che a sua volta avrebbe svelato la presenza della cricca (cfr. p. 187).
Accanto a simili affermazioni ricorre anche quella di una mancata detezione 'diretta' della cricca attraverso l'esame ad ultrasuono eseguito nel livello IS2, detezione resa possibile dalle dimensioni della crepa.
A fronte di tale assetto, la Corte di appello ha in primo luogo escluso che l'omesso controllo visivo dell'assile ritenuto doveroso dal Tribunale potesse essere quello previsto dal livello ISO, in quanto il Kr.[UW.] non era competente ad eseguirlo e perché esso non gli era stato contestato; in secondo luogo, ha comunque ritenuto che l'osservazione dell'assile fosse propedeutica al suo esame. Come già il Tribunale, la Corte di appello ha più volte ribadito che il rimprovero mosso al Kr.[UW.] atteneva alle modalità di esecuzione dell'esame ad ultrasuoni, le quali "comportavano che tale controllo non potesse garantire la dovuta affidabilità" (cfr. p. 550). Tuttavia ha anche rappresentato che "la contestazione" (si badi: non il giudizio del Tribunale) "riguarda non soltanto l'elemento oggettivo costituito dalla mancata rilevazione della cricca e ribadito che "la rilevanza causale della condotta 'impeditiva ' non presuppone che sia individuato con certezza il fattore che ha determinato l'omessa detezione di una cricca che era, per la sua dimensione particolarmente elevata, sicuramente rilevabile attraverso un esame UT eseguito in modo corretto" (p. 553).
Va tenuto conto che quest'ultima affermazione si è accompagnata all'altra per la quale la presenza di un rumore di fondo superiore al 10% rendeva inaffidabile il controllo UT, che pertanto doveva essere abbandonato.
Occorre dare atto agli esponenti che l'acribia con la quale i giudici di merito hanno affrontato l'impegno motivazionale ha finito per rendere frammentato il percorso logico-giuridico e dispersi i passi conducenti al conclusivo giudizio.
Tuttavia, ciò nonostante è sufficientemente chiaro che tanto il Tribunale che la Corte di appello hanno ritenuto, da un canto, che le dimensioni della cricca avrebbero consentito la sua detezione direttamente da parte del Kr.[UW.], qualora questi avesse eseguito a regola d'arte il controllo UT affidatogli; dall'altro che tale operatore, non attuando puntuali prescrizioni tecniche a contenuto cautelare, aveva condotto a termine un esame che al contrario avrebbe dovuto essere interrotto per avviare l’assile ad un controllo MT in IS3, che avrebbe svelato la presenza della cricca (esemplare, al riguardo, la sintesi dell'addebito scritta dalla Corte di appello a p. 555: aver "consentito che la procedura di revisione fosse completata" ).
Ad avviso del ricorrente si tratta di addebiti in interna contraddizione. Il rilievo non è fondato. Esso postula che la diretta detezione della cricca da parte del Kr.[UW.] fosse preclusa dall'esistenza di quelle condizioni che per i giudici di merito obbligavano l'operatore alla interruzione del controllo UT. Ma in nessun passaggio delle pur ampie motivazioni ricorre una simile affermazione. Lo stesso ricorrente si limita a proporre una contraddizione logica e non esibisce dati scientifici - sottoposti ai giudici di merito - a sostegno del proprio assunto. In realtà una simile contraddizione non sussiste perché i collegi territoriali hanno esplicitato a chiare lettere che le prescrizioni relative alla pregressa sabbiatura e verniciatura dell'assile, alla eliminazione di difetti fisici, alla rilevanza del rumore di fondo superiore al 10% attengono alla affidabilità del controllo e non alla sua eseguibilità. In altri termini, le regole in questione danno prescrizioni che guardano all'attendibilità dell'esame UT, ritenuto in via astratta non affidabile in presenza di determinati indicatori; ma non (è stato accertato che esse) escludono che un controllo operato nonostante le condizioni di allerta possa condurre alla detezione di una cricca. Nel caso di specie, l'ampio svolgimento del tema della rilevabilità della cricca in ragione delle sue dimensioni al tempo del controllo presso la Junghental, anche in rapporto a quanto reso conoscibile dalle POD, sostiene il giudizio di una concreta rilevabilità nel caso concreto della cricca all'esito di un esame ultrasonoro condotto a regola d'arte.
Ciò precisato, è però altrettanto chiaro che sul piano logico e giuridico il principale rimprovero che attinge il Kr.[UW.] concerne la validazione di un controllo che invece non avrebbe dovuto essere compiuto, poiché la presenza delle condizioni di inaffidabilità dell'esame UT dà rilievo preminente alla sua esecuzione 'nonostante' ed il fatto che questa sia stata comunque caratterizzata da trascuratezza, e perciò sia risultata infruttuosa rispetto al pur conseguibile obiettivo della detezione della cricca, risulta ragione di aggiuntivo rimprovero. A ben vedere, la condotta ascritta al Kr.[UW.] - già nelle imputazioni elevate dal P.M. - è l'aver colposamente attestato la corretta verifica dell'assenza di difetti dell'assile; ed attiene alla connotazione colposa di tale condotta aver mancato di interrompere l'esame e, avendolo comunque proseguito, non aver rilevato la cricca.
È quindi chiaro, e con ciò si viene alla lamentata incertezza in merito al novero degli antecedenti causali, che le plurime minute manchevolezze (non aver valutato la condizione di grave ossidazione, non aver rilevato la mancata rimozione della vernice presente sull'assile e quindi la mancata previa sabbiatura dello stesso; l'aver svolto il controllo con attrezzatura analogica, che non assicurava la registrazione delle operazioni e dei segnali prodotti dagli impulsi ultrasonori e quindi il controllo a posteriori; l'aver condotto l'esame pur non disponendo dei piani di prova; aver proceduto in un tempo grandemente insufficiente ad una esecuzione a regola d'arte; non aver rilevato il rumore di fondo superiore al 10%) non hanno assunto rilievo nell'economia del giudizio impugnato come violazioni cautelari aventi efficienza causale ma unicamente come indici di un complessivo contesto di inefficiente organizzazione - del quale il Kr.[UW.] non è stato chiamato a rispondere, sicché risulta infondata anche la relativa censura avanzata in questa sede - che probatoriamente sostengono il convincimento che la attestazione di un controllo regolare con esito di assenza di difetti dell'assile sia scaturito da negligenza nell'esecuzione del compito.
Con riferimento ad altra censura mossa dal ricorrente sul punto, quanto appena esposto permette di concludere rapidamente circa l'affermazione della Corte di appello secondo la quale non avrebbe rilievo la specifica negligenza, imprudenza o imperizia causa della mancata rilevazione della cricca, e che, pur non essendo possibile individuare il comportamento specifico che l'aveva causata, "la mancata detezione della cricca sicuramente non deriva da circostanze incolpevoli, bensì dalla negligenza e trascuratezza con cui i controlli sono stati eseguiti".
Ad avviso degli esponenti in ciò la violazione del principio posto da questa Corte secondo il quale, ai fini dell’accertamento della responsabilità per fatto colposo, non può il giudice limitarsi a fare ricorso ai concetti di prudenza, perizia e diligenza senza indicare in concreto quale sia il comportamento doveroso che tali regole cautelari imponevano di adottare (Sez. 4, n. 31490 del 14/04/2016, Belli, Rv. 267387).
Il rilievo è infondato; nel caso allora venuto all'esame di questa Corte si trattava di un comportamento che non era stato descritto nella sua componente colposa perché non accertato in che modo l'imputato, un chirurgo maxillo-facciale, aveva eseguito l'intervento a seguito del quale il paziente aveva trovato la morte. L'assenza di conoscenza in merito alla condotta tenuta dall'imputato, prima della sua qualificazione giuridica, non permette di impostare la ricerca della identificazione della regola cautelare che governa la gestione del rischio nel caso concreto.
In relazione alla posizione del Kr.[UW.], al contrario, è stato accertato che egli eseguì il controllo UT dell'assile, che un controllo conforme alle regole dell'arte avrebbe consentito la detezione della cricca (nei termini già più volte ribaditi), che nell'insieme il comportamento dell'operatore fu connotato da grave trascuratezza, che non sono emerse circostanze conducenti al caso fortuito o alla forza maggiore.
Quanto appena osservato dimostra, infine, che non è coerente con la motivazione impugnata l'affermazione del ricorrente di un mancato giudizio controfattuale; affermazione che fa perno sugli indici di un comportamento negligente e non considera la condotta consistita nell'aver colposamente attestato la corretta verifica dell'assenza di difetti dell'assile.
10.11. Plurimi i rilievi esposti con il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. P.o: a) la Corte di appello non poteva utilizzare le dichiarazioni valutative del Can. perché questi era ausiliario del perito e le valutazioni spettano solo a quest'ultimo; b) nessun altro esperto ha sostenuto che durante le prove presso Lucchini era percepibile un rumore superiore al 10%; c) le emergenze processuali contraddicono il Can.; d) si doveva valutare l'attendibilità della tesi e non quella del teste; e) non si è tenuto conto del contributo esperto offerto dalla difesa; f) la Corte di appello non ha motivato in ordine alla circostanza che l’assile aveva superato l'esame UT presso altra officina nel 2002; g) è stata travisata la prova documentale costituita dai video relativi alle operazioni peritali, dai quali la Corte di appello ha tratto l'identificabilità del rumore, diversamente dal vero.
Del rumore di fondo la Corte di appello si è occupata da pg. 502. I primi tre rilievi sono meramente ripetitivi di quelli proposti in appello e non tengono conto di quanto ad essi opposto dalla Corte distrettuale, la quale ha replicato affermando che non si era fatto perno sulle sole dichiarazioni del Can. perché queste erano "non dissimili dalla relazione di perizia e dalle dichiarazioni rese dal perito prof. Van." e che anche il c.t. ing. Ton. "si è espresso reiteratamente in termini analoghi". Si tratta quindi di rilievi aspecifici, giacché non si confrontano con il complessivo tessuto motivazionale.
Il quarto rilievo è manifestamente infondato: non si indica di quale tesi scientifica si sia fatto portatore il solo Can., tanto più che la Corte di appello ha rimarcato la consonanza tra le sue dichiarazioni e quelle del perito Van.. Più in generale, la Corte di appello ha indicato i riscontri oggettivi che confortavano le dichiarazioni del Can.: il report metallografico predisposto presso la Lucchini, la deposizione dell'ing. Ghi., la relazione della Direzione Generale Investigazioni Ferroviarie del MIT del 23.3.2012.
Alla luce della complessiva motivazione sulla valutazione della prova devono ritenersi implicitamente respinti gli elementi offerti dalla difesa. Vale rammentare, al riguardo, che il difetto di motivazione, quale causa di nullità della sentenza, non può essere ravvisato sulla base di una critica frammentaria dei singoli punti di essa, costituendo la pronuncia un tutto coerente ed organico, per cui, ai fini del controllo critico sulla sussistenza di una valida motivazione, ogni punto di essa va posto in relazione agli altri, potendo la ragione di una determinata statuizione anche risultare da altri punti della sentenza ai quali sia stato fatto richiamo, sia pure implicito (Sez. 2, n. 38818 del 07/06/2019, M, Rv. 27709101).
10.12. Ancora con il quinto motivo si investe l'affermazione fatta dai giudici che sabbiatura e verniciatura dell'assile furono omesse. In primo luogo si sostiene che la circostanza è affermata su base probabilistica e che, lungi dall'esser stata dimostrata dall'accusa, si afferma la sussistenza di tali omissioni perché non dimostrato dalla difesa che quelle operazioni vennero eseguite. In secondo luogo si censura che la ricostruzione della Corte di appello sia stata affermata anche in presenza di un ragionevole dubbio derivante da circostanze ritenute provate dalla Corte di appello medesima: ovvero che era vigente a partire dal marzo 2008 solo presso la Junghental la regola manutentiva in merito alla sabbiatura e verniciatura con vernice epossidica di colore blu del corpo dell'assile; l'effettuazione di tali attività trovava corrispondenza nel report dell'attività manutentiva redatto presso l'officina; le analisi peritali hanno accertato che l’assile è stato sottoposto a sabbiatura e verniciatura con vernice epossidica di colore blu; tale vernice era indicata nelle regole manutentive ed è stata prodotta solo a partire dal febbraio 2008. Non vi è traccia nei documenti dei precedenti interventi manutentivi della sabbiatura e/o della verniciatura dell'assile.
Il motivo non è consentito ed è comunque manifestamente infondato. Il punto di partenza del ricorrente è la sottolineatura di una serie di premesse fattuali elencate dalla Corte di appello, per la medesima attestanti che presso l'officina Ju***l non venne eseguita la sabbiatura e la verniciatura dell'assile, diversamente da quanto prescritto dalle norme di manutenzione. Per il ricorrente esse dimostrerebbero invece che durante il controllo manutentivo del 28.11.2008 presso Ju***l venne eseguita la sabbiatura e la verniciatura dell'assile. Sicché sarebbe contraddittorio che la Corte di appello abbia ritenuto il contrario.
Tuttavia il vizio della motivazione alla base di questa contraddizione sarebbe il ricorso a congetture, elaborate a partire dal dato della rilevazione di alcuni ritocchi di vernice sull'assile. Ma quel che il ricorrente definisce congetture null'altro è che l'acquisizione e la valutazione delle informazioni offerte dagli esperti ed il ricorso a massime di esperienza. Rispetto alle quali il ricorrente propone una mera ricostruzione alternativa a quella adottata dai giudici di merito. Il motivo è comune al Br.[HE.], ma per facilità di lettura lo si tratterà partitamente, ancorché quanto segue debba ritenersi integrato con le considerazioni che saranno svolte esaminando il ricorso di tal ultimo ricorrente.
A partire da pg. 453 la Corte di appello ha affrontato il tema della sabbiatura e verniciatura dell'assile, che secondo le norme VPI al tempo vigenti e la stessa disposizione tecnica G***x TFA 02.12-01 del 31 marzo 2008 denominata ’"Controllo degli assili delle sale montate" avrebbe dovuto essere eseguita nel procedere ai controlli non distruttivi per garantirne l'affidabilità. Sulla scorta di tali previsioni la Corte di appello ha affermato che "la supeR***Icie del corpo dell'assile n. 98331, nella parte compresa tra le ruote, senza dubbio avrebbe dovuto essere pitturata con vernice anticorrosione Eposist 2001 prodotta dalla ditta Wilckens, previa completa sverniciatura e riparazione locale di eventuali danni".
Come già il Tribunale, il Collegio distrettuale ha ritenuto che non si fosse proceduto a tali operazioni e ciò perché i periti avevano escluso che durante la revisione del 2008 l’assile fosse stato sottoposto a sabbiatura. Sull'assile venivano rinvenute due macchie di vernice; una di colore nero, relitto di vernice vinicola, posta in corrispondenza di una fascia abrasa e diversa dal prevalente rivestimento; un'altra di colore blu, conducente all'uso di vernice epossidica. Nel complesso Cassile non si presentava interamente verniciato, aveva un segno di molatura di precedenti alveoli di corrosione; operazione, peraltro, non eseguita a regola d'arte, e diverse anomalie sulla supeR***Icie. Insomma, le condizioni dell'assile, una volta escluso che fossero significativamente mutate a causa del sinistro e nel tempo successivo, erano tali da comprovare che nessuna sabbiatura e verniciatura secondo norma era stata eseguita in occasione della revisione presso l'officina Ju***l. Peraltro in sede di appello - ne ha dato conto la Corte distrettuale - la difesa non aveva affermato che la verniciatura era stata eseguita all'esito della revisione ma lasciando intatti i due ritocchi o addirittura durante il successivo periodo di esercizio, avendo invece appuntato le proprie censure sull'esistenza stessa di tali ritocchi.
10.13. Anche il sesto motivo è una mera critica alla valutazione della prova operata dalla Corte di appello e come tale è inammissibile. Si denuncia ancora il vizio della motivazione e la violazione dell'articolo 533 cod. proc. pen., per avere la Corte d'appello ritenuto dimostrata l'esecuzione dell'esame ultrasonoro nel tempo di 12 minuti unicamente sulla base del documento denominato 'foglio di lavorazione', nonostante la stessa Corte abbia accertato che tale documento non era stato compilato dagli addetti ai controlli non distruttivi ed aveva una funzione meramente amministrativa. Inoltre, la difesa aveva anche dimostrato che la tempistica per l'esecuzione dei controlli sull'assile era condizionata dal tempo necessario per la cosiddetta tornitura delle ruote, sicché l'accelerazione dei controlli ultrasonori non avrebbe avuto effetto sui tempi complessivi necessari per lo svolgimento dell'attività manutentiva, e quindi sulla produttività dell'azienda. Infine, non è mai stato imposto un determinato intervallo di tempo per l'esecuzione del controllo, che non veniva mai svolto in un tempo inferiore a venti minuti, secondo quanto dichiarato dal teste Bend. e dallo stesso ricorrente. I tempi indicati sul predetto foglio di lavoro erano puramente indicativi. Dal momento che la tesi difensiva ha trovato tale riscontro probatorio si ritiene violata la regola di giudizio di cui all'articolo 533 cod. proc. pen.
Tale essendo la prospettazione del ricorrente va rammentato che, in tema di ricorso per cassazione, la violazione di norme processuali, non può essere dedotta quale violazione di legge né ai sensi dell'art.606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., né ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. quando per essa non sia prevista la sanzione della nullità, dell'inutilizzabilità, dell'inammissibilità o della decadenza; ipotesi che è appunto quella dell'art. 192, comma 3, e dello stesso art. 533 cod. proc. pen. In tali casi può essere fatta valere, l'asserita violazione, soltanto nei limiti indicati dalla lett. e) dell'art. 606 cod. proc. pen., ossia come mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti specificamente indicati nei motivi di gravame (ex multis, con specifico riguardo all'art. 192, co. 3 cod. proc. pen., Sez. 6, n. 4119 del 30/04/2019, dep. 2020, Romeo gestioni s.p.a., Rv. 278196).
Quanto al vizio della motivazione, le censure ripropongono rilievi che sono già stati sottoposti alla Corte di appello e da questi respinti con motivazione non manifesta illogica e coerente al patrimonio probatorio disponibile. Peraltro non corrisponde al vero che la Corte di appello abbia affermato che il documento avesse un valore solo amministrativo e così abbia sminuito la rilevanza dell'indicazione del tempo di esecuzione del controllo UT. In realtà la Corte di appello ha affermato che pur a riconoscere al documento una funzione amministrativa ciò non modificava il quadro come ricostruito, ovvero che i dati annotati corrispondessero all'effettivo tempo di lavorazione e non fossero apposti 'a casaccio'. Così come la circostanza che il documento non fosse firmato dall'operatore addetto ai CND non significava che essi avessero riferito dati non veri al redattore. Si profila, quindi, anche una prospettazione in fatto non consentita in sede di legittimità.
10.14. Con l'ottavo motivo si lamenta che non sia stato condotto l'accertamento che ciascuno dei sub-eventi verificatisi, deragliamento, incendio e morti/lesioni rappresenti concretizzazione delle regole cautelari che si ritengono violate dal Kr.[UW.]. La tesi è che il deragliamento costituisca un rischio gestito dal gestore della rete, che l'incendio sia rischio gestito dall'impresa ferroviaria, e così anche gli eventi morte e lesioni perché dipendenti dall'incendio, che sarebbe stato causato dallo squarcio della cisterna provocato dal contatto con un picchetto. Si tratta di una non condivisibile ricostruzione. Che non a caso si sostiene su una arbitraria scomposizione della catena causale, dalla quale si sezionano coppie di antecedenti e susseguenti come se gli eventi non fossero esito di una pluralità di cause.
Rasenta la banalità rammentare che ogni accadimento (che è al tempo stesso evento e causa di ulteriori eventi) si cala in una infinita serie di connessioni causali che solo le finalità dell'indagine ricostruttiva permette di ridurre, in forza di una selezione animata da un criterio teleologico. E così come non esiste un concetto di causa ma se ne conoscono molteplici, allo stesso modo la causalità giuridica muove dalle ragioni e dai vincoli del diritto penale per sceverare ciò che rileva da ciò che è indifferente rispetto al problema penalistico della attribuzione del fatto.
Ma limitando le osservazioni a quanto strettamente necessario, va considerato che l'attività di manutenzione ha la funzione di assicurare la perdurante efficienza e sicurezza del proprio oggetto; le caratteristiche intrinseche e di utilizzo di questo concorrono a individuare i rischi derivanti da un'assente o carente manutenzione. La manutenzione di un assile, che è componente di vagoni ferroviari necessario al moto degli stessi, ha l'obiettivo di evitare che a causa di difetti esso possa cedere o altrimenti pregiudicare la sicurezza della circolazione; il fatto di poter essere installato su vagoni trasportanti persone e/o merci, anche pericolose, lungo percorsi che transitano in luoghi ove possono essere presenti cose e persone - ordinarie condizioni di uso - permette di specificare ulteriormente il rischio prevedibile assunto dalle regole cautelari dedicate alle attività manutentive. La generica sicurezza della circolazione si precisa nella sicurezza delle cose e delle persone esposte agli eventi 'negativi' verificabili nel corso della circolazione. Chi svolge attività di manutenzione, quindi, assume l'obbligo di garantire la sicurezza delle persone e delle cose rispetto a eventi derivanti da difetti rinvenibili ed emendabili mediante tale attività; rispetto ad eventi, quindi, prevedibili ed evitabili. La concezione proposta dal ricorrente, e non condivisa da questa Corte, muove dalla corretta considerazione dell'esistenza di una pluralità di aree di rischio, ciascuna affidata ad un determinato gestore; ma non rileva che al manutentore è affidato il governo di tutti i rischi prevedibili determinati da difetti emendabili dell'oggetto manutenuto.
A dimostrazione della insussistenza dell'asserito vizio motivazionale va osservato che il motivo in esame ripropone tal quale quello proposto con l'appello, vagliato dalla Corte di appello trattando del nesso causale. Il ricorso non prende in considerazione la diffusa argomentazione offerta dai giudici territoriali da pg. 426.
Peraltro, lo stesso ricorrente ammette l'esistenza del nesso di rischio tra le condotte ascrivibili al Kr.[UW.] e il disastro ferroviario. Non sarebbe invece esistente tale nesso rispetto all'incendio e, perché conseguenti a questo, agli eventi omicidiari-lesionistici. Questa Corte non condivide tal ultimo assunto, per le ragioni già esposte. In ogni caso si tratta di rilievi che si proiettano su reati estinti per prescrizione, sicché essi potrebbero avere l'effetto di determinare l'annullamento nel merito della sentenza impugnata (limitatamente agli omicidi) solo ove fosse evidente la prova dell'innocenza, secondo il canone di giudizio di cui all'art. 129 cod. proc. pen. Con ogni evidenza così non è.
10.15. Il nono motivo rileva l'intervenuto decorso del termine di prescrizione dei delitti di omicidio colposo plurimo in quanto al Kr.[UW.] non è stata contestata l'aggravante di cui al secondo comma dell'articolo 589 cod. pen., di talché non può applicarsi la regola del raddoppio dei termini di prescrizione previsto dal comma 6 dell'articolo 157 cod. pen.
Il motivo è fondato, nei termini di seguito precisati.
La lettura dell'imputazione evidenzia che sono indicati gli artt. 589, co. 2, 590, co. 3 cod. pen., l'art. 8 d.lgs. n. 162/2007 e gli artt. 2043 e 2050 c.c. Nella descrizione delle condotte non si fa alcuna menzione all'aggravante dell'aver commesso il fatto con violazione di norme prevenzionistiche, nonostante si indichino e descrivano i contenuti della diversa aggravante dell'aver agito nonostante la previsione dell'evento.
Come correttamente rilevato dal ricorrente, tanto segna una rimarchevole differenza rispetto a quanto vale per gli imputati ai quali è stata compiutamente contestata l'aggravante in parola, poiché in questo secondo caso essa è stata rappresentata non solo con l'indicazione delle disposizioni pertinenti ma anche con la descrizione del dato circostanziale.
Le sentenze di merito non esplicitano in termini specifici il proprio giudizio al riguardo. Il Tribunale ha genericamente affermato che i decessi e le lesioni sono derivati da inosservanza della normativa antinfortunistica e che ciò vale anche per gli imputati stranieri, "in ragione della natura indiscutibilmente cautelare delle norme la cui violazione è stata accertata nel corso del processo ... volte a prevenire la concretizzazione dei rischi derivanti da una manutenzione non correttamente eseguita’’-, nella definizione del trattamento sanzionatorio non ha poi dato alcuna evidenza ad un giudizio di esclusione dell'aggravante antinfortunistica, ed ha determinato la pena del Kr.[UW.] in misura coincidente a quella dello Sc.[AN.] e del Br.[HE.], per i quali la contestazione e l'accertamento dell'aggravante in parola è fuori discussione [tralasciando la mera enunciazione dell'art. 2087 c.c., si descrive, per Br.[HE.], la condotta ritenuta inosservante dell'art. 18, co. 1 lett. q) e dell'art. 23, co. 1, in relazione all'All. V Parte I par. 3.2. del d.lgs. n. 81/2008].
La stessa Corte di appello, allorquando ha evocato il delitto di lesioni personali colpose ascritto agli imputati stranieri (e quindi anche al Kr.[UW.]) per dichiararne l'estinzione per prescrizione, ha fatto riferimento all'art. 590, co. 2 e 3 cod. pen.; ovvero all'ipotesi aggravata dalla violazione di norme prevenzionistiche.
Pertanto, questa Corte ritiene che i giudici di merito abbiano ritenuto e posto a carico del Kr.[UW.] l'aggravante in parola.
Si è già scritto della non pertinenza degli artt. 2043 e 2050 c.c. nonché dell'art. 8 d.lgs. 162/2007 al novero delle norme in materia di prevenzione degli infortuni.
Con precipuo riferimento alla posizione del Kr.[UW.] va anche considerato che le diverse disposizioni recate dal menzionato art. 8 si indirizzano al gestore dell'infrastruttura e all'impresa ferroviaria (co. 1), ai fabbricanti (e ai) fornitori di servizi di manutenzione, agli addetti alla manutenzione dei vagoni, ai fornitori di servizi e agli enti appaltanti (co. 2), con ciò intendendosi I soggetti che, ove l'esercizio dell'attività sia svolta in forma di impresa, hanno la titolarità o comunque la responsabilità dell'organizzazione, dovendo - i soggetti di cui al comma 2 - "assicurare che il materiale rotabile, gli impianti, gli accessori e i materiali nonché i servizi forniti siano conformi ai requisiti richiesti e alle condizioni di impiego specificate, affinché possano essere utilizzati dall'impresa ferroviaria e dal gestore delle infrastrutture in modo sicuro". Il che implica la disponibilità di poteri di decisione e di spesa che di certo non erano riconosciuti al Kr.[UW.].
La ritenuta estraneità delle disposizioni cautelari violate dal ricorrente in parola al novero delle norme per la prevenzione degli infortuni, implicando l'esclusione della aggravante di cui si discorre, è prevalente sulla eventuale violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza.
Ne deriva che, limitatamente al reato di cui al capo 49, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, mentre i ricorsi vanno rigettati agli effetti civili (valendo quanto sin qui esposto anche quale adempimento della prescrizione di cui all'art. 578 cod. proc. pen.). Essi vanno rigettati ad ogni effetto quanto al reato di disastro ferroviario colposo.
L'annullamento parziale impone la necessità di ridefinire il trattamento sanzionatorio; compito che non può essere svolto da questa Corte, involgendo valutazioni di merito che le sono sottratte. Va quindi disposta la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Firenze per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio conseguente alle statuizioni qui date.
10.16. Il dodicesimo ed ultimo motivo del ricorso a firma dell'avv. P. concerne la motivazione sottesa alla determinazione del trattamento sanzionatorio; esso non deve essere esaminato, in considerazione della necessità di rideterminare la pena, derivante dall'annullamento della sentenza limitatamente ai reati di omicidio colposo.

11. Il ricorso di BR.HE.
11.1. Il primo motivo ed il secondo motivo trovano replica in quanto già è stato scritto rispettivamente ai paragrafi 1 e 4 del Considerato in diritto.
11.2. Ragioni di priorità logica impongono di trattare innanzitutto il quarto motivo di ricorso. Esso, infatti, investe la motivazione con la quale si è dato conto del giudizio secondo il quale il controllo venne eseguito dal Br.[HE.] nonostante l’assile non fosse stato sabbiato e verniciato. Il ricorrente sostiene che la Corte di appello abbia da un canto riconosciuto la fondatezza della ricostruzione difensiva (l’assile venne sabbiato e verniciato presso l'officina Ju***l) e poi, del tutto contraddittoriamente, concluso in termini difformi (presso l'officina non si procedette alla sabbiatura e alla verniciatura dell'assile); che a tali conclusioni la Corte distrettuale è pervenuta sulla scorta di congetture; che in sostanza il giudizio non è fondato sulla prova positiva della circostanza ritenuta ma sul fallimento della tesi difensiva.
Appare opportuno precisare che la circostanza ha assunto rilievo, per i giudici di merito, quale ulteriore ragione che avrebbe dovuto indurre il Br.[HE.] a non eseguire il controllo MT affidatogli (livello IS2) così rendendo possibile quel controllo MT nel livello IS3 grazie al quale si sarebbe certamente individuata la cricca esistente. In altri termini, come già per il Kr.[UW.], la Corte di appello ha ascritto al Br.[HE.] di aver colposamente eseguito il controllo "validandone poi l'esito", ovvero attestando l'assenza di difetti (si veda, in particolare, p. 571), essendo consistita la colpa nella inosservanza di specifiche regole tecniche e di diligenza che imponevano, a fronte delle anomalie esistenti e dallo stesso rilevabili, di non procedere nell'esame e dare corso al diverso livello di controllo.
Circa l'esistenza dell'anomalia costituita dalla presenza di impurità sulle supeR***Ici dell'assile, il tema è stato specificato affrontato dalla Corte di appello esaminando il Motivo VII.c.
Il ricorrente ha in primo luogo evidenziato che le anomalie non incidevano sulla corretta esecuzione del controllo UT da eseguirsi. Tralasciando il fatto che al Br.[HE.] è associato il controllo MT, va osservato che anche questo rilievo non si confronta adeguatamente con la motivazione, la quale non indica le condizioni di impurità delle supeR***Ici come ostative ad un efficace controllo MT ma come presupposti assunti dalle regole tecniche per l'avvio dell'assile ad un superiore livello di controllo. Ancora una volta viene in gioco l'affidabilità del controllo MT in IS2 e non la sua congiunturale idoneità a rilevare la cricca.
Quanto all'accertamento che la sabbiatura e la verniciatura dell'assile non vennero eseguite in occasione del controllo del 28.11.2008, il ricorrente lamenta che esso fondi su una mera congettura, così valutando il ragionamento esposto dalla Corte di appello. Il rilievo è infondato.
In primo luogo, l'affermazione che da una serie di premesse in fatto, condivise anche dai giudici di merito, derivi che sabbiatura e verniciatura vennero eseguite presso l'officina Ju***l sottende una non consentita valutazione alternativa della prova e un mancato confronto con l'impianto argomentativo della decisione impugnata, che l'evocazione - e non la dimostrazione - di pretesi vizi motivazionali non muta in altro.
Al riguardo è sufficiente rammentare che, come già per il Kr.[UW.], fattore decisivo nella ricostruzione dei giudici di merito è stata la presenza sull'assile di due ritocchi di vernice; un primo, fatto con vernice vinilica nera su una fascia abrasa, un secondo fatto con vernice blu, entrambi rinvenuti sul corpo centrale dell'assile. Non è censurata l'affermazione della Corte di appello per la quale la presenza di tali ritocchi si pone in contrasto con quanto previsto dal manuale VPI 04 e dalla TFA 02.12-01 al tempo vigenti, che prescrivevano che la supeR***Icie del corpo compresa tra le ruote fosse pitturata con vernice anticorrosione Eposist 2001 (epossidica) prodotta dalla ditta Wilckens, previa completa sverniciatura e riparazione locale di eventuali danni. Sintetizzando l'approfondita disamina svolta nella sentenza impugnata, basterà rammentare che la Corte di appello ha posto una serie di punti fermi, determinati dopo aver ripercorso gli esiti delle indagini peritali svolte al riguardo: la sala all'atto dell'ultima verniciatura completa era stata sabbiata; alcuni piccoli difetti erano stati sottoposti a molatura; era stato apposto uno strato di vernice epossidica di una tonalità di blu; successivamente la supeR***Icie aveva subito un'abrasione con estensione circonferenziale che era stata ritoccata con un ulteriore strato di vernice epossidica blu e si era prodotta anche un'ulteriore abrasione sulla quale era stato apposto del materiale vinilico. La Corte distrettuale ha poi ribadito quanto era stato sostenuto dal Tribunale, dopo aver considerato i molti rilievi avanzati dall'appellante Br.[HE.] e da altri coimputati ed averli respinti con motivazione che non è stata in questa sede censurata e che pertanto non occorre considerare ulteriormente.
Vale soffermarsi, invece, sul fatto che attraverso un simile analitico percorso la Corte di appello ha confermato il giudizio del Tribunale secondo il quale le menzionate tracce di vernice dimostrano che presso l'officina non erano state eseguite la sabbiatura e la verniciatura (delle quali, e non è controverso, l’assile presentava tracce), perché:
- non avrebbe avuto alcuna logica eseguirle escludendo le parti con i ritocchi;
- i ritocchi non potevano essere stati eseguiti dopo il controllo del 28.11.2008, durante le operazioni presso la Ci***Ri***, perché l'apposizione degli stessi non era richiesta dalle operazioni di montaggio a questa affidate; dopo la revisione presso la Junghental la sala non aveva circolato e quindi non poteva aver richiesto di simili interventi; la documentazione formata presso la Ci***Ri*** non dava conto di simili interventi;
- quei ritocchi neppure potevano essere stati apposti durante l'uso perché essi potevano essere fatti solo in officina e non 'sul campo', secondo le indicazioni provenienti dal prof. Ton..
In un simile procedere non è rinvenibile l'utilizzo di una qualche congettura, emergendo piuttosto inferenze fondate su massime di esperienze. Vale rammentare, al riguardo, che quest'ultime sono caratterizzate da generalizzazioni tratte con procedimento induttivo dalla esperienza comune, conformemente agli orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione, mentre le congetture sono ipotesi fondate su mere possibilità, non verificate in base all’ "id quodplerumque accidit" ed insuscettibili, quindi, di verifica empirica (cfr., ex multis, Sez. 5, n. 25616 del 24/05/2019, PmT c/ Devona, Rv. 277312).
Ne discende l'infondatezza del motivo.
11.3. Può ora essere preso in esame il terzo motivo del ricorso.
Viene rilevata una contraddizione nella sentenza, laddove la Corte di Appello dapprima considera conforme a norma l’esecuzione dell’esame magnetoscopico sul solo tratto dell’assile compreso tra le ruote e immediatamente dopo giudica dovuto invece l’esame sull’intero assile.
Si tratterebbe invece di condotte che non possono essere ritenute contemporaneamente dovute perché l'una si pone nel contesto di una revisione di livello IS2 e l’altra nel contesto di una revisione IS3 e solo la prima era tecnicamente realizzabile presso la Junghental.
Più in generale si lamenta che la Corte di Appello non è stata in grado di individuare in modo univoco la condotta diligente.
Anche tali assunti sono infondati. Per una maggior chiarezza è bene ricordare che, a ciò chiamato dalle imputazioni, il Tribunale aveva affrontato il tema dell'autorizzazione dell'officina ad eseguire controlli magnetoscopici degli assili, giungendo alla conclusione che essa non era in possesso di simile abilitazione, potendo invece eseguire l'esame MT sulle ruote delle sale. Quindi, aveva considerato il controllo effettivamente eseguito e lo aveva giudicato svolto non osservando le regole che si imponevano, che avrebbero preteso l'interruzione dello stesso (cfr. 360 ss.). Le regole in questione prescrivevano che in presenza di alveoli di corrosione, di impurità delle supeR***Ici, l'operatore interrompesse l'esame e investisse della questione il proprio superiore. In sostanza, come per il Kr.[UW.] (e come si è già rilevato), il rimprovero è stato di aver colposamente attestato la corretta esecuzione dell'esame, con esito di assenza di difetti.
La Corte di appello ha escluso che l'esecuzione del controllo pur in assenza di autorizzazione fosse ascrivibile al Br.[HE.], sia per l'insuperata incertezza in ordine al fatto che egli, tecnico di primo livello, avesse il dovere di verificare i titoli Al abilitativi dell'officina, e al fatto che una eventuale autorizzazione avrebbe dato indicazioni operative in grado di modificare l'esito del controllo, sia infine per l'irrilevanza causale della mancata autorizzazione.
Il perimetro del rimprovero si è quindi ristretto al fatto di avere il Br.[HE.] "dato atto di aver svolto un controllo a polveri magnetiche senza rilevare alcuna anomalia", mentre se avesse osservato le prescrizioni in tema di preparazione della supeR***Icie di prova avrebbe dovuto interrompere l'esame per le esistenti e rilevabili anomalie delle supeR***Ici.
Tenuto presente ciò, appare non contraddittoria la puntualizzazione secondo la quale, anche se eseguito a regola d'arte, l'esame MT non avrebbe condotto alla detezione della cricca perché esso, proprio in quanto condotto secondo le modalità del livello IS2, sarebbe stato eseguito in zone diverse da quella in cui essa era presente. La Corte distrettuale, infatti, ha distinto nettamente la fase di preparazione delle supeR***Ici di prova da quella dell'esame MT, sicché il giudizio di erronea esecuzione della prima non si pone in termini di incompatibilità con il giudizio di (possibile) corretta esecuzione del secondo.
Quanto appena osservato chiarisce che la Corte di appello non ha mai affermato al contempo che l'esame MT doveva essere svolto dal Br.[HE.] solo sul solo corpo centrale dell'assile e sull'intero assile. Piuttosto ha puntualizzato che la preparazione delle supeR***Ici avrebbe dovuto concernere anche l'area del collarino perché con l'esame magnetoscopico avrebbe dovuto essere controllata anche la 'gola di scarico', ovvero "la particolare curva della zona posteriore del fusello, laddove questo si collega, tramite ii collarino, alla portata di calettamento delle ruote"', sicché la preparazione della supeR***Ice era stata scorretta anche perché non si era provveduto alla rimozione del rivestimento di vernice nera termovirante e con marcate sbollature presente nell'area del collarino.
Quanto alla regola imponente la pulizia dell'intero assile per l'esecuzione del controllo MT in IS2, la Corte di appello le ha richiamate ancora a pg. 572 (dopo averle menzionate a pg. 455, laddove ha fatto riferimento alla TFA di G***x n. 2.12.01 del 31.3.2008, per le quali "La protezione anticorrosione va eliminata- completamente. I danni devono essere trattati in conformità con la VPI 04 paragrafo 23. La corrosione deve essere asportata (disco abrasivo o tela smeriglio > 80 pm)".
Ha poi citato le non dissimili disposizioni del manuale VPI, nel quale si prevede che "Per garantire l'attendibilità della prova è necessario che la supeR***Icie sia nuda dal punto di vista del metallo. Le supeR***Ici dell'assile sottoposte ad esame devono essere prive di sporco, grasso, olio, rivestimenti o altre impurità, per evitare di influire sulla sensibilità dei dispositivi di prova. La prova su sezioni non sufficientemente pulite non è ammessa". Come ha spiegato la Corte di appello, sulla scorta dei chiarimenti resi dagli esperti, tali prescrizioni trovano origine nel fatto che vernici, ossidazioni e impurità eventualmente presenti sulla supeR***Icie dell'acciaio provocano addensamenti delle particelle magnetiche che possono mascherare reali difetti della struttura dell'assile e pertanto impedire la corretta esecuzione dell'esame.
11.4. Il ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia sostenuto in modo manifestamente illogico e in contrasto con l'effettivo contenuto precettivo delle regole evocate che egli avrebbe dovuto eseguire l'esame MT sull'intero assile e non soltanto nell'area tra le ruote.
Anche a tal riguardo è opportuno ricostruire con precisione il percorso motivazionale.
Dopo aver scolpito che l'operatore avrebbe dovuto rilevare le impurità presenti sull'assile e non procedere all'esame MT ("in quelle condizioni l'assile non avrebbe potuto essere sottoposto al controllo a particelle magnetiche") e concluso che l'aver invece eseguito il controllo attestandone la regolarità e l'esito 'assenza di difetti' aveva avuto rilievo causale perché non aveva permesso la individuazione della cricca mediante il controllo IS3, la Corte di appello ha anche preso in esame l'ipotesi accusatoria che la limitazione del controllo MT al solo corpo centrale dell'assile costituisse una violazione della TFA n. 2.12.01, poiché essa imponeva di eseguire l'esame in conformità alla VPI 04 Appendice 28. Su questo ultimo punto, ovvero sulla identificazione della portata precettiva del riferimento all'Appendice 28, si muovono rilievi anche con il ricorso. La tesi, già rappresentata alla Corte di appello, valorizza l'ulteriore previsione contenuta nell'Appendice 28, secondo la quale "in particolari condizioni di impiego la prova può essere eseguita per analogia anche con l'assile in opera, purché le aree del medesimo da ispezionare siano esposte". Poiché sino al 1.8.2008 queste disposizioni si applicavano ad ogni tipo di controllo, senza distinzione tra livello IS2 e livello IS3, la tesi difensiva è che con l'introduzione dal 1.8.2008 dell'Appendice 35, dedicata specificamente al controllo MT in IS2, non vi fosse stata una modifica sostanziale della disciplina; nel senso che prevedendo quest'ultima disposizione che il controllo IS2 fosse svolto esclusivamente con l'assile in opera, così doveva leggersi anche ('Appendice 28 già vigente. Pertanto, il Br.[HE.], chiamato ad eseguire il controllo MT in IS2 non avrebbe dovuto esaminare l'intero assile e quindi anche la zona del collarino.
La Corte di appello ha replicato che una simile tesi prefigura una disciplina di difficile comprensione per un operatore di primo livello, che finirebbe per richiedergli competenze (di interpretazione di testi precettivi) estranee al suo bagaglio professionale, in un ambito nel quale è essenziale la chiarezza di compiti che sono meramente esecutivi ("le normative tecniche debbono possedere un grado elevato di precisione"). Ciò posto, la Corte distrettuale ha ritenuto che nella fattispecie ricorressero comunque segnali di allarme che imponevano, sulla scorta di "elementari regole di prudenza" di eseguire l'esame MT anche sulle zone che presentavano irregolari condizioni esteriori del rivestimento e alveoli di corrosione.
Il ricorrente svolge a tal ultimo proposito dei rilievi di ordine teorico in linea di massima condivisibili. Come si è già esposto laddove si sono sintetizzati i motivi di ricorso, si tratta di considerazioni che attengono alla relazione che deve essere stabilita tra colpa specifica e colpa generica alla luce del principio di legalità e del principio di colpevolezza. Il tema sarà con più esteso approfondimento trattato allorquando saranno esaminati i ricorsi di coloro che lamentano l'estensione del dovere cautelare oltre quanto deducibile dalla normativa comunitaria.
In relazione al ricorso che ora occupa, è sufficiente osservare che non si pone con esso in discussione che in presenza di regole cautelari positivizzate sia ammissibile la pretesa che vengano osservate anche regole cautelari non positivizzate; piuttosto si indentificano alcune condizioni di legittimazione della pretesa aggiuntiva: la esistenza di un rischio non considerato nella posizione delle regole positivizzate e l'esigibilità in concreto del surplus di diligenza richiesto.
Ad avviso di questa Corte la prima condizione è definita in termini non condivisibili. La necessità del ricorso ad una regola cautelare ulteriore, rinvenibile attraverso i criteri della prevedibilità e della evitabilità, è data dal fallimento della regola positivizzata; un fallimento che per poter essere ascritto all'agente deve essere almeno riconoscibile. Non è indispensabile, quindi, che si tratti di una situazione nella quale si presenta un nuovo rischio, nuovo perché non sotteso alla regola predefinita. Può anche trattarsi del medesimo tipo di rischio, che risulta fronteggiato con misure che nel caso concreto risultano inidonee. A ben vedere, è proprio questa l'ipotesi nella quale con maggiore fondamento si può rivolgere la pretesa al gestore del rischio, perché in quella ipotizzata dal ricorrente, di un rischio nuovo, proprio la novità, se si traduce nell'estraneità del rischio rispetto a quello affidato, potrebbe escludere la legittimità della pretesa ordinamentale. Utilizzando ancora lo strumentario della teoria del rischio può dirsi che colui che ha il compito di gestire un determinato rischio deve considerare in primo luogo le regole positivizzate che gli indicano il come eseguire quel compito, ma deve anche tener conto del possibile insuccesso (anche nel senso di insufficienza) di tali modalità gestorie e in tal caso adottare quei comportamenti che sono suggeriti dalle regole di diligenza, prudenza e perizia. Essenziale, per il rispetto dei principi menzionati, è che l'insuccesso sia conosciuto o almeno conoscibile e che le regole integratrici siano realmente già disponibili (ma su tale punto si scriverà, più diffusamente, infra; ora valga come richiamato anche a riguardo del motivo in esame).
Calando tali premesse nel caso che occupa, assume rilievo assorbente la considerazione dell'aver la Corte di appello rimarcato l'esistenza di indici del fallimento della regola positivizzata di una limitazione dell'esame MT al solo corpo centrale dell'assile; indici rappresentati dalle evidenti sbollature della vernice presenti nell'area del collarino; segnali eclatanti di possibili sottostanti alveoli di corrosione; alveoli la cui individuazione era appunto lo scopo dell'esame condotto dal Br.[HE.]. Che l'effetto dell'applicazione della regola fosse stata la diretta detezione della cricca o piuttosto la attivazione del supervisore e quindi il passaggio al livello IS3 e la scoperta della cricca è privo di concreta rilevanza.
La circostanza che il ricorrente operasse in un processo produttivo caratterizzato dalla suddivisione del lavoro in fasi successive e affidate a diversi operatori - per utilizzare l'appropriato linguaggio dall'esponente - non comporta quanto da questi auspicato, perché al Br.[HE.] non è stato rimproverato di non aver fatto quanto ad altri competeva ma proprio e solo quanto era nei suoi compiti di verificatore di difetti strutturali dell'assile mediante controllo magnetoscopico.
La non censurabilità della motivazione con la quale i giudici di merito hanno individuato una regola cautelare non positivizzata in forza della quale (una volta intrapreso il controllo MT che non avrebbe dovuto eseguire) il Br.[HE.] avrebbe dovuto estendere il controllo anche all'area del collarino rende del tutto superfluo attardarsi ulteriormente sul tema della portata precettiva della TFA 02.12.01.
11.5. Il quarto motivo investe l'affermazione della Corte distrettuale per la quale le anomalie della supeR***Icie dell'assile avrebbero avuto incidenza sull'esito del controllo MT, censurata sotto il duplice profilo del ricorso ad una legge probabilistica e rovesciando l'onere della prova sulla difesa facendo ricorso al modello della cd. falsificazione implicita.
Il motivo, argomentato in termini quasi pedissequi rispetto all'analogo motivo proposto nell'interesse del Kr.[UW.], è per le medesime ragioni - esposte al paragrafo 10.8. - infondato.
11.6. Il quinto motivo è infondato. Anch'esso ripropone nella sostanza censure poste dal Kr.[UW.]. In merito all'efficacia impeditiva della condotta colposa, i rilievi del ricorrente muovono dalla non corretta identificazione di quest'ultima, che come si è visto è stata fatta consistere essenzialmente nell'aver colposamente attestato l'esito positivo del controllo MT. Sicché essi risultano manifestamente infondati.
Il solo tratto specifico è la denuncia di un vizio motivazionale che deriverebbe dal fatto che i giudici di merito hanno argomentato a proposito della legge probabilistica di carattere predittivo utilizzata (POD) facendo riferimento al controllo UT e solo estendendone la valenza al controllo MT, "senza integrazione alcuna e soprattutto senza specifica valutazione delle autonome censure". Tal ultimo rilievo è aspecifico, poiché non vengono esplicate le ragioni di fatto e/o di diritto per le quali la affermata valenza della legge predittiva per entrambi i controlli sarebbe viziata; di certo non può valere il generico richiamo a non meglio individuate "autonome censure". Peraltro, la focalizzazione della motivazione sulle POD riferibili all'esame UT discende dal fatto che le stesse parti e sinanche gli esperti non hanno evidenziato ragioni di differenziazione.
Quanto al resto, vale qui quanto già esposto a riguardo dell'omologo motivo proposto dal Kr.[UW.].
11.7. Con il sesto motivo si lamenta che sia stata ritenuta l'aggravante della violazione di norme in materia di prevenzione degli infortuni, individuando come tali gli artt. 18, co. 1 lett. q), 23, comma 1, in relazione all'All. V Parte I par. 3.2. del d.lgs. n. 81/2008 e l'art. 2087 c.c.
Il motivo è fondato.
È sufficiente osservare che, quanto all'art. 2087 c.c., esso fa riferimento all'imprenditore - e, come vuole una tradizione interpretativa, al datore di lavoro - e pertanto non può essere riferito a chi tali ruoli non ricopra. Ciò vale anche per l'art. 18, le cui disposizioni recano obblighi per il datore di lavoro ed il dirigente; in particolare alla lettera q) dispone che tali figure devono "prendere appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno verificando periodicamente la perdurante assenza di rischio". Non vi è alcun dubbio che il Br.[HE.] non ricopriva alcuno dei due ruoli in questione (e ciò rende superfluo approfondire in questa sede la reale portata precettiva della norma).
Altrettanto dicasi per l'art. 23 d.lgs. n. 81/2008, che pone obblighi prevenzionistici (più precisamente identificabili anche alla luce degli artt. 69 e 70 del medesimo decreto) in capo al fornitore (qui non rilevano gli ulteriori soggetti menzionati dalla disposizione). Per tale deve intendersi il soggetto al quale deve imputarsi giuridicamente la fornitura, e quindi l'imprenditore, coloro che rappresentano l'impresa o in essa hanno i poteri dispositivi.
In conclusione, nessuna delle disposizioni prevenzionistiche riferite al Br.[HE.] si indirizzano al lavoratore dipendente dell'imprenditore e del fornitore dell'attrezzatura di lavoro e le regole cautelari non osservate dal Br.[HE.] attengono alla sicurezza della circolazione ferroviaria (che traggono origine da quel medesimo compendio dispositivo del quale si è fatta menzione a riguardo del Kr.[UW.]) e non rientrano nel novero delle norme in materia di prevenzione degli infortuni.
Ne consegue che va rinvenuta l'erronea applicazione dell'art. 589, co. 2 cod. pen.; il reato commesso va qualificato ai sensi dell'art. 589, co. 1 e 5 cod. pen., il cui termine di prescrizione, pari a sette anni e mezzo, risulta decorso dopo la pronuncia di primo grado.
Ne deriva, altresì, che limitatamente al reato di cui al capo A la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, mentre il ricorso va rigettato agli effetti civili (valendo quanto sin qui esposto anche quale adempimento della prescrizione di cui all'art. 578 cod. proc, pen.); e va rigettato ad ogni effetto quanto al reato di disastro ferroviario colposo. L'annullamento parziale impone la necessità di ridefinire il trattamento sanzionatorio; compito che non può essere svolto da questa Corte, involgendo valutazioni di merito che le sono sottratte. Va quindi disposta la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Firenze per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio conseguente alle statuizioni qui date.
11.8. Restano assorbiti i motivi settimo ed ottavo, che attengono al trattamento sanzionatorio e al diniego delle attenuanti generiche, poiché I relativi temi dovranno essere riconsiderati dal giudice del rinvio.


12. Il ricorso di SC.AN.
12.1. Il primo motivo è infondato, per le ragioni che sono state esposte al paragrafo 1.
12.2. Il secondo ed il terzo motivo, che è utile trattare congiuntamente, sono infondati. Il secondo pone il tema della (manifesta illogicità) della motivazione sul punto dei doveri facenti capo allo Sc.[AN.]: si lamenta che al contempo viene escluso che egli dovesse presenziare ai controlli e lo si ritiene responsabile per non essere stato presente agli stessi.
Occorre considerare che il Tribunale aveva ridotto il novero delle condotte rimproverate allo Sc.[AN.] all'aver omesso di "svolgere una sorveglianza appropriata al tipo di verifica" (ci si riferiva al controllo UT eseguito dal Kr.[UW.]), ovvero di esser presente durante la materiale esecuzione della prova, sia pure non "attimo per attimo" ma comunque non alla condizione che la sua presenza venisse richiesta dall'operatore.
L'assunto era stato censurato dall'appellante rilevando una indebita confusione tra il proprio ruolo e quello del Le.[JO.] e osservando che il supervisore interviene nell'esecuzione del singolo esame solo quando venga riscontrata dall'operatore una criticità.
Quest'ultimo profilo è investito dal secondo motivo di ricorso.
Orbene, la Corte di appello ha richiamato le previsioni del Manuale VPI che attengono ai compiti del supervisore, ricavandone, senza alcuna illogicità, che il dovere di svolgere la "sorveglianza dell'esecuzione professionale delle prove non distruttive", non è compatibile "con la non immediata reperibilità del supervisore" e che essa deve concretizzarsi in una condotta adeguata alle circostanze del caso concreto. Nello specifico mancavano attrezzature digitali che registrassero i risultati della prova UT, non era previsto un report dettagliato della prova; ovvero, non era possibile un controllo reale a posteriori. Più in generale la Corte di appello, con coerenza rispetto al testo del manuale VPI e in modo non illogico, ha rimarcato che il ruolo del supervisore non era (solo) quello di prestare ausìlio al verificatore in caso di criticità ma soprattutto quello di assicurare l'esecuzione appropriata e a regola d'arte del CND.
In tali affermazioni non vi è alcuna intrinseca contraddittorietà, giacché il ritenere che non si debba essere presenti in ogni momento del controllo eseguito dal verificatore non esclude il monitoraggio dell'esecuzione del controllo in fieri.
Con riferimento al terzo motivo, che in stretta correlazione con il precedente pone il tema della ammissibilità di un rimprovero per colpa generica in caso di originaria contestazione di una colpa specifica e quello della mancata identificazione della condotta per lo Sc.[AN.] doverosa, vanno in primo luogo richiamate le considerazioni svolte a proposito della ammissibilità in via di principio dell'ascrizione di una colpa generica ad integrazione di una colpa specifica. Esse rendono evidente che l'eventuale sostituzione di un'originaria contestazione fondata su ipotesi di colpa specifica con una contestazione per colpa generica non è in contrasto con i principi in tema di responsabilità colposa ma pone il tema del rispetto delle garanzie difensive (non oggetto del motivo in esame); e, soprattutto, permettono di avere chiare indicazioni sul come verificare che la individuazione della regola cautelare la cui osservanza si imponeva al tempo della condotta non sia stata in realtà creata ex post.
A ben vedere, le disposizioni del Manuale VPI pongono in capo al supervisore obblighi da adempiere mediante condotte definibili solo alla luce della situazione concreta. L'obbligo di sorveglianza, ma anche quello di garantire la realizzazione appropriata e a regola d'arte del CND. La carenza di tipicità lamentata dal ricorrente non è del rimprovero fatto dai giudici di merito ma dalle previsioni che si indirizzano al supervisore, chiamato in sostanza a fare quanto nelle situazioni concrete il generico dovere di diligenza indica come funzionale al conseguimento dello scopo prevenzionale.
Il riferimento alle previsioni del Manuale VPI evidenzia l'attenzione della Corte di appello per la individuazione di regole preesistenti; il cui concreto contenuto, lo si ripete, doveva necessariamente essere individuato alla luce delle circostanze del caso concreto al tempo esistenti. Ed anche questa operazione è stata correttamente eseguita dalla Corte di appello, che ha evidenziato - lo si è scritto - l'assenza di attrezzature digitali che registrassero i risultati della prova UT e di un report dettagliato della prova.
Non coglie il segno neppure il rilievo di una mancata descrizione della condotta doverosa. Sia pure formulata in termini negativi tale descrizione è sufficientemente nitida: occorreva visionare l'assile, doveva essere eseguito il controllo delle concrete modalità di esecuzione della prova (cfr. p. 564) poiché, nelle condizioni date, queste erano le condotte che assicuravano la sorveglianza e la garanzia di un'esecuzione del CND a regola d'arte. Peraltro, anche con riferimento allo Sc.[AN.] va rilevato che la condotta penalmente rilevante ha natura attiva, consistendo nella colposa attestazione del positivo esito dei controlli.
12.3. Il quarto motivo è infondato.
Il nucleo dei rilievi elevati con tal motivo è rappresentato dalla identificazione di tre distinti eventi (il deragliamento, il ribaltamento e l'incendio), esito della scomposizione del macro-evento rappresentato dal disastro, inteso come accadimento omnicomprensivo. Il successivo assunto è che il rischio unitario e globale è altresì composito e compartimentato. Si individuano nella complessiva area di rischio alcune altre, più specifiche, ripartite in base alle competenze precipue di ciascun garante. Se ne fanno derivare effetti sul piano della causalità della colpa.
Simili rilievi hanno già trovato risposta trattando degli analoghi avanzati nell'interesse del Kr.[UW.], nel paragrafo 10.14., al quale quindi si rimanda.
12.4. Il quinto motivo è fondato. Anche allo Sc.[AN.] risulta contestata la violazione dell'art. 8 d.lgs. n. 162/2007, degli artt. 2043 e 2050 c.c. e dell'art. 23, co. 1 d.lgs. n. 81/2008. Valgono quindi le osservazioni svolte a proposito del Br.[HE.]; va solo aggiunto il richiamo a quanto si è scritto al paragrafo 5, in merito all'estraneità dell'art. 2050 c.c. al novero delle 'norme per la prevenzione degli infortuni'.
Ne deriva, altresì, che limitatamente al reato di cui al capo 52 la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, mentre il ricorso va rigettato agli effetti civili (valendo quanto sin qui esposto anche quale adempimento della prescrizione di cui all'art. 578 cod. proc. pen.); e va rigettato ad ogni effetto quanto al reato di disastro ferroviario colposo. L'annullamento parziale impone la necessità di ridefinire il trattamento sanzionatorio; compito che non può essere svolto da questa Corte, involgendo valutazioni di merito che le sono sottratte. Va quindi disposta la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Firenze per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio conseguente alle statuizioni qui date.
12.5. In conseguenza del disposto annullamento, il settimo motivo, relativo al trattamento sanzionatorio, risulta assorbito.
12.6. La richiesta di rimessione alla CGUE di questione pregiudiziale - formulata per lo Sc.[AN.] nei medesimi termini di quella proposta per il Kr.[UW.] - ha trovato risposta al paragrafo 9.

13. Il ricorso di LE.JO.
13.1. Il primo motivo è infondato. Il ricorrente si duole che non sia stata ravvisata la nullità dell'atto di appello del P.M. perché non tradotto nella lingua a lui nota.
In primo luogo, va escluso che per l'atto di appello del pubblico ministero possa ipotizzarsi la nullità; ciò perché esso non è atto giurisdizionale e non è atto impugnabile (analogamente a quanto ritenuto in tema di ordine di demolizione da Sez. 3, n. 10126 del 29/01/2013, Di Cristo, Rv. 254978 e in tema di ordine di esecuzione da Sez. 1, n. 12846 del 20/03/2020, Bonfissuto, Rv. 278817). Inoltre, non costituisce atto di esercizio dell'azione penale, essendo essenziale al riguardo, ai sensi dell'art. 405, co. 1 cod. proc. pen., la formulazione dell'imputazione. Pertanto, non può ipotizzarsi la ricorrenza di una nullità di ordine generale quale quella prevista dall'art. 178, lett. b) cod. proc. pen. in relazione all'iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale.
Eventuali vizi dell'appello ne possono se del caso determinare l'inammissibilità, secondo le regole generali in tema di inammissibilità dell'impugnazione.
In secondo luogo, il P.M. non ha l'obbligo di tradurre la propria impugnazione; l'art. 143 cod. proc. pen. pone tale obbligo in capo al giudice, secondo quanto si dirà subito in seguito.
Della carenza di obbligo di traduzione dell'impugnazione del PM l'esponente appare edotto, tanto che egli non pone in discussione che tale atto non rientra tra quelli che devono essere tradotti, ai sensi dell'art. 143, co. 2 cod. proc. pen., ma, con censura nuova, evoca la violazione dell'art. 143, co. 3 cod. proc. pen.
Oltre alla novità della doglianza, che la rende inammissibile, va rilevata la sua genericità. La norma evocata prevede una duplice evenienza: che sia il giudice a disporre di ufficio la traduzione; che questa avvenga su richiesta di parte.
Poiché risulta che il ricorrente non ha mai fatto richiesta di traduzione al giudice, tanto che egli si duole che il P.M. non abbia tradotto l'atto e con richiesta subordinata ha fatto istanza affinchè venga concesso termine per permettere al P.M. di procedere alla traduzione, il motivo di ricorso attiene alla mancata attivazione del potere officioso.
A tal riguardo, si profila l'aspecificità del motivo in esame poiché il ricorrente non ha esposto le ragioni per le quali nel caso che occupa l'atto di impugnazione sarebbe stato essenziale alla conoscenza dell'accusa: l'argomentazione è del tutto generica, come se l'essenzialità della conoscenza dell'impugnazione fosse di per sé connessa alla tipologia dell'atto.
Che ciò non sia rispondente al vero è dimostrato dalla non inclusione dell'impugnazione del p.m. tra gli atti per i quali il secondo comma prevede la traduzione necessitata. Inoltre, non è senza significato, anche nel perimetro della questione ora in esame, che la giurisprudenza di legittimità sia orientata nel senso che l'inosservanza dell'obbligo di notificare alle parti private l'impugnazione del pubblico ministero, prescritto dall'art. 584 cod. proc. pen., non produce l'inammissibilità dell'impugnazione, non essendo prevista tra i casi di cui all'art.591 cod. proc, pen., nè la nullità del processo del grado successivo, non rientrando tra le nullità di cui all'art. 178 cod. proc, pen.; l'unico effetto dell'omissione è quello di non fare decorrere il termine per l'impugnazione incidentale della parte privata, ove consentita (ex multis, Sez. 1, n. 48900 del 24/10/2003, Boiocchi, Rv. 227008; nel medesimo senso già Sez. 3, n. 3266 del 10/12/2009, dep. 2010, Esposito, Rv. 245859). Interpretazione condivisa anche dalle Sezioni Unite, per le quali la omissione della notifica dell'avvenuta impugnazione alle altre parti, prevista dall'art. 584 cod. proc, pen., senza comminatoria di sanzione in caso di violazione dell'obbligo, comporta unicamente la mancata decorrenza del termine per la proposizione, da parte del soggetto interessato, dell'eventuale appello incidentale (S.U., n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano ed altri, Rv. 248868, in motivazione). E tale statuizione è stata confermata anche in tempi più recenti, da ultimo sostenendosi che l'inosservanza dell'obbligo di notificare alle parti private l'impugnazione del pubblico ministero, prescritto dall'art. 584 cod. proc, pen., non produce l'inammissibilità della stessa impugnazione, né la nullità del processo del grado successivo, determinando esclusivamente la mancata decorrenza del termine per l'impugnazione incidentale della parte privata, ove consentita (Sez. 2, n. 47412 del 05/11/2013, P.G. in proc. Albizzati e altri, Rv. 257482; in tal senso anche Sez. 4, n. 20810 del 02/10/2018, dep. 2019, Sejdaras, Rv. 27580201).
Alla luce di simili premesse il solo aspetto che deve essere ancora considerato è se la previsione del comma 3 dell'art. 143 cod. proc. pen. ("La traduzione gratuita di altri atti o anche solo di parte di essi, ritenuti essenziali per consentire all'imputato di conoscere le accuse a suo carico, può essere disposta dal giudice, anche su richiesta di parte, con atto motivato, impugnabile unitamente alla sentenza") sia rimasta inosservata nel caso che occupa.
La disposizione non pone un obbligo di traduzione di atti essenziali alla conoscenza dell'accusa, potendo essere esclusa anche se l'imputato ne ha fatto richiesta; richiesta che, come già scritto, nel caso che occupa non è stata avanzata. In ogni caso questa Corte giudica che l'appello del P.M. non sia stato essenziale per la conoscenza dell'accusa, alla luce dello svolgimento del particolare giudizio; inoltre, tale essenzialità non è stata nemmeno rappresentata e giustificata dal ricorrente. Ed invero, il fatto che l'impugnazione segua ad un giudizio di primo grado nel quale è stata oggetto di ampio contraddittorio l'accusa formulata in origine nei confronti del Le.[JO.]; la circostanza che le ragioni dell'accusa siano state approfonditamente esaminate e quindi esposte in ogni loro implicazione nella sentenza del Tribunale, costituiscono antecedenti che lasciano legittimamente presumere che la conoscenza dell'accusa sia stata completa. Rispetto ad essa è ben possibile che l'impugnazione presenti, anche in considerazione del meccanismo devolutivo, contenuti che si riflettono sulla originaria fisionomia della contestazione ritenuta dal giudice; ma si tratta di evenienza che deve essere rappresentata dal ricorrente affinchè il motivo abbia i prescritti requisiti di specificità.
Nel caso di specie ciò è mancato; come è mancata la allegazione del concreto pregiudizio che ne sarebbe derivato alla difesa.
Va infatti considerato che anche in questo caso è valevole il principio secondo il quale il vizio deve tradursi in un effettivo pregiudizio del diritto di difesa, che ove non emergente di per sé deve essere specificamente allegato dal ricorrente. In forza di tale premessa si è statuito che in caso di impugnazione ritualmente proposta dal difensore di fiducia di un imputato alloglotta, avente ad oggetto un provvedimento di cui è stata omessa la traduzione, può configurarsi una lesione del diritto di difesa, correlata all'attivazione personale dell'impugnazione da parte dell'imputato, solo qualora quest'ultimo evidenzi il concreto e reale pregiudizio alle sue prerogative derivante dalla mancata traduzione (Sez. 6, n. 25276 del 06/04/2017, Money, Rv. 27049101; in senso conforme Sez. 3, n. 22261 del 09/12/2016, dep. 2017, Zaroual e altro, Rv. 26998201; Sez. 6, n. 22814 del 10/05/2016, Pannatier, Rv. 26794101).
Conclusivamente, va dato atto al ricorrente della non condivisibilità dell'affermazione della Corte di appello secondo la quale l'impugnazione, in quanto concretante una richiesta di parte, non è mai suscettibile di incidere sull'accusa. Il richiamo al principio secondo il quale l'atto di impugnazione è il mezzo con il quale sono mosse censure al provvedimento del giudice, ma non contiene "ex se" alcun ulteriore addebito in ordine al quale insorga una ulteriore necessità difensiva dell'imputato, nè instaura un nuovo rapporto processuale, sicché non vi è obbligo di traduzione dell'atto stesso che è limitato solo agli atti di contestazione dell'accusa (Sez. 2, n. 12394 del 10/08/2000, Lu Hai e altri, Rv. 21791601) non tiene conto dell'importante innovazione recata dall'art. 1, co. 1 lett. b) d.lgs. 4.3.2014, n. 32, che ha sostituito il testo originario dell'art. 413 cod. proc. pen.
Tuttavia, non è condivisibile neppure l'assunto speculare della difesa, di una indefettibile rilevanza dell'impugnazione ai fini della conoscenza dell'accusa. Di talché la parte che avanza richiesta di traduzione o si duole del mancato esercizio del potere officioso ha l'onere di dimostrare la essenzialità dell'atto per la conoscenza dell'accusa.
13.2. Si denuncia poi la violazione del principio di immutazione.
Nella giurisprudenza di legittimità è del tutto consolidata una interpretazione teleologica del principio di correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 cod. proc. pen.), per la quale questo non impone una conformità formale tra i termini in comparazione ma implica la necessità che il diritto di difesa dell'imputato abbia avuto modo di dispiegarsi effettivamente, risultando quindi preclusi dal divieto di immutazione quegli interventi sull'addebito che gli attribuiscano contenuti in ordine ai quali le parti - e in particolare l'imputato - non abbiano avuto modo di dare vita al contraddittorio, anche solo dialettico. Sia pure a mero titolo di esempio può citarsi la massima per la quale "ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all'art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione" (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278).
Nella specifica materia dei reati colposi la concreta applicazione delle indicazioni giurisprudenziali incorre in alcune peculiari difficoltà, derivanti dal fatto che la condotta colposa - in specie omissiva e massimamente se commissiva mediante omissione - può essere identificata solo attraverso la integrazione del dato fattuale e di quello normativo, con un continuo trascorrere dal primo al secondo e viceversa. Mentre nei reati dolosi - in specie commissivì -la condotta tipica risulta identificabile per la sua corrispondenza alla descrizione fattane dalla fattispecie incriminatrice (reati di pura condotta) o per la sua valenza eziologica (reati di evento), nei reati omissivi impropri colposi la condotta tipica può essere individuata solo a patto di identificare la norma dalla quale scaturisce l'obbligo di tacere e la regola cautelare che avrebbe dovuto essere osservata. Quest'ultima, in particolare, può rinvenirsi in leggi, ordini e discipline (colpa specifica), oppure in regole sociali generalmente osservate o prodotte da giudizi di prevedibilità ed evitabilità (colpa generica).
Com'è evidente, l'una e l'altra operazione sono fortemente tributarie della precisa identificazione del quadro fattuale determinatosi e nel quale si è trovato inserito l'agente/omittente; tanto che una modifica anche marginale dello scenario fattuale può importare lo stravolgimento del quadro nomologico da considerare.
Di qui il ricorrente richiamo da parte della giurisprudenza di legittimità alla necessità di tener conto della complessiva condotta addebitata come colposa e di quanto è emerso dagli atti processuali; ove risulti corrispondenza tra tali termini, al giudice è consentito di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, perché sostanzialmente non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (ex multis, Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013, Miniscalco e altro, Rv. 257902). L'accento posto sul concreto svolgimento del giudizio marginalizza - nella ricerca di criteri guida nella verifica del rispetto del principio di correlazione - un approccio fondato sulla tipologia dell'intervento dispiegato dal giudice (ad esempio, quello che si rifà alla presenza di una contestazione di colpa generica per affermare l'ammissibilità di una dichiarazione di responsabilità a titolo di colpa specifica).
Si può aggiungere, in questa sede, che la centralità della proiezione teleologica del principio in parola conduce a ritenere che, ai fini della verifica del rispetto da parte del giudice del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza, è decisivo che la ricostruzione fatta propria dal giudice sia annoverabile tra le (solitamente) molteplici narrazioni emerse sul proscenio processuale (ferma restando l'estraneità al tema in esame della qualificazione giuridica del fatto). La principale implicazione di tale assunto è che, dando conto del proprio giudizio con la motivazione, il giudice è chiamato ad esplicare i dati processuali che manifestano la presenza della 'narrazione' prescelta tra quelle con le quali si sono confrontate le parti, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente.
La seconda implicazione, che in questa sede assume diretto rilievo, è che risulta aspecifico e quindi inammissibile il ricorso che si limiti a segnalare la formale mancanza di coincidenza tra l'imputazione originaria ed il fatto ritenuto in sentenza.
Aspecifico, giacché ai sensi dell'art. 581, co. 1 lett. c) cod. proc, pen., l'impugnazione deve enunciare, tra gli altri, "i motivi, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta". L'art. 591, co. 1, lett. c) cod. proc, pen., poi, commina la sanzione dell'inammissibilità dell'impugnazione quando venga violato, tra gli altri, il disposto dell'art. 581 cod. proc. pen. Come costantemente affermato da questa Corte (tra le altre, sez. 6, 30/10/2008, Arruzzoli ed altri, Rv. 242129), in materia di impugnazioni, l'indicazione di motivi generici nel ricorso, in violazione dell'art. 581 lett. c) cod. proc, pen., costituisce di per sé motivo di inammissibilità del proposto gravame.
Tanto premesso, mette conto rilevare che al Le.[JO.] la contestazione sub 55 ascrive di esser stato negligente, imperito e di aver violato le discipline e le riconosciute regole della tecnica nonché l'art. 8 d.lgs. n. 162/2007 e gli artt. 2043, 2050 c.c., l'art. 18, comma 1 lett. q) e l'art. 23, comma 1, in relazione all'All. V parte I Par. 3.2 del d.lgs. n. 81/2008 e più specificamente di aver omesso la stesura e la validazione di istruzioni operative particolari per i diversi tipi di assile e la conseguente formazione ed istruzione del personale e così di aver permesso che il controllo UT avvenisse in modo errato. Inoltre gli si è ascritto, nelle contestazioni originarie, di non aver dotato il personale operativo addetto ai CND di istruzioni dettagliate e formalizzate oltre che specifiche in rapporto all'assile sotto esame ed altresì di aver fatto utilizzare, anche omettendone la verifica, strumentazione priva di corretta taratura.
La Corte di appello ha escluso che il Le.[JO.] dovesse stendere i piani di prova ma ha ritenuto che questi, che aveva l'incarico di supervisore (ruolo che il Tribunale aveva riconosciuto in capo al solo Sc.[AN.]), avesse il compito di rimuovere le carenze strutturali ricorrenti nelle procedure di controllo non distruttivo degli assili (tempo di esecuzione insufficiente, mancanza di piani di prova, inadeguata preparazione degli assili, inadeguata procedura di sorveglianza sugli esami UT e MT).
Come già la contestazione, la Corte di appello ha attribuito al Le.[JO.] il ruolo di colui che aveva il compito di far sì che la procedura si avvalesse di piani di prova; l'aver escluso che egli dovesse formarli e l'aver sostenuto che egli dovesse garantirne la presenza non modifica significativamente il fatto.
Diversamente da quanto sostiene l'esponente, in tal modo non si è prevenuti alla negazione dell'imputazione originaria. Vi è già in questa l'aver consentito che venisse operato il controllo in assenza di istruzioni operative e in un tempo inadeguato. Esclusa la diretta responsabilità dell'imputato per la formazione dei piani di prova resta dell'imputazione il rimprovero per aver permesso una procedura in assenza di sufficienti istruzioni operative.
Non risponde quindi al vero che la contestazione elevata dal P.M. era focalizzata solo sulla mancata predisposizione e validazione dei piani e sulla omessa verifica di attrezzatura non tarata.
In conclusione il motivo è in primo luogo aspecifico, giacche non viene neppure allegato il pregiudizio che sarebbe derivato al diritto di difesa; ed è in ogni caso infondato.
13.3. I motivi terzo, quarto, quinto e settimo del ricorso possono essere trattati unitariamente, investendo da prospettive diverse il medesimo tema della titolarità da parte del Le.[JO.] di una posizione gestoria in forza della quale egli risultava titolare di doveri di alta vigilanza che la Corte di appello ha posto a base del giudizio di responsabilità perché ritenuti non adempiuti.
Tali motivi sono fondati, nei termini di seguito precisati. Ciò determina l'assorbimento dell'undicesimo motivo, che attiene al medesimo tema della posizione di garanzia del Le.[JO.] ma considerato dal versante processuale.
Come evidenziato da S.U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267492, la regola del ragionevole dubbio si correla ad un più intenso onere argomentativo quando si debba procedere alla riforma di una sentenza assolutoria. Quella regola sviluppa riflessi tanto sul piano cognitivo che sul piano processuale, imponendo una conoscenza in grado di travolgere la decisione già assunta e perciò insediata su una diretta apprensione della prova decisiva (di qui la necessità della rinnovazione istruttoria) e manifestata attraverso una motivazione che non si limita ad esprimere dissenso rispetto alla decisione di primo grado ma che è capace di dimostrare l'errore in essa rinvenibile (la motivazione rafforzata, appunto).
Questa direttrice è stata ulteriormente ribadita ancora dalle Sezioni Unite anche per l'ipotesi che il giudice d'appello riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado; in tal caso questi non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (S.U. n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, P.g. in proc. Troise, Rv. 272430).
Secondo l'insegnamento del S.C., costituiscono prove decisive al fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l'assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull'esito del giudizio, nonché quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti - da sole o insieme ad altri elementi di prova - ai fini dell'esito della condanna.
Ci si è anche interrogati su cosa debba intendersi per motivazione rafforzata; accogliendo i suggerimenti della dottrina, si è affermato che essa consiste nella compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonché in un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanziale o processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore (Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 278056).
Nel caso che occupa il Tribunale era pervenuto all'assoluzione del Le.[JO.] ritenendo che la contestazione facesse riferimento alla qualifica di tecnico di III livello e non alla qualifica di supervisore dei controlli non distruttivi; solo dalla prima discendeva il dovere di redigere e validare istruzioni operative particolari per i diversi tipi di assile, di formare il personale per l'attuazione di tali istruzioni; e il Le.[JO.] non aveva i requisiti per attendere a quei compiti di redazione e validazione. Inoltre, questi era rimasto "sostanzialmente estraneo" al ruolo di supervisore, attribuito unicamente allo Sc.[AN.], essendo stato affidato al primo il compito di svolgere saltuariamente qualche corso di aggiornamento, in modo da giustificare una nomina che trovava in ragioni meramente formali la propria causa; giudizio che il Tribunale aveva formulato anche sulla scorta di quanto dichiarato dal c.t. Prof. Ton..
Infine, per il primo giudice, le funzioni di supervisore erano state in concreto esercitate solo dallo Sc.[AN.],
La Corte di appello ha convenuto con il Tribunale in ordine al fatto che al Le.[JO.] non poteva essere rimproverato di non aver redatto e validate le istruzioni operative; ma ha ritenuto che il ruolo di supervisore gli imponesse di garantire la corretta esecuzione dei controlli non distruttivi svolti dagli operatori di primo livello e della supervisione svolta dal tecnico di secondo livello Sc.[AN.], che aveva il compito di sostituire il Le.[JO.] quando non presente in officina ma non i medesimi doveri/poteri. Doveri e poteri che la Corte di appello ha definito di 'alta vigilanza'.
Orbene, a simili conclusioni la Corte di appello è pervenuta in forza di un percorso argomentativo non coerente con i principi sopra rammentati.
Come si è scritto, la complessiva organizzazione dei controlli UT e MT presso l'officina Ju***l è stata ritenuta gravemente deficitaria: assenza dei piani di prova previsti dalla normativa tecnica, apparecchiature non adeguate al migliore standard in commercio, tempo di esecuzione della prova ampiamente inferiore a quello necessario, soprattutto supervisione 'massiva e differita' dei controlli in assenza di registrazione delle operazioni. Di tali lacune solo l'ultima è stata ritenuta dotata di efficienza causale rispetto al sinistro viareggino. La cattiva organizzazione della supervisione è stata dalla Corte di appello ricondotta al Le.[JO.].
Richiamando talune dichiarazioni del Kr.[UW.] e del Bart., oltre che la documentazione dalla quale risultava che nel quadriennio 2005-2009 il Le.[JO.] aveva operato per l'officina per complessive 90 ore, 15 delle quali nel 2008, ricevendo un piccolo compenso per tale attività, il Tribunale aveva affermato che non era stata raggiunta la prova che egli fosse stato titolare di un potere di controllo sull'officina né che fosse a conoscenza della peculiare modalità di supervisione risalente alla decisione dello Sc.[AN.]: "non sappiamo in effetti se quando (Le.[JO.]) era presente in officina le prove non distruttive venissero svolte dietro la sua costante supervisione o continuassero a seguire la prassi che aveva instaurato Sc.[AN.], di lasciare totale autonomia all'operatore".
La Corte di appello non ha innovato il compendio dei dati di fatto assunti dal Tribunale, ma ne ha operato una diversa valutazione. In primo luogo, ha ritenuto che la regolamentazione (tra queste, la DIN 27201-7 ed il regolamento DB 907.0001) distinguesse le figure del supervisore da quella del sostituto, prevedendo che il primo fosse un tecnico munito di certificazione di terzo livello ed il secondo di una certificazione di secondo livello; derivandone che le due figure non fossero sullo stesso piano e che il sostituto non potesse sostituire il supervisore in tutte le sue funzioni e a tempo indeterminato. Lo stesso incarico al Le.[JO.], ad avviso della Corte distrettuale, trovava giustificazione nella necessità dell'officina di avere nei propri ranghi un tecnico di terzo livello. Dissentendo apertamente dal giudizio del Tribunale secondo il quale il Le.[JO.] sarebbe rimasto estraneo all'incarico di supervisore, la Corte distrettuale ha affermato sul piano astratto che la inattività del Le.[JO.] è per lo stesso fonte di responsabilità e, sul piano concreto, che "la circostanza che nella nomina del 27.8.2008 fosse prevista una possibile sostituzione, ... connessa alla non costante presenza di Le.[JO.] in officina... non esclude affatto il ruolo di garanzia attribuito al supervisore Le.[JO.]. Proprio perché connessa all'assenza di Le.[JO.], la sostituzione di quest'ultimo da parte di Sc.[AN.] non era prevista come 'continua', bensì come una sostituzione 'circoscritta nel tempo', operante in relazione ad una specifica situazione di fatto". Al supervisore, infatti, si riconducono compiti di alta vigilanza e compiti di più diretta vigilanza delle singole prove e soluzione di specifici casi dubbi.
Orbene, le pur articolate affermazioni della Corte di appello sono tuttavia manifestamente illogiche, nel senso delineato dalle Sezioni Unite sin dalla sentenza Dasgupta.
Un primo punto attiene alla interpretazione della regolamentazione pertinente. Secondo il Tribunale "la norma Appendice 17 richiede per la figura del cd. addetto alla sorveglianza la qualifica di tecnico di II livello ed una certificazione nel settore industriale 9 (conforme alla EN 473), requisito questo che possedeva infatti anche Sc.[AN.]"-, ed aggiunge che secondo la norma "si tratta di una funzione che può essere svolta con assoluta tranquillità da un tecnico di II livello". Pertanto, con il provvedimento di nomina, in coerenza con le disposizioni richiamate, "alla data del 28 agosto 2008 erano stati nominati all'interno della società Ju***l due soggetti per esercitare la stessa funzione".
A fronte di ciò la Corte di appello ha taciuto ogni confronto con la norma richiamata dal Tribunale ed ha evocato la DIN 27201-7 (quindi la norma DIN EN 473 che ne costituisce la matrice) perché ad essa facevano riferimento le perizie di DB Sistemtechnik sulla cui base la Ju***l aveva ricevuto le autorizzazioni. Ma tali perizie, come documentato nella produzione difensiva, indicano sempre, dal 2005 al 2008, che la qualificazione dei supervisori deve essere documentata "con diploma almeno di livello 2 o 3 secondo DIN EN 473"; una espressione di equivalenza che la Corte di appello avrebbe dovuto valutare, insieme a quanto sostenuto dal primo giudice, per poter legittimamente concludere che la circostanza dell'esser stato richiesto che il supervisore avesse una qualifica di terzo livello e il sostituto di secondo livello indicasse la diversità dei compiti dei due ruoli.
Tanto sul piano 'generale'. Nello specifico la Corte di appello non si è confrontata con i dati probatori ritenuti decisivi dal Tribunale per concludere che in concreto il ruolo di supervisore non fosse stato assunto dal Le.[JO.] ma dallo Sc.[AN.]; si allude al piccolo numero di ore di servizio prestato dal Le.[JO.] a favore dell'officina Ju***l, al coerente ridotto compenso, alle dichiarazioni del Kr.[UW.] (che vengono citate dalla Corte di appello, ma ad altro fine), del Bart. e del Ton. (che pure viene citato, ma in un diverso passaggio).
Di qui la violazione del dovere di motivazione rafforzata. La Corte di appello, infatti, avrebbe dovuto approfondire l'indagine onde ricavare da un pertinente quadro probatorio gli elementi necessari ad affermare o a negare una posizione di 'superiorità gerarchica' del Le.[JO.] rispetto allo Sc.[AN.], prima ancora di far discendere da questa l'asserito dovere di alta vigilanza. Ben diversamente, la Corte di appello si è limitata a 'leggere' le norme tecniche in modo difforme da come fatto dal Tribunale senza preoccuparsi di operare un reale approfondimento sul contenuto dell'incarico attribuito al Le.[JO.] sin dall'anno 2005, di come si sia evoluto, sulla congruità a tale incarico delle ore di presenza presso l'officina; in uno, sui compiti in concreto attribuiti al Le.[JO.] nel contesto, evocato dal Tribunale, dell'organizzazione datasi dalla Ju***l. Mentre da quella nomina il Tribunale ha dedotto il ruolo del Le.[JO.] per come realizzatosi nella realtà della relazione contrattuale, il giudizio della Corte di appello prescinde dall'analisi di tale relazione e si ferma ad una valutazione puramente astratta, incardinata sulla genesi del contratto con il Le.[JO.], sulle differenti qualifiche dei due operatori e sulla definizione dello Sc.[AN.] come sostituto, peraltro facendone discendere la titolarità in capo al Le.[JO.] di doveri di alta vigilanza la cui fonte non è invero adeguatamente motivata.
A tal riguardo è opportuno rimarcare che dalla titolarità di un ruolo discendono poteri e doveri, il cui mancato esercizio e adempimento può determinare responsabilità. Ma ciò presuppone, appunto, che il conferimento di quei poteri e quindi dei doveri sia effettivo; le stesse responsabilità si modellano sull'ampiezza di quei poteri quando effettivi. La giurisprudenza di legittimità, nella tensione verso la migliore applicazione del principio che vuole la responsabilità penale ammissibile solo per il fatto proprio colpevole, ha già statuito che nelle organizzazione societarie complesse possono assumere posizioni di garanzia anche i componenti del comitato esecutivo (c.d. "board"), ove sia ravvisabile la loro reale partecipazione ai processi decisori, cioè la loro ingerenza nelle scelte decisionali e nell'ambito operativo della società, nella specie con particolare riferimento alle condizioni di igiene e sicurezza del lavoro. Utile rammentare che nel caso di specie la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva assolto i componenti del comitato esecutivo di una società dal reato di omicidio colposo ai danni di lavoratori esposti ad amianto, sia perché il comitato non si era mai riunito, sia perché attribuzioni e poteri erano stati "di fatto, in modo sostanziale" delegati all'amministratore delegato e a determinati soggetti non componenti del comitato esecutivo né membri del consiglio d'amministrazione (Sez. 4, n. 55005 del 10/11/2017, Pg., Pc. in proc. Pesenti, Rv. 271719). Da tale principio si ricava una indicazione di valenza più generale, ovvero che la titolarità solo formale di un ruolo può determinare responsabilità concorsuale, ove si sia contribuito, anche schermando il reale assetto di poteri, alla commissione del reato da chi i poteri/doveri li ha di fatto; ma non una responsabilità monosoggettiva per il mancato esercizio di poteri che non si possiedono.
13.4. Da quanto appena esposto discende anche la fondatezza del decimo motivo. Con esso ci si duole che la Corte di appello abbia dichiarato estinti i reati di cui rispettivamente agli artt. 590 cod. pen. e 423, 449 cod. pen. perché prescritti laddove avrebbe dovuto, per le ragioni che si sono riportate, assolvere l'imputato nel merito.
Ad avviso di questa Corte deve trovare applicazione il principio secondo il quale nel caso di annullamento con rinvio, per difetto di motivazione rafforzata, della sentenza di appello che condanna l'imputato in riforma di quella assolutoria di primo grado, la declaratoria di estinzione del reato conseguente alla prescrizione nel frattempo maturata non prevale sul proscioglimento dell'imputato nel merito, atteso che detta declaratoria postula un'attività meramente ricognitiva del compendio probatorio, preclusa dal rinvio disposto dalla Corte di cassazione proprio sul presupposto della necessità di ulteriori verifiche (Sez. 1, N. 15524 del 06/03/2018, Rv. 272613 - 01; conforme Sez. 2 -, N. 18182 del 06/02/2020, Rv. 279431 - 01, secondo la quale, nella medesima ipotesi, la declaratoria di estinzione del reato conseguente alla prescrizione nel frattempo maturata non prevale sul giudizio di assoluzione dell'imputato nel merito, non adeguatamente confutato). Il caso all'odierno esame non è coincidente con quello considerato dalle due pronunce appena menzionate; per il Le.[JO.] la dichiarazione di estinzione dei reati è stata emessa dalla Corte di appello e non si è in presenza di un giudizio di rinvio. Tuttavia appare del tutto evidente l’analogia tra le due situazioni. Anche la pronuncia di improcedibilità della Corte di appello è stata emessa sul malfermo presupposto di una motivazione non rafforzata. D'altro canto, nella n. 15524/2018 è venuto in considerazione un caso nel quale la Corte di appello, sia pure giudicando in sede di rinvio, aveva dichiarato l'estinzione del reato per prescrizione rappresentando che non vi era l'evidenza della prova necessaria per il proscioglimento nel merito. La Corte di cassazione ha ritenuto che il ribaltamento del giudicato assolutorio di primo grado implicasse necessariamente una motivazione rafforzata e che, in mancanza di questo presupposto processuale, l'esito assolutorio non poteva essere vanificato dalla sopravvenuta prescrizione dei reati. Giungendo così a ritenere che «Sussiste la violazione del principio di diritto posto dalla Corte di cassazione (art. 627, comma terzo, cod. proc, pen.) nel caso in cui - annullata parzialmente la sentenza per illegittima e carente motivazione nella parte concernente l'attribuibilità soggettiva del reato - il giudice di rinvio affronti la questione, relativa alla parte annullata, solo incidentalmente, per giustificare il diniego di assoluzione nel merito, adottando le medesime argomentazioni in precedenza censurate dalla Corte e, quindi, applichi la prescrizione» (Sez. 1, n. 40386 del 16/09/2004, Fagan, Rv. 230620; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 5, n. 11946 dell'08/02/2005, Radosavljevic, Rv. 231709).
Tanto importa l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata anche in relazione alla declaratoria di estinzione dei menzionati reati per prescrizione; pertanto, dell'intera pronuncia.
13.5. Ciò posto, poiché il giudice del rinvio dovrà nuovamente esaminare il tema del ruolo in concreto attribuito al Le.[JO.], anche svolgendo i pertinenti approfondimenti probatori, risulta assorbito il motivo (sul quale peraltro si è sopra espressa una sintetica valutazione) con il quale si lamenta la violazione dell'obbligo di rinnovazione istruttoria di cui all'art. 603, co. 3-bis cod. proc, pen., in relazione alla diversa valutazione operata dai due Collegi del contributo dichiarativo offerto dal c.t. prof. Ton. (undicesimo motivo). Ma non meritano di essere esaminati neppure i restanti motivi, con i quali si censura l'affermazione dell'attribuibilità al Le.[JO.] di condotte omissive colpose (ottavo e nono) e la efficienza causale di queste (sesto). Il rinnovato accertamento in merito alla posizione di garanzia rifluisce sulla ampiezza dei compiti e quindi anche sulla identità delle omissioni riferibili al Le.[JO.], sulla relativa proiezione eziologica, sull'eventuale trattamento sanzionatorio (motivi dodicesimo e tredicesimo).

14. I ricorsi di KO.RA. e di LI.PE.
14.1. Al fine di evitare inutili ripetizioni si ritiene di dover trattare congiuntamente i ricorsi proposti da KO.RA. e LI.PE., che coincidono anche graficamente, salvo che in alcune limitatissime e non decisive proposizioni.
Il primo ed il secondo motivo di entrambi i ricorsi sono infondati e va respinta l'istanza di rimessione di questione pregiudiziale alla CGUE; le ragioni sono state esposte nei paragrafi 1 e 9 del Considerato in diritto.
14.2. Il terzo motivo di entrambi i ricorsi attiene alla definizione dei compiti dei ricorrenti e alla causalità della colpa agli stessi ascritta.
La fondamentale prospettazione dei ricorrenti è che la Corte di appello avrebbe posto a loro carico una generica strutturale carenza organizzativa nel mentre i deficit concretamente individuati nella organizzazione dei controlli non distruttivi presso la Ju***l sono stati dagli stessi giudici ritenuti privi di rilevanza causale. Così pure la mancata predisposizione e diramazione di istruzioni, la cui omissione sarebbe stata rimproverata 'ex se' e non per una valenza impeditiva dell'evento in concreto verificatosi riconoscibile alla condotta doverosa. In sostanza, i giudici distrettuali hanno dato atto che se l'esame UT fosse stato eseguito nel rispetto del manuale VPI vigente all'epoca dei fatti la cricca sarebbe stata rilevata; che se fossero state correttamente applicate le norme vigenti non si sarebbe proceduto all'esame MT e quindi l’assile non sarebbe risultato revisionato.
Si tratta di censure infondate, che utilizzano un argomento che trova ampio spazio anche nei ricorsi di altri imputati. Argomento che potrebbe stilizzarsi come segue: se l'operatore avesse rispettato la normativa tecnica l'evento non si sarebbe verificato; pertanto, i 'generici' deficit organizzativi riferibili alle figure dirigenziali non hanno avuto rilievo causale. Si tratta di una prospettazione che utilizza un artificio verbale (indicare come 'generici' i deficit organizzativi) e manca di considerare la relazione che i giudici di merito hanno individuato tra l'errore esecutivo ed il deficit organizzativo strutturale.
Ma è opportuno andare per gradi.
I ricorrenti non contestano la titolarità del ruolo loro attribuito dai giudici di merito: il Ko.[RA.] è stato individuato quale Amministratore delegato di G***x Rail Germania, proprietaria della Ju***l Waggon, della quale egli era peraltro Direttore generale; il Li.[PE.] è stato accertato essere Responsabile del Team di gestione della manutenzione della flotta carri di G***x Rail Germania. Neppure è contestata la circostanza che in ragione di tali ruoli ciascuno era tenuto a emanare istruzioni tecniche (TFA) nell'ambito di più complessivi compiti di organizzazione.
Inoltre, non è censurato l'impianto motivazionale posto a sostegno del giudizio sull'esistenza di gravi carenze organizzative connotanti l'operatività presso l'officina Ju***l.
Ciò posto, i giudici di merito hanno in primo luogo ritenuto che già prima del sinistro viareggino fossero disponibili informazioni attinenti la vulnerabilità dei processi di manutenzione; esse erano contenute in quanto segnalato dall'Autorità federale Eba con l'ordinanza del 10.7.2007. Con essa era stato richiesto anche di perfezionare le procedure di ricognizione delle sale e di controllo della corrosione della supeR***Icie degli assili e delle anomalie della verniciatura. La Corte di appello ha rimarcato il carattere 'aperto' delle disposizioni contenute nel manuale VPI, indicato da questo stesso laddove avverte che le proprie linee guida svolgono (solo) una funzione di supporto, restando il detentore dei carri responsabile di fornire le istruzioni di manutenzione all'officina dallo stesso incaricata. Detto altrimenti, in questo passaggio la Corte di appello ha evidenziato che restava doveroso per il detentore del carro adottare le regole tecniche/cautelari individuabili sulla scorta di quanto indicato dal patrimonio di esperienze e di tecniche disponibili al tempo; ovvero, per tradurre nel linguaggio della teoria della colpa, di quanto suggerito dai criteri della prevedibilità e della evitabilità e consolidatosi nel settore, andando oltre quanto richiesto - ma solo in funzione di generale orientamento - dal manuale VPI.
Quali misure si fossero consolidate è esposto dalla Corte di appello con particolare dettaglio, facendo riferimento al contenuto prescrittivo di quattro TFA emesse dopo il sinistro di Viareggio.
La Corte distrettuale, come già il Tribunale, è stata consapevole della necessità di accertare che simili misure fossero acquisite al patrimonio di conoscenze dei detentori e degli operatori della manutenzione dei carri già al tempo del controllo del 28.11.2008. Al riguardo, oltre ad evidenziare che già l'ordinanza EBA del 2007 "aveva indicato i pericoli di un sistema manutentivo che non assicurava ... procedimenti idonei ad accertare l'eventuale esistenza di difetti rilevanti per la sicurezza", i giudici di merito hanno esposto che grazie allo studio dei sinistri ferroviari verificatisi in passato, già prima dei fatti di Viareggio, si conosceva la ricorrenza di fratture degli assili dovute a corrosione non individuate attraverso i cicli manutentivi (sul tema ci si intratterrà diffusamente nel paragrafo 19, con considerazioni che valgono anche ad integrazione di quanto qui esposto).
Di qui la responsabilità dei ricorrenti, che nei rispettivi ruoli avevano il potere- dovere di emanare le istruzioni necessarie ad implementare nell'organizzazione dei CND di Ju***l quelle regole tecniche a funzione cautelare suggerite dalla conoscenza.
Ben diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, le misure in parola non attenevano genericamente all'organizzazione delle operazioni di manutenzione ma miravano specificamente al rischio che difetti degli assili sfuggissero ad esse, con la conseguenza di un loro utilizzo. Infatti, esse erano costituite:
1) da una più articolata classificazione degli assili, non limitata alle classi indicate con le sigle WO e W1, per dare evidenza a condizioni degli assili non riconducibili all'alternativa 'assenza di difetti' (W0)- 'presenza di alveoli di corrosione' trattabili localmente in modo meccanico (W1); in particolare permettendo di avere informazioni più specifiche in merito alla localizzazione e alle caratteristiche delle tracce di corrosione e, in presenza di condizioni determinate, di scartare le sale o di sottoporle ad un più approfondito controllo;
2) dall'esecuzione del controllo visivo degli assili ad ogni ingresso in officina e dalla revisione della sala in presenza di qualsiasi danno meccanico o da corrosione supeR***Iciale o anche solo del rivestimento;
3) dall'estensione all'intero assile dell'esame magnetoscopico previsto nella revisione di livello IS2;
4) dalla registrazione e conservazione di informazioni molto (più) dettagliate in merito alle manutenzioni effettuate in passato sulla sala e a quelle eseguite.
Ne discende che la condotta doverosa per coloro che avevano il compito di organizzare l'attività di manutenzione presso l'officina era quella di adottare simili misure e vigilare sulla loro attuazione.
I ricorrenti sostengono che la classificazione, sia che conducesse allo scarto dell'assile (classe 4) o piuttosto all'obbligo di sottoporlo a controllo visivo (classe 3), non avrebbe avuto incidenza causale perché tali obblighi, anche per la Corte di appello, erano già sussistenti; ciò varrebbe anche a riguardo della istruzione di eseguire il controllo MT sull'intero assile. Pertanto, la diversa affermazione fatta dalla Corte di appello risulterebbe illogica.
Orbene, già con l'atto di appello era stato segnalato al giudice dell'impugnazione che la classificazione, con il relativo effetto, posta con le TFA era in realtà già deducibile da regole di trattamento degli assili contenute nel Manuale VPI 04 prima che, nel settembre 2009, fossero emesse, in attuazione della circolare VPI n. 12/2009 del 27.8.2009, le TFA in parola. La Corte di appello ha escluso che la deduzione avesse un qualche fondamento, dando puntuale conto del perché la previsione di due (e non quattro) classi di difetti nel Manuale VPI e le relative prescrizioni non corrispondessero a quelle emerse con le successive TFA.
L'assunto dei ricorrenti è pertanto infondato.
Quanto alla relazione tra il mancato approntamento di quanto richiedevano le conoscenze di settore e la condotta dei singoli operatori nell'ambito dei CND, la Corte di appello ha esplicitamente affermato che le condizioni dell'assile, valutate alla luce della classificazione in quattro classi, avrebbe determinato una sua riconduzione alla categoria 4, con conseguente non revisionabilità dell'assile e scarto dello stesso. Con il che è stato descritto proprio quel comportamento in concreto idoneo a far eseguire i CND nel rispetto delle pertinenti norme cautelari che i ricorrenti lamentano esser stati erroneamente individuati in capo ad essi. Quei CND avrebbero avuto un esito diverso dall'attestazione di assenza di difetti dell'assile.
Tanto permette di operare una precisazione, sollecitata da specifico rilievo difensivo. L'affermazione della Corte di appello secondo la quale "disposizioni come quelle in tema di classificazione delle sale sulla base dei difetti e di esame magnetoscopico esteso all'intero assile - avrebbero avuto un rilievo decisivo nel definire più precise e sicure modalità di esecuzione della manutenzione dell'assile e in tal modo impedire le negligenze e omissioni degli operatori dell'officina" è stata censurata come dimostrativa di un carente accertamento della causalità della colpa. In realtà si è in presenza di una formula di sintesi, se si vuole non particolarmente felice, che non può essere letta isolata dall'intero contesto motivazionale. Con essa si è voluto significare che la classificazione delle sale avrebbe impedito al Kr.[UW.] di validare il controllo con esito positivo perché alla luce di quella avrebbe avviato l’assile verso lo scarto (ed il punto non è contestato dai ricorrenti); che l'esame magnetoscopico dell'intero corpo dell'assile avrebbe permesso al Br.[HE.] di rilevare la presenza della cricca.
14.3. Del tutto infondato il rilievo che chiama in causa le assoluzioni del Ko.[Uw.], responsabile di officina, del Carl., direttore di stabilimento, del Bart., responsabile della produzione.
Il Tribunale aveva assolto il Carl. rilevando che nel documento che ne definiva i compiti non ne erano indicati di attinenti al settore dei CND, se non per la nomina del supervisore. E con riguardo a tal ultimo aspetto, il Tribunale aveva esaminato anche l'ipotesi di una culpa in eligendo e quella di una indiretta attribuzione di poteri di controllo sulle operazioni tecniche non distruttive, escludendone la ricorrenza.
Per ciò che concerne il Bart., egli è stato ritenuto estraneo al settore dei CND, come tale privo di poteri incidenti sull'organizzazione di esso e/o sull'esecuzione delle operazioni.
Il Ko.[Uw.], invece, era stato condannato dal Tribunale ma è stato assolto dalla Corte di appello, ancora una volta perché ritenuto privo di competenze a riguardo delle operazioni di controllo non distruttivo delle sale.
Non vi è quindi alcuna coincidenza tra quelle posizioni ed i ruoli rispettivamente assunti dal Ko.[RA.] e dal Li.[PE.].
Quanto agli effetti di tali assoluzioni sulla responsabilità di tal ultimi ricorrenti, ai quali - fa osservare la difesa - era stato rimproverato di aver consentito ed avallato le omissioni del Carl., del Bart. e del Ko.[Uw.], è sufficiente considerare che la contestazione mossa al Ko.[RA.] e al Li.[PE.] non si esaurisce in quanto evidenziato con i ricorsi. In primo luogo, è stato rimproverato al Ko.[RA.] anche di aver consentito ed avallato le omissioni del Li.[PE.], che sono state ritenute sussistenti; in secondo luogo, l'addebito ha una estensione ben maggiore, venendo rimproverato, come si è ampiamente scritto, anche di aver omesso di emanare le istruzioni tecniche in materia di manutenzioni, ovvero le TFA, e in tal modo aver permesso che la sala risultasse revisionata dopo i controlli UT ed MT.
14.4. Anche il quarto motivo dei ricorsi in esame è infondato. Posto in disparte il rinnovato rilievo in merito alla capacità impeditiva del comportamento alternativo lecito che si è rimproverato al Ko.[RA.] e al Li.[PE.] di non aver tenuto, perché ampiamente esaminato al precedente punto, la deduzione difensiva si incentra sulla prospettata necessità che i doveri di tali imputati fossero attivati solo in forza di segnalazione da altri fatta. Si tratta di tesi che non considera come la Corte di appello - e già il Tribunale - abbia rimarcato l'elevato grado di competenza e di esperienza nel settore della manutenzione dei carri ferroviari per il trasporto di merci del Ko.[RA.] - estensore delle norme VPI - e del Li.[PE.] - come il primo componente del gruppo di lavoro collettivo dell'associazione VPI che aveva esaminato le problematiche tecniche disciplinate nel manuale - ed il valore intrinseco dei fatti segnalati e delle indicazioni operative date dall'ordinanza EBA del 2007. Pertanto, in modo non manifestamente illogico i giudici di merito hanno ritenuto che essi avrebbero potuto riconoscere autonomamente l'inadeguatezza delle prassi operative osservate presso la Ju***l e quindi attivarsi.
14.5. Il quinto motivo dei ricorsi è fondato.
Ai ricorrenti è stata attribuita la violazione dell'art. 8 d.lgs. n. 162/2007, degli artt. 2043, 2050, 2087 c.c., dell'art. 18, co. 1 lett. q) e 23, co. 1, in relazione all'All. V Parte I § 3.2. d.lgs. n. 81/2008, nonché la violazione di generiche regole di diligenza, imperizia, l'inosservanza di discipline e di riconosciute regole della tecnica.
Come si è già scritto, né l'art. 2043 né l'art. 2050 c.c. sono norme in materia di prevenzione degli infortuni; lo è l'art. 2087 c.c., ma esso pone una competenza che si radica unicamente in capo al datore di lavoro e che trova origine e ambito di esercizio nell'organizzazione sulla quale egli ha poteri dispositivi.
Anche della portata precettiva dell'art. 18, co. 1 lett. q) d.lgs. n. 81/2008 si è già scritto; la sua errata interpretazione ha condotto a non indicare nelle contestazioni e a non fare oggetto di accertamento processuale le misure tecniche che, volte a fronteggiare il rischio lavorativo ai quali erano esposti i lavoratori della G***x Rail Germania, avrebbero dovuto ritenersi produttive di danni alla salute della popolazione o all'ambiente esterno ai luoghi di lavoro di quella società.
Per ciò che concerne l'art. 23 d.lgs. n. 81/2008, in questa sede è sufficiente rilevare che la società G***x Rail Germania non può qualificarsi come fornitrice dell'assile, essendone proprietario G***x Rail Austria.
Pertanto, non è necessario affrontare in questa sede il tema dell'essere o meno il carro attrezzatura di lavoro.
Da quanto sin qui espresso consegue la insussistenza dell'aggravante di cui V all'art. 589, co. 2 cod. pen. Ulteriore conseguenza è l'estinzione dei reati di omicidio colposo contestati al Ko.[RA.] al capo 67 e al Li.[PE.] al capo 70, per decorso del relativo termine di prescrizione.
Ne deriva, altresì, che limitatamente a tali reati la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, mentre i ricorsi vanno rigettati agli effetti civili (valendo quanto sin qui esposto anche quale adempimento della prescrizione di cui all'art. 578 cod. proc, pen.); e vanno rigettati ad ogni effetto quanto al reato di disastro ferroviario colposo. L'annullamento parziale impone la necessità di ridefinire il trattamento sanzionatorio; compito che non può essere svolto da questa Corte, involgendo valutazioni di merito che le sono sottratte. Va quindi disposta la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Firenze per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio conseguente alle statuizioni qui date.
14.6. Il sesto ed il settimo motivo, concernenti l'entità della pena e la negazione delle attenuanti generiche, restano assorbiti, dovendo essere nuovamente valutato, alla luce del disposto annullamento, il tema della pena da infliggersi.

15. Il ricorso di MA.RO.
15.1. Il primo motivo attiene al tema della violazione del principio di precostituzione del giudice, con riferimento all'assegnazione del processo al Collegio III del Tribunale di Lucca; per quanto più essenziale nell'argomentazione, esso non è articolato in termini sostanzialmente dissimili da quelli utilizzati nei ricorsi già esaminati e pertanto trova risposta in quanto si è esplicitato nel paragrafo 1. Il motivo è quindi infondato.
15.2. Con il secondo motivo si lamenta che "la sentenza appare ... contraria alle direttive UE relative alla libera circolazione delle merci e dei servizi in ambito ferroviario, nonché delle disposizioni del TFUE in materia di libera circolazione delle merci, libera prestazione dei servizi e libertà di stabilimento". Ciò in quanto applicherebbe parametri di valutazione della condotta italiani piuttosto che della legislazione austriaca. Alla censura è associata l'istanza di remissione di questione pregiudiziale alla Corte di giustizia UE ai sensi dell'art. 267 TFUE.
Non è necessario soffermarsi sul carattere generico della prospettazione, che neppure individua le norme nazionali che si porrebbero in contrasto con la disciplina comunitaria, peraltro essa stessa evocata in modo del tutto generico.
In merito alla richiesta di rimessione di questione pregiudiziale alla CGUE, si sono già esposte al paragrafo 9 le ragioni per le quali questa Corte reputa non necessario interpellare il giudice eurounitario.
15.3. Ragioni di economia della presente motivazione rendono opportuno un esame unitario del terzo e del quarto motivo. Essi sono infondati.
Con il terzo motivo si censura il giudizio espresso dalla Corte di appello in merito alla titolarità da parte del Ma.[RO.] di una posizione di garanzia che lo rendeva competente a gestire (rectius\ a controllare) tanto la manutenzione dei carri cisterna che quella delle sale. Un primo assunto del ricorrente è che le due attività di manutenzione siano distinte tra loro, che ciò sia stato riconosciuto anche dai Collegi territoriali e che sarebbe quindi "travolta sul piano della coerenza logica" l'affermazione di responsabilità del Ma.[RO.] per aver scelto di utilizzare per il noleggio un componente di un proprio carro revisionato da un'officina che non garantiva la qualità della manutenzione.
In sostanza, il ricorrente ha inteso sostenere che il 'controllo cisterne', pacificamente nella responsabilità del Ma.[RO.], non comprendesse il controllo delle sale montate.
L'affermazione contrasta con quanto ritenuto dal Tribunale, che ha individuato il Ma.[RO.] come responsabile della "manutenzione flotta carri merci" della G***x Rail Austria GmbH e quindi di "tutto il sistema di manutenzione dei carri", senza alcuna distinzione delle diverse componenti degli stessi, ed anzi esplicitamente sostenendo che il Ma.[RO.] era "tenuto ad organizzare un adeguato sistema di manutenzione dei carri e delle sottostrutture". Tali affermazioni non sono state investite dall'appello, che ha fatto perno sull'estraneità del Ma.[RO.] alla selezione dell'officina e alla gestione della revisione dell'assile fatta nel novembre 2008, nonché sulla mancanza di poteri di intervento sull'organizzazione del sistema di manutenzione adottato nell'ambito delle società europee del gruppo G***x.
D'altro canto, che il ricorrente non si occupasse anche della manutenzione delle sale montate non è apertamente affermato neppure con il ricorso, nel quale ci si limita a segnalare che manutenzione delle cisterne è cosa diversa dalla manutenzione delle sale montate. A tal proposito, non vi è alcuna contraddizione tra quanto scritto dalla Corte di appello, gli elementi di prova rappresentati dalle dichiarazioni del prof. Ton. e quanto affermato dal Tribunale di Lucca e in definitiva dalla stessa Corte territoriale; non vi è diverso avviso quanto alla differenza tra assili e cisterne e alla diversità dei cicli di manutenzione previsti per gli uni e per le altre.
Un ulteriore rilievo attiene al tema della incompetenza territoriale del Ma.[RO.] rispetto alle attività di manutenzione condotta presso la Ju***l. L'argomento è stato puntualmente analizzato dalla Corte di appello, che quindi non può essere censurata per non averlo considerato. In realtà, il rilievo sollevato al riguardo dal ricorrente omette di confrontarsi con la motivazione impugnata, che richiamando le sue qualità di direttore tecnico di G***x Rail Austria GmbH, di referente del Maintenance Management Team, di responsabile per l'assistenza nella manutenzione periodica di tutti i carri G***x, ha ritenuto che "al di là delle competenze attribuite agli MMT, su base territoriale, egli aveva certamente un dovere di vigilanza sull'operato di questi ultimi e di verifica della correttezza degli interventi manutentivi effettuati dalle officine esterne a G***x Rail Austria e in particolare della qualità della manutenzione delle cisterne di proprietà della società stessa" (cfr. p. 591; dove, come nel seguito si chiarisce, per cisterna si allude al complesso carro-cisterna).
Diversamente da quanto ha esposto il ricorrente, la circostanza che la Corte di appello abbia ritenuto privi di poteri impeditivi soggetti intranei all'organizzazione della Ju***l non rende ex se illogica l'affermazione di responsabilità del Ma.[RO.], che a quella organizzazione era esterno. La corte territoriale ha spiegato perché il Ma.[RO.] avrebbe dovuto occuparsi dei processi manutentivi condotti presso la Ju***l pur non essendo interno all'organigramma di questa. Escluso che egli potesse modificare il sistema di gestione dell'attività manutentiva unitario per tutte le società del gruppo a livello europeo, la Corte di appello ha posto a carico del Ma.[RO.] di aver omesso di rilevare le carenze strutturali dell'organizzazione delle attività di manutenzione corrente presso la Ju***l, assumendo che proprio la rilevazione di simili deficit era nei suoi compiti e che una sua segnalazione ai titolari dei poteri decisionali in G***x Rail Austria avrebbe permesso di adottare i necessari correttivi, puntualmente indicati dalla corte distrettuale. In particolare, ad avviso della Corte di appello con il contratto di noleggio la società austriaca aveva assunto l'obbligo di garantire la conformità a sicurezza del carro e dei suoi componenti; in ragione del ruolo attribuitogli nell'organizzazione del gruppo, il Ma.[RO.] era il soggetto che doveva garantire tale conformità per il profilo della manutenzione. Tanto imponeva di verificare che la manutenzione venisse eseguita presso un'officina in possesso delle necessarie autorizzazioni ed organizzata in modo da garantire la affidabilità dell'attività svolta. Quale responsabile del Team di gestione della manutenzione di G***x Rail Austria il Ma.[RO.] invece era a conoscenza del fatto che i controlli eseguiti dal Team presso la Ju***l erano meramente formali ("non comportavano l'effettivo accertamento ... della corretta esecuzione delle operazioni.non si eseguivano controlli sulle modalità operative effettivamente seguite, sulla qualità delle strumentazioni, sui certificati di calibratura). Egli era quindi colpevolmente all'oscuro della reale qualità della manutenzione svolta presso la Ju***l.
In conclusione, il Ma.[RO.] era chiamato dalle sue funzioni a concorrere perché fosse noleggiato un carro cisterna privo di difetti che pregiudicassero la sicurezza del suo utilizzo; quindi, a verificare che il carro cisterna da noleggiare fosse stato correttamente manutenuto. Verifica da compiere accertandosi che l'officina presso la quale erano state eseguite le attività di manutenzione fosse dotata dei titoli abilitativi necessari ed organizzata secondo standard di qualità riconosciuti come adeguati. Il Ma.[RO.] non aveva compiuta tale verifica.
Come è agevole osservare, la Corte di appello ha dedicato ampio spazio alla illustrazione delle ragioni per le quali la 'lontananza' del Ma.[RO.] dall'organigramma della Ju***l non ne escludesse il coinvolgimento; la motivazione resa non presenta alcun profilo di manifesta illogicità, che peraltro non può derivare ex se dalle valutazioni operate a riguardo delle posizioni degli altri imputati indicati nel ricorso.
15. 4. Quanto alla rilevanza causale delle criticità delle quali avrebbe dovuto farsi carico il Ma.[RO.], ad avviso di questa Corte gli esponenti adottano una prospettiva non condivisibile, poiché pongono il tema della causalità della colpa come se la valenza impeditiva del comportamento alternativo lecito dovesse riguardare una o più delle condotte pure ritenute causalmente rilevanti. Più specificamente, come se la causalità della condotta colposa del Ma.[RO.] dovesse essere affermata solo a condizione che essa avrebbe evitato le negligenze del Kr.[UW.] e/o del Br.[HE.], dello Sc.[AN.] e così seguitando.
In realtà l'efficienza causale va riscontrata rispetto all'evento quale elemento costitutivo del reato; ed essa può sussistere sia perché la condotta in esame interviene come fattore causale di una ulteriore condotta più direttamente causa dell'evento tipico, sia perché di quest'ultimo essa è diretto antecedente. In una catena causale composta da più anelli il ruolo eziologico può essere esercitato a monte e a valle di ciascun anello intermedio tra il primo e l'evento. Con ciò si vuol sostenere che la capacità impeditiva della condotta doverosa pretesa dal Ma.[RO.] non andava verificata necessariamente in rapporto alle condotte del Kr.[UW.], del Br.[HE.] e degli altri operatori all'interno della officina di manutenzione. Anzi, poiché la condotta del Ma.[RO.] è delineata come cronologicamente e funzionalmente successiva all'operato degli stessi, non può essere logicamente investigata una sua capacità impeditiva delle loro condotte. Va nuovamente rammentato che al Ma.[RO.] è rimproverato di non aver verificato che il carro noleggiato provenisse da officina che assicurava adeguati standard di qualità dei processi manutentivi, ritenendosi che se avesse operato tale controllo il carro non sarebbe stato noleggiato, con la conseguenza che il sinistro di Viareggio non si sarebbe verificato. Pertanto, è priva di reale capacità critica la censura del ricorrente secondo la quale la Corte di appello avrebbe ritenuto la efficienza causale della omessa rilevazione di criticità del processo manutentivo che essa stessa indica come non aventi rilievo causale rispetto alla mancata detenzione della cricca (mancanza di autorizzazione, vetustà delle apparecchiature, mancanza di documentazione della storia manutentiva dell'assile e assenza dei piani di prova). Nell'impostazione della Corte di appello non si è trattato di verificare se il Ma.[RO.] fosse stato in grado di intervenire in modo che il controllo presso la Ju***l fosse eseguito correttamente (la Corte di appello ha espressamente escluso che tale fosse il nucleo del rimprovero); ma di verificare se il suo corretto attivarsi nel controllo della affidabilità della Ju***l avrebbe condotto a non noleggiare il carro avente l'assile difettoso.
Proprio sul distorcente presupposto della necessità, ai fini del giudizio di responsabilità, che venga accertata l'idoneità del comportamento del Ma.[RO.] di evitare gli errori dei manutentori della Ju***l, il ricorrente ha in modo infondato evocato i giudizi espressi a riguardo degli imputati condannati e quelli conducenti alle assoluzioni del Carl., del Bart. e del Ko.[Uw.].
15. 5. Il quinto motivo è fondato, nei termini di seguito precisati.
Tenuto presente quanto si è già esposto al paragrafo 3, il dato decisivo nella valutazione della censura posta con il ricorso del Ma.[RO.] concerne l'estraneità al medesimo della qualità di fornitore/noleggiante.
Il contratto di noleggio del carro merci risulta stipulato tra FLog*** s.p.a. e G***x Raul Austria GmbH; la società austriaca è quindi certamente da qualificarsi come noleggiante. Ma trattandosi di persona giuridica i relativi atti vanno ricondotti ai soggetti che hanno poteri di rappresentanza legale della società e ai titolari dei poteri di decisione la cui esplicazione si è concretizzata nell'atto in questione.
Nel caso di specie si tratta del Ma.[JO.], del quale è stata accertata la veste di amministratore di G***x Rail Austria GmbH ed è quindi egli il destinatario della previsione di cui all'art. 23 d.lgs. n. 81/2008.
Con il che va escluso che la condotta colposa del Ma.[RO.], assunta dalle contestazioni come autonoma e non avvinta da nesso di cooperazione colposa con quella del Ma.[JO.] (o di altro imputato) possa essere ritenuta aggravata per il fatto di essersi concretizzata nella violazione di norme per la prevenzione degli infortuni.
15.1. Ulteriore conseguenza che deve constatarsi è l'estinzione dei reati di omicidio colposo contestati al Ma.[RO.] al capo 73, per prescrizione. Ne deriva che, limitatamente a tali reati, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, mentre il ricorso va rigettato agli effetti civili (valendo quanto sin qui esposto anche quale adempimento della prescrizione di cui all'art. 578 cod. proc. pen.); e va rigettato ad ogni effetto quanto al reato di disastro ferroviario colposo. L'annullamento parziale impone la necessità di ridefinire il trattamento sanzionatorio; compito che non può essere svolto da questa Corte, involgendo valutazioni di merito che le sono sottratte. Va quindi disposta la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Firenze per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio conseguente alle statuizioni qui date.
15.2. Il sesto ed il settimo motivo, concernenti l'entità della pena e la negazione delle attenuanti generiche, restano assorbiti, dovendo essere nuovamente valutato, alla luce del disposto annullamento, il tema della pena da infliggersi.

16. Il ricorso di MA.JO.
16.1. Il primo ed il secondo motivo, quest'ultimo associato alla richiesta di remissione di questione pregiudiziale alla Corte di giustizia UE ai sensi dell'art. 267 TFUE hanno trovato risposta nella trattazione comune fattane rispettivamente ai paragrafi 1 e 9. Si tratta quindi di motivi infondati e di richiesta che non va accolta.
16.2. Assume priorità logica il quarto motivo. Esso è infondato. Gli esponenti prospettano che la Corte di appello, a dispetto della premessa posta, ha fondato l'affermazione di responsabilità del Ma.[JO.] sulla qualità di amministratore di fatto di G***x Rail Germania GbmH, che gli sarebbe derivata dall'essere amministratore di diritto di una holding di fatto.
Giova riepilogare gli assunti dei giudici di merito quanto alle posizioni ricoperte dal Ma.[JO.] nelle società europee del gruppo G***x (facenti capo a G***x Corporation, avente sede a Chicago) al tempo che rileva ai fini di causa.
La Corte di appello ha rammentato che, all'epoca dei fatti, il Ma.[JO.] era amministratore di diritto sia di G***x Rail Austria che di G***x Rail Germania (in particolare, in quest'ultima condivideva il ruolo con altro soggetto) ma che dal compendio probatorio è emerso che la posizione di amministratore di G***x Rail Austria rendeva vertice amministrativo anche di una struttura organizzativa operante a livello europeo, rappresentata all'esterno come G***x Rail Europe, ma non realmente formalizzata come holding. In altri termini, le società del gruppo G***x operavano come controllate dalla società capogruppo G***x Rail Austria, che svolgeva tanto funzioni direttamente operative che funzioni sostanziali di holding (l'atto costitutivo la deputava anche ad "acquisire e detenere partecipazioni in altre società e imprese, rispetto alle quali assumerà funzioni di holding"). Il Ma.[JO.] risultava essere il vertice amministrativo del sistema unitario comprensivo delle diverse società europee di tale gruppo (G***x Austria, G***x Germania e G***x Polonia, oltre le società, come la Ju***l, delle quali esse erano proprietarie), in quanto unico vertice amministrativo di G***x Rail Austria (la analitica esplicazione degli elementi di prova conducenti a collocare tale Feindert in posizione sottordinata al Ma.[JO.] nell'ambito di G***x Austria non è stata oggetto di rilievi da parte del ricorrente).
In tale ruolo, per quanto delineato dallo stesso Manuale di Gestione della Qualità di G***x, al medesimo spettavano compiti di intervento e vigilanza anche nel settore della manutenzione svolta dalle tre società G***x Rail europee, dai quali discendeva "la eliminazione delle carenze strutturali che sono state rilevate presso l'officina Ju***l".
A fronte di tale ricostruzione la difesa ha rilevato che in modo contraddittorio la Corte di appello ha dapprima negato che il ruolo del Ma.[JO.] di (co-)amministratore di diritto anche di G***x Rail Germania potesse fondare una responsabilità del medesimo, essendo rimasto tale ruolo estraneo alla contestazione, e poi giustificato il giudizio di condanna con l'affermazione che in ragione di quel ruolo l'imputato non solo era stato in condizione di conoscere i deficit strutturali dell'organizzazione delle attività di manutenzione svolte presso la Ju***l ma aveva avuto anche la effettiva possibilità di ovviare alle stesse; affermazione ulteriormente in contraddizione con l'altra, secondo la quale il compendio probatorio indicava che il Ma.[JO.], all'interno di G***x Germania, non era stato titolare di poteri che involgevano competenze tecniche, essendo questi posti in capo al co-amministratore.
Ne sarebbe derivato, secondo gli esponenti, un impianto motivazionale che «costruisce in capo all'attuale ricorrente Ma.[JO.] una figura di amministratore di fatto di quella medesima società (G***x Germania: ndr) non già fondata sull'esercizio in concreto delle attività proprie dell'amministratore di diritto, bensì sulla inedita forma di amministratore di diritto di una capogruppo di fatto». Ricostruzione per più aspetti infondata: perché possa ritenersi esistente un amministratore di fatto occorre che vengano esercitati in modo continuativo e significativo i poteri tipici dell'amministratore, mentre nella specie non era stata provata una simile ingerenza del Ma.[JO.] nelle attività tecnico-manutentive di competenza di G***x Germania; né tale ruolo può farsi discendere automaticamente dalla qualifica di amministratore della holding di fatto.
16.3. Ad avviso di questa Corte il tema va riconsiderato alla luce di una preliminare notazione. Come si è già scritto, il Ma.[JO.], quale amministratore di diritto della G***x Rail Austria, che noleggiò il carro alla Ca*** Che*** (e poi alla FLog***) e dispose l'invio a Ci***Ri*** e l'installazione dell'assile criccato sullo stesso, è la persona fisica alla quale compete la qualifica di fornitore. Alla luce di quanto si è esposto al superiore paragrafo 2, dovrebbe risultare sufficientemente chiaro che il Ma.[JO.], nella vicenda in esame, viene in considerazione per aver tenuto una condotta commissiva - la fornitura del carro e dei suoi componenti - connotata come colposa per non essere stata osservante delle prescrizioni cautelari volte a rendere sicuro l'oggetto fornito. Per usare le parole dell'imputazione, egli noleggiava il carro ancorché non correttamente manutenuto.
Va quindi escluso che ci si debba interrogare in ordine all'esistenza di poteri impeditivi facenti capo al Ma.[JO.]; piuttosto va verificato se egli era in condizione di tenere la dovuta condotta diligente. In questa prospettiva non è necessario che si posseggano poteri di intervento volti ad eliminare le condizioni (nella specie, organizzative) che rendono insicuro il bene fornito, essendo sufficiente la titolarità di poteri/doveri di conoscenza di tali condizioni, che rendano esigibile la condotta doverosa (fornire un bene prevedibilmente privo di difetti).
Sotto questo profilo, non costituisce fattore di una qualche rilevanza l'autonomia giuridica delle diverse società, che in astratto può rendere problematica la configurazione di poteri dispositivi in capo a soggetto che non ne sia il relativo amministratore ma non la possibilità di riconoscere la specifica situazione di rischio.
16.4. Dando concretezza a quanto sin qui esposto, va considerato che già con riferimento al ruolo di co-amministratore di G***x Rail Germania, la Corte di appello ha ritenuto che il Ma.[JO.] fosse in condizione di conoscere le carenze organizzative che caratterizzavano le attività manutentive presso la Ju***l.
Dato atto che al Ma.[JO.] erano attribuiti, in G***x Rail Germania, essenzialmente poteri di indirizzo strategico, vendita, marketing, relazioni pubbliche, attività all'estero, rappresentanza interna al gruppo ed esterna, amministrazione e organizzazione gestione del personale, finanza e controllo, contabilità informatica, mentre le competenze tecniche specifiche erano del co¬amministratore, la Corte di appello ne ha fatto discendere la possibilità di conoscere i deficit strutturali di Ju***l. Un'affermazione che non trova alcuna notazione critica nel ricorso.
A ciò può aggiungersi quanto dalla Corte di appello evidenziato della realtà delle relazioni correnti tra G***x Rail Austria e le altre società del gruppo, anche con specifico riferimento alle attività di manutenzione dei carri della flotta.
Al di là del fatto, già rammentato, che nello statuto di G***x Rail Austria era previsto, tra gli altri scopi sociali, quello di "acquisire e detenere partecipazioni in altre società e imprese, rispetto alle quali assumerà funzioni di holding", la corte distrettuale ha ritenuto accertato che al Ma.[JO.] facesse capo un'area di rischio che "comprendeva ... il controllo dell'organizzazione e del corretto svolgimento delle attività di manutenzione ..." svolte presso tutte le società del gruppo. Alla base di tale giudizio vi è quanto previsto dal Manuale di Gestione della Qualità di G***x Rail Austria, che, secondo la corte territoriale, attribuiva al Ma.[JO.] compiti di intervento e vigilanza anche nel settore della manutenzione svolte dalle tre società G***x Rail europee. Assunto che, a sua volta, trae origine da due premesse. In primo luogo, il predetto Manuale di Gestione della Qualità, nella parte disciplinante le procedure per la manutenzione del parco carri noleggiato prevedeva che la determinazione e l'attuazione di un intervento di manutenzione spettasse alla Divisione Tecnica, in collaborazione con la Divisione Vendite e la Divisione Amministrazione e che gli interventi di manutenzione programmati dovessero essere autorizzati dall'organo amministrativo in sede di approvazione del bilancio preventivo. In secondo luogo, la struttura delle relazioni tra le varie società, che ad avviso della Corte di appello era caratterizzata da "rapporti di effettiva interdipendenza di tipo gestionale" e dai poteri effettivamente esercitati daH'amministratore di G***x Rail Austria nei confronti delle altre società del gruppo.
Al proposito, la Corte di appello ha citato gli elementi di prova che dimostrano l'esistenza di fatto di una "unicità di sistema", le cui componenti erano appunto le società G***x europee: l'organigramma che venne fornito da G***x Rail Austria agli inquirenti; la testimonianza Diet., dalla quale si è tratto che tale società svolgeva di fatto funzioni di holding (oltre ad avere, secondo le parole del teste, "anche una responsabilità di tipo operativo, vale a dire gestiva quei dienti che avevano sede in Austria, oppure nei Paesi confinanti, che erano l'Italia, la Svizzera, l'Ungheria, ia Slovacchia etc. ... in più la G***x Rail Austria aveva anche una responsabilità tecnica nei confronti di quei carri che venivano mantenuti nelle aree di competenza geografica"), come dimostrato dalle regole di autorizzazione degli investimenti delle singole società: per quelli minori decidevano i direttori generali delle singole società ed il Ma.[JO.]; per gli investimenti medi decideva il Ma.[JO.], unitamente a due manager della G***x Corporation; per ì maggiori, solo i vertici di quest'ultima società; dai controlli di conformità delle singole società alle regole del gruppo e dall'esistenza di un unitario sistema informatico.
A tal ultimo riguardo, significativamente la Corte di appello ha osservato che fu proprio tramite tale sistema che vennero individuate da G***x Rail Austria le sale n.98331 e n.85890 come quelle da inviare a Ci***Ri*** in sostituzione delle due scartate in sede di revisione, sebbene esse si trovassero in Germania, appunto presso l'officina Ju***l, e dunque nell'ambito territoriale di competenza non di G***x Rail Austria ma di G***x Rail Germania.
Di sicura pertinenza anche la circostanza, pure richiamata dalla Corte di appello, per la quale fu G***x Rail Europe ad attribuirsi la decisione di anticipare di due anni la revisione della sottostruttura da parte della Ci***Ri***, l'indicazione a quest'ultima delle modalità con cui eseguire la revisione dell'intero carro e la messa a disposizione delle due sale revisionate presso la controllata Ju***l.
Prove, queste esibite dai giudici di merito, di direzione diretta del Ma.[JO.] dell'intero gruppo in quanto amministratore di una società, al contempo, immediatamente operativa nel settore del commercio dei carri ferroviari e svolgente funzioni di capogruppo.
Sulla scorta di quanto già espresso, non è necessario analizzare se i poteri posseduti e le concrete attività svolte dal Ma.[JO.] conferissero a questi il ruolo di amministratore di fatto delle società del gruppo. Secondo il corrente avviso giurisprudenziale, che contrae un forte debito con il menzionato art. 2639 c.c., la persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserita nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall'esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza (Sez. 1, Sentenza n. 4045 del 01/03/2016, Rv. 638756 - 01). La tematica sarà trattata estesamente esaminando i ricorsi del Mo.[MA.], quale amministratore di Fe***I*** s.p.a.; qui non occorre approfondirla per la sua irrilevanza ai fini della tenuta della motivazione relativa al Ma.[JO.].
Per quel che qui rileva, non vi è dubbio che quanto esposto dai giudici di merito delinea una posizione del Ma.[JO.] di sovraordinazione e di concreta direzione delle predette società, anche nello specifico settore delle attività manutentive, che rendeva certamente possibile, ed anzi doverosa, la conoscenza della esistenza di deficit strutturali di siffatte attività, tali da non rendere sicuro il bene fornito (carro e suoi componenti). La stessa Corte di appello ha ritenuto che il Ma.[JO.] avesse avuto "l'effettiva possibilità di conoscere le carenze ampiamente descritte nei capitoli precedenti, che avevano ad oggetto essenzialmente i deficit qualitativi, sia formali che sostanziali, della Ju***l Waggon GmbH nonché i deficit di documentazione e di tracciabilità dell'attività manutentiva svolta nelle varie società del 'gruppo' G***x (per l'insufficienza delle istruzioni tecniche adottate, per l'assenza di piani di prova a disposizione delle officine di revisione, per l'insufficienza di registrazione dell'attività manutentiva svolta)...".
16.4. Con il terzo motivo si pone fondamentalmente il tema della causalità della colpa del Ma.[JO.]. Si assume l'esistenza di un vizio della motivazione e della violazione degli artt. 40 cpv. e 43 cod. pen. perché la Corte di appello ha escluso che le omissioni ascritte al Ma.[JO.] abbiano avuto rilievo causale (scelta di un'officina di manutenzione priva di autorizzazione, ove si registrava "l'assenza di istruzioni tecniche adeguate emanate dei vertici societari; (e l')assenza di piani di prova per l'esecuzione dei controlli non distruttivi, (l')inadeguatezza del sistema di documentazione delle attività manutentive riferite a ciascun carro e ai suoi componenti"'), sicché le condotte asseritamente doverose non avrebbero avuto comunque effetto impeditivo.
Orbene, la motivazione resa dai giudici di merito a riguardo della rilevanza causale delle condotte riferite al Ma.[JO.] è stata ovviamente improntata dalla configurazione della condotta da questi tenuta come omissiva. La Corte di appello ha quindi ascritto al Ma.[JO.] di non aver provveduto affinché le carenze strutturali indicate nel capo di imputazione e relative all'officina Ju***l fossero eliminate (si legge a p. 587 che "egli aveva una precisa posizione di garanzia che lo obbligava ad evitare l'evento verificatosi, mediante l'eliminazione delle carenze strutturali che sono state rilevate presso l'officina Ju***l"-, mentre a p. 588 la corte distrettuale ha affermato che "l'effettiva possibilità di conoscere le carenze ... sono in concreto dimostrate dal fatto che ... era specificamente amministratore anche di G***x Rail Germania GmbH...”). Con pari evidenza, anche il giudizio causale va riconsiderato alla luce della natura commissiva della condotta ascritta al Ma.[JO.]. Egli fornì per colpa un carro un cui componente era difettoso nonostante la sottoposizione ad attività di manutenzione; circostanza resa possibile dalla carente organizzazione di tali attività.
Tali carenze non sono state genericamente affermate dalla Corte di appello ma sono state descritte esaminando le varie posizioni e sinteticamente richiamate per il Ma.[JO.]; nella logica dei giudici di merito si tratta di carenze che hanno permesso al Kr.[UW.], al Br.[HE.] e allo Sc.[AN.] di rilasciare una revisione positiva pur in presenza di cricca. Una corretta organizzazione avrebbe permesso di non pervenire a tale esito.
Senza tale antecedente il sinistro non si sarebbe verificato.
16.5. Il quinto motivo censura la ritenuta sussistenza dell'aggravante prevenzionistica e lo fa a partire dalla qualificazione dell'assile e del carro merci come attrezzatura di lavoro. L'argomentazione è duplice: a) l’assile è un singolo componente meccanico di un impianto e come tale si distingue dalla macchina nel senso che la sua rilevanza ai sensi dell'art. 69 del decreto legislativo 81 è esito di una modifica legislativa risalente al 2009 e pertanto successiva alla commissione del fatto; b) se si ritengono il carro e l’assile rispettivamente macchina e componente di essa, allora quello, in quanto mezzo di trasporto ferroviario, è espressamente escluso dal campo di applicazione della relativa direttiva comunitaria di prodotto, secondo quanto previsto all'articolo 70, comma 1 del decreto legislativo 81, in combinato con l'articolo 69 comma 1 lettera a) del medesimo decreto.
Orbene, al Ma.[JO.] viene attribuita la violazione dell'art. 23 d.lgs. n. 81/2008, in quanto fornitore di attrezzature di lavoro. Il che impone di tener conto di quanto previsto in primo luogo dall'art. 69 d.lgs. n. 81/2008, che pone la definizione di 'attrezzatura di lavoro' agli effetti dell'applicazione delle disposizioni recate dal Titolo III, ovvero di quelle disposizioni che indicano i requisiti di sicurezza (art. 70), gli obblighi del datore di lavoro (art. 71), quelli dei noleggiatori e dei concedenti in uso (art. 72), il particolare atteggiarsi dell'informazione, della formazione e dell'addestramento a riguardo delle attrezzature di lavoro (art. 73), oltre che delle disposizioni in tema di Dispostivi di protezione individuale (Capo II), di impianti ed apparecchiature elettriche (Capo III).
Allorquando l'art. 23, co. 1 afferma che "Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro'' non fa riferimento alla nozione di attrezzature di lavoro di cui all'art. 69 e neppure alle sole disposizioni che nel Titolo III sono dettate per le attrezzature di lavoro.
Tuttavia, la definizione data dall'art. 69, co. 1 lett. a) è talmente ampia che sembra difficile ipotizzare una nozione più estesa; si indicano, infatti, quali attrezzature di lavoro, "qualsiasi macchina, apparecchio, utensile o impianto, inteso come il complesso di macchine, attrezzature e componenti necessari all'attuazione di un processo produttivo, destinato ad essere usato durante il lavoro".
Per contro, il richiamo delle "disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro", in luogo di un più specifico riferimento alle disposizioni del Titolo III, lascia il dubbio che le attrezzature di lavoro fabbricate o fornite possano dover assicurare un più elevato standard di sicurezza, anche se definito da previsioni non comprese in quel Titolo. Il quale chiama in causa, per i requisiti di sicurezza, tanto le "specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto", alle quali le attrezzature di lavoro devono essere conformi, quanto i requisiti generali di sicurezza di cui all'Allegato V del d.lgs. n. 81/2008, ove si tratti di attrezzature di lavoro costruite in assenza di quelle disposizioni legislative e regolamentari (art. 70, co. 1 e 2).
Ciò posto, ritiene la Corte che non è condivisibile l'assunto secondo il quale il carro merci non costituisce attrezzatura di lavoro.
Reiterando un testo che già era contenuto nell'art. 34, co. 1 lett. a) d.lgs. n. 626/94, l'art. 69, co. 1 lett. a), come formulato dal d.lgs. n. 81/2008 prima delle modifiche recate dal d.lgs. n. 106/2009, definiva attrezzatura di lavoro "qualsiasi macchina, apparecchio, utensile od impianto destinato ad essere usato durante il lavoro".
Con il d.lgs. n. 106/2009 la lettera a) si è accresciuta di un periodo incidentale, con il quale si specifica cosa debba intendersi per'impianto': esso va "inteso come il complesso di macchine, attrezzature e componenti necessari all'attuazione di un processo", che come le altre cose ha destinazione ad essere utilizzato durante il lavoro.
Dal che si ricava:
a) che la specificazione non investe le nozioni di macchina, di apparecchio e di utensile;
c) che la macchina si distingue dall'impianto per essere una componente dello stesso.
Non è fondata l'affermazione della difesa secondo la quale l’assile, poiché singola componente di un impianto, avrebbe assunto rilevanza ex art. 69 solo a seguito della modifica recata dal d.lgs. n. 106/2009. Tale provvedimento ha soltanto inteso specificare la nozione di impianto, senza innovarla (si veda sul punto la Relazione illustrativa); sicché, anche ad ammettere che l’assile sia componente di un impianto, ciò sarebbe da ritenersi anche in rapporto alla previsione preesistente al d.lgs. n. 106/2009. Non solo; a ritenere che l’assile sia componente di un impianto dovrebbe ritenersi che il carro cisterna è l'impianto; con il che la sua annessione alla classe delle 'attrezzature di lavoro' sarebbe egualmente certa.
Questa Corte però ritiene che il carro cisterna sia una macchina, non avendo la complessa composizione che denota l'impianto; mentre la destinazione all'attuazione di un processo produttivo non appare fattore con reale idoneità discretiva, perché la stessa nozione di processo produttivo è estremamente vaga.
Accertata la riconducibilità sul piano nominale del carro merci alla nozione di macchina e quindi di attrezzatura di lavoro, anche l'ulteriore interpretazione sostenuta dalla difesa manca di persuasività.
Si prospetta, in definitiva, che dall'art. 70 si ricavino non già i requisiti di sicurezza che devono essere garantiti per le attrezzature di lavoro, bensì la nozione stessa di attrezzatura di lavoro; e che tal ultima nozione non ricomprende il carro merci.
Ciò perché l'art. 1, co. 5 lett. i) del d.p.r. n. 459/1996 - denominato Regolamento per l'attuazione delle Direttive 89\392\CEE, 91\368\CEE, 93\44\CEE e 93\68\CEE concernenti il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alle macchine - stabilisce che i carri ferroviari non ricadono nel proprio ambito di applicazione.
Risulta opportuna una sintetica ricognizione delle disposizioni pertinenti al tema.
La direttiva 89/392, prima direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alle macchine, escludeva dal proprio campo di applicazione "i mezzi di trasporto, vale a dire i veicoli ed i loro rimorchi destinati unicamente al trasporto di persone per via aerea oppure sulle reti stradali, ferroviarie oppure per via navigabile e i mezzi di trasporto, nella misura in cui sono concepiti per il trasporto di merci per via aerea oppure sulle reti stradali o ferroviarie pubbliche o per via navigabile".
La direttiva 98/37, preso atto che la 89/392 aveva subito varie modifiche, riformulò la normativa concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alle macchine, ribadendo tra l'altro l'esclusione dal proprio campo di applicazione dei "mezzi di trasporto, vale a dire i veicoli, ed i loro rimorchi, destinati unicamente al trasporto di persone per via aerea oppure sulle reti stradali, ferroviarie oppure per via navigabile e i mezzi di trasporto, nella misura in cui sono concepiti per il trasporto di merci per via aerea oppure sulle reti stradali o ferroviarie pubbliche..."
La direttiva 2006/42 ha inteso ricodificare le norme della direttiva 98/37 (e modificare la direttiva 1995/16 del Parlamento europeo e del Consiglio per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative agli ascensori); tra i considerando (6) si rileva specificamente che "a fini di certezza del diritto è necessario definire il campo d'applicazione della presente direttiva e i concetti relativi all'applicazione della medesima con la maggiore precisione possibile". In questo quadro l'art. 1, co. 2 lett. e) esclude dal campo di applicazione della direttiva i "mezzi di trasporto per via aerea, per via navigabile o su rete ferroviaria, escluse le macchine installate su tali veicoli".
Alla stregua di tali previsioni, che chiaramente escludono i mezzi di trasporto ferroviari dall'applicazione della direttiva di prodotto, risulta chiaro che per essi non si danno quelle "specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto" delle quali fa menzione il primo comma dell'art. 70.
Deve quindi trovare applicazione il comma 2 di tale articolo. Di diverso avviso la difesa, per la quale al carro merci ferroviario non potrebbe trovare applicazione quella previsione perché essa presupporrebbe una lacuna di disciplina che nel caso di specie non si rinviene.
L'assunto non è condivisibile, in primo luogo sul piano logico. Esso sembra sottintendere che l'art. 70, co. 2 escluda l'applicazione dell'All. V già solo che le attrezzature di lavoro siano state in un qualche modo considerate da una qualche direttiva di prodotto; ovvero, sarebbe sufficiente anche solo la loro menzione per escluderle dall'ambito di applicazione. Senonchè, la previsione della estraneità di talune attrezzature dall'ambito di applicazione di una direttiva di prodotto non equivale a disciplinarne i requisiti di sicurezza. La tesi pretende di ridurre ad identità A (disciplinare) e non A (non disciplinare).
In realtà l'art. 70, co. 2 considera le attrezzature di lavoro per le quali non sono state adottate direttive di prodotto; ovvero quelle per le quali non è stata dettata una disciplina. La previsione di non applicazione di una direttiva esita proprio nella assenza di una disciplina dettata da direttiva di prodotto, non già nella esistenza di una disciplina di matrice comunitaria e specifica per l'attrezzatura; è di tutta evidenza che l'esclusione dell'applicazione si concreta in assenza di disciplina, sì che si impone la necessità di dare applicazione alle norme dell'All. V del d.lgs. n. 81/2008.
Conferma ne viene anche dalla pronuncia di questa Corte nella quale si è escluso che le navi rientrino nell'ambito di applicazione del d.p.r. n. 459/1996. Poiché l'art. 1, comma 5 lett. I) di tale decreto include anche le navi tra le cose alle quali non trovano applicazione le disposizioni del d.p.r. medesimo, la Corte di cassazione ha concluso per l'inapplicabilità a tali mezzi di trasporto delle disposizioni recate dall’Allegato 1 lett. c) del citato decreto (Sez. 4, n. 18803 del 24.3.2014, n.m.).
Sgombrato il campo da simili rilievi, il dato che merita di essere evidenziato è che l'oggetto venduto, concesso in uso, noleggiato, fornito deve caratterizzarsi per essere un'attrezzatura di lavoro. La previsione ha la funzione di garantire al ricevente di avere un'attrezzatura di lavoro sicura.
L'art. 23 chiama il fornitore a garantire la sicurezza dell'attrezzatura di lavoro in quanto titolare di poteri di controllo su tale fonte di pericolo, che deve gestire in rapporto ai rischi prevedibili ed evitabili.
Pertanto, se nel caso del Ma.[JO.] il rapporto di fornitura si pone solo tra il proprietario del carro e la Ca*** Che*** (e poi la FLog***), per la quale il carro merci è macchina necessaria all'attuazione del processo produttivo, ciò che occorre accertare è che esso fosse o meno conforme ad una delle previsioni dell'Allegato V. Più precisamente, che sia stata correttamente interpretata la sola previsione dell'Allegato V citata nelle contestazioni elevate nei confronti del Ma.[JO.], ovvero il punto 3.2. della Parte Prima dell'Allegato V: "Nel caso in cui esistano rischi di spaccatura o di rottura di elementi mobili di un'attrezzatura di lavoro, tali da provocare seri pericoli per la sicurezza o la salute dei lavoratori, devono essere prese le misure di protezione appropriate".
I giudici di merito hanno interpretato la disposizione come se imponesse di adottare misure di prevenzione dei rischi di spaccatura o rottura di elementi mobili del carro cisterna, inteso quale attrezzatura di lavoro. Ben diversamente la disposizione impone l'adozione di misure di protezione. La differenza tra le due tipologie di misure si coglie già nella giustapposizione tra esse operata dal legislatore nel corpo del decreto 81/2008. Si menzionano le 'misure di protezione e di prevenzione" negli artt. 182, 194, 210; si indicano le "misure di prevenzione e di protezione" negli artt. 2, 26, 28, 30, 37, 50, 116, 181, 190, 191, 192. A dimostrare che non si tratta di un'endiadi viene la esplicita considerazione delle sole misure di protezione, individuali o collettive, fatta dagli artt. 15, 79, 111, 115, 148, 225, 272; e delle sole misure di prevenzione negli artt. 3, 6, 18, 26, 29, 50, 136. Si tratta di una elencazione neppure esaustiva.
Ma ben più significativa è la differenza concettuale tra le misure volte a prevenire il rischio e le misure che, per l'ipotesi che il rischio non sia eliminabile, mirano a ridurre gli effetti del loro concretizzarsi. Indicazioni in tal senso vengono ad esempio dall'art. 2 lett. n), per il quale la prevenzione è "il complesso delle disposizioni o misure necessarie ... per evitare o diminuire i rischi professionali...".
Come correttamente rilevato dal ricorrente, le misure di protezione attengono alla cd. prevenzione secondaria; non sono tese a minimizzare il rischio ma a ridurre le conseguenze del suo eventuale concretizzarsi.
In conclusione, le misure di protezione sono quelle misure che fronteggiano le conseguenze del rischio che si sia esplicato nonostante la messa in atto delle misure di prevenzione.
Alla luce di tale distinzione risulta palese che la disposizione in esame pone l'obbligo di adottare misure di protezione dei lavoratori atte ad attenuare le conseguenze pregiudizievoli dell'attualizzarsi del rischio di spaccatura o di rottura degli elementi mobili e non attiene alle misure di prevenzione che sono volte ad escludere o a ridurre tale rischio. Si consideri il testo della disposizione: esso non menziona il rischio prevedibile, in vista del quale devono adottarsi misure di eliminazione e, solo se ciò non è possibile, di attenuazione; ma indica il rischio esistente ("Nel caso in cui esistano rischi..."), ovvero quello che residua dopo l'attuazione delle misure di prevenzione.
Orbene, le misure organizzative per il settore delle manutenzioni dei carri merci e dei suoi componenti, così come le disposizioni tecniche che disciplinano la corretta esecuzione dei controlli non distruttivi e la loro supervisione, concretano misure volte a prevenire i rischi di frattura degli assili, non certo a porre rimedio, anche solo parziale, alle conseguenze di incidenti prodotti da fratture degli assili.
Ne deriva la non attinenza della disposizione in esame al novero delle regole cautelari violate dal Ma.[JO.]; il censimento di queste ne denuncia la destinazione alla prevenzione dei rischi connessi alla circolazione ferroviaria e non alla sicurezza del lavoro. Il giudizio di responsabilità del Ma.[JO.] consegue alla condotta attiva di fornitura di un carro che montava un assile criccato in ragione della scorretta organizzazione ed esecuzione dell'attività di manutenzione. La scorretta organizzazione caratterizza come colposa la condotta del Ma.[JO.], che di essa aveva la responsabilità.
16.6. Va quindi esclusa la ricorrenza della violazione di norme per la prevenzione degli infortuni e l'aggravante che su essa si sostiene.
Ulteriore conseguenza è l'estinzione dei reati di omicidio colposo contestati al Ma.[JO.] al capo 76, perché estinti per prescrizione. Ne deriva, altresì, che limitatamente a tale reato la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, mentre il ricorso va rigettato agli effetti civili (valendo quanto sin qui esposto anche quale adempimento della prescrizione di cui all'art. 578 cod. proc, pen.); e va rigettato ad ogni effetto quanto al reato di disastro ferroviario colposo. L'annullamento parziale impone la necessità di ridefinire il trattamento sanzionatorio; compito che non può essere svolto da questa Corte, involgendo valutazioni di merito che le sono sottratte. Va quindi disposta la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Firenze per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio conseguente alle statuizioni qui date.
16.7. Il sesto ed il settimo motivo, concernenti l'entità della pena e la negazione delle attenuanti generiche, restano assorbiti, dovendo essere nuovamente valutato, alla luce del disposto annullamento, il tema della pena da infliggersi.

17. I ricorsi di PI.PA., G.F.D. e della responsabile civile Ci***Ri*** s.p.a.
17.1. 1 ricorsi degli imputati Pi.[PA.] e G.F.[D.] sono articolati, nell'ambito di un solo atto, in sette motivi; la responsabile civile Ci***Ri*** s.p.a. ha prospettato otto motivi, sette dei quali (1-6, 8) sono sovrapponibili a quelli degli imputati, mentre il residuo (7), ha un suo distinto contenuto. Ciò rende opportuna una trattazione unitaria dei ricorsi. Ai motivi si farà riferimento menzionando il numero attribuito nei ricorsi degli imputati.
Orbene, il primo attiene alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, di cui all'art. 521 cod. proc. pen.
La censura è infondata. Essa è intessuta di affermazioni di carattere teorico non condivisibili. Si sostiene che il reato commissivo definirebbe un'area più estesa rispetto a quella che ha ad oggetto un reato omissivo improprio, sicché se il passaggio dal primo al secondo non integra la violazione del principio di correlazione, non è così nel caso inverso. In realtà, come risulta ormai acquisito dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza, la quale scandisce i differenti elementi costitutivi delle due epifanie del reato, le relative fattispecie sono in rapporto di alterità e non di continenza.
Ciò posto, su un piano generale andrebbe rammentato che secondo il fermo insegnamento di questa Corte, una volta ritenuta dal giudice di primo grado la sussistenza di un comportamento commissivo colposo, la qualificazione in appello della condotta come colposamente omissiva non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l'imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell'addebito. L'affermazione sortisce da una successione tra imputazione per condotta omissiva e condanna per comportamento attivo; ma non vi è ragione per ritenere che non valga anche nell'ipotesi inversa, poiché la ratio decidendi è costituita dalla correlazione tra modifiche e diritto di difesa. Inoltre, per quanto formulato in ipotesi di mutamento intervenuto tra il primo ed il secondo grado di giudizio, tale principio è valevole anche per il caso di modificazione registrabile tra imputazione e decisione di primo grado, secondo il più generale orientamento per il quale, in tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014, Denaro e altro, Rv. 26016101). Principio che si accompagna all'altro, secondo il quale non possono considerarsi estranei alla imputazione originaria quei profili di colpa che sono comunque ricompresi nel fatto storico in essa delineato e rientranti nella colpa generica contestata all'imputato (Sez. 4, n. 36778 del 03/12/2020, Celli, Rv. 28008401; Sez. 4, n. 27389 del 08/03/2018, Siani, Rv. 273588; Sez. 4, n. 41674 del 06/07/2004, Ryan e altri, Rv. 22989301).
Si è preannunciato che un simile quadro andrebbe rammentato; e ciò in quanto nel caso che occupa gli stessi ricorrenti danno atto che la Corte di appello ha replicato al motivo proposto con il gravame rimarcando come la messa in circolazione del carro fosse addebitata già nell'imputazione originaria, venendo quindi meno lo stesso presupposto del rilievo difensivo. I ricorrenti, però, hanno osservato che la messa in circolazione non avrebbe un ruolo autonomo rispetto alle condotte omissive. Si tratta di una ulteriore affermazione non condivisibile sul piano teorico.
Più nel dettaglio, per quanto attiene al Pi.[PA.], la prospettazione della contestazione, che lo individua come soggetto tenuto a dirigere, controllare e verificare l'attività di montaggio dell'assile, è stata superata già nel corso del dibattimento di primo grado, essendo emerso che più che per il mancato esercizio di poteri dirigenziali egli era rimproverabile per aver materialmente installato l'assile senza eseguire i controlli previsti dalle norme tecniche. Ciò non è stato contestato con l'atto di appello, con il quale ci si è doluti dell'addebito di aver messo in circolazione il carro. Ma in realtà anche questa specifica condotta è già menzionata dalla contestazione, che però utilizza la locuzione "non evitando, comunque, la messa in esercizio dell'assile". Essa trova ragione nel fatto che il P.M. ha inteso dare rilievo alla violazione dei doveri di direzione, controllo e verifica delle attività di montaggio dell'assile piuttosto che al comportamento attivo che si pone quale decisivo antecedente causale, pur esso descrìtto dalla contestazione: l'aver "dichiarato ed attestato nel certificato delle prestazioni eseguite... redatto ... a conclusione dei lavori di sostituzione degli assiti... Tutti i lavori sono stati eseguiti a regola d'arte. La sicurezza dell'esercizio è garantita...''. In altri termini, l'accusa pubblica ha ritenuto di dover descrivere le condotte come integranti un reato omissivo improprio, laddove è l'aver emesso quella certificazione in assenza dei prescritti presupposti che costituisce il nucleo della condotta del reato. L'aver attestato una condizione di sicurezza che non è stata verificata compiendo quanto prescritto dalle pertinenti regole di diligenza, prudenza e perizia costituisce, per il Pi.[PA.], il contributo dal medesimo dato alla circolazione dell'assile e quindi al sinistro di Viareggio. Solo grazie a quell'attestazione l'assile rientrò in circolazione con il carro sul quale venne montato (dal Pi.[PA.] medesimo).
Per la valutazione del motivo in esame non occorre approfondire altri profili, poiché quanto esposto è già sufficiente a dimostrare che al Pi.[PA.] è stato sin da principio attribuita quella condotta attiva che il ricorrente lamenta essere stata rimproverata dai giudici nonostante il silenzio della contestazione.
Quanto al G.F.[D.], effettivo titolare di compiti di organizzazione dell'attività manutentiva e di sorveglianza su quella eseguita dal subordinato Pi.[PA.], va rilevato che in realtà la Corte di appello gli ha ascritto un comportamento tipicamente omissivo, ritagliato sul perimetro dei doveri che gli incombevano in ragione dei menzionati compiti. Come ha precisato la Corte di appello, egli ha omesso di adottare disposizioni adeguate "in grado di assicurare la corretta esecuzione del controllo visivo sulle sale da montare e l'acquisizione della completa documentazione tecnica" attinente a ciascun componente dei carri merci in revisione. Con tale omissione anch'egli ha contribuito a far rientrare in circolazione l'assile difettoso.
Ora, è lo stesso ricorrente a rimarcare come la propria difesa si fosse conformata alla necessità di contestare la sussistenza della posizione di garanzia e gli altri elementi caratteristici del reato omissivo improprio colposo. Sicché, anche ad assumere lo scenario prospettato dal ricorrente, non è ravvisabile alcuna lesione al diritto di difesa.
17.2. Con il secondo motivo si lamenta in primo luogo che la Corte di appello abbia omesso di motivare in merito alla deduzione della inidoneità degli artt. 2043, 2050, 2087 c.c. e dell'art. 24 d.lgs. n. 81/2008 a costituire fonti delle posizioni di garanzia ascritte agli imputati e la violazione dell'art. 40 cpv. cod. pen., laddove è stato ritenuto che tali posizioni di garanzia discendessero da norme non indicate nell'imputazione e non vigenti al tempo della condotta.
Per quanto appena esposto in merito al nucleo dell'addebito mosso al Pi.[PA.], simili rilievi non possono essere utilmente riferiti a tale imputato. Egli operò attivamente (sia montando l'assile sul carro che attestando la corretta esecuzione dei lavori) e quindi non vi era e non vi è necessità di rinvenire fonti giuridiche dell'obbligo di impedimento dell'evento.
Per ciò che concerne il G.F.[D.], occorre rilevare che analoga questione era stata posta dagli esponenti anche alla Corte di appello; peraltro in termini dubitativi, venendo osservato che il Tribunale aveva fatto perno, per il giudizio di responsabilità, esclusivamente sugli obblighi nascenti dal manuale VPI e che, tuttavia, essendo state indicate nell'imputazione anche le norme in questione occorreva negare esplicitamente la loro applicabilità al caso concreto.
La Corte di appello ha condiviso l'assunto, laddove ha rammentato che il Tribunale aveva fondato il rimprovero del G.F.[D.] sulla inosservanza delle norme di settore e delle generali regole di diligenza, prudenza e perizia.
La riproposizione della questione in questa sede è quindi priva di giustificazione.
D'altro canto, né l'art. 2043 c.c. né l'art. 2087 c.c., per le ragioni che si sono esposte al paragrafo 3 del Considerato in diritto, possono fondare una competenza gestoria in capo al G.F.[D.]; in particolare, da quest'ultima disposizione si ricaverebbero obblighi prevenzionistici gravanti sul G.F.[D.] quale dirigente [ex art. 2 lett. d) d.lgs. n. 81/2008] della Ci***Ri*** e in relazione ai rischi ai quali sono esposti i lavoratori dal medesimo diretti. È del tutto palese che nella vicenda in esame non viene in considerazione alcuno dei doveri del G.F.[D.] verso tali dipendenti.
Neppure può essere fondatamente evocato l'art. 24 d.lgs. n. 81/2008. Tale disposizione prevede che "Gli installatori e montatori di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici, per la parte di loro competenza, devono attenersi alle norme di salute e sicurezza sul lavoro, nonché alle istruzioni fornite dai rispettivi fabbricanti". La previsione risulta pressoché riproduttiva del testo dell'art. 6, co. 3 del d.lgs. n. 626/1994; la sola modifica attiene alla locuzione "norme di sicurezza e di igiene del lavoro", sostituita da quella "norme di salute e sicurezza sul lavoro". Dalla rarefatta giurisprudenza di legittimità che ha avuto modo di confrontarsi con le disposizioni citate emerge che sull'installatore grava l'obbligo di svolgere l'attività sua propria osservando le norme prevenzionistiche in modo che non ne derivi pregiudizio ad altri. In un caso all'installatore di un cancello scorrevole si è ascritto di averlo installato e montato privo dei sistemi di fermo e quindi non in stato di stabilità e di efficienza in relazione alle condizioni d'uso ed alle necessità di sicurezza sul lavoro (Sez. 4, n. 10319 del 3.7.2012, dep. 2013, n.m.); in altro l'addebito all'installatore di una torre, necessaria per l'esecuzione di uno spettacolo teatrale, composta da due montanti e da una traversa sulla quale erano stati collocati i proiettori di scena, inizialmente riferito all'art. 6, co. 3 (per non aver fornito le istruzioni di montaggio), è stato ricondotto a generiche regole di diligenza, prudenza e perizia (Sez. 4, n. 25986 del 9.1.2013, n.m.).
L'analisi della disposizione pone in evidenza che l'installatore deve osservare le norme in materia di sicurezza sul lavoro; nessuna delle norme come tali indicate nelle contestazioni assume rilievo per la posizione del G.F.[D.]. In particolare, se l'ampiezza del riferimento impone di ritenere compresa la disposizione di cui all'Allegato V parte I punto 3.2., essa, per le ragioni che sono già state esposte al paragrafo 16.5. del 'Considerato in diritto', non risulta pertinente al caso che occupa.
Pertinente è invece l'art. 2050 c.c. poiché l'attività di manutenzione di carri merci è senz'altro un'attività pericolosa, ovvero un'attività dalla quale possono scaturire pericoli per la sicurezza della circolazione ferroviaria.
Secondo la consolidata giurisprudenza civile, "la nozione di attività pericolosa, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2050 c.c., non deve essere limitata alle attività tipiche, già qualificate come tali da una norma di legge, ma deve essere estesa a tutte quelle attività che, per la loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati, comportino una rilevante possibilità del verificarsi di un danno, dovendosi, di conseguenza accertare in concreto il requisito della pericolosità con valutazione svolta caso per caso, tenendo presente che anche un'attività per natura non pericolosa può diventarlo in ragione delle modalità con cui viene esercitata o dei mezzi impiegati per espletarla. L'indagine fattuale deve essere svolta seguendo il criterio della prognosi postuma, in base alle circostanze esistenti al momento dell'esercizio dell'attività (Sez. 3 civ., n. 19180 del 19/07/2018, Rv. 64973701; Sez. 3 civ., n. 16052 del 29/07/2015, Rv. 63618301; Sez. 3 civ., n. 919 del 16/01/2013, Rv. 625279 01).
La giurisprudenza penale ha adottato la medesima nozione. Si è affermato che in tema di colpa omissiva, l'obbligo giuridico di attivarsi gravante sull'agente può originare anche dall'esercizio di un'attività pericolosa, dovendosi intendere per tali non solo quelle così identificate dalle leggi di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, bensì ogni attività che per sua stessa natura o per le caratteristiche di esercizio comporti una rilevante possibilità del verificarsi di un danno (Sez. 4, n. 39619 del 11/07/2007, Bosticco e altro, Rv. 23783301). Il principio è stato ribadito anche in tempi più recenti (Sez. 4, n. 26239 del 19/03/2013, Gharby e altri, Rv. 25569701).
Giova rilevare che neppure la difesa ha contestato che l'attività di manutenzione svolta dalla Ci***Ri*** s.p.a. fosse qualificabile come attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., avendo soltanto posto in dubbio che da tale norma possa farsi discendere l'obbligo di eseguire il controllo visivo dell'assile inviato dalla società proprietaria del carro.
Il centro di imputazione dei doveri discendenti dall'art. 2050 c.c. è certamente il titolare dell'impresa. Tuttavia, ove tale attività venga svolta in forma collettiva o, se si vuole, organizzata, la gestione del rischio risulta ripartita tra i diversi centri di competenza interni all'organizzazione. Appaiono ancora attuali e chiarificatrici le considerazioni espresse da Sez. 4, n. 1866 del 02/12/2008, dep. 2009, Toccafondi e altri, Rv. 24201701, alle quali le Sezioni Unite n. 38343/2014 k.
daranno ancor più analiticità ed ampiezza. Prendendo ad esempio il caso di ricovero presso una struttura ospedaliera per l'esecuzione di un intervento di alta chirurgia, nella pronuncia n. 1866/2009 si evidenzia come in simili casi la gestione del rischio per la salute del paziente recluti una pluralità di sfere di competenza specialistica e di differenti poteri presenti nell'organizzazione gerarchica della struttura. Grazie a principi come quelli di autoresponsabilità, di affidamento, di gerarchia, assumono rilievo le diverse sfere di responsabilità, evitando l'indebita estensione del rimprovero penale: "è razionale che ciascuno venga chiamato a rispondere solo per le prestazioni che appaiono esigibili sia per la sua sfera di competenza, sia per il livello di maturazione del suo percorso professionale, sia ancora per il ruolo esercitato all'interno di un'organizzazione. La definizione di tali sfere di competenza e di responsabilità all'interno di organizzazioni complesse può configurare, in alcuni casi, l'esclusione della responsabilità penale sul piano della tipicità oggettiva, ancor prima che su quello della colpevolezza, particolarmente quando esista una figura dotata di autonoma, esclusiva competenza nella gestione di un rischio".
Da simili premesse si è venuto consolidando, in materia di responsabilità degli esercenti una professione sanitaria, il principio per il quale in tema di colpa professionale medica, ai fini dell'affermazione di responsabilità penale dei medici operanti - non in posizione apicale - all'interno di una struttura sanitaria complessa, a titolo di colpa omissiva, è priva di rilievo la mera instaurazione del c.d. rapporto terapeutico, occorrendo accertare la concreta organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza ed ai poteri- doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda (Sez. 4, n. 53349 del 15/11/2018, Pg. c/ Schuster, Rv. 27457302).
Si tratta di princìpi che la prospettiva che si incentra sul concetto di gestione del rischio, come esplicato dalle S.U. n. 38843/2014, rende valevoli anche oltre il perimetro delle attività sanitarie.
Orbene, come emerge da quanto la Corte di appello ha scritto a proposito della posizione del Pac.[Gi.], Direttore Generale della Ci***Ri*** s.p.a., il G.F.[D.] era colui al quale, nell'organigramma della società, sulla base di una lettera di incarico del 21.12.2005, erano state trasferite tutte le competenze in materia di pianificazione, ottimizzazione della produzione, supervisione di tutte le attività di stabilimento e di rapporti con i clienti per il settore della manutenzione dei carri ferroviari.
Che la Corte di appello non abbia esplicitamente menzionato l'art. 2050 c.c. è privo di rilievo, non sussistendo dubbi sul fatto che, puntualizzando che il G.F.[D.] non poteva identificarsi nel datore di lavoro, ne ha rimarcato i compiti organizzativi riferiti ad attività definita pericolosa.
17.3. Con il medesimo motivo si è anche contestato che dai ricorrenti fosse dovuto il controllo visivo dell'assile; o che questo si possa ritenere dovuto in forza di prescrizioni non menzionate nei capi di imputazione (ordinanza dell'EBA e TFA).
Anche il settimo motivo del responsabile civile Ci***Ri*** attiene al medesimo ambito. Si evoca il travisamento della prova in relazione alla deposizione del teste Wirt. (sentito all'udienza del 3.2.2016). Per effetto di tale errata considerazione, la Corte di appello non avrebbe ritenuto che il controllo visivo previsto dalle prescrizioni vigenti era funzionale alla sola verifica di danni alla vernice che l’assile poteva subire in caso di caduta durante il trasporto.
Orbene, pur ponendo in disparte le perentorie condizioni di ammissibilità della denuncia del travisamento della prova in sede di legittimità (rammentate al superiore paragrafo 10.4.), occorre rilevare che il rilievo è comunque infondato. A p. 611 la Corte di appello ha considerato la testimonianza Wirt., commentando che essa indica la necessità di ispezionare visivamente la sala in funzione della verifica di danni da trasporto. Pertanto l'associazione 'controllo visivo-danni da trasporto' non è stata negata dalla Corte distrettuale.
Più in generale, la necessità di operare un controllo visivo della sala montata pervenuta in sostituzione è tratta dalla Corte di appello da una non positivizzata regola di diligenza, prudenza e perizia, della cui preesistenza rispetto all'evento viareggino ha dato dimostrazione evocando le indicazioni provenienti dall'ordinanza dell'EBA del 2007. Ciò implica l'infondatezza anche del rilievo che lamenta una ascrizione priva di corrispondenza nelle contestazioni che, all'inverso, esplicitamente menzionano la negligenza, l'imprudenza e l'imperizia nello svolgimento delle attività di competenza.
Il Collegio distrettuale ha rimarcato che la sostituzione di una sala è operazione delicata che incide direttamente sulla sicurezza; che l'ordinanza EBA 2007 metteva in guardia circa il valore sintomatico di alcuni difetti sollecitando tutti gli operatori del settore e in specie le officine a controlli visivi delle sale; che tale ispezione consiste in "un controllo non specificamente regolamentato dalle VPI ma necessario al fine di provvedere alle attività manutentive". In sostanza, l'obbligo di eseguire a regola d'arte il montaggio della sala sul carro richiedeva la preliminare ispezione visiva della stessa.
A riguardo dell'evocazione della menzionata ordinanza i ricorrenti hanno sostenuto che essa è stata erroneamente valorizzata dai giudici di merito perché la sua applicazione era stata sospesa in sede contenziosa. Tuttavia, il dato che rileva, nel caso che occupa, non è la 'validità' e la 'cogenza' del provvedimento ma il fatto che esso segnalava come conosciuti alcuni fattori di rischio connessi alla manutenzione degli assili e indicava le misure di cautela da adottare. Pertanto, la considerazione di tale provvedimento si presterebbe a censura solo avendo dato dimostrazione in sede di merito che il patrimonio conoscitivo recato dall'ordinanza in direzione cautelare era rimasto superato da nuove e confliggenti acquisizioni. Il che non è stato; è stato segnalato che l'ordinanza venne impugnata, ma già il Tribunale aveva ritenuto che il ricorso "era fondato sostanzialmente su ragioni legate alla mancanza di concretezza del provvedimento stesso in ordine alle misure da adottare", mentre l'impugnazione era stata pretestuosa e dilatoria, perché risultava chiaro sia quel che era stato segnalato in relazione a specifiche condizioni degli assili sia agli interventi da compiere per ovviare.
Quanto al richiamo delle comunicazioni che il Pac.[Gi.] fece dopo il sinistro, dalle quali si è tratto che vi era consapevolezza che il controllo visivo fosse necessario (sicché ci si premurò di sostenere a posteriori che esso era stato eseguito) e alla citazione delle TFA 1.12.01 del 14.9.09, esse hanno la funzione di dimostrare ulteriormente la preesistenza di regole di generica prudenza che imponevano il controllo visivo della sala all'atto del montaggio.
Come, d'altronde, il riferimento al controllo per la ricerca di eventuali danni da trasporto ha valore meramente rafforzativo dell'argomentazione, quale ulteriore dimostrazione di un comportamento negligente.
Anche la valutazione che la Corte di appello ha operato delle implicazioni della presenza della targhetta W1 non sembra essere stata correttamente colta nei ricorsi in esame.
Secondo i ricorrenti, in forza delle disposizioni dell'appendice 6 del cap. 4 delle VPI, la sua apposizione rendeva non doveroso il controllo della sala. Ma per la Corte distrettuale la fonte dell'obbligo di eseguire il controllo visivo dell'intera sala non è rinvenibile in tali disposizioni o in altre regole positivizzate ma, come si è scritto, nel sapere consolidatosi tra gli operatori. Che i presupposti e le funzioni della targhetta W1 non soddisfacevano.
È stato rammentato che la classificazione ‘W1’, come regolamentata dall'appendice 6, si riferisce, in modo indistinto, a difetti che presentano un diverso grado di gravità e non fornisce alcuna specifica indicazione in merito alla localizzazione e alle caratteristiche delle tracce di corrosione che hanno dato luogo all'applicazione di quel contrassegno identificativo; che l'indicazione di "'difetti supeR***Iciali tollerabili", in presenza dei quali è comunque ammessa la classificazione 'W0' è anch'essa oggettivamente ambigua e non altrimenti precisata dalla norma in esame. Si è aggiunto che l’assile arrivò alla Ci***Ri*** senza alcuna informazione in merito alla localizzazione e al trattamento degli alveoli di corrosioni genericamente indicati con la targhetta W1.
17.4. Il terzo motivo è essenzialmente la proposizione di una valutazione della prova alternativa a quella esposta dai giudici di merito. Si assume, in principio, che anche ove il controllo visivo dell'assile fosse stato eseguito non si sarebbe potuto (agevolmente) rilevare alcuna anomalia. Il motivo è aspecifico, non I essendo considerate e mancando quindi il confronto con le affermazioni fatte al riguardo dalla Corte di appello. In merito alle dichiarazioni del Nico., dell'assenza di un ritocco con vernice nera, di un visibile stato di ossidazione e della non ispezionabilità della zona del collarino, la Corte di appello motiva in modo diffuso da pg. 613 a 621, anche richiamando quanto era già stato esposto per gli operatori della Ju***l ma considerando in termini precipui la posizione del Pi.[PA.] e del G.F.[D.]. I quali, d'altro canto, avrebbero dovuto giustificare l'affermazione che quanto sostenuto per gli operatori tedeschi non può valere anche per loro.
Ciò posto, mette conto rilevare che la Corte di appello ha menzionato la presenza di 'irregolarità macroscopiche' che un tecnico esperto avrebbe potuto rinvenire senza uso di strumenti sofisticati. Tali irregolarità, sulle quali già si era ampiamente diffusa, sono state nuovamente elencate trattando degli appelli del Pi.[PA.] e del G.F.[D.]: l’assile non era stato verniciato interamente, diversamente da quanto prescritto dalle norme VPI e dalle stesse TFA di G***x; la verniciatura esistente presentava anomalie rappresentate dalla applicazione nella parte centrale dell'assile di diversi tipi di vernice; lo spessore del materiale di rivestimento dell'assile non era uniforme; il collarino presentava una verniciatura non conforme alla normativa perché presenti sbollature e rigonfiamenti.
A fronte di un simile tessuto motivazionale il motivo in esame si limita ad
evocare la difficoltà di distinguere il colore nero invece che blu scuro della vernice esistente in corrispondenza della fascia abrasa che caratterizzava la parte centrale dell'assile e la non percepibilità dei segni di corrosione esistenti sotto le sbollature presenti sul collarino.
17.5. Il motivo che lamenta il vizio di motivazione nella giustificazione della ricorrenza dell'elemento soggettivo del reato è infondato.
Per una parte viene contestata la conoscibilità della regola cautelare attesa la disposta sospensiva dell'ordinanza dell'EBA; per altra la non percepibilità soggettiva della situazione di rischio (ovvero dei segnali di allarme). Quanto al primo rilievo valga quanto esposto in precedenza. Per il secondo, mette conto rilevare che la Corte di appello ha affermato che erano presenti "elementi di forte 'sospetto' che erano sotto gli occhi di tutti", riferendosi al carattere assolutamente irregolare del rivestimento dell'assile e del suo collarino, in associazione alla mancata documentazione dello stato dell'assile e alla presenza della targhetta W1 che segnalava la presenza di alveoli di corrosione tollerabili o trattati con modalità sconosciute. Di ciò danno conto anche i ricorrenti; ma essi censurano che la Corte di appello non abbia correlato tali condizioni al parametro dell'agente modello. Censura invero generica, giacché neppure è specificato perché per il Pi.[PA.] ed il G.F.[D.] debba farsi riferimento ad un agente modello diverso dall'homo eiusdem condicionis et professionis e quale esso sia. Ma a parte ogni considerazione a riguardo del ricorso alla figura dell'agente modello, quel che va rimarcato è che neppure sono state segnalate particolari condizioni individuali che militino per una minore possibilità concreta di riconoscibilità della situazione di pericolo presentatasi a ciascuno dei ricorrenti in parola.
Essi hanno inteso rappresentare la non riconoscibilità dell'esistenza di prescrizioni che imponessero il controllo visivo e l'omessa motivazione sul punto. Anche a tal proposito occorre tener presente di quanto si è già scritto ad altro riguardo; ovvero che la Corte di appello non ha individuato nelle disposizioni del manuale VPI o in altre fonti scritte la regola cautelare della ispezione visiva dell'assile prima del suo montaggio sul carro merci; analizzando la rilevanza da riconoscere alla circostanza che l’assile proveniva da revisione, la Corte territoriale ha evidenziato che un simile controllo era "necessario al fine di provvedere alle attività manutentive che all'officina Cima erano affidate, controllo volto ad accertare quanto meno l'integrità della sala e l'insussistenza di danni che possono essere dovuti, ad esempio, allo stoccaggio o al trasporto".
Appare evidente, quindi, che la riconoscibilità della situazione di pericolo non traeva origine da quanto segnalato in specifiche disposizioni ma si connetteva a regole di diligenza 'basilari' e proprie dell'attività che la stessa officina doveva eseguire.
17.6. Il quinto motivo è manifestamente infondato. In sostanza, con esso si censura che sia stata posta a carico dei ricorrenti la mancata ispezione dell'assile finalizzata alla verifica da danni da trasporto e/o da stoccaggio, nonostante tale omissione non sia mai stata contestata ai ricorrenti in parola.
L'affermazione non risponde al vero e manifesta un fraintendimento del riferimento operato dalla Corte di appello. Questa ha menzionato il controllo dei danni allessile derivanti dal trasporto o dallo stoccaggio degli stessi per rappresentare che il controllo visivo dell'assile sarebbe stato doveroso non solo in ragione degli esistenti e percepibili segnali di allarme (le condizioni del tutto anomale del rivestimento supeR***Iciale della sala montata, associata alla mancanza di documentazione sullo stato dell'assile e alla segnalazione di alveoli di corrosione non trattati fatta con l'apposizione della targa W1) ma anche ai fini dell'esecuzione di quella verifica, posto che una ispezione visiva degli stessi è in grado di rivelare la presenza di danni da trasporto o da stoccaggio.
Pertanto, non vi è stata alcuna novazione dell'originaria contestazione.
17.7. Con il sesto motivo si lamenta, evocando la violazione dell'art. 43, co. 3 cod. pen., l'erronea applicazione del principio di affidamento.
L'ampia argomentazione, riportata nella superiore parte narrativa, si fa forte del richiamo della massima per la quale: "in tema di colpa professionale, in caso di intervento chirurgico in "equipe", il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell'attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenza scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell'intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell'affidamento per cui può rispondere dell'errore o dell'omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell'intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui (Sez. 4, n. 27314 del 20/04/2017, Puglisi, Rv. 27018901).
Si sostiene, dai ricorrenti, che la Corte di appello avrebbe dovuto distinguere tra le due diverse ipotesi nelle quali si fa questione del principio di affidamento; ritenere che nel caso di specie ricorre l'ipotesi di "pluralità di attività individuali connesse al rispetto di norme cautelari diverse e fondate su posizioni di garanzia diverse". Da ciò si fa discendere che la Corte di appello avrebbe dovuto escludere che i ricorrenti avessero l'obbligo di vigilare sulle attività compiute dagli operatori della Ju***l; e che avrebbe dovuto verificare se era esigibile, alla luce delle circostanze del caso concreto, rilevare l'altrui condotta colposa.
È bene riportare la motivazione della pronuncia citata dai ricorrenti, almeno nella parte di diretta rilevanza.
Ponendosi nel solco di una tradizione interpretativa ormai consolidata, questa Corte ha scritto innanzitutto che "la responsabilità penale di ciascun componente di una equipe medica non può essere affermata sulla base dell’accertamento di un errore diagnostico genericamente attribuito alla equipe nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, nella prospettiva di verifica, in concreto, dei limiti oltre che del suo operato, anche di quello degli altri. Occorre cioè accertare se e a quali condizioni ciascuno dei componenti dell’equipe, oltre ad essere tenuto per la propria parte al rispetto delle regole di cautela e delle leges artis previste con riferimento alle sue specifiche mansioni, debba essere tenuto anche a farsi carico delle manchevolezze dell’altro componente dell’equipe o possa viceversa fare affidamento sulla corretta esecuzione dei compiti altrui: accertamento che deve essere compiuto tenendo conto del principio secondo cui ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenza scientifiche del professionista medio (Sez.4, n.18780 del 30/03/2016, Tassis ed altro)". A questo punto la pronuncia Puglisi ha operato una puntualizzazione, il cui scopo è quello di introdurre una limitazione all'estensione del principio appena formulato (e che non risulta essere stata utilizzata dal giudice di legittimità in successive sentenze come ratio decidendi') : "Il principio suddetto va apprezzato e coniugato, peraltro, onde non configurare ipotesi di responsabilità oggettiva o di posizione, con l'altro fondamentale principio che è quello "di affidamento", in base al quale ogni soggetto non dovrà ritenersi obbligato a delineare il proprio comportamento in funzione del rischio di condotte colpose altrui, ma potrà sempre fare affidamento, appunto, sul fatto che gli altri soggetti agiscano nell'osservanza delle regole di diligenza proprie. Per l'effetto, per tutte le fasi dell'intervento chirurgico in cui l'attività di equipe è corale, riguardando quelle fasi dell'intervento chirurgico in cui ognuno esercita e deve esercitare il controllo sul buon andamento dello stesso. Mentre, semmai, diverso discorso dovrebbe farsi solo per quelle fasi in cui, distinti nettamente, nell'ambito di un'operazione chirurgica, i ruoli ed i compiti di ciascun elemento dell'equipe, dell'errore o dell'omissione ne può rispondere solo il singolo operatore che abbia in quel momento la direzione dell'intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica".
Pertanto, ciò che si è voluto sostenere è che l'obbligo del componente dell'equipe di intervenire e porre rimedio agli errori di altro componente non è ravvisabile nelle fasi in cui sono nettamente distinti i ruoli e i compiti di ciascun elemento del gruppo. Il principio dà espressione alla necessità di tener conto della spiccata specializzazione delle competenze, tale da richiedere da un canto che lo specialista venga sottratto all'impegno di dover anche vigilare sull'altrui operato e, dall'altro, tale da non permettere l'utile intervento integrativo di altri operatori sforniti di eguale competenza.
Nel caso che occupa questo presupposto è del tutto assente. L'officina Ju***l e la Ci***Ri*** svolgevano le medesime attività nel settore della manutenzione dei rotabili; nessuno degli operatori in ciascuna attivi era titolare di competenze non rinvenibili nell'altra impresa.
Ma vi è di più. Nella vicenda che qui viene all'attenzione non ricorre neppure un'ipotesi di cooperazione, ancorché diacronica, posto che la 'presa di contatto' con l’assile criccato degli operatori della Ci***Ri*** non avvenne nell'ambito di un'ulteriore fase della procedura di revisione dello stesso che aveva visto l'intervento della Ju***l ma fu determinata dalla necessità di sostituire due sale montate sul carro, in modo del tutto indipendente sottoposto a revisione presso la Cima Riparazione.
Infine, l'evocazione di un obbligo di vigilanza del Pi.[PA.] e del G.F.[D.] su quanto fatto presso la Ju***l non ha ragion d'essere poiché, proprio in ragione di quella autonomia degli interventi manutentivi dei quali si è appena scritto, agli operatori di Cima non si è imputato di non aver vigilato sugli errori commessi nella precedente revisione ma di non aver diligentemente svolto i propri specifici compiti, nonostante le anomale condizioni dell'assile.
Ne consegue che è del tutto corretta l'affermazione della Corte di appello, per la quale l'invocazione del principio di affidamento non è pertinente.
17.8. Con il settimo motivo si è posto il tema dell'erroneo riconoscimento della aggravante prevenzionistica. Il motivo è fondato. Agli imputati in parola sono state attribuite le violazioni degli artt. 2043, 2050, 2087 c.c., 24 d.lgs. n. 81/2008 e delle disposizioni del manuale VPI (oltre che delle disposizioni del contratto stipulato con G***x Rail Austria e delle generiche regole di diligenza, prudenza e perizia).
Valgono quindi le ragioni che sono state esposte al paragrafo 16.5. del 'Considerato in diritto', integrate da quanto scritto ai superiori punti.
Tanto determina la estinzione dei reati di omicidio colposo ascritti, rispettivamente, ai capi 39 e 42 della rubrica, perché prescritti. Ne deriva, altresì, che limitatamente a tali reati la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, mentre i ricorsi vanno rigettati agli effetti civili (valendo quanto sin qui esposto anche quale adempimento della prescrizione di cui all'art. 578 cod. proc. pen.); e vanno rigettati ad ogni effetto quanto al reato di disastro ferroviario colposo. L'annullamento parziale impone la necessità di ridefinire il trattamento sanzionatorio; compito che non può essere svolto da questa Corte, involgendo valutazioni di merito che le sono sottratte. Va quindi disposta la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Firenze per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio conseguente alle statuizioni qui date.

18. La struttura del giudizio della Corte di appello quanto al Ca.[MA.], al So.[VI.], all'El.[M.M.], al Mo.[MA.]
18.1. Ancora ai fini di una più snella trattazione, è opportuno rammentare nuovamente, sia pure in termini stilizzati, l'impianto sul quale la Corte di appello ha fondato il giudizio di responsabilità dei ricorrenti che rivestirono ruoli di responsabilità in Ca*** Che*** (poi FLog***), Tre*** s.p.a., R***I s.p.a.
Identificato come titolare di una pluralità di posizioni di garanzia, derivate dal contratto stipulato con il proprietario-locatore del carro, dall'art. 23 d.lgs. n. 81/2008 e dall'art. 2050 c.c., il Ca.[MA.], nella qualità di A.D. di Ca*** Che*** s.r.l. e di Responsabile della B.U. Industria Chimica e Ambiente di FLog*** s.p.a., è stato ritenuto gravato dell'obbligo di fornire un carro sicuro e che ciò implicasse l'acquisizione del cd. dossier di sicurezza, del quale era debitore il proprietà rio-locatore.
Ancora il Ca.[MA.], ma quale funzione apicale di Tre***, ed il So.[VI.] sono stati ritenuti titolari di più posizioni di garanzia, derivate dal loro essere datori di lavoro e dall'esercìzio dell'attività di impresa ferroviaria. In tali vesti essi sono stati ritenuti obbligati ad eseguire la valutazione dei rischi prescritta dalla normativa prevenzionistica ma imposta anche dall'attività ferroviaria; a fornire attrezzature sicure ai lavoratori (i macchinisti del treno coinvolto nel sinistro); ad interpretare correttamente la normativa e a vigilare affinchè Tre*** non accettasse carri privi del 'dossier di sicurezza' e di qualunque documento che ne attestasse la regolare manutenzione (mentre è stato escluso che fossero rimproverabili per non aver disposto l'adozione del cd. detettore di svio).
Al Mo.[MA.] e all'El.[M.M.], ricoprenti posizioni apicali all'interno di R***I s.p.a., è stato rimproverato di aver consentito la circolazione sulla rete ferroviaria nazionale del carro sviato a Viareggio pur non avendo acquisito la documentazione relativa alla vita manutentiva del medesimo; di non aver valutato il rischio connesso alla circolazione di carri merci trasportanti sostanze pericolose; e di conseguenza di non aver adottato provvedimenti per la riduzione della velocità.
Come è agevole considerare, a tutti i menzionati imputati è stato ascritto di esser venuti meno all'obbligo di osservare la prescrizione cautelare che impegnava all'acquisizione di informazioni in merito alla vita manutentiva del carro e dei suoi componenti. Si tratta di un obbligo il cui oggetto è stato dai giudici di merito designato con la locuzione 'dossier di sicurezza', mutuata dalla normativa tecnica del settore ferroviario. Tale obbligo è stato anche indicato come 'obbligo di tracciabilità'.
Per i vertici di Tre*** e per quelli di R***I si è aggiunta l'ascrizione della mancata valutazione dei rischi connessi alla circolazione di carri trasportanti merci pericolose sulla cui manutenzione Tre*** non aveva un diretto controllo; e per i soli apicali di R***I anche la mancata adozione di un provvedimento di riduzione della velocità di convogli costituiti da carri merci aventi le caratteristiche di quello sviato a Viareggio.
Ricorre quindi un addebito comune, avente ad oggetto la violazione del cd. obbligo di tracciabilità. Su tale aspetto si sono addensate molte delle argomentazioni critiche dei ricorrenti in parola e degli enti responsabili civili, con profili di comunanza che consigliano un esame unitario del tema.

19. Colpa generica e colpa specifica. Preesistenza della regola cautelare 'acquisizione di informazioni sulle manutenzioni'
19.1. I giudici di merito hanno ritenuto che l'obbligo di garantire la sicurezza della circolazione ferroviaria dovesse essere assolto adottando una regola cautelare alla quale si è frequentemente alluso utilizzando la locuzione 'obbligo di tracciabilità'. Si tratta, nella delineazione contenutistica fattane dalla Corte di appello, di una regola cautelare che impone la conoscenza della storia manutentiva del carro e delle sue componenti, anche se marcato RIV/RID, quale condizione del suo utilizzo e della sua circolazione sulla rete ferroviaria nazionale.
L'affermazione dell'esistenza di tale regola cautelare già prima del verificarsi del sinistro viareggino è investita dalle decise ed articolate censure di tutte le difese, in specie a fronte di un quadro normativo che si dice essere di matrice comunitaria e volto a favorire la libera circolazione dei carri sulla rete ferroviaria eurounitaria.
I ricorrenti sostengono che il regime di circolazione intracomunitaria incentrato sul sistema di interoperabilità è incompatibile con la pretesa di porre a capo dei diversi operatori (imprese ferroviarie e gestori di rete, ma anche fornitori) adempimenti cautelari ulteriori.
La questione richiede di svolgere in primo luogo alcune osservazioni in merito alla relazione corrente tra colpa generica e colpa specifica; successivamente si affronterà il tema delle fonti delle regole cautelari positivizzate e delle relative implicazioni.
19.2. È noto che la giurisprudenza non ha mai posto in discussione la legittimità della pretesa di osservanza di regole non positivizzate anche in presenza e nonostante l'osservanza di regole scritte. I principi formulati in tempo risalente, in un settore come quello antinfortunistico, che rappresenta il principale ambito di elaborazione dei temi che qui interessano, ammoniscono ad esempio che "esclusa la responsabilità per colpa, consistente nella violazione delle specifiche norme antinfortunistiche, ben può il committente rispondere per una condotta colposa, che integri gli estremi della imprudenza e della negligenza, intesa al principio generale del neminem ledere" (Sez. 4, n. 8654 del 30/06/1981, Broli, Rv. 15037401).
Il principio del neminem laedere risulta essere, per questa giurisprudenza, la fonte dalla quale scaturisce un generico ed immanente dovere di diligenza, da osservare quando si pongono in essere attività dalle quali possono scaturire pregiudizi a terzi. La prevedibilità di tali conseguenze pregiudizievoli è, in uno con la incidenza causale, il fondamento della colpa pur quando siano state osservate le regole cautelari scritte. Pertanto, per escludere la responsabilità (dell'utente della strada) non è sufficiente che non ricorra una colpa specifica, essendo ancora necessario che non sia ravvisabile colpa generica (Sez. 4, n. 4092 del 12/01/1988, dep. 1989, Spinelli, Rv. 18084401).
Si tratta di una ricostruzione che si è protratta sino a pronunce più recenti, nelle quali si sostiene, ad esempio ancora in materia di circolazione stradale, che "l'osservanza delle norme precauzionali scritte non fa venir meno la responsabilità colposa dell'agente, perché esse non sono esaustive delle regole prudenziali realisticamente esigibili rispetto alla specifica attività o situazione pericolosa cautelata, potendo residuare una colpa generica in relazione al mancato rispetto della regola cautelare non scritta del "neminem laedere", la cui violazione costituisce colpa per imprudenza (Sez. 4, n. 15229 del 14/02/2008, P.G. in proc. Fiorinelli, Rv. 23960001).
La ammissibilità di una pretesa di comportamento cautelare che vada oltre l'osservanza delle regole codificate va anche in questa sede ribadita; ma rispetto alla giurisprudenza appena citata va osservato che la prescrizione dell'art. 2043 c.c. non può valere a fondare un dovere di diligenza che possa sostenere il rimprovero per colpa. Come si è già scritto nel paragrafo 5 del Considerato in diritto, essa non costituisce fonte di una posizione di garanzia (e men che meno definisce una regola cautelare, non avendo carattere modale), perché questa è caratterizzata dalla relazione corrente tra uno o più titolari di beni giuridici non in grado di tutelarli e categorie predeterminate di soggetti a cui la legge extrapenale o altra fonte giuridica assegni poteri per l'impedimento di eventi offensivi di quei beni. Una simile prosizione non può discendere dal generale dovere di non ledere l'altrui sfera giuridica, che incombe su qualunque consociato e non ha alcuna capacità selettiva per la costituzione di obblighi qualificati di agire in capo soltanto a taluni soggetti a favore di chi non è in grado di provvedere autonomamente alla protezione dei propri beni (in tal senso, da ultimo, Sez. 1, n. 9049 del 07/02/2020, Pg. c/ Ciontoli, Rv. 27850101, in motivazione). Dal canto suo, nell'ambito dei reati causalmente orientati, una condotta commissiva si qualifica come tipica sulla base della sua efficienza causale.
Ciò posto, i principi appena rammentati sono stati formulati da una giurisprudenza che ha fatto ampio ricorso alla figura dell'agente modello già per l'individuazione della condotta doverosa; con la decisiva implicazione di risolvere l'accertamento della colpa in senso oggettivo nella identificazione di indici di una colposità intesa essenzialmente come atteggiamento dell'individuo, valutato comparativamente con quello di un virtuoso, onnisciente e onnipotente agente ideale. Di qui la pretesa, rivolta all'agente concreto, di un ulteriore comportamento diligente, ritenuto esigibile perché possibile all'agente modello. In questa cornice concettuale la individuazione della pretesa è in realtà vera e propria opera creatrice del giudice. In taluni arresti è persino enunciato che "in mancanza di predeterminazione legislativa delle regole cautelari o di autorizzazioni amministrative subordinate al rispetto di precise norme precauzionali, la valutazione del limite di tale rischio (consentito) resta affidata al potere discrezionale del giudice il quale dovrà tenere conto che la prevedibilità e la prevenibilità vanno determinate in concreto, avendo presente tutte le circostanze in cui il soggetto si trova ad operare ed in base al parametro relativistico dell'agente modello, dell'/iomo eiusdem condicionis et professionis, considerando le specializzazioni ed il livello di conoscenze raggiunto in queste" (Sez. 4, n. 2139 del 21/11/1996, dep. 1997, Spina, Rv. 20787301). Ben si comprende, quindi, la critica indirizzata al ricorso alla figura (ma anche alle figure) dell'agente modello, in quanto foriera di un esercizio di discrezionalità giudiziale confliggente con la necessità di determinatezza della norma incriminatrice e di affermazione di responsabilità solo in presenza di colpevolezza.
All'atteggiamento di sospetto verso la colpa generica va riconosciuto il merito di segnalare il pericolo che il processo di identificazione della regola violata risulti troppo simile ad un processo creativo, laddove esso non può che essere ricognitivo, proprio per il rispetto che si deve ai principi di legalità e di colpevolezza. Tuttavia, la giurisprudenza è ormai stabilmente orientata dalla concezione normativa della colpa ed ha ridisegnato i rapporti tra competenza per il rischio e modalità doverose di esercizio della stessa, e dedica grande attenzione alla 'oggettivizzazione' della regola cautelare.
Limitando le citazioni solo ad alcune delle numerose pronunce che danno corpo a siffatto orientamento, ormai dominante, si può rammentare che in tema di colpa medica si è scritto che per accertare "se la condotta dell'imputato (...) sia stata penalmente rilevante, non può prescindersi da una verifica della conformità o della non conformità di tale condotta alle suddette regole della medicina, in quanto evocate da disposizioni di legge (l'art. 3 della legge 189/2012 e l'art. 6 della legge 24/2017, introduttivo del nuovo art. 590-sexies cod.pen.)" (Sez. 4, n. 24384 del 26/04/2018, Nasoni e altro, Rv. 273536); ed ancor più recisamente che "una motivazione che tralasci di indicare se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali, ..., o di specificare di quale forma di colpa si tratti, se di colpa generica o specifica, eventualmente alla luce di regole cautelari racchiuse in linee-guida, se di colpa per imperizia, negligenza o imprudenza, ... non può, oggi, essere ritenuta satisfattiva né conforme a legge (Sez. 4, n. 37794 del 22/06/2018, De Renzo, Rv. 273464).
Lo sforzo di individuazione della regola cautelare non viene richiesto solo rispetto a quella positivizzata; vi è consapevolezza che esso deve essere ancor più rigoroso quando venga evocata la prudenza, la diligenza, la perizia. Per quanto possa risultare difficile distinguere Luna dall'altra, esse non si risolvono in formule vuote di contenuto ma alludono ancora a comportamenti cautelari identificati dal sapere diffuso e quindi non esimono il giudice dalla necessità di indicare in concreto quale sia il comportamento doveroso (si veda la già citata Sez. 4, n. 31490 del 14/04/2016, Belli, Rv. 267387). Non essendo enunciate, tali regole sono maggiormente esposte al rischio di divenire oggetto di una elaborazione creativa, fondata su una valutazione ricavata "ex post", ad evento avvenuto, e influenzata da quelle distorsioni cognitive che oggi vengono segnalate dalle neuroscienze (rilevate anche da Sez. 4, n. 15258 del 11/02/2020, Agnello, Rv. 279242, in motivazione). Tuttavia ciò non costituisce ragione di ripudio della colpa generica, bensì vincolo del giudice ad individuarla alla luce delle conoscenze tecnico¬scientifiche e delle massime di esperienza pre-date (cfr., ad esempio, Sez. 4, n. 9390 del 13/12/2016, Di Pietro e altro, dep. 2017, Rv. 269254).
Su simili premesse deve essere ribadita l'interpretazione che reputa ammissibile la ricorrenza di una colpa generica anche in caso di osservanza delle regole cautelari scritte. Interpretazione consolidata e condivisa anche da autorevoli studiosi che, con riferimento alle regole positive, rimarcano che "solo una piccola parte delle circostanze concrete che accompagnano la realizzazione della condotta può essere ricompresa sotto gli schemi (...) tracciati da quelle norme giuridiche"; così legittimando quanto meno la colpa generica integratrice.
È pur vero che altra dottrina, parimenti autorevole, esprime una posizione critica, ritenendo che una pretesa ulteriore rispetto a quella positivizzata concreti una contraddizione, considerato che quando l'esercizio di una determinata attività è disciplinato da regole cautelari scritte, è in esse che si rinviene la misura ritenuta idonea a prevenire il rischio. Sottesa all'affermazione sembra esserci l'individuazione di una differenza strutturale tra colpa specifica e colpa generica, tale da determinare la necessaria alterità dell'una rispetto all'altra. La colpa specifica presuppone una valutazione di merito istituzionalizzata, che trae causa nella circostanza che "il gruppo (sociale: ndr) non è in grado di definire in modo autonomo e soddisfacente l'area del rischio consentito". Mentre la colpa generica "origina direttamente ed esclusivamente dalla sua (della regola cautelare: ndr) sperimentata idoneità prevenzionistica". Questa differenza strutturale fa sì che debba essere riconosciuto l'affidamento del destinatario del precetto penale nella determinazione normativa del rischio consentito.
Ad avviso di questa Corte entrambe le posizioni sono portatrici di istanze che meritano attenzione.
Giova muovere dalla considerazione che la regola cautelare trova legittimazione nell'efficacia e non nella validità, che è invece attributo della norma di legge (o sub-legislativa). In effetti, nessuno dubita che una regola cautelare espressa da una disposizione invalida debba comunque essere osservata se efficace rispetto allo scopo prevenzionale (neppure i fautori della concezione legalistica).
A ben vedere, tanto dimostra che carattere strutturale della regola cautelare (anche di quella positivizzata) è la defettibilità, intesa, secondo il linguaggio dei teorici del diritto, come la qualità dell'essere disapplicata al verificarsi di un'eccezione implicita, ovvero di un'eccezione che non è espressa dalla lettera della disposizione. Per la regola cautelare l'eccezione è il fallimento, l'inefficacia prevenzionale rispetto al rischio.
I limiti strutturali della positivizzazione sono chiaramente all'origine della più recente legislazione in materia di responsabilità sanitaria. Sarebbe ultroneo in questa sede ripercorre l'amplissimo dibattito avviato dall'introduzione nell'ordinamento nazionale di una norma come quella recata dall'art. 3 della legge n. 189/2012 e ulteriormente sollecitato dalla novella legislativa che ha inserito nel codice penale l'art. 590-sexies. Ai fini che occupano è sufficiente osservare che l'indicazione che se ne trae, di una applicabilità delle raccomandazioni contenute nelle Linee guida (che intanto rilevano nel giudizio penale in quanto aventi sostanziale natura di regole cautelari: cfr., da ultimo, Sez. 4, n. 15258 del 11/02/2020, Agnello, Rv. 279242, in motivazione) a condizione che siano 'adeguate alla specificità del caso concreto', sta ad indicare che una disposizione a contenuto cautelare va osservata sempre che risulti in concreto efficace rispetto allo scopo; che essa conosce una 'cogenza' ben diversa da quella che si è soliti attribuire alle norme giuridiche.
Come scritto, si tratta di una conclusione alla quale perviene anche la dottrina più rigorosa, la quale ammette che la regola positiva deve essere abbandonata dall'operatore sanitario quando le specificità del caso concreto comportano il fallimento del modello di prevenzione indicato nelle raccomandazioni delle linee guida.
Anche nel settore prevenzionistico si insegna che all'osservanza delle regole positivizzate deve aggiungersi la messa in atto di misure dettate dalle particolari circostanze del caso.
In un caso nel quale, dovendo procedersi a lavori con un escavatore, il datore di lavoro aveva individuato il rischio e previsto la delimitazione dell'area di scavo ai sensi dell'art. 118, comma 3, d.lgs. 81/2008, questa Corte ha ritenuto corretto individuare un'ulteriore regola cautelare doverosa nel caso concreto, ovvero garantire la presenza di una persona che vigilasse l'area, considerato che un operaio era stato incaricato di eseguire alcune misurazioni nella zona dello scavo e che l'addetto all'escavatore aveva la visuale frontale occlusa (Sez. 4, n. 57361 del 29/11/2018, Petti, Rv. 27494901).
In breve, non vi può essere dubbio che ricorrono ipotesi nelle quali del tutto legittimamente l'ordinamento pretende dal gestore del rischio di non attenersi unicamente alla disciplina cautelare positivizzata, e gli impone di adottare ulteriori comportamenti ad efficacia prevenzionale non espressamente previsti.
Occorre però farsi carico delle istanze di determinatezza e di rispetto del principio di colpevolezza. Ad avviso di questa Corte la corretta applicazione del principio secondo il quale la regola cautelare deve essere preesistente al fatto permette di dare risposta a quelle necessità. Riferito alla regola non scritta esso garantisce che quella positivizzata sia stata riconosciuta dal consesso sociale di riferimento (in ragione delle acquisizioni tecniche e scientifiche o di consolidate conoscenze esperenziali, non assumendo rilievo l'osservanza di prassi non collimanti con tale patrimonio di conoscenze) come non più in grado di assicurare la eliminazione o la riduzione del rischio.
Assume rilevanza, anche sotto questo aspetto, che il carattere della preesistenza, comune alla regola positiva e alla regola sociale, ove controverso, debba essere oggetto di accertamento processuale. Dovrà essere accertato nel processo che era stata acquisita l'insufficienza del presidio cautelare normativizzato e che erano state individuate prescrizioni comportamentali ulteriori; se davvero esistenti, si può ammettere che queste possano essere non solo integratrici ma persino derogatrici, senza che risulti alienata né la loro predeterminazione (al giudice) né la loro conoscibilità (per l'operatore).
Detto altrimenti, il fallimento del modello prevenzionale codificato deve essere già dato acquisito, perché è in quel fallimento che si situa la legittimazione di quest'ultima.
La positivizzazione della regola determina una presunzione di esaustività dei precetti cautelari che però si smarrisce di fronte alla conoscenza della inidoneità allo scopo nelle condizioni date. La tutela dell'affidamento del destinatario del precetto penale nella sufficienza dell'osservanza della regola positiva non richiede di negare la legittimità di una colpa generica 'aggiuntiva'. L'affidamento può assumere rilevanza a favore del soggetto se non gli era conoscibile l'insufficienza della regola codificata.
Alla luce di quanto si è sin qui esposto deve concludersi che la positivizzazione della regola non può essere intesa dal gestore del rischio come garanzia di inesistenza di regole cautelari sociali convergenti verso la migliore gestione. Nelle attività lecite ma rischiose è principio di generale valenza l'inammissibilità di un comportamento di stampo burocratico.
Grande attenzione deve essere dedicata all'indagine circa l'avvenuto consolidamento della regola cautelare non positivizzata. Essa non può risolversi in un esercizio meramente retorico del giudicante; devono essere identificati i fatti implicitamente assunti, solo schermati dalla formula deontica che assume la prescrizione cautelare.
Tener presente le generalizzazioni che fanno da sfondo alle prescrizioni cautelari aiuta a comprendere a cosa si allude quando si afferma che la regola cautelare sorge da un ripetuto giudizio di prevedibilità e di evitabilità. La generalizzazione che considera la correlazione tra la situazione ed il rischio esprime il giudizio di prevedibilità; quella che considera la correlazione tra il rischio e la misura esprime il giudizio di evitabilità.
Verificare l'esistenza di tali generalizzazioni al tempo della condotta attesa è tra i compiti del giudice sollecitato ad affermare la ricorrenza di una colpa generica che travalica l'osservanza delle regole cautelari scritte.
Trattandosi di accertamento di fatti esso è dominio del giudice di merito, e l'operato di questi non è censurabile in sede di legittimità ove sostenuto da motivazione non manifestamente illogica o altrimenti viziata ai sensi dell'art. 606 cod. proc. pen.
19.3. Sinora si è scritto di regole cautelari, anche facendo riferimento a quelle che vengono in considerazione nel presente giudizio. Tuttavia ad alcune di esse - ad esempio quelle emanate dai ccdd. enti di normazione - è naturale alludere come a 'regole tecniche'. Ciò potrebbe indurre a ritenere che tali regole abbiano uno statuto diverso dalle regole cautelari; che esse siano vincolanti in modo non defettibile, nel senso sopra descritto. Per quanto intorno al concetto di regola tecnica si addensino tesi diverse, qui vale osservare che nell'ambito della filosofia del diritto si definisce regola tecnica quella che prescrive una condotta in quanto mezzo per il conseguimento di un fine dell'agente; la categoria antagonista è rappresentata dalle regole categoriche, che prescrivono comportamenti doverosi «in sé». Il fattore scriminante non è espresso dall'enunciato; che la regola fondi su una scelta assiologica o piuttosto su una connessione teleologica resta sotto la supeR***Icie testuale.
Ciò che in questa sede rileva, di un dibattitto complesso e che vede poco partecipe la dottrina penalistica, è che per le regole tecniche - anzi, in specie per queste - accade che la loro legittimazione è nella effettività della relazione di ’mezzo a fine', sicché esse devono essere osservate sin che non ne sia dimostrata l'inefficacia. Si comprende, quindi, perché con riguardo a regole come quelle emanate da organismi quali UNI, ISO, CEN, al fine di creare standard tecnici generalmente riconosciuti si ritiene, in Italia ma non solo, che esse rappresentino indici di diligenza doverosa nel caso concreto. Anche per questo versante rimane quindi confermata la peculiare natura della regola cautelare (che con la regola tecnica intrattiene rapporti strettissimi) rispetto alla ’norma'.
19.4. Ciò che è stato sinora osservato può essere riassunto nel seguente principio di diritto: "In tema di colpa in senso oggettivo, anche quando la diligenza doverosa sia specificata da regole cautelari contenute in enunciati, sì che la loro violazione può dar luogo ad ipotesi di colpa specifica, il gestore del rischio è tenuto ad osservare preesistenti regole cautelari non positivizzate pertinenti a tale gestione quando risulti ex ante l'inefficacia preventiva delle regole positivizzate, alla luce delle conoscenze scientifiche, tecniche o esperenziali pertinenti".

20. Colpa generica e normativa eurounitaria
20.1. Giunti a questo punto è necessario affrontare il secondo profilo del tema della colpa generica; ovvero quello della sua relazione con i vincoli che vengono dalla matrice comunitaria delle regole cautelari positivizzate.
L'indagine presuppone che venga convalidata la tesi dei ricorrenti secondo la quale, sul piano generale, il principio del mutuo riconoscimento dei carri, perno del sistema dell'interoperabilità dei carri 'comunitari', è incompatibile con pratiche che richiedono all'utilizzatore del carro un controllo, anche solo documentale, sull'operato del detentore (id est, proprietario) dello stesso; che, sul piano delle minute prescrizioni, le specifiche tecniche di interoperabilità, adottate dalla legislazione comunitaria, sono prevalenti sulla normativa nazionale (così, in particolare, nel ricorso di Tre*** come responsabile civile). In relazione alla vicenda che occupa la tesi è infondata.
Tanto i giudici di merito che le parti hanno fatto richiamo ad una nutrita serie di fonti senza stabilire con precisione la relazione corrente tra queste al fine di identificare l'esatto regime al quale era sottoposto il carro in questione. Si sono evocate senza adeguato coordinamento la Convenzione OTIF, i relativi allegati, il Contratto di utilizzazione uniforme, direttive comunitarie, decisioni della Commissione europea; per la Corte di appello ciò ha comportato alcune incertezze ricostruttive. Ai ricorrenti è valso per formulare alcuni assunti fondamentali: ovvero che la gestione del carro della quale era proprietaria G***x Rail Austria dovesse essere informata ai principi comunitari che ispirano la politica europea in materia di reti transeuropee, con gli effetti che si sono già menzionati.
Orbene, i motivi articolati dalle difese sono per un verso infondati e per altro non soddisfano i requisiti di cui all'art. 581, co. 1 lett. c) cod. proc. pen.
Occorre sottolineare che il carro sviato a Viareggio, pur di proprietà estera, era adibito al trasporto sulla sola rete italiana. Detto altrimenti, il trasporto dello stesso non dava luogo ad un traffico ferroviario internazionale o transeuropeo ma ad un traffico nazionale. Per 'traffico ferroviario internazionale' la normativa di settore intende quello che prevede il passaggio del treno (inteso come mezzo di trasporto di persone o merci) di almeno una frontiera statuale.
Il trasporto ferroviario interno di merci pericolose era disciplinato, nel tempo che rileva ai fini del presente giudizio, in primo luogo dal d.p.r. n. 753/1980, quindi dal d.lgs. n. 41/1999, che ha attuato la Direttiva 1996/49/CE, recante disposizioni per il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al trasporto di merci pericolose per ferrovia. All'art. 2 del decreto si prevede che esso trova applicazione al trasporto di merci pericolose per ferrovia effettuato interamente sul territorio nazionale e tra questo e il territorio di altri Stati membri dell'unione europea. Il comma 1 dell'art. 3 recita che "ferme restando le altre disposizioni del presente decreto e fatte salve le norme relative all'accesso delle imprese al mercato, l'autorizzazione per il trasporto per ferrovia delle merci pericolose è subordinata al rispetto delle norme contenute nell'allegato al presente decreto". Si tratta del Regolamento concernente il trasporto internazionale di merci pericolose per ferrovia (RID).
Il decreto 41 è stato per larga parte abrogato dal d.lgs. n. 35/2010, con il quale si è data attuazione alla direttiva 2008/68/CE, anch'essa relativa al trasporto interno di merci pericolose. L'art. 14 di tale decreto dispone, infatti, che "dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono abrogate le norme derivanti dal recepimento delle direttive 94/55/CE, 96/49/CE, 96/35/CE e 2000/18/CE trasposte nell'ordinamento interno con i sotto elencati decreti:
[…]
b) decreto legislativo 13 gennaio 1999, n. 41, di attuazione delle direttive 96/49/CE e 96/87/CE relative al trasporto di merci pericolose per ferrovia, e successive modificazioni, per quanto in esso predisposto è incompatibile con te disposizioni del presente decreto e, comunque, ad esclusione degli articoli 1, comma 1, lettera d), e 2, comma 5".
Pertanto nel periodo connesso alle contestazioni era in vigore il d.lgs. n. 41/1999; e quindi il RID.
Come è stato ampiamente rammentato dai giudici di merito, le relazioni transnazionali nell'ambito del trasporto ferroviario, di persone e di merci, sono state tradizionalmente disciplinate da atti pattizi bilaterali o multilaterali, il più importante tra i quali è stato il Regolamento Internazionale Veicoli (cd. RIV), emanato nel 1922 dall'unione Internazionale delle Ferrovie (associazione tra le amministrazioni nazionali europee; cd. UIC). L'accordo stabilisce i requisiti tecnici che un carro deve avere per essere "scambiato" tra le imprese ferroviarie ed essere utilizzato nei servizi internazionali. I carri marcati RIV (omologati e immatricolati da una delle Ferrovie aderenti all'accordo ed oggetto di manutenzione da parte delle stesse) sono accettati ed ammessi a circolare senza nessun vincolo, se non quello della visita di verifica tecnica (consistente in controlli effettuati 'a vista' o con l'ausilio di strumenti semplici, non idonei ad individuare eventuali vizi occulti). Il RIV attiene, lo si ripete, a carri di proprietà di imprese ferroviarie e al traffico ferroviario internazionale.
Per i carri privati l'UIC definì le Condizioni Generali d'Uso (CGU), emanate con la Fiche 433, contenenti regole per la immatricolazione, la manutenzione e la gestione di tali carri. La Fiche reca le Condizioni generali (SGC) che regolano i rapporti tra il proprietario di un carro privato e l'impresa ferroviaria che sottoscrive il contratto per il suo uso; tali condizioni vengono distinte in condizioni preliminari e condizioni di uso. Tra le condizioni preliminari vi è quella del punto 2.1., per la quale i vagoni adibiti al traffico internazionale devono rispettare le disposizioni tecniche di cui al RIV. In tal modo risulta estesa al rapporto proprietario-impresa ferroviaria questa disciplina che era limitata al rapporto tra imprese ferroviarie.
Anche la Fiche 433 ha ad oggetto il traffico internazionale. Essa prevede, nell'ambito del punto 3.2.1 (Uso dei vagoni privati Contratto di trasporto), e segnatamente al punto 3.2.1.2, che "Le condizioni per la messa in servizio di un vagone (vuoto o pieno) sono così stabilite:
-per il traffico internazionale, dal COTIF (Convenzione che riguarda il Trasporto Internazionale su rotaie)
- per il traffico interno, secondo i termini contrattuali dell'impresa ferroviaria che provvede al trasporto".
Anche il punto 3.4.1 (Danni e perdite - Campo di Applicazione) - nel prevedere che le disposizioni della sezione si applicano nel caso di vagoni che siano coperti da CIM (Regole uniformi che riguardano il contratto per il trasporto internazionale di merci su rotaie -Appendice B del Cotif), ovvero da un contratto di trasporto per il traffico domestico oppure non coperti da un contratto di trasporto, ma che sono sotto la supervisione dellTmpresa Ferroviaria - stabilisce che le norme comprese nei punti 3.4.2 e 3.4.3, riguardanti, tra quelli appena citati, i vagoni privati non coperti da CIM, sono applicabili nella misura in cui sono compatibili con la legislazione del paese in cui si trovano i vagoni in questione.
La Convenzione sul Trasporto internazionale per Ferrovia, sottoscritta a Berna il 9.5.1980 in ambito OTIF (organismo intergovernativo che vede la partecipazione anche dell'Italia) e modificata con il Protocollo di Vilnius del 3.6.1999 (ratificata dall'Italia solo con la legge n. 174/2014), consta di alcune Appendici: la A reca le «Regole uniformi relative al contratto di trasporto internazionale ferroviario dei viaggiatori (CIV)»; la B le «Regole uniformi relative al contratto di trasporto internazionale delle merci (CIM)»; la C il «Regolamento relativo al trasporto internazionale ferroviario delle merci pericolose (RID)»; la D le «Regole uniformi relative ai contratti di utilizzazione dei veicoli nel traffico internazionale ferroviario (CUV)»; la E le «Regole uniformi relative al contratto di utilizzazione dell'infrastruttura nel traffico internazionale ferroviario (CUI)».
L'art. 1 della CIM ne definisce il campo di applicazione; per quel che qui rileva è sufficiente citarne il primo comma: "Le presenti Regole uniformi si applicano ad ogni contratto di trasporto ferroviario di merci a titolo oneroso, quando il luogo della presa in carico della merce ed il luogo previsto per la riconsegna sono situati in due Stati membri diversi, qualunque sia la sede e la nazionalità delle parti del contratto di trasporto" (così nel testo in vigore al 1.7.2006; ma quello previgente lo definiva in modo analogo).
Il RID ha il medesimo campo di applicazione, giacché il suo punto 1.1.2 (risalente già alla versione allegata al d.m. 7.11.2006) stabilisce che le disposizioni costituiscono esecuzione dell'art. 4, lett. d) e dell'art. 5, par. 1 lett. a) del CIM (testo previgente al 1.7.2006).
Similmente le altre Appendici.
Pertanto, la disciplina recata da tali atti non può essere di per sé estesa al traffico ferroviario nazionale di merci pericolose; tale effetto può realizzarsi solo allorquando vi sia il recepimento di essa per la regolamentazione di tale attività.
Qui viene in considerazione appunto la direttiva 96/49/CE e quindi il d.lgs. n. 41/1999, che ha esteso al trasporto interno l'applicazione del RID. Il quale nel tempo ha subito degli aggiornamenti indotti dal progresso delle conoscenze scientifiche e tecniche; le relative versioni sono state recepite dall'Italia con decreti ministeriali. Le modifiche ad esso recate con le direttive 2004/89/CE e 2004/110/CE sono state recepite mediante il già menzionato decreto del Ministero dei Trasporti del 7.11.2006; allo stesso modo il D.M. Trasporti del 19 marzo 2008, con il quale è stata recepita la direttiva 2006/90/CE della Commissione del 3 novembre 2006, di adattamento al progresso tecnico della direttiva 96/49/CE del Consiglio, per il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di trasporto merci pericolose per ferrovia, ha dato cogenza al RID nella edizione del 2007.
Per ciò che concerne il RIV, la sua applicazione al traffico interno è avvenuta in via indiretta. Nel 2006 il RIV è stato sostituito dal Contratto di Utilizzazione Uniforme dei carri (CUU), stipulato in ambito UIC con l'Unione dei detentori dei carri e con l'Associazione dei trasportatori europei di merci. In particolare, nell'Allegato 9 è trasposto l'Allegato XII del RIV. Inoltre all'art. 2.1 si prevede che il CUU prevalga, per il traffico ferroviario internazionale, sulle Regole Uniformi CUV (Appendice D alla COTIF 1999) e per il traffico nazionale sulle prescrizioni nazionali di volta in volta applicabili, fin tanto che il contratto stesso sia applicabile.
Il campo di applicazione del CUU è l'utilizzazione dei carri come mezzi di trasporto ferroviario nazionale e internazionale (in ambito COTIF); inoltre si applica tanto agli scambi tra imprese ferroviarie che agli scambi tra il detentore del carro e l'impresa ferroviaria. Pertanto esso trova applicazione al carro che qui interessa.
20.2. Se la normativa pattizia era ed è volta essenzialmente a garantire la certezza dei rapporti commerciali tra imprese ferroviarie impegnate nel traffico internazionale, definendo diritti e doveri reciproci degli operatori economici, anche in relazione ad eventuali danni recati a terzi, la regolamentazione che si è sviluppata a ritmo sempre più sostenuto in seno alla Comunità europea prima e all'unione europea poi origina dalla aspirazione a realizzare reti transeuropee di trasporti (ma anche di energia e di telecomunicazioni) come fattori essenziali alla liberalizzazione di tali settori economici e alla libertà di circolazione delle persone e delle merci nello spazio europeo.
Con la Direttiva 91/440/CEE si introdussero disposizioni volte a favorire lo sviluppo delle ferrovie comunitarie, considerando che una maggiore integrazione del settore comunitario dei trasporti è essenziale per il mercato interno; si impegnarono gli Stati membri ad assicurare l'autonomia gestionale delle imprese ferroviarie; a separare la gestione dell'infrastruttura ferroviaria e l'esercizio di servizi di trasporto da parte delle imprese ferroviarie, operando una separazione contabile obbligatoria e una separazione organica o istituzionale facoltativa; a risanare la struttura finanziaria delle imprese ferroviarie; a garantire il diritto d'accesso alle reti ferroviarie degli Stati membri per le associazioni internazionali di imprese ferroviarie, nonché per le imprese ferroviarie che effettuano trasporti combinati internazionali di merci.
La Direttiva venne modificata dal quella 2001/12/CE, che insieme alla 2001/13/CE, relativa alle licenze delle imprese ferroviarie e alla 2001/14/CE, relativa alla ripartizione della capacità di infrastruttura ferroviaria, trovò attuazione in Italia con il d.lgs. n. 188/2003.
Con tale provvedimento vennero disciplinati l'utilizzo e la gestione dell'infrastruttura ferroviaria adibita a servizi di trasporto ferroviario nazionali e internazionali ed i principi e le procedure da applicare nella determinazione e nella imposizione dei diritti dovuti per il suo utilizzo; l'attività di trasporto per ferrovia effettuata da imprese ferroviarie operanti in Italia e i criteri relativi al rilascio, alla proroga ed alla modifica delle licenze per la prestazione di servizi di trasporto ferroviario da parte delle imprese ferroviarie e delle associazioni internazionali di imprese ferroviarie; il diritto di accesso all'infrastruttura ferroviaria per le associazioni internazionali di imprese ferroviarie e per le imprese ferroviarie; i principi e le procedure da seguire nella ripartizione della capacità di infrastruttura ferroviaria e nella riscossione dei diritti dovuti per l'utilizzo della infrastruttura.
Nel contempo, considerato che per un maggior accesso delle imprese ferroviarie alle reti ferroviarie degli Stati membri è necessaria l'interoperabilità delle infrastrutture, delle apparecchiature, del materiale rotabile e dei sistemi di gestione e di funzionamento, venne adottata la Direttiva 2001/16/CE, relativa all'interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo convenzionale (sulla falsariga della Direttiva 96/48/CE, in tema di interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo ad alta velocità).
Se l'interconnessione attiene alla relazione di natura fisica tra sistemi o reti, tendente a garantire la loro interazione (implica, ad esempio, l'eliminazione delle barriere fisiche), l'interoperabilità è la capacità di due o più sistemi di interagire tra loro.
Alla materia delle reti transeuropee era dedicato già il Titolo XII del Trattato di Maastricht, nel quale si delineavano i tratti di una competenza concorrente della Comunità per la costituzione e lo sviluppo di tali reti nei settori delle infrastrutture e dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell'energia (art. 129B). A tal scopo si prevedeva che la Comunità, oltre a stabilire un insieme di orientamenti contemplanti gli obiettivi, le priorità e le linee principali delle azioni previste nel settore delle reti transeuropee, intraprendesse ogni azione necessaria per garantire l'interoperabilità delle reti, in particolare nel campo delle norme tecniche (art. 129C).
Alle reti transeuropee era stata dedicata la Risoluzione del Consiglio del 22.1.1990, che poneva l'accento sull'esigenza di assegnare priorità allo sviluppo e all'interconnessione delle stesse e invitava la Commissione a presentare un programma di lavoro e proposte relative ad opportune misure, impegnandola a formare un gruppo di lavoro intergovernativo al fine di coordinare i lavori relativi alla realizzazione di reti transeuropee. Nel novembre dello stesso anno veniva adottato il Regolamento n. 3359/90 del Consiglio, con il quale veniva definito un programma d'azione nel campo dell'infrastruttura di trasporto in vista della realizzazione del mercato integrato dei trasporti. Successivamente il ruolo delle istituzioni europee è stato definito in termini più marcati dal Trattato di Lisbona, nel quale si abbandona la formula della "incentivazione dello sviluppo e della costituzione" di reti transeuropee a favore della esplicita inclusione della materia in quelle di attribuzione concorrente dell'Unione (ciò non ha comportato una modifica dei contenuti precettivi degli articoli 129B-129D del TCE, trasfusi negli articoli da 170 a 172 del TFUE).
Tale competenza è riconosciuta al fine di promuovere l'interconnessione, l'interoperabilità e l'accesso alle reti nazionali "nel quadro di un sistema di mercati aperti e concorrenziali" (così l'art. 170, par. 2 TFUE). Il fine ultimo che si intende perseguire esercitando questa competenza concorrente è quello di permettere il funzionamento del mercato eurounitario. In dottrina è stato rimarcato che l'art. 170 TFUE correla quella competenza all'esigenza di "contribuire al raggiungimento degli obiettivi di cui agli articoli 26 e 174" e di "consentire ai cittadini dell'unione, agli operatori economici e alle collettività regionali e locali di beneficiare pienamente dei vantaggi derivanti dall'instaurazione di uno spazio senza frontiere interne".
In tale quadro, ha un ruolo decisivo l'opera di armonizzazione delle norme tecniche, volta a definire "per tutta la Comunità requisiti essenziali da applicare al suo sistema ferroviario", in modo da favorire l'effettiva apertura dei mercati, minata dalle rilevanti differenze esistenti tra le normative nazionali, i regolamenti interni e le specifiche tecniche applicati dalle ferrovie, ragione di ostacolo per la circolazione dei treni in buone condizioni su tutto il territorio comunitario (si veda, ad esempio, la Direttiva 2008/57/CE).
I requisiti essenziali trovano concretizzazione attraverso l'opera di normalizzazione. Questa, in generale, è delegata dalla Commissione europea agli Organismi europei di standardizzazione; si tratta, appunto, per quel che qui rileva, del Comitato europeo di normazione (CEN) e del Comitato europeo di normalizzazione elettrotecnica (CENELEC) (ai quali si aggiunge l'ETSI, Istituto europeo per le norme di telecomunicazione). Come annota la dottrina, "gli standard tecnici adottati da questi ultimi, in sede di c.d. co-regolamentazione, non assumono carattere vincolante, ma il loro rispetto genera una presunzione di conformità rispetto ai requisiti essenziali di sicurezza".
Con specifico riferimento alle reti ferroviarie europee, i requisiti essenziali definiti dal legislatore vengono ulteriormente precisati da atti delegati adottati dalla Commissione, le c.d. specifiche tecniche di interoperabilità. "Le STI" - si osserva in dottrina - "disciplinano le condizioni di conformità dei c.d. componenti di interoperabilità e le procedure di valutazione di tale conformità e determinano quali componenti debbano formare oggetto di specifiche funzionali e tecniche sotto forma di norme europee. L'adozione di queste ultime garantisce la «presunzione di conformità rispetto a determinati requisiti essenziali», previa una verifica condotta dall'organismo di normazione nazionale, il quale rilascia l'eventuale autorizzazione all'immissione in commercio o in servizio".
La normativa comunitaria concernente il traffico ferroviario è particolarmente ampia; comunemente si segnala la sua formazione a stadi successivi menzionando i quattro 'pacchetti' di provvedimenti che ne hanno segnato le tappe più importanti. Quelli di più diretto interesse in questa sede sono la già citata Direttiva 2001/16/CE (che ha trovato attuazione con il d.lgs. n. 268/2004); la Direttiva 2004/49/CE, relativa alla sicurezza delle ferrovie europee ed attuata con d.lgs. n. 162/2007; la Decisione 2006/861/CE.
Con i decreti nazionali di attuazione delle direttive è stata definita l'architettura del sistema ferroviario, in modo da renderlo coerente con il modello delineato in sede comunitaria. L'originario accentramento in un unico soggetto dei ruoli di gestore della rete e impresa ferroviaria è stato superato in favore di una netta separazione; si sono poste le condizioni per l'accesso alla rete ferroviaria di qualsiasi impresa, purché avente i requisiti richiesti, anche con riferimento alla sicurezza dell'esercizio. Di pari passo, sono state dettate le prescrizioni atte a permettere la circolazione dei vagoni sull'intera rete europea, abbattendo le barriere fisiche che ostacolano l'interconnessione e stabilendo requisiti e procedure tecniche idonee ad eliminare gli ostacoli alla interoperabilità.
20.3. A questo punto è possibile esaminare le argomentazioni dei ricorrenti.
Secondo il Mo.[MA.] l'art. 5 della direttiva 49/1996, gli artt. 5, 9, 10, 15 e 16 della Direttiva 16/2001, i punti 2, 7.3, 7.4, 7.5. 7.5.1, 7.6. della Decisione 861/2001 e gli artt. 12 e 20 della Direttiva 57/2008 conterrebbero norme in forza delle quali si dovrebbe concludere che vigono, "Nella dimensione transnazionale, il principio della libera circolazione, del mutuo riconoscimento delle operazioni manutentive, della tendenziale non duplicazione delle verifiche, della responsabilizzazione del soggetto a cui è assegnata una specifica posizione di garanzia..." (ricorso a firma congiunta degli avv. D.P. e C.).
Nel ricorso di Tre*** s.p.a. in veste di responsabile civile, che si può assumere come paradigmatico delle censure elevate dai ricorrenti Ca.[MA.], Ma.[EM.] e So.[VI.], a parte i richiami a disposizioni del RIV e della Fiche 433, si rammenta il punto 2.7.2. dell'allegato alla decisione 2004/446/CE del 29.4.2004, laddove recita che ”i carri adibiti al trasporto di alerei pericolose devono rispettare i requisiti della presente STI e quelli del RID... (che) garantisce un livello di sicurezza molto elevato"; e che la Direttiva 1996/49/CE, all'art. 2, prevede che il trasporto di merci pericolose per la ferrovia è autorizzato a condizione che siano rispettate le norme fissate nell'allegato, ovvero il RID.
Proprio da questa direttiva, e segnatamente dal considerando 10 e dall'art. 5, si trarrebbe la regola della prevalenza della normativa comunitaria, perché essi escludono la possibilità di correzioni nazionali alla normativa sovranazionale.
Della direttiva 2001/16/CE si segnalano gli articoli 9, 10, 15 e 16, perché fanno divieto agli Stati membri di limitare o ostacolare l'immissione sul mercato dei componenti di interoperabilità e la costruzione, la messa in servizio ed esercizio di sottosistemi strutturali che soddisfino le disposizioni della direttiva. Né essi possono esigere verifiche già compiute nell'ambito della procedura relativa alla dichiarazione CE di conformità o di idoneità all'impiego dei componenti o relativa alla dichiarazione CE di verifica dei sottosistemi.
Si cita poi l'art. 13 del d.lgs. 268/2004, di attuazione della citata direttiva, nella parte in cui prevede che la verifica che un componente o un sottosistema soddisfi gli ulteriori requisiti di sicurezza, non specificati nelle STI, è svolta sulla base delle vigenti norme nazionali in materia; se ne trae che solo in assenza di STI assumono efficacia le norme nazionali.
Viene sollecitata attenzione anche al punto 7.5.1. della STI allegata alla Decisione 2006/861 CE: la relativa disposizione permetterebbe di continuare ad utilizzare i carri oggetto degli accordi in essere a condizione che siano conformi alla normativa comunitaria.
Per contro, non troverebbe applicazione al carro in questione la previsione del punto 4.2.8.1.2 del medesimo allegato, a mente della quale ove responsabile della manutenzione non sia l'impresa ferroviaria che utilizza il carro, questa "deve accertarsi che tutte le procedure di manutenzione pertinenti siano presenti ed effettivamente applicate. La conformità deve inoltre essere adeguatamente dimostrata anche nel sistema di gestione della sicurezza dell'impresa ferroviaria". Tale previsione non si applicherebbe perché all'art. 2 si dispone che la STI non si applica ai carri merci oggetto di contratti firmati prima dell'entrata in vigore della STI medesima. E ciò in quanto si tratta di carri conformi agli accordi previsti dalla sezione 7.5.
Da tutte queste norme viene dedotto che non solo sono esclusi aggiuntivi controlli manutentivi e strumentali diretti ma anche controlli documentali "perché (quelle norme: ndr) stabiliscono i limiti del comportamento esigibile dall'impresa ferroviaria utilizzatrice del carro e le condizioni che ne legittimano l'esercizio 'senza ulteriori controlli di sicurezza'".
20.4. Il carattere nazionale del trasporto in occasione del quale si verificò il sinistro dal quale è scaturito anche il presente procedimento e la stessa previsione da parte della normativa comunitaria di disposizioni specificatamente dedicate al trasporto ferroviario interno di merci pericolose sarebbero di per sé sufficienti a giustificare il giudizio di infondatezza degli assunti dei ricorrenti incardinati sulla evocazione di testi comunitari che attengono alla interoperabilità nell'ambito del sistema ferroviario transeuropeo. Tuttavia non sfugge alla Corte il carattere multilivello della disciplina del trasporto ferroviario, anche di quello interno.
Per questo motivo è necessario verificare se le disposizioni invocate dettino regole applicabili anche al carro sviato a Viareggio.
Con la Direttiva 2001/16/CE, oltre a definire la nozione di interoperabilità come "la capacità del sistema ferroviario transeuropeo convenzionale di garantire la circolazione sicura e con soluzione di continuità dei treni garantendo il livello di prestazioni richiesto dalle linee. Tale capacità si fonda sull'insieme delle prescrizioni regolamentari, tecniche ed operative che debbono essere soddisfatte per ottemperare ai requisiti essenziali" (art. 2 lett. b), si strutturò il sistema ferroviario transeuropeo convenzionale come un insieme di sottosistemi, per ciascuno dei quali prevedere i requisiti essenziali e determinare le specifiche tecniche necessarie a soddisfare tali requisiti (Considerando 17). Si delineò anche la procedura per definire le specifiche tecniche di interoperabilità (STI) e la loro modifica.
La Direttiva è stata attuata con il d.lgs. n. 268/2004 che, coerentemente, definisce l'architettura del sistema di interoperabilità. Per quel che qui rileva, il provvedimento non introduce regole tecniche ma prescrive l'uso esclusivo di componenti di interoperabilità conformi, ovvero che consentono di soddisfare i requisiti essenziali; che la conformità è attestata dalla dichiarazione CE o di idoneità all'impiego, che ha quale premessa il rispetto delle condizioni previste dalle relative STI (in assenza di norme nazionali). Il solo enunciato che evoca i temi oggetto del presente procedimento è quello del comma 9 dell'art. 5, il quale prevede che i componenti con dichiarazione CE "sono sottoposti a interventi di verifica e manutenzione da parte degli utilizzatori atti a garantire nel tempo il mantenimento dei requisiti essenziali, nel rispetto delle disposizioni e prescrizioni adottate dal gestore dell'infrastruttura".
Sulla base della citata Direttiva è stata assunta anche la Decisione della Commissione europea del 28.7.2006 (2006/861/CE) con la quale è stata adottata la specifica tecnica di interoperabilità («STI») relativa al sottosistema «Materiale rotabile - carri merci» del sistema ferroviario transeuropeo convenzionale, entrata in vigore il 1.1.2007.
Secondo l'art. 1 della Decisione "La STI è pienamente applicabile ai carri merci facenti parte del materiale rotabile del sistema ferroviario transeuropeo convenzionale ma la stessa STI contempla un paragrafo 7 nel quale si dettano regole diversificate a seconda che si tratti di materiale rotabile nuovo o di materiale rotabile esistente, prevedendo per quest'ultimo (ovvero per il materiale già in esercizio al tempo di entrata in vigore della STI), al punto 7.4. che la STI non si applica al materiale esistente finché non è rinnovato o ristrutturato (7.4.1.).
Tenendo conto dell'esistenza di accordi nazionali, bilaterali, multilaterali o internazionali già esistenti, nella STI si prevede che "I carri oggetto di questi accordi possono continuare a essere utilizzati e sottoposti a interventi di manutenzione a condizione che siano conformi alla normativa europea", nel mentre si preannuncia la valutazione della conformità di tali accordi alla legislazione dell'UE e alla STI in particolare.
Avendo previsto l'obbligo degli Stati membri di notificare alla Commissione gli accordi che disciplinano l'utilizzo dei carri merci relativi al campo di applicazione della STI, viene escluso l'obbligo di notifica per "l'accordo RIV e gli strumenti COTIF" (7.5.1.).
Dal che si trae che nel 2005 l'utilizzo del carro in questione non era disciplinato dalla STI adottata con la menzionata Decisione, non essendo stato sottoposto a rinnovamento o ristrutturazione nell'accezione della Direttiva 2001/16/CE; esso era disciplinato dal RIV/CUU e dal RID.
La Decisione è stata abrogata dal Regolamento (UE) n. 321/2013 della Commissione, del 13.3.2013. È rilevante considerare che con tale regolamento, dopo che con la decisione C(2010) 2576 del 29.4.2010 la Commissione aveva conferito alla Agenzia ferroviaria europea di elaborare e rivedere le STI per ampliarne l'applicazione all'intero sistema ferroviario UE e questa aveva presentato una raccomandazione per la revisione della STI relativa al sottosistema 'materiale rotabile -carri merci", si è prevista l'applicazione della (nuova) STI a tutti i nuovi carri merci del sistema ferroviario dell'UE ed anche ai carri merci esistenti: a) quando è ristrutturato o rinnovato, b) in relazione a disposizioni specifiche, quali la tracciabilità degli assi di cui al punto 4.2.3.6.4 e il piano di manutenzione di cui al punto 4.5.3.
È stata quindi ribadita la non applicabilità nel complesso della STI ai carri merci già esistenti, ad eccezione delle previsioni in tema di tracciabilità degli assi; resta confermato che al tempo del sinistro che qui occupa la STI non era applicabile al carro sviato.
La direttiva 2004/49/CE, sulla premessa che quelle 91/440/CE, 95/18/CE e 2001/14/CE avevano dettato disposizioni in materia di sicurezza ferroviaria insufficienti e che ancora si registrava una eterogeneità dei requisiti di sicurezza, ha dettato norme tese alla armonizzazione della struttura normativa negli Stati membri; alla ripartizione delle responsabilità fra i soggetti interessati; allo sviluppo di obiettivi comuni di sicurezza e di metodi comuni di sicurezza per consentire una maggiore armonizzazione delle norme nazionali; all'istituzione in ciascuno Stato membro di un'autorità preposta alla sicurezza e di un organismo incaricato di effettuare indagini sugli incidenti e sugli inconvenienti; alla definizione di principi comuni per la gestione, la regolamentazione e la supervisione della sicurezza ferroviaria. Gli obiettivi si sono tradotti nella strutturazione di un modello di organizzazione della sicurezza ferroviaria complesso, tra i cui capisaldi possono essere ricordati: gli obiettivi comuni di sicurezza (CST), sviluppati attraverso l'uso di indicatori e metodi comuni di sicurezza (rispettivamente CSI e CSM); l'articolazione della gestione del rischio sul piano soggettivo, ripartita tra le imprese ferroviarie, il gestore della infrastruttura, responsabili ciascuno per la propria parte di sistema, oltre che l'autorità nazionale preposta alla sicurezza; l'elaborazione, da parte del gestore dell'infrastruttura e dell'impresa ferroviaria di propri sistemi di gestione della sicurezza ferroviaria; l'accessibilità dell'impresa ferroviaria all'infrastruttura solo in forza di un certificato di sicurezza che attesta il raggiungimento da parte di questa dello standard previsto; l'autorizzazione di sicurezza rilasciata al gestore dell'infrastruttura.
L'ambito di applicazione della direttiva è costituito dal "sistema ferroviario degli Stati membri", salvo che questi non si avvalgano della facoltà di escludere l'applicazione delle misure esecutive della direttiva per alcuni definiti sistemi di trasporto, alcune infrastrutture.
La direttiva ha trovato attuazione in Italia con il d.lgs. 162/2007. Né la direttiva né le disposizioni nazionali adottano una STI (che d'altronde venivano adottate con lo strumento della Decisione della Commissione europea).
Dai ricorrenti in parola è stato sostenuto che al carro in questione trovava applicazione la STI adottata con la decisione 2004/446/CE del 29.4.2004.
La decisione è intervenuta a dettare "i parametri fondamentali delle specifiche tecniche di interoperabilità riguardanti i sottosistemi Rumore, Carri merci e Applicazioni telematiche per il trasporto merci di cui alla direttiva 2001/16/CE". Il suo ambito di applicazione, quindi, è quello stesso della direttiva 2001/16.
Per mera completezza si può rammentare che per quanto concerne, in particolare, i carri merci, la Decisione detta i parametri relativi ad alcuni fattori quali l'interfaccia tra veicoli, tra insieme di veicoli e convogli, la sicurezza di accessi ed uscite del materiale rotabile, la immobilizzazione del carico, la chiusura e blocco delle porte ed altro ancora. Con specifico riferimento ai veicoli speciali per il trasporto delle merci pericolose e gas sotto pressione, la STI (2.7.) dispone che essi devono rispettare i requisiti della STI medesima e del RID. Nel complesso non vengono dettate prescrizioni specifiche per lo svolgimento delle attività di manutenzione sugli assili; nell'ambito della definizione dei parametri relativi alla solidità della struttura principale del veicolo si prevede che "l'ispezione della struttura del carro segue il normale calendario di manutenzione. Quando si riscontrano segni significativi di usura, di incrinatura o di corrosione, devono essere effettuate le opportune riparazioni"; al punto 2.7.2. si stabilisce che la manutenzione dei carri merci e delle cisterne deve rispettare le norme EN 12972 e la direttiva 1999/96 del Consiglio, nonché il RID.
In particolare Tre*** s.p.a., quale responsabile civile, ha fatto riferimento anche alle direttive 2008/57/CE e 2008/110/CE. Quest'ultima aveva apportato alcune modifiche alla direttiva 2004/49/CE. Con la prima sono state trasfuse in un solo testo le direttive 96/48/CE del Consiglio, del 23 luglio 1996, relativa all'interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo ad alta velocità, e la direttiva 2001/16/CE, che nel frattempo aveva subito modifiche sostanziali con la direttiva 2004/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio. La direttiva è di particolare importanza nello sviluppo del progetto della rete ferroviaria transeuropea perché precisa il quadro delle fonti che disciplinano i requisiti essenziali da applicare al sistema ferroviario. Essa muove dalla necessità di chiarire il rapporto tra i requisiti essenziali e le STI, da un lato, e le norme europee e altri documenti a carattere normativo, dall'altro, distinguendo tra le norme o parti di norme necessariamente obbligatorie per conseguire gli obiettivi della presente direttiva e le norme «armonizzate» (Considerando 12).
La direttiva rammenta che le specifiche europee sono sviluppate in base al nuovo approccio in materia di armonizzazione tecnica e di normalizzazione e che consentono di beneficiare di una presunzione di conformità rispetto a determinati requisiti essenziali della presente direttiva, soprattutto nel caso dei componenti di interoperabilità e delle interfacce. Queste specifiche europee, o le parti di esse applicabili, non sono obbligatorie e non è necessario alcun riferimento esplicito a dette specifiche nelle STI. Tuttavia le norme o specifiche europee diventano obbligatorie a partire dal momento in cui la STI è applicabile. Le STI fissano tutte le condizioni che un componente di interoperabilità deve soddisfare, nonché la procedura da seguire per la valutazione della conformità; ogni componente deve essere sottoposto alla procedura di valutazione di conformità e di idoneità all'impiego indicata nelle STI ed essere munito del relativo certificato.
Nel Capo II sì prevede quali contenuti debba avere una STI, quali procedure per la sua adozione, per la sua revisione, gli effetti della sua incompiutezza, le condizioni per una deroga alla sua applicabilità.
Per la parte che qui rileva la direttiva è entrata in vigore il 19.7.2010 e pertanto in questa sede assume valore unicamente conoscitivo; la stessa Tre*** la evoca unicamente in relazione alla definizione di 'detentore'.
Altrettanto vale per il d.lgs. n. 191/2010, che ha attuato la direttiva 2008/57.
20.5. Alla luce di quanto sin qui esposto risulta, quindi, che gli accordi stipulati in tempo storico hanno continuato a disciplinare i rapporti commerciali internazionali; alcuni hanno trovato applicazione anche al trasporto nazionale e si sono estesi a regolamentare i rapporti che coinvolgevano anche soggetti diversi dalle imprese ferroviarie (il detentore, talvolta il noleggiatario). Solo per i carri nuovi o rinnovati tali rapporti sono stati normati, per il profilo strettamente tecnico, dalla disciplina introdotta dalla Comunità europea, incentrata sulle STI; questa non si è estesa ai carri merci già esistenti se non con prescrizioni del tutto generiche.
La circostanza ha rilievo, perché sulla base delle norme pattizie non si danno i medesimi vincoli alla normativa nazionale che sono riconosciuti a fronte di normativa armonizzata comunitaria, come subito si verificherà.
20.6. Escluso che le STI costituiscano fonte di regole cautelari/tecniche applicabili al carro in questione, va affrontato l'assunto di fondo dei ricorrenti, i quali hanno sostenuto che l'interpretazione data dai giudici di merito concreta una violazione del principio del mutuo riconoscimento; sembra di comprendere che in tal modo si sia voluta indicare una lesione della libertà di circolazione delle persone e delle merci nell'ambito dell'unione.
Tale prospettazione è però stata formulata in termini del tutto generici. Si è infatti sostenuto che la circolazione del carro in questione era ispirata al principio del mutuo riconoscimento, cardine del sistema dell'interoperabilità, concludendo per ciò solo che la violazione del primo comporta una violazione della normativa comunitaria. Si è già esposto che in realtà la circolazione del carro sviato a Viareggio era disciplinata essenzialmente dal RID e dal CUU.
In ogni caso si deve osservare che la libertà di circolazione delle merci rappresenta senz'altro ragione di limitazione della discrezionalità regolativa degli Stati membri; una limitazione che essi hanno assunto con la adesione ai Trattati della CE e oggi dell'UE. Tuttavia, anche questi hanno sempre contenuto una previsione che legittima provvedimenti nazionali dai quali discendono oggettivamente riflessi negativi per il libero svolgimento degli scambi nel mercato interno; provvedimenti che si traducono in 'misure di effetto equivalente'.
La previsione è nell'attualità quella dell'art. 36 TFUE; in passato una disposizione del medesimo tenore era contenuta nel TCEE e nel TCE. La disposizione elenca una serie di ragioni di pubblico interesse che possono giustificare tali provvedimenti nazionali. Secondo la giurisprudenza della CGUE si tratta di un elenco tassativo; in questa sede è sufficiente rilevare che tra quelle ragioni vi sono 'motivi di tutela della salute e della vita delle persone".
Accanto, ma distinte, da tali causali vi sono poi le cd. esigenze imperative, che consentono agli Stati membri di adottare normative nazionali che determinano limiti al libero scambio. Esse non sono individuate in modo tassativo ma vengono riconosciute di volta in volta. Secondo la giurisprudenza comunitaria esse possono essere invocate solo con riferimento alle 'misure indistintamente applicabili' adottate in assenza di armonizzazione; laddove le ragioni di cui all'art. 36 possono attenere tanto a dette misure che a quelle 'distintamente applicabili'. Inoltre le cd. esigenze imperative - costituite da "fini di interesse generale, il cui carattere sia così imperativo da giustificare una deroga ad una regola fondamentale del Trattato quale la libera circolazione delle merci" (CGUE 20.2.1979, C-120/78, Rewe- Zentral) - non operano se si tratta di giustificare misure discriminatorie e nel campo delle esportazioni. Come è stato osservato dalla dottrina, "la giurisprudenza sulle esigenze imperative consente, quindi, proprio con riferimento alle misure indistintamente applicabili, di attribuire un certo rilievo alle normative degli Stati 'di destinazione' (cioè degli Stati nei quali sono immesse le merci prodotte in altri Stati membri), in deroga al principio del mutuo riconoscimento". Sicché la circolazione dei prodotti fabbricati in conformità alle regole dello Stato di origine non deve necessariamente essere consentita e senza limiti in tutto il mercato interno.
In ogni caso, le misure ad effetto equivalente devono essere proporzionate, ovvero costituire il mezzo più adeguato al raggiungimento dello scopo e meno nocivo per gli scambi (cfr. CGUE 30.11.1995, C-55/94, Gebhard). È peraltro noto che il giudizio in merito al bilanciamento degli interessi contrapposti spetta anche ai giudici nazionali; poiché esso presuppone la natura di misura di effetto equivalente del provvedimento nazionale e l'esistenza di una causale giustificativa, è ovvio che la valutazione del giudice nazionale si estende anche a tali aspetti.
Giova rilevare che, con particolare riferimento alla tutela della salute e della vita delle persone si registrano alcune pronunce della Corte di Giustizia nelle quali è stata riconosciuta la possibilità che essa giustifichi misure ad effetto equivalente. Ad esempio, nella sentenza dell'8.3.2001, C-405/98, Gourmet si è presa in considerazione la normativa svedese che vietava di pubblicizzare le bevande alcoliche valutandola come effettivamente in grado di incidere sulla commercializzazione dei prodotti provenienti dagli altri Stati membri più che su quella dei prodotti nazionali, così costituendo un ostacolo al commercio tra gli Stati membri, ai sensi dell'art. 30 del Trattato. Tuttavia la Corte ritenne che siffatto ostacolo potesse essere giustificato dalla tutela della salute pubblica, ai sensi dell'art. 36 del Trattato. Sottoposta la misura allo scrutinio della non discriminazione e di proporzionalità, la Corte concluse che il divieto non costituiva un mezzo di discriminazione arbitraria delle merci di altri Stati membri (mentre rimise al giudice nazionale l'accertamento in merito al carattere proporzionato della misura).
I principi sin qui esposti trovano una particolare declinazione laddove si verte in ipotesi di normativa comunitaria di armonizzazione. In linea di massima, l'emanazione di misure di armonizzazione preclude agli Stati membri di invocare sia le ragioni elencate nell'art. 36 che le esigenze imperative al fine di giustificare discipline nazionali che valgano quali misure ad effetto equivalente (CGUE 11.12.2003, C-332/01, Deutscher Apothekerverband). Tuttavia viene distinto il caso di armonizzazione incompleta da quello dell'armonizzazione completa; quest'ultima si realizza quando l'atto di riavvicinamento delle legislazioni copre l'intero settore disciplinato o integralmente un aspetto della materia. Ove ciò accada non è ritenuto ammissibile un giudizio ispirato dal richiamo all'art. 36 o alle esigenze imperative e la compatibilità della normativa nazionale al diritto comunitario deve essere valutata alla luce dell'atto di armonizzazione (CGUE 14.12.2004, C-210/03, Swedish Match).
Nei settori oggetto di armonizzazione è comunque possibile agli Stati membri chiedere alla Commissione di mantenere in vigore delle misure, in deroga alla disciplina di armonizzazione, sia per le ragioni di cui all'art. 36 che per esigenze di protezione dell'ambiente o dell'ambiente di lavoro (art. 114, par. 4 TFUE). Quanto all'introduzione di nuove norme nazionali in deroga, essa è consentita solo se fondate su nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell'ambiente o dell'ambiente di lavoro (114, par. 5 TFUE).
Una procedura analoga è prevista nel caso in cui uno Stato membro voglia vietare la commercializzazione nel proprio territorio di un prodotto commercializzato in altro Stato, in ragione della non conformità dello stesso a regole tecniche nazionali.
Ove tale procedura non sia osservata, per la giurisprudenza comunitaria si determina la inopponibilità delle regole tecniche nazionali al privato e il giudice nazionale deve disapplicarle. Ciò però a condizione che tali regole, non notificate, ostacolino l'uso e la commercializzazione del prodotto ad esse non conformi (CGUE 16.6.1998, Lemmens, C-226/97).
Quel che si ricava dal rapido excursus appena concluso è che la lapidaria affermazione dei ricorrenti di una incompatibilità della prescrizione cautelare individuata dalla Corte di appello con il principio di mutuo riconoscimento alla base del sistema dell'interoperabilità è almeno generica. Invero, non è esplicato perché la pretesa di corredare il carro merci destinato al trasporto di merci pericolose con la documentazione che ne rappresenta la storia manutentiva, per come si è concretizzata, sia pretesa che si traduce in una limitazione al libero scambio. Neppure sono indicate, una volta ammesso che si dia tale limitazione, le ragioni per le quali non dovrebbero operare nel caso di specie quelle condizioni che la giurisprudenza della CGUE riconosce come ragione di legittimazione di limiti alla libera circolazione delle merci derivanti dalla legislazione nazionale. Indicazione tanto più necessaria tenuto conto che, come si è scritto, la circolazione del carro sviato a Viareggio non era disciplinata dalle norme comunitarie bensì da accordi internazionali che hanno mantenuto la loro autonomia pur nel richiamo fattone da alcune particolari disposizioni comunitarie.
Ne discende anche la insussistenza dei presupposti necessari alla formulazione di una questione pregiudiziale da rimettere alla CGUE.
20.7. Va infine considerato che per il diritto vivente la circostanza che un prodotto sia conforme alle prescrizioni cautelari poste dalla normativa comunitaria non è ritenuto di ostacolo alla operatività di un dovere cautelare incardinato anche su una generica regola di diligenza, prudenza, perizia.
Si considerino i principi affermati ormai da tempo dalla giurisprudenza di legittimità in merito alla rilevanza che va riconosciuta, nella ricostruzione del dovere di diligenza, a quella conformità del prodotto alle regole comunitarie simboleggiata dal marchio CE. Senza sottacere le differenze che corrono tra i due ambiti, vi è però un elemento in comune, costituito proprio dal riverbero che produce l'attestazione di conformità sulla posizione soggettiva dell'utilizzatore.
L'introduzione di un modello procedurale attraverso il quale garantire la sicurezza dei prodotti senza al contempo gravare eccessivamente sui produttori e ostacolare il mercato comunitario può farsi risalire alla Risoluzione del Consiglio europeo del 21 dicembre 1989. In essa furono tratteggiati i principi direttivi ai quali doveva ispirarsi quel modello procedurale, incentrato sulla "definizione dei moduli relativi alle diverse fasi delle procedure di valutazione della conformità, nonché dei criteri relativi alla loro utilizzazione, alla designazione e notificazione di organismi che devono intervenire in queste procedure e all'utilizzazione del marchio CE". Ad essa seguì, per quel che qui interessa, la Decisione del Consiglio europeo 90/683/CEE, con la quale l'immissione sul mercato dei prodotti industriali disciplinati dalle direttive di armonizzazione tecnica divenne possibile solo previa apposizione della marcatura CE sugli stessi da parte del fabbricante; e poi la Decisione del Consiglio del 22 luglio 1993, con la quale venne stabilito il regime di apposizione della marcatura CE di conformità nelle regolamentazioni comunitarie relative alla progettazione, alla fabbricazione, all'immissione sul mercato, alla messa in servizio o all'utilizzazione dei prodotti industriali.
Nel sistema che da allora si è consolidato i prodotti destinati alla commercializzazione e all'utilizzo nello spazio europeo devono essere provvisti del marchio CE, che segnala l'osservanza da parte del produttore delle disposizioni comunitarie dettate per la sicurezza dei prodotti.
Con particolare riferimento alla produzione di macchine, a partire dalla Direttiva macchine 89/392 si è perseguito l'obiettivo di armonizzare le disposizioni normative di vario livello degli Stati membri che abbiano un'incidenza diretta sull'instaurazione e sul funzionamento del mercato comune. Si è quindi provveduto ad armonizzare le normative di sicurezza degli Stati membri concernenti tale produzione, al fine di agevolare la circolazione di questi prodotti nel mercato europeo. La Direttiva macchine nella originaria versione è stata modificata con la Direttiva 91/368/CEE5, che ne ha ampliato il campo alle attrezzature intercambiabili, alle macchine mobili e alle macchine per il sollevamento di cose; con la Direttiva 93/44/CEE6, che ha esteso il campo di applicazione della Direttiva macchine ai componenti di sicurezza ed alle macchine per il sollevamento e/o lo spostamento di persone; e con la Direttiva 93/68/CEE7, che ha introdotto disposizioni armonizzate relative alla marcatura CE. La Direttiva originaria e le sue successive modifiche sono state codificate, ossia unificate in un unico atto normativo, con la Direttiva 98/3710E3, a sua volta lievemente modificata con l'esclusione dei dispositivi medici (Direttiva 98/79/CE), ed è rimasta in vigore fino al 29 dicembre 2009. L'intera normativa è stata riformata mediante rifusione in una nuova Direttiva, la n. 2006/42/CE, attuata nell'ordinamento italiano mediante d.lgs. 27 gennaio 2010, n.17 (che qui non rileva).
A fronte di tale quadro normativo parte della giurisprudenza ha espresso una posizione di particolare rigore. Si è precisato che le disposizioni che hanno dato attuazione alle <Direttive macchine> dell'Unione Europea, pur indicando le prescrizioni di sicurezza necessarie per ottenere il certificato di conformità e il marchio CE richiesti per immettere il prodotto nel mercato, non escludono ulteriori profili in cui si possa sostanziare il complessivo dovere di garanzia di coloro che pongono in uso il macchinario nei confronti dei lavoratori, che sono i diretti utilizzatori delle macchine stesse, non potendo costituire motivo di esonero della responsabilità del costruttore quello di aver ottenuto la certificazione e di aver rispettato le prescrizioni a tal fine necessari (Sez. 4, n. 43425 del 6/10/2015, Roana, n.m.).
Nel medesimo senso si è affermata la responsabilità dell'utilizzatore del prodotto sul principio che "Il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza dell'ambiente di lavoro, è tenuto ad accertare la corrispondenza ai requisiti di legge dei macchinari utilizzati, e risponde dell'infortunio occorso ad un dipendente a causa della mancanza di tali requisiti, senza che la presenza sul macchinario della marchiatura di conformità "CE" o l'affidamento riposto nella notorietà e nella competenza tecnica del costruttore valgano ad esonerarlo dalla sua responsabilità" (Sez. 4, n. 37060 del 12/06/2008, Vigilardi e altro, Rv. 241020).
La giurisprudenza prevalente ha però attenuato questo rigore (che conduceva a non considerare l'eventuale carattere occulto del vizio), aggiornando la propria interpretazione alle sopraggiunte acquisizioni in tema di colpa penale. Allo stato, viene ribadita la non decisività dell'apposizione della marcatura CE per la esclusione di responsabilità dell'utilizzatore ma a condizione che si tratti di difetti da questi percepibili con la diligenza che gli deve essere propria. Si afferma, in particolare, che la responsabilità del costruttore, nel caso in cui l'evento dannoso sia provocato dall'inosservanza delle cautele infortunistiche nella progettazione e fabbricazione della macchina, non esclude la responsabilità del datore di lavoro, sul quale grava l'obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti che debbano utilizzare la predetta macchina e di adottare nell'impresa tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei lavoratori; a detta regola può farsi eccezione nella sola ipotesi in cui l'accertamento di un elemento di pericolo nella macchina o di un vizio di progettazione o di costruzione di questa sia reso impossibile per le speciali caratteristiche della macchina o del vizio, impeditive di apprezzarne la sussistenza con l'ordinaria diligenza (Sez. 4, N. 26247 del 30/05/2013, Magrini, Rv. 256948, con specifico riferimento a macchinario dotato di marcatura CE; Sez. 4, N. 22249 del 14/03/2014, Enne, Rv. 259229 e Sez. 4, N. 1184 del 03/10/2018, dep. 2019, Motta Pelli s.r.l., Rv. 275114 con riferimento più generale al riparto di responsabilità tra costruttore e utilizzatore di prodotto difettoso).
Anche l'orientamento giurisprudenziale appena evocato conferma che l'esistenza di un regime comunitario (ovvero unionale) che prevede regole volte a garantire la sicurezza (dei prodotti) e che ammette alla circolazione nello spazio europeo quelli che sono dotati di una 'attestazione' di conformità a tali regole, espressa mediante apposizione di un simbolo, non preclude la pretesa, rivolta ad altri soggetti, pur essi gestori del rischio implicato dalla utilizzazione del prodotto, di riconoscere condizioni di rischio superstiti e di attivarsi per l'eliminazione delle stesse.

21. L'accertamento della conoscibilità del rischio di frattura degli assili per difetto di manutenzione
21.1. Sulla scorta delle premesse che sono state poste consegue che il tema di assoluta rilevanza - peraltro posto anche dalle difese - è quello della preesistenza o meno al sinistro della conoscenza da parte almeno degli operatori del settore ferroviario della pericolosità dell'attività manutentiva avente ad oggetto gli assili, siccome non in grado di rilevare ed eliminare difetti degli stessi e quindi di evitare il loro cedimento in esercizio; ed altresì di una prassi cautelare che accreditava l'acquisizione di informazioni sulla vita manutentiva del carro come misura atta a fronteggiare quel rischio.
Risulta quindi necessario accertare se i giudici di merito abbiano o meno dato conto, in termini non manifestamente illogici e consonanti al compendio probatorio, dell'accertamento avente ad oggetto tali fatti.
Al riguardo è opportuno premettere che compito di questa Corte non è quello di ripetere l'esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se i ricorrenti siano riusciti a dimostrare, in questa sede di legittimità, l'incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dalla presenza di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro ovvero dal non aver il decidente tenuto presente fatti decisivi, di rilievo dirompente dell'equilibrio della decisione impugnata, oppure dall’aver assunto dati inconciliabili con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, P.M. in proc. Napoli, Rv. 233460; Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Simonetti ed altri, Rv. 233778; Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Capri ed altri, Rv. 233775; Sez. 6, n. 38698 del 26/09/2006, Moschetti ed altri, Rv. 234989).
Invero, il ricorso per cassazione è ammesso per vizi della motivazione riconducibili solo, e tassativamente, alla motivazione totalmente mancante o apparente, manifestamente illogica o contraddittoria intrinsecamente o rispetto ad atti processuali specificamente indicati, nei casi in cui il giudice abbia affermato esistente una prova in realtà mancante o, specularmente, ignorato una prova esistente, nell'uno e nell'altro caso quando tali prove siano in sé determinanti per condurre a decisione diversa da quella adottata.
Il giudice di legittimità non può conoscere del contenuto degli atti processuali per verificarne l'adeguatezza dell'apprezzamento probatorio, perché ciò è estraneo alla sua cognizione: sono pertanto irrilevanti, perché non possono essere oggetto di alcuna valutazione, tutte le deduzioni che introducano direttamente nel ricorso parti di contenuto probatorio, tanto più se articolate, in concreto ponendo direttamente la Corte di cassazione in contatto con i temi probatori e il materiale loro pertinente al fine di ottenerne un apprezzamento diverso da quello dei giudici del merito e conforme a quello invece prospettato dalla parte ricorrente (in tal senso anche Sez. 7, n. 12406 del 19/02/2015, Miccichè, Rv. 262948).
21.2. Orbene, la Corte di appello ha posto in evidenza che sin da prima del verificarsi del sinistro di Viareggio tutti gli operatori del settore ferroviario erano a conoscenza del fatto che una manutenzione non eseguita a regola d'arte era stata all'origine di alcuni incidenti ferroviari, provocati dalla rottura per fatica di sale sulle quali si erano insediati - e non erano stati eliminati - corrosioni e/o danneggiamenti.
Facendo riferimento a quanto esposto nella relazione dell'ing. Bon., il Tribunale aveva esposto che nel 2005, in una tesi di laurea presso l'istituto KTH dell'università di Stoccolma, nell'ambito di studi sulle fratture interne ed esterne alle due ruote delle sale, era stato scritto che 5 casi su 35 di rottura si erano verificati nel tratto interno e 4 su 35 nella zona del fusello-collarino. Sempre dovuti a rottura per fatica degli assili erano stati gli incidenti di Albate-Camerlata, risalente al 26.3.2004, e quello di Firenze Castello del 26.3.2008; di Trudel, del 15.2.2001 e di Rickerscote del 18.3.1996; mentre l'incidente di Shield Junction, del 1998, era stato dovuto alla presenza di crateri di corrosione nella parte centrale dell'assile.
La Corte di appello ha poi posto l'accento sull'ordinanza emessa il 10 luglio 2007 dall’Autorità di vigilanza ferroviaria tedesca (EBA), avente ad oggetto la manutenzione delle sale montate dei carri merci (i cui destinatari erano state, appunto, tutte le società operanti nel settore ferroviario soggette all'EBA e tutti i proprietari di veicoli ferroviari). Nell'ordinanza si dava conto del fatto che l'autorità, alla data del 16.5.2007, era a conoscenza di sette incidenti ferroviari accaduti in Germania, Austria, Svizzera ed Olanda, tutti dovuti a cedimenti degli assili delle sale montate. All'origine dei cedimenti erano state rotture da fatica derivate da corrosione e/o danneggiamenti di altro tipo delle supeR***Ici. L'Autorità aveva individuato, quali misure atte a ridurre il rischio di rottura e quindi di deragliamento del treno il rigoroso rispetto delle regole tecniche esposte nell'ordinanza medesima. Regole che attenevano alla manutenzione delle sale. L'ordinanza, infatti, aveva ricavato dall'analisi degli incidenti verificatisi che:
a) all'origine degli stessi c'era stato l'uso di sale recanti siti di corrosione e/o danneggiamenti;
b) che ciò dipendeva da inadeguata manutenzione;
c) che una manutenzione corretta era la misura di massima efficacia (e di minore impatto sulle imprese) rispetto alla prevenzione del rischio.
La Corte di appello ha poi preso in considerazione, quali ìndici di una pregressa prassi cautelare, anche quanto gli operatori italiani ritenevano necessario osservare per garantire la sicurezza dei carri nazionali. Considerazione del tutto pertinente, posto che senza alcun dubbio la pretesa di condizionare l'immissione sulla rete ferroviaria nazionale dei carri esteri RIV/RID all'applicazione di una diversa regola cautelare non riposa su caratteristiche intrinseche degli stessi che li rendano disomogenei rispetto a quelli nazionali (e quindi su una diversità del rischio che merita l'approntamento di misure differenti).
Sono stati richiamati gli ordini di servizio di R***I (in particolare la disposizione 23/2004 R***I: cfr. anche p. 821 della sentenza di primo grado) e gli standards di sicurezza previsti per i rotabili italiani (il Tribunale aveva citato al proposito i provvedimenti R***I nn. 283/2006 e 624/2007 ed altresì la nota ANSF 660/2008). Nell'esaminare la posizione degli esponenti di Tre***, la Corte di appello ha citato al medesimo fine la disposizione R***I n. 13/2001, il cui articolo 4 prevedeva che "le imprese ferroviarie 'per rendere evidenza del possesso dei requisiti, in termini di sicurezza' dovevano presentare al gestore dell'infrastruttura un 'dossier di sicurezza'elaborato secondo criteri..." che comprendevano, tra gli altri, l'obbligo di "indicare gli 'specifici documenti in cui possono essere rintracciate le informazioni di dettaglio', di 'considerare i rischi derivanti dalle interfacce tra le proprie attività e quelle ... dei propri fornitori...'". Il punto 4.3.5 dell'allegato stabiliva, poi, la necessità di specificare "/ criteri di selezione dei fornitori" e di dare evidenza "che ... tutti i dati rilevanti ai fini della sicurezza sono ... resi disponibili all'I.F. per i necessari controlli di congruità; che tutti i controlli su impianti, prodotti utilizzati e servizi erogati dai fornitori sono stati effettuati al fine di verificare che non siano introdotte condizioni di rischio non controllato aH'interno deH'I.F." (disposizione, si premura di precisare la Corte di appello, in vigore ancora nell'anno 2005).
È stata richiamata anche la disposizione 1/2003 di R***I; la Corte di appello ha rammentato che questa richiedeva che per la verifica della compatibilità tecnica e della congruenza normativa agli standard di sicurezza nonché dei requisiti per la messa in servizio sulla R***I del materiale rotabile nuovo o che non aveva mai circolato su tale rete fosse prodotto un "fascicolo in cui sono raccolti a) i documenti riguardanti un rotabile o parti specifiche di esso; b) la documentazione relativa ai processi di omologazione delle apparecchiature e/o dei componenti per le quali è richiesta". La già menzionata disposizione n. 23/2004 R***I, ha rilevato ulteriormente la Corte di appello, imponeva alle imprese ferroviarie la conservazione della documentazione e della registrazione scritta delle operazioni di manutenzione effettuate su ogni rotabile utilizzato e di garantire la disponibilità dei dati afferenti alla rintracciabilità delle operazioni di manutenzione effettuate, delle modalità di intervento, l'indicazione degli operatori che hanno effettuato gli interventi, copia originale dei piani di manutenzione.
I ricorrenti hanno censurato la motivazione resa dalla Corte di appello con una pluralità di rilievi che non sono condivisi da questa Corte.
In radice, è stato sostenuto che il sopraggiungere della normativa comunitaria in materia di rete ferroviaria transeuropea ha determinato l'incompatibilità di tutte le disposizioni preesistenti. Si è già scritto che un'affermazione così generica e totalizzante non trova conferma nella disciplina comunitaria e in quella nazionale che l'ha attuata. Peraltro, mette conto rilevare che i provvedimenti comunitari in materia di interoperabilità risalgono a tempi coevi o addirittura precedenti ad alcune delle disposizioni di R***I richiamate dai giudici di merito. Si pensi da un canto alla direttiva 2001/16/CE e dall'altro alla disposizione 13/2001 di Fe***I***. Sicché non appare casuale che nel provvedimento di R***I n. 1/2003, che detta 'Disposizioni per i requisiti normativi regolamentari e tecnici del materiale rotabile', tra le norme alle quali ci si richiama non venga indicata la direttiva 2001/16/CE bensì il d.p.r. n. 277/1998, con il quale si introdusse il Regolamento recante norme di attuazione della direttiva 91/440/CE, relativa allo sviluppo delle ferrovie comunitarie. Tale regolamento disciplinava la "gestione dell'infrastruttura ferroviaria e l'attività di trasporto per ferrovia delle imprese ferroviarie stabilite in Italia e il diritto di accesso all'infrastruttura ferroviaria per le associazioni internazionali di imprese ferroviarie e per le imprese ferroviarie che effettuano trasporti combinati internazionali di merci" (art. 1; esso è stato abrogato dal d.lgs. n. 188/2003, il cui oggetto ricomprendeva anche quello del citato d.p.r.).
A riguardo della eterogeneità degli incidenti sopra rammentati rispetto a quello verificatosi a Viareggio, quella delle difese è osservazione non nuova, che ha trovato replica da parte della Corte di appello, per la quale il fatto che in tal caso l’assile si fosse rotto nella zona del collarino esterno, come mai era stato registrato in precedenza, non elide il dato saliente rappresentato dal fatto che quelli evidenziati, nel più ampio numero di incidenti coinvolgenti gli assili, avevano in comune con il sinistro di Viareggio la rottura per fatica di assili innescata da cretti di corrosione non rilevati dalle attività manutentive. Va rimarcato che per la identificazione del rischio del quale si fa parola non era necessario poter registrare un elevato numero di sinistri, stante l'agevole ricostruzione della situazione di rischio. Non può essere condiviso, quindi, quanto si sostiene nel ricorso di Tre*** quale responsabile civile, a riguardo di una mancata indicazione dei molti elementi in comune che, a suo avviso, dovrebbero avere quei sinistri con quello occorso a Viareggio per poter rilevare nel senso indicato dai giudici di merito.
Con riferimento alla mancata conoscenza dell'ordinanza dell'EBA da parte degli operatori italiani, in quanto non destinatari della stessa, ed anche a riguardo della incidenza della circostanza dell'esser stata quella oggetto di un provvedimento di sospensione della sua esecutività, è tutt'altro che manifestamente illogica la motivazione resa sul punto dalla Corte di appello. Trattando della posizione del Ma.[EM.] la Corte di appello ha correttamente posto l'accento sulla decisività non già della conoscenza del provvedimento quanto della conoscibilità degli incidenti da essa considerati (il Ma.[EM.] "aveva conoscenza o avrebbe dovuto averne esercitando ia normale diligenza, dei non rari incidenti causati dalla rottura di assili e di altri componenti dei carri, verificatisi in Italia ma anche all'estero, e la cui notizia era stata sicuramente divulgata al di là della loro citazione nell'ordinanza dell'EBA"). Affermazione che, nella prospettiva che si sta coltivando in queste righe, vale per la generalità degli imputati ricorrenti.
Infine, anche le prassi instaurate per i carri merci nazionali attesta la conoscenza del rischio derivante da una inadeguata manutenzione degli assili; come già osservato, non è stato mai anche solo rappresentato che il carro sviato a Viareggio avesse caratteristiche costruttive tali da renderlo, per il profilo che qui interessa, significativamente diverso da quelli 'nazionali'.
Ancora, nell'esaminare l'appello proposto dall'El.[M.M.] la Corte di appello ha rammentato la nota n. 624/2007 dell'll.8.2007 di R***I s.p.a., con la quale era stata segnalata a Tre*** la criticità consistente nella difficoltà di 'rintracciabilità e validità del materiale rotabile in servizio'.
Pertanto non risulta superata dai rilievi dei ricorrenti l'affermazione della Corte di appello secondo la quale nel 2005 era certamente noto agli operatori del settore il rischio di rottura degli assili per l'esistenza di corrosioni o danneggiamenti non eliminati nell'attività di manutenzione; che questa conoscenza si accrebbe nel 2007; che la misura individuata per far fronte a tale rischio, per quanti non operassero nel settore delle manutenzioni, era quella di acquisire informazioni approfondite sulla 'vita manutentiva' dei carri e dei suoi componenti.
21.3. In tale quadro si pone anche il tema della fondatezza della tesi accusatoria, recepita dai giudici, di un dovere dell'impresa ferroviaria di richiedere l'esecuzione della cd. procedura di cabotaggio, corrispondente ad un dovere del gestore di rete di vigilare sulla osservanza di quello.
Infatti, i giudici distrettuali hanno esplicitamente correlato la necessità di acquisire le informazioni in merito alla vita manutentiva dei carri merci adibiti al trasporto pericolose, oltre che alle regole non positivizzate desunte da quanto sopra si è esposto, anche alle prescrizioni previste dalla procedura operativa R***I TCCS PR PO 02 002 A, definita 1'8.7.2003 da R***I, altrimenti citata nel presente procedimento come 'procedura di cabotaggio'. Secondo tale procedura era necessaria una apposita autorizzazione per la messa in servizio di carri cisterna conformi RIV/RID da utilizzare in servizio interno per il trasporto di merci pericolose di cui al RID classe 2. In occasione di questa l'impresa ferroviaria doveva sottoscrivere l'impegno a fornire ogni documentazione ed informazione che fossero richiesti nel corso dell'esame della documentazione stessa.
La Corte di appello ha giustificato il proprio convincimento in ordine alla perdurante vigenza della procedura facendo riferimento a quanto al riguardo riferito dal Chiov.; dichiarazione che aveva trovato conferma nel fatto che nel provvedimento n. 1/2009 - con il quale si era ricapitolata la normativa in vigore a tale data - l'ANSF l'aveva inserita tra la documentazione allegata. La Corte distrettuale ha ancora rammentato che ad avviso del Chiov. la procedura era in conflitto con il sistema della interoperabilità unicamente nella previsione di un parere tecnico; che quindi doveva essere attivata ancora nel 2009 e che comprendeva ’un dossier tecnico'. Nella pronuncia si richiama anche la deposizione del teste La Spina, vice questore della polizia ferroviaria, dal contenuto convergente. Soprattutto, è stato evidenziato che dopo la manutenzione in Ci***Ri***, su richiesta di quest'ultima il CESIFER eseguì la verifica prevista dalla procedura, tuttavia limitandola alla tenuta del serbatoio.
Le difese opinano la manifesta illogicità della motivazione impugnata, laddove la Corte territoriale ipotizza che a seguito della instaurazione del sistema di interoperabilità la procedura potesse avere una 'applicabilità limitata', nel senso che non sarebbe stato più possibile pretendere un controllo tecnico strumentale mentre permaneva la necessità di acquisire il cd. 'dossier di sicurezza'. Questa Corte non reputa che ricorra il vizio evocato.
Come si è scritto, le disposizioni comunitarie regolamentavano il trasporto ferroviario nazionale di merci pericolose solo attraverso il richiamo al RID e al CUU. Dalle relative previsioni si ricava sì l'obbligo di accettazione del carro per lo scambio ma anche che il detentore ha l'obbligo di presentare, alle imprese ferroviarie utilizzatrici che ne fanno richiesta, la prova che la manutenzione dei suoi carri è fatta in conformità alla regolamentazione in vigore (7.2.); nonché l'obbligo di permettere alle IF di effettuare tutte le operazioni di controllo necessarie sui propri carri, a partire da quelle previste dall'Allegato 9 (7.3), D'altro canto, gli obblighi dell'impresa ferroviaria sono definiti in termini speculari: così, esse sono tenute ad accettare i carri, ma subordinatamente al rispetto da parte del detentore degli obblighi sopra menzionati (10). Ed anzi esse possono rifiutare il carro per una pluralità di ragioni, tra le quali vi è quella della non conformità dello stato del carro alle prescrizioni tecniche e di manutenzione oltre che alle direttive di carico in vigore (11).
L'Allegato 9, al punto 65 dell'Appendice 1, nel descrivere gli indizi di anormalità da ricercare in sede di controllo, menziona anche quelli relativi agli assili (ad esempio: "fessurato - piegato (...) - difetti riparati con saldatura - spigoli vivi - tracce di sfregamento > 1 mm di profondità tracce di sfregamento < Imm di profondità, senza spigolo vivo K+Rl ...").
In conclusione, nel quadro regolativo appena rammentato il ruolo dell'impresa ferroviaria è tutt'altro che passivo; gli sono attribuiti diritti di controllo dello stato del carro. La Corte di appello ha del tutto ragionevolmente escluso che tali controlli potessero in concreto spingersi al punto di smontare componenti del carro e quindi anche le sale montate; ma altrettanto ragionevolmente, ed anzi in coerenza con le previsioni anche qui evocate, ha ritenuto che il controllo potesse essere documentale. In presenza della condizione di allarme determinato dalle conoscenze in ordine ai rischi di rottura degli assili per vizi della manutenzione tale potere si accompagnava al dovere cautelare.
Anche con riguardo all'oggetto delle verifiche da compiersi nell'ambito della cd. procedura di cabotaggio le censure attingono la valutazione in termini unicamente antagonistici. Che la procedura di cabotaggio avesse ad oggetto non solo la sovrastruttura del carro (la cisterna), ma anche la sottostruttura dello stesso è stato affermato dal Tribunale sulla scorta della circostanza che nel documento la verifica da eseguirsi a cura del CESIFER contemplava la rilevazione del tipo dei carrelli, delle sale montate, l'identità del costruttore di queste, il tipo di freno e l'ultima revisione.
L'affermazione corrisponde a quanto si deduce anche dalla sola lettura del menzionato documento. D'altro canto le difese hanno obiettato che tale verifica non contemplava l'acquisizione del dossier di sicurezza preteso dai giudici di merito. A ben vedere il rilievo non concerne la doverosità della verifica da parte di Cesifer; anzi la dà per acquisita, tanto da porre il tema delle sue modalità di esecuzione.
A tal ultimo proposito altre sono le affermazioni dei giudici che vengono in considerazione. In particolare il Tribunale aveva rilevato che la procedura contemplava il rilascio da parte dell'impresa ferroviaria di una dichiarazione - scheda mod. C, prevista nell'allegato 6 - con la quale attestava "che gli interventi di revisione sul carro sono stati eseguiti in conformità a quanto previsto nel piano di manutenzione dello stesso". Ne ha tratto che l'impresa ferroviaria doveva essere necessariamente in possesso dei piani di manutenzione dei carri cisterna.
Le difese hanno opposto che in realtà i piani di manutenzione erano depositati presso l'Autorità nazionale (nel caso l'EBA) e che la conformità delle revisioni era attestata dai cartigli e dal RIV.
Rammentando ancora una volta che non è nei compiti del giudice di legittimità sovrapporre alla valutazione degli elementi di prova operata dal giudice di merito una propria, diversa valutazione, e che il vizio di manifesta illogicità deve risultare dalla mera lettura della motivazione, questa Corte reputa che non via sia alcun vizio logico tra premesse e conclusioni del ragionamento del Tribunale e poi della Corte di appello. È sufficiente rilevare che nell'ambito del medesimo contesto testuale è previsto che l'impresa ferroviaria debba dichiarare anche "che i dati e le caratteristiche tecniche riportati nel presente documento sono veritieri, che il carro è attualmente immatricolato nel parco della Impresa Ferroviaria e/o Rete indicata e che lo stesso soddisfa alle vigenti normative RID e RID per il trasporto delle merci sopramenzionate". La previsione di una distinta dichiarazione in merito alla conformità del carro al RIV e al RID esclude la manifesta illogicità della deduzione che l'impresa ferroviaria dovesse essere in possesso anche del piano di manutenzione. Che questo fosse depositato presso l'Autorità nazionale (ma il Tribunale aveva rilevato che l'assunto non era mai stato documentato dalle difese) non dimostra in alcun modo che il relativo documento non fosse anche in possesso del proprietario/detentore del carro, avendo quel deposito evidente funzione servente del controllo e dell'attestazione.
Da quanto sin qui esposto deriva l'infondatezza di tutti i motivi che censurano la sentenza impugnata laddove ha argomentato la sussistenza di una regola cautelare di matrice prasseologica imponente l'acquisizione di informazioni in merito alla storia manutentiva del carro sviato a Viareggio e dei suoi componenti. I più specifici contenuti delle informazioni da acquisire sono stati rammentati anche in questa sede, laddove si sono evocati i provvedimenti adottati dagli operatori ferroviari per i carri nazionali e le disposizioni indicate come pertinenti.

22. La causalità della colpa e la evitabilità dell'evento mediante il comportamento alternativo lecito
22.1. Tutti gli imputati operatori per le società di diritto italiano e questi stessi enti hanno contestato la motivazione della Corte di appello in tema di causalità della colpa. Si sostiene che l'acquisizione delle informazioni sulla storia manutentiva del carro non avrebbe svelato l'esistenza della cricca sull'assile né tanto meno l'errore esecutivo ascrivibile agli addetti ai CND presso la Ju***l.
Il carattere comune delle censure suggerisce l'utilità di una unitaria trattazione, ferma restando, ove occorrerà, l'esplicazione di specifiche osservazioni nell'esame dei diversi ricorsi.
La doglianza sottende una particolare concezione del giudizio che deve essere compiuto per accertare che il comportamento alternativo lecito sarebbe stato in grado di evitare l'evento; accertamento che, come è noto, insieme alla verifica della concretizzazione del rischio nell'evento, dà corpo alla causalità della colpa nell'ambito della imputazione oggettiva dell'evento.
Sin da giurisprudenza ormai risalente nel tempo si è insegnato che in tema di reati colposi, per escludere il nesso di causalità tra condotta ed evento è necessario accertare se quest'ultimo, nei termini di effettivo accadimento, si sarebbe ugualmente verificato ove dal giudicabile fosse stata posta in essere una condotta diligente, perita, prudente nonché conforme alle pertinenti prescrizioni delle leggi e dei regolamenti (Sez. 4, n. 10340 del 16/06/1989, Battaglini, Rv. 18183801). In termini ancor più espliciti si è affermato che, una volta che sia stata accertata una condotta colposa inseritasi nel processo determinativo dell'evento, va in particolare verificato che proprio quella violazione della regola cautelare abbia cagionato (o abbia contribuito a cagionare) l'evento medesimo, non essendo sufficiente l'accertamento della causalità materiale e neppure che la condotta abbia in parte o in tutto prodotto il fatto delittuoso, ma occorrendo estendere l'indagine al nesso di causalità giuridica (Sez. 4, n. 28564 del 19/05/2005, Bauletti, Rv. 23243801).
In una articolata ricostruzione della fattispecie colposa (di evento) è stato ribadito il principio secondo il quale l'addebito soggettivo dell'evento richiede non soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile, ma altresì che lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione delle regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito) (Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, Pg. in proc. Catalano e altri, Rv. 24701701).
L'evento che viene in considerazione è quello provocato con la specifica condotta colposa e non un altro evento ipotizzato, anche se destinato a prodursi ugualmente, sì che la responsabilità può essere esclusa soltanto per il caso in cui detto evento si sarebbe comunque verificato in relazione al medesimo processo causale, nei medesimi tempi e con la stessa gravità od intensità, poiché in tal caso dovrebbe ritenersi che l'evento imputato all'agente non era evitabile (Sez. 4, n. 28782 del 09/06/2011, Cezza, Rv. 25071301).
Altra importante precisazione è che l'addebito soggettivo dell'evento consegue sia nel caso in cui il comportamento diligente avrebbe certamente evitato il suo verificarsi, sia nell'ipotesi in cui una condotta alternativa corretta avrebbe avuto significative probabilità di determinare un evento lesivo meno grave (Sez. 4, n. 31980 del 06/06/2013, Nastro, Rv. 25674501), fermo restando che vale anche per il giudizio controfattuale imposto dalla necessaria causalità della colpa ciò che si afferma ormai stabilmente a riguardo dei reati omissivi impropri; ovvero che la valutazione concernente la riferibilità causale dell'evento lesivo alla condotta (colposa) che si attendeva dal soggetto agente, deve ricercare l'idoneità di quella osservante, se realizzata, a scongiurare l'evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (Sez. 4, n. 30469 del 13/06/2014, Pg. Pc in proc. Jann e altri, Rv. 26223901).
Orbene, la censura proposta dai ricorrenti in parola, in ciò analoga a quella avanzata da altri, intende stabilire una relazione causale ipotetica tra la condotta doverosa costituita dall'acquisizione del cd. dossier di sicurezza e la scoperta della cricca. In tal modo, però, si descrive l'evento in ordine al quale va accertata la valenza impeditiva del comportamento lecito mancato in termini errati, perché non coerenti con la ricostruzione causale. Il giudizio controfattuale attiene alla relazione tra un dato ipotetico quale la condotta osservante mancata e l'evento, quale concretamente verificatosi.
La identificazione ai fini del giudizio causale dell'evento concretamente verificatosi può non essere agevole.
Nel diverso perimetro concettuale della prevedibilità dell'evento si insegna, sin da Sez. 4, n. 39606 del 28/06/2007, Marchesini, Rv. 237880, che la descrizione dell'evento non può discendere oltre un determinato livello di dettaglio e deve mantenere un certo grado di categorialità, giacché un fatto descritto in tutti i suoi accidentali ragguagli diviene sempre, inevitabilmente, unico ed in quanto tale irripetibile ed imprevedibile. Una interessante applicazione di tale principio è stata fatta dalle Sezioni Unite nella vicenda scaturita dai gravi fatti occorsi nello stabilimento torinese della Thyssenkrupp. In quell'occasione sei lavoratori trovarono la morte a causa del propagarsi di un incendio; il quale però si caratterizzò specificamente per essere scaturito dal fenomeno noto come flash fire. Orbene, il S.C. rilevò che non veniva in considerazione un generico evento di incendio, ma un incendio determinato da flash fire. Il che chiamava in causa la necessità di adottare cautele specifiche e non quelle, indifferenziate, previste per fronteggiare un generico rischio di incendio.
L'osservazione ha valore anche sul piano della causalità della colpa. L'evento che è termine del giudizio causale non è un ente 'naturale' ma un concetto giuridico che ha in se solo parte della complessa realtà naturalistica; la selezione è operata alla luce delle funzioni del giudizio. L'evento in concreto verificatosi è la risultante di un'operazione di sottrazione - di tutti quei caratteri che non assumono rilevanza ai fini del giudizio - e di evidenziazione proprio di quelli significativi; sono essenzialmente gli aspetti concorrenti alla ricostruzione causale avallata dall'accertamento probatorio.
22.2. Orbene, il sinistro occorso a Viareggio è stato ritenuto causato dalla rottura di un assile dovuta alla presenza di crateri di corrosione che avrebbero dovuto essere rilevati in occasione della manutenzione eseguita presso l'officina Junghental ma anche presso la Ci***Ri***; deficit di manutenzione ritenuti non occasionali bensì sistemici, sicché anche il mancato controllo sulla adeguatezza della gestione delle manutenzioni, operato attraverso l'acquisizione della documentazione ad essa relativa, ha assunto rilievo causale.
Conseguentemente, non vengono in considerazione un generico disastro ferroviario o delle morti genericamente definite ma l'uno e le altre sono specificamente caratterizzati per l'essere stati causati dal deragliamento di un carro determinato dalla frattura di un assile, verificatasi perché il componente non era stato manutenuto correttamente, e dalla mancata esecuzione di controlli sulle vicende manutentive del carro e del suo componente.
Tanto precisato, risulta incensurabile l'affermazione della Corte di appello per la quale il controllo sulla correttezza della manutenzione avrebbe evitato il sinistro perché sarebbe emersa l'assenza della documentazione inerente la storia manutentiva del carro e dei suoi componenti e quindi esso sarebbe stato escluso dalla circolazione. Tale affermazione coglie l'esatta fisionomia dell'evento in concreto verificatosi, non riducibile al solo profilo dell'errore esecutivo degli operatori dei controlli non distruttivi sull'assile.
Per altro ma contiguo aspetto, rammentando ancora l'insegnamento impartito dalle SU n. 38843/2014, va evidenziato che nel quadrante dei reati omissivi impropri colposi la regola di giudizio che occorre adottare anche per l'accertamento della causalità della colpa è quella della ragionevole certezza e non quella delle apprezzabili possibilità di successo. Ovviamente il percorso metodologico che deve seguire il giudice di merito è debitore delle indicazioni offerte dalle SU Franzese: va formulato un giudizio di alta probabilità logica fondato non solo su affidabili informazioni scientifiche, ma anche sulle contingenze significative del caso concreto (ex multis, con specifica applicazione alla responsabilità sanitaria, Sez. 4, n. 33230 del 18/11/2020, Campo, Rv. 28007401).
Nel caso che occupa la sentenza impugnata non è censurabile neppure per il profilo ora in considerazione; la Corte di appello ha affermato che la condotta cautelare omessa avrebbe avuto l'attitudine ad evitare l'evento con un significativo grado di probabilità; locuzione utilizzata in guisa della 'ragionevole certezza'.
I ricorrenti hanno obiettato che la connessione causale della quale si sta scrivendo non sarebbe affermabile perché non è possibile escludere che l’assile criccato, qualora scartato, da solo o unitamente al carro che lo montava, sarebbe stato installato su un diverso carro. Analoga è la censura che guarda al controllo del carro eseguito prima che sullo stesso fosse montato l'assile difettoso. È agevole considerare che, alla stregua dei principi qui ribaditi, i rilievi son infondati, perché un evento diverso da quello concretamente verificatosi e puramente ipotetico (nel caso che occupa, lo svio comunque determinatosi, con altro carro, in altro luogo, in altro tempo) non può essere assunto a termine della relazione causale.
Taluno tra i ricorrenti ha anche dubitato che si possa ragionevolmente affermare la valenza impeditiva del comportamento alternativo lecito, considerato che non potrebbe affermarsi con certezza che l'anomalia documentale ascrivibile a G***x o alla Ju***l sarebbe stata individuata dal dipendente di Tre*** officiato al controllo. Al riguardo, questa Corte ha già espresso il principio secondo il quale, quando la ricostruzione del comportamento alternativo lecito idoneo ad impedire l'evento deve essere compiuta nella prospettiva dell'interazione tra più soggetti, sui quali incombe l'obbligo di adempiere allo stesso "dovere" o a "doveri" tra loro collegati, la valutazione della condotta di colui che è tenuto ad attivare altri va effettuata assumendo che il soggetto che da esso sarebbe stato attivato avrebbe agito correttamente, in conformità al parametro dell'agente "modello" (Sez. 4, n. 31244 del 02/07/2015, Meschiari, Rv. 26435801). Si tratta di un principio che sottende l'analisi della struttura dell'accertamento causale richiesto, il quale non può fare a meno di ricorrere a massime di esperienza attinenti al comportamento atteso nell'ambito della ordinaria esplicazione dei compiti. Motivo per cui è del tutto ragionevole utilizzare un criterio di 'regolarità comportamentale', a meno che non siano dimostrate nel processo circostanze specifiche che contraddicono nel caso concreto la pertinenza di un simile criterio. Per esemplificare: quando si rimprovera il datore di lavoro di non aver fornito un dispositivo di protezione individuale e si afferma che l'infortunio si è determinato a causa di tale omissione si postula che il lavoratore avrebbe fatto uso del DPI ove consegnatogli. Ciò è ragionevolmente affermabile, a meno che non risultino - ad esempio - episodi di insofferenza all'uso del DPI da parte di quel lavoratore, dai quali trarre il ragionevole giudizio di un mancato utilizzo dello stesso nelle circostanze dell'infortunio anche quando fornito.
Traendo da simili premesse le conclusioni appropriate al caso che occupa, occorre rilevare la aspecificità del rilievo, che introduce un dato meramente ipotetico, non sostenuto da puntuali occorrenze processuali; e la sua manifesta infondatezza, ove volto a sostenere la sufficienza di mere ipotesi ad inficiare l'accertamento della causalità della colpa condotto facendo ricorso anche a massime di esperienza.

23. I ricorsi di CA.MA. e della responsabile civile Mer*** Logistics s.p.a.
23.1. Il motivo 2.1. del ricorso del Ca.[MA.] ed il terzo ed il quinto motivo del ricorso di Mer*** Logistics censurano la motivazione laddove essa ha ritenuto sussistente in capo alla società e quindi al suo amministratore delegato una posizione di garanzia.
Il Ca.[MA.], in qualità di amministratore delegato della Ca*** Che*** s.r.l. e poi di responsabile della B.U. Industria Chimica e Ambiente di FLog*** s.p.a., è stato dalla Corte di appello ritenuto titolare di una pluralità di posizioni di garanzia rilevanti ai fini del giudizio.
Una prima fonte del dovere di impedire eventi pregiudizievoli alla sicurezza della circolazione di beni e persone è stata individuata nel contratto stipulato nel 2005 con G***x Rail Austria, in forza del quale questa, proprietaria del carro, lo aveva noleggiato a Ca*** Che***. Sono stati indicati, in particolare, gli artt. 4 e 6, co. 2.
Una seconda fonte è stata indicata nell'art. 23 d.lgs. 81/2008, in quanto la società aveva fornito o concesso in uso attrezzature di lavoro a Tre*** s.p.a.
Una ulteriore fonte è stata rinvenuta nell'art. 8, co. 2 d.lgs. n. 162/2007, perché la società Ca*** Che*** era stata fornitrice di un servizio di carico e di confezionamento di merce pericolosa che l'impresa ferroviaria doveva trasportare.
Ad essa la Corte di appello ha aggiunto la norma CEI-EN 50126, che a suo dire chiama in causa l'impresa fornitrice ferroviaria, così facendo intendere di ritenere che tale veste avesse assunto la Ca*** Che*** nel rapporto con Tre*** s.p.a.
Infine, è stato evocato l'art. 2050 c.c., per aver svolto la Ca*** Che*** un'attività pericolosa.
Ciascuna di tali affermazioni è stata contestata con i ricorsi del Ca.[MA.] e della società Mer*** Logistics. Con particolare vigore è stato censurato che la Ca*** Che*** abbia assunto la qualità di fornitore del carro merci all'impresa ferroviaria.
Orbene, anche a riguardo dei ricorsi in esame va rilevato che la condotta avente rilievo giuridico ai fini che occupano, riferibile al Ca.[MA.], non ha natura omissiva bensì commissiva. Essa è consistita nell'affidare a Tre*** il carro merci che qui interessa (unitamente ad altri) perché questa ne curasse la trazione.
La controversia in merito alla qualità di fornitore assunta da Ca*** Che*** e quindi dal Ca.[MA.] si è animata sul presupposto della configurabilità della condotta tipica come condotta omissiva impropria, secondo la prospettazione della contestazione e approfondita dai giudici; mentre essa, lo si ripete, va più correttamente qualificata come condotta commissiva colposa. Come nel caso già evocato delle protesi valvolari, il comportamento che risulta essenziale ai fini della verificazione dell'evento è la consegna (se si preferisce, fornitura) a Tre*** di materiale non sicuro (il carro merci sul quale era montato l'assile difettoso), mentre la violazione delle regole cautelari, richiedenti la conoscenza della vita manutentiva del materiale, connota tale comportamento come colposo.
Che il carro sia stato fornito da Ca*** Che*** è dato obiettivamente non contestabile e non contestato.
Quel che si è inteso mettere in discussione da parte dei ricorrenti Ca.[MA.] e Mer*** Logistics è la qualificazione del rapporto giuridico intercorso tra tale società e Tre***, volendo esse prospettare l'esistenza di un ruolo di spedizioniere del GPL (quindi di mero organizzatore del trasporto).
L'impegno è stato profuso soprattutto al fine di sottrarre l'imputato dall'accusa di aver violato il disposto dell'art. 23 d.lgs. n. 81/2008. Si è già scritto per quali ragioni tale disposizione, per come definita dalla pubblica accusa ed avallata dai giudici di merito, non può fondare un giudizio di responsabilità nel presente giudizio. Pertanto non è necessario verificare se sia corretta la qualificazione attribuita dalla Corte di appello a Ca*** Che*** di fornitore, ai sensi e agli effetti della citata disposizione.
Ciò non significa che la consegna del carro potesse avvenire senza dover assicurare che lo stesso non costituisse un pericolo per la sicurezza della circolazione ferroviaria. Il dovere di diligenza correlato alla condotta attiva tenuta avrebbe dovuto condurre all'adozione di quella regola cautelare della quale si è ampiamente scritto.
Esso trova fonte esplicita nell'art. 2050 c.c. La censura concernente la riconducibilità dell'attività esercitata dalla Ca*** Che*** alle attività pericolose di cui all'art. 2050 c.c. è manifestamente infondata. La ricorrente Mer*** Logistics ha sostenuto che la Corte di appello ha erroneamente posto una equiparazione tra l'organizzazione del trasporto e l'esecuzione del trasporto e che solo quest'ultima è esercizio di attività pericolosa. Nel ricorso a firma dell'avv. M. si è sostenuto coerentemente che (solo) la movimentazione dei carri all'interno della Raffineria Sarpom rappresenterebbe attività pericolosa; in ogni caso la società avrebbe svolto solo attività "occasionalmente pericolosa in considerazione del materiale trattato di cui si organizzi il trasporto" ed erano state adeguatamente previste e regolamentate le attività di scambio, manovra e caricamento dei carri.
Che la società si sia limitata all'organizzazione del trasporto è stato escluso dai giudici di merito con motivazione che supera le censure dei ricorrenti.
La Corte di appello ha svolto un'accurata analisi dei contratti facenti capo a Ca*** Che*** s.r.l. e alla concreta attuazione degli stessi, giungendo alla motivata conclusione che questa era stata la fornitrice a Tre*** s.p.a. dei carri che aveva noleggiato dalla proprietaria G***x Rail Austria. Tanto che la stessa difesa ne dà implicitamente conto, lamentando che la corte distrettuale si sia attenuta ad un 'criterio formalistico e meramente nominale'; come dire, che si è attenuta a quanto previsto dai contratti.
Più in dettaglio, la corte territoriale ha evidenziato che il contratto tra Tre*** e Ca*** Che*** prevedeva l'offerta da parte della prima di un servizio di trasporto ma non anche l'uso di carri già nella disponibilità dell'impresa ferroviaria; d'altro canto, proprio perché i carri erano forniti da Ca*** Che*** il contratto prevedeva, all'art. 19.1.3, una riduzione di prezzo in favore di questa. In tale quadro si pone con coerenza anche il contratto di noleggio dei carri stipulato dalla proprietaria G***x con la noleggiante Ca*** Che***.
La difesa della società (motivo 3 sub f) ha contestato l'applicabilità dell'art. 8, co. 2 alla Ca*** Che*** assumendo che la stessa non può definirsi fornitrice del carro perché assunse le vesti "a) di organizzatore del trasporto di GPL per conto di Aversana, b) di noleggiatario da parte di G***x Rail Austria dei carricisterna, c) di beneficiario-utilizzatore de! treno merci messo a disposizione da Tre***". Il diverso giudizio della Corte di appello è stato contestato perché 'apodittico e privo di motivazione'; frutto di un "travisamento del ruolo contrattuale assunto da FLog***" (ormai subentrata a Ca*** Che***) e associato ad una contraddittorietà della motivazione (motivo 3 sub d). Secondo la ricorrente società, nel caso di specie la qualità di fornitore (dei carri) deve essere attribuita a G***x Rail Austria (verso Ca*** Che***) e a Tre*** (per il servizio di trazione). Si tratta di affermazioni manifestamente infondate, posto che se così fosse non si comprenderebbe come i carri siano venuti nella materiale disponibilità dell'impresa ferroviaria.
Il dato saliente è quindi rappresentato dal contributo dato dalla Cargo alla circolazione del carro consegnando all'impresa frazionista i materiali rotabili da trasportare. Essendo attribuibile anche ad essa la circolazione di carri trasportanti merci pericolose, la cui riconducibilità al novero delle attività menzionate dall'art. 2050 c.c. appare indiscutibile (si veda Sez. 3 civ., n. 10422 del 20/05/2016, Rv.640064 - 01), anch'essa era tenuta ad assicurare che tale circolazione non avvenisse ponendo in pericolo cose e persone. L'occasionalità o meno di tale attività non costituisce fattore che esclude l'obbligo dell'esercente di adottare tutte le misure idonee ad evitare il danno (cfr. Sez. 3 civ., n. 20062 del 23/5/2008, n.m.).
Le specifiche attività da compiersi a tal fine sono identificabili anche in base ai doveri e ai poteri dispositivi che i contratti e altre disposizioni attribuivano a Ca*** Che***. È per questo aspetto che quindi vengono in considerazione i doveri della società locatrice del carro derivanti dal contratto stipulato con la società proprietaria. La corte distrettuale ha rammentato il disposto dell'art. 6.2. del contratto (stipulato dal Ca.[MA.] 1'11.1.2005): "il locatario è responsabile per tutti i danni provocati a terzi dal carro o dal trasporto e solleva il locatore dall'obbligo di soddisfare i reclami di terzi, nella misura in cui il locatore non ha colpa"; previsione che si raccorda a quella del precedente art. 4, secondo la quale "il locatario deve accertarsi, con suo pieno convincimento, che il vagone sia in condizioni ineccepibili ed in totale conformità con quanto previsto nel contratto, soprattutto per quanto attiene al serbatoio con I suoi impianti fissi e arredi...".
La difesa della persona giuridica ha censurato l'interpretazione data dai giudici di merito a tali disposizioni, ritenendo che sia stata una forzatura dedurre dalla previsione sopra menzionata che il locatario debba "verificare per tutta la durata del rapporto di noleggio che il carro sia in perfette condizioni" e che, per di più, ciò implichi la necessità di conoscere la storia manutentiva del carro (così il motivo 3 sub c).
In realtà, ciò che assume rilievo è se, sulla scorta di tali previsioni contrattuali, il locatario fosse stato investito del compito di garantire che dall'utilizzo del carro secondo la sua ordinaria destinazione non derivassero danni a terzi; l'interpretazione fornita dalla Corte di appello non è manifestamente illogica. L'accertamento, da parte del giudice del merito, della volontà delle parti contraenti emergente da una clausola contrattuale non può essere oggetto di censure da parte della Corte di cassazione se l'indagine è stata condotta senza violazione delle norme stabilite dalla legge per l'interpretazione dei contratti ed è sorretta da congrua e logica motivazione.
Anche l'art. 25 del contratto stipulato con Tre*** s.p.a. è stato in modo appropriato citato dalla Corte di appello; esso obbligava la società noleggiatrice ad osservare "per quanto di sua competenza" le prescrizioni riguardanti il trasporto delle varie tipologie merceologiche ed in particolare di quelle pericolose e nocive, "nonché ogni altra norma emanata dalle autorità competenti". Del tutto logicamente la Corte di appello ne ha ricavato che anche la Ca*** Che*** e poi la FLog*** erano tenute ad osservare tutte le norme relative alla sicurezza del trasporto e alla tracciabilità del carro, anche se tali norme erano dirette alle imprese ferroviarie. Ovvero nei limiti dei relativi potei dispositivi sui carri e loro componenti.
Anche il richiamo dell'art. 25 è stato contestato, affermando che non si è considerata la limitazione ivi prevista ove si legge 'per quanto di sua competenza'. Il rilievo è coerente con il testo della disposizione; ma è priva di correlazione logica la conseguenza che ne fa discendere la difesa della società, secondo la quale tanto conduce alla inapplicabilità ad essa della CEI-EN 50126; ben diversamente, deduzione coerente è che tale norma si applica 'per quanto di competenza' della società fornitrice del carro.
L'assunto che la società Ca*** Che*** fosse responsabile della sicurezza del carro solo durante le operazioni di carico e scarico del gas è stato ampiamente confutato dalla Corte di appello e gli argomenti che si pongono con il ricorso sono meramente ripetitivi. La impugnata rimarca che il contratto stipulato con l'Aversana Petroli impegnava la Ca*** Che*** ad organizzare tutto il trasporto, con assunzione della gestione del rischio connesso alla circolazione del carro per l'intera durata dello stesso. Dal canto suo, il contratto stipulato con Tre*** prevedeva da parte di questa solo l'offerta di un servizio di trasporto di carri forniti dalla Ca*** Che*** e pertanto questa certamente aveva mantenuto i poteri necessari ad interventi imposti dalle ragioni di sicurezza della circolazione ferroviaria (come quello, ad esempio, di sostituire un carro con altro). La ricorrente si limita a riproporre di non aver eseguito il trasporto ma solo l'organizzazione del medesimo e la mancanza di attualità della posizione di garanzia una volta cessate le operazioni di carico e di scarico.
La difesa della società ha censurato il richiamo dell'art. 2050 c.c. anche sotto altro profilo; in particolare, la Corte di appello non avrebbe spiegato come da esso possa dedursi l'esistenza di un obbligo informativo. In realtà, come si è già spiegato, l'art. 2050 c.c. attribuisce una competenza per la gestione del rischio per la circolazione ferroviaria e non indica le cautele che devono essere messe in campo dall'esercente.
Qui vengono in soccorso le regole cautelari, che la Corte di appello ha correttamente individuato aliunde.
Quanto all'art. 8, co. 2 d.lgs. n. 162/2007, non sarebbe necessario procedere ulteriormente nella disamina della motivazione laddove identifica una posizione gestoria del rischio in capo a Ca*** Che***, non avendo implicazioni concrete l'identificazione di ulteriori matrici. Ciò non di meno è utile osservare che in forza di tale disposizione, per la quale "Ciascun gestore dell'infrastruttura e ciascuna impresa ferroviaria è responsabile della propria parte di sistema e del relativo funzionamento sicuro", "ciascun fabbricante fornitore di servizi di manutenzione, addetto alla manutenzione dei vagoni, fornitore di servizi o ente appaltante" è responsabile "di assicurare che il materiale rotabile, gli impianti, gli accessori e i materiali nonché i servizi forniti siano conformi ai requisiti richiesti e alle condizioni di impiego specificate, affinchè possano essere utilizzati dall'impresa ferroviaria e dal gestore delle infrastrutture in modo sicuro", la società in parola è stata qualificata come fornitore di servizi e in quanto tale soggetto tenuto a garantire che i materiali ed i servizi forniti fossero conformi ai requisiti richiesti, oltre che alle condizioni di impiego specificate, in modo da poter essere utilizzati dall'impresa ferroviaria e dal gestore delle infrastrutture in modo sicuro.
L'assunto è stato contestato dai ricorrenti sostenendo che la società non aveva assunto la qualifica di fornitrice (ricorso dell'ente) e che essa fu sì fornitrice di servizi ma che il decreto n, 1/2009 dell'ANSF, anche nell'esplicazione fattane in dibattimento dal Chiov., pone solo i fornitori dei servizi di manutenzione tra i soggetti fornitori co-responsabili della sicurezza ferroviaria.
Il primo assunto trova risposta in quanto sin qui scritto. Il secondo è stato esaminato già dalla Corte di appello, sia pure con riferimento all'applicabilità dell'art. 23 del decreto 81/2008. In tale contesto la Corte di appello ha confermato la puntualizzazione fatta dal Chiov. ma anche affermato che il decreto 1/2009 dell'ANSF non può prevalere su disposizioni di legge. La medesima osservazione vale con riferimento all'art. 8, co. 2 del d.lgs. n. 162/2007, il cui testo non consente di escludere i fornitori di servizi anche diversi da quelli di manutenzione dal novero dei soggetti ai quali essa fa riferimento e di conseguenza dal novero dei soggetti tenuti a garantire che l'esercizio della propria attività non ponga in pericolo o rechi danno alla sicurezza della circolazione ferroviaria. Anche su questo aspetto la impugnata non merita le censure avanzate dai ricorrenti; che peraltro, riproponendo alcuni passi della deposizione del Chiov. per dare dimostrazione che "il mediatore nel campo del noleggio dei rotabili" non aveva l'obbligo di attivarsi a garanzia della sicurezza della circolazione ferroviaria (così testualmente nel ricorso del Ca.[MA.]), senza segnalare correlati specifici vizi della motivazione riconducibili alla previsione della lettera e) dell'art. 606 cod. proc. pen., finiscono per sollecitare questa Corte ad una ulteriore ed avversativa valutazione della prova, preclusa al giudice di legittimità.
Occorre solo aggiungere che, nel quadro definito dalla Corte di appello, risalta la assoluta mancanza di decisività della ritenuta omessa motivazione, in merito ai riflessi sulla ricostruzione della natura ed ampiezza della posizione gestoria della Ca*** Che***, e quindi del Ca.[MA.], della circostanza che per il DVis. era stato pronunciato decreto di archiviazione. Questi era stato indagato in quanto operatore di Tre*** che aveva elaborato la proposta di contratto con la Ca*** Che***-FLog***; viene chiamato in causa dai ricorrenti per sostenere che quest'ultima non era coinvolta nella "catena della sicurezza" del trasporto ferroviario di merci pericolose e che le ragioni che erano valse l'archiviazione della posizione del DVis. dovevano valere anche per il Ca.[MA.].
Come si è scritto, il tema è stato definito in termini non manifestamente illogici dalla Corte di appello e i ricorrenti si limitano ad esaltare il ritenuto comune ruolo di incaricato di rapporti commerciali, senza confrontarsi con la precisazione operata dalla Corte di appello secondo la quale il Ca.[MA.] era stato il legale rappresentante della Ca*** Che*** (ben diversamente dal preteso omologo). Sotto altro aspetto, non assume alcun rilievo la circostanza che il P.M. abbia richiesto l'archiviazione del procedimento nei confronti del DVis. ritenendo che la frattura dell'assile concretasse causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento. Quand'anche si fosse trattato di affermazione del provvedimento di archiviazione, essa sarebbe comunque inidonea a spiegare un qualche effetto giuridico sull'accertamento della responsabilità del Ca.[MA.]; mentre sul piano sostanziale è superata dall'intero impianto motivazionale delle due sentenze di merito emesse nel presente procedimento.
23.2. Con il motivo 1.3. del ricorso del Ca.[MA.] ed il secondo ed il terzo del ricorso di Mer*** si muovono censure in merito alla sussistenza di una regola cautelare imponente l'acquisizione di informazioni sulla vita manutentiva del carro e dei suoi componenti e in ordine alla sua inosservanza da parte del Ca.[MA.].
Il primo rilievo attiene alla insussistenza di disposizioni internazionali o nazionali che pongano un obbligo di tracciabilità dei componenti rotabili rilevanti per la sicurezza ferroviaria e alla 'esaustività' del sistema incentrato sul RIV/RID. Il tema è stato ampiamente trattato ai paragrafi 19-21 del Considerato in diritto e non richiede ulteriore esplicazione.
Un secondo concerne i contenuti del 'dossier di sicurezza’ per come tratteggiati dalla disposizione R***I 13/2001, dalla CEI-EN 50126, dalle note R***I 283-06, 624- 07; ed altresì l'assolvimento dell'obbligo di acquisizione di informazioni, alla luce del compendio informativo (che si ritiene esauriente) nella disponibilità di Ca*** Che***, in particolare costituito dalla documentazione proveniente dall'impresa proprietaria del carro (come la denuncia di spedizione del carro del 3.1.2005, l'avviso di spedizione della ferrocisterna del 9.3.2009) o da Ci***Ri***, che attestava la regolarità della revisione e della manutenzione del carro e la conformità al manuale VPI del medesimo, sin dal suo ingresso in Italia (altri profili, come quello che chiama in causa la cd. procedura di cabotaggio, attengono alla posizione di Tre*** e dei suoi esponenti).
Si tratta di rilievi a contenuto meramente assertivo, che non si confrontano con la complessiva ricostruzione operata dalla Corte di appello - ma semplicemente la negano - e che, in definitiva, sollecitano questa Corte ad una diretta valutazione della prova.
Vale solo ribadire che, per ciò che attiene alla condotta ritenuta doverosa e non attuata, con specifico riferimento al Ca.[MA.], nella qualità ora in considerazione, la Corte di appello l'ha individuata nella verifica della 'regolarità documentale e materiale del singolo carro' e quindi nell'acquisizione o formazione di un 'dossier di sicurezza' e più in generale nell'acquisizione di informazioni relative alla qualità degli interventi svolti, alle officine utilizzate dal proprietario, al piano di manutenzione.
Non coglie il vero la censura avanzata in specie dalla società ricorrente, secondo la quale la Corte di appello non ha motivato in merito alla doverosità dell'acquisizione di ulteriori informazioni rispetto a quelle già possedute dalla Ca*** Che***, le quali davano prova del continuo controllo operato dalla società delle attività manutentive svolte sui carri noleggiati. Da un canto, si tratta della regola cautelare individuata in linea generale, concretizzazione nel caso specifico di quella diligenza, perizia e prudenza menzionate dall'art. 43 cod. pen., che la Corte di appello ha coordinato con l'ambito dei poteri e dei doveri discendenti dal contratto facente capo a Ca*** Che***. Dall'altro, la insufficienza delle informazioni già in possesso della società (per la Corte di appello essa non possedeva "alcuna informazione sul carro in questione al di là di quanto riportato sul cartiglio applicato sul carro stesso") è stata affermata sia perché circostanza non contestata dagli imputati, sia perché in positivo dimostrata da quanto riferito dal Chiov., dal Pao. e da quanto si trae dalle e-mail scambiate a partire dal 30.6.2009 tra il dirigente di FLog*** spa Bom. e la collega austriaca Th., «nelle quali il primo chiedeva informazioni sia sui controlli effettuati alle cisterne e agli assili, sia sull'epoca delle loro costruzione e immatricolazione, e le società che vi avevano provveduto». Motivazione non adeguatamente considerata dalla ricorrente, che non menziona le rammentate testimonianze e si limita ad affermare che il contenuto probatorio della mail avrebbe dovuto essere valutato alla luce della documentazione proveniente dalla società, successivamente acquisita, concludendo però che quella richiesta di informazioni era in parte coincidente con le informazioni attestate dalla documentazione già in possesso della società. Affermazione che conferma il giudizio di non esaustività espresso dai giudici di merito con ampiezza di argomentazione nelle pg, 699 e seguenti.
È stato altresi contestato dalla ricorrente (1.3.b) che alla società possa essere ascritto di non aver soddisfatto l'obbligo di acquisizione di informazioni a riguardo dell'assile montato da Ci***Ri***. Si è al proposito richiamato quanto riferito dal teste Chiov. (che si è affermato sia stato trascurato dalla Corte di appello) per sostenere che essa non era gravata da tale obbligo.
Il punto è stato trattato dalla Corte di appello laddove ha evidenziato che la competenza della società fornitrice a gestire il rischio implicato dalla messa in circolazione di un carro trasportante merci pericolose perdurava per l'intera durata del rapporto contrattuale che ne prevedeva la circolazione. Peraltro, è opportuno rammentare che fu la FLog*** ad inviare il carro a Ci***Ri*** per la revisione del novembre 2008, stabilita dalla proprietaria. I passi della deposizione del Chiov. riportati nel ricorso risultano peraltro eccentrici rispetto alla tematica, avendo ad oggetto unicamente il profilo della necessità o meno che la sostituzione dell'assile dovesse essere segnalata all'ANSF o a R***I.
23.3. Con il motivo 1.4. del ricorso del Ca.[MA.] ed il quarto motivo del ricorso della società si censura la motivazione della Corte di appello in tema di causalità della colpa. Si sostiene che l'acquisizione delle informazioni sulla storia manutentiva del carro non avrebbero svelato l'esistenza della cricca sull'assile.
Il tema è già stato trattato al paragrafo 22 del Considerato in diritto e le considerazioni ivi svolte valgono anche per la posizione del Ca.[MA.]. I motivi in parola sono quindi infondati.
23.4. Ancora con il motivo 1.4. del ricorso del Ca.[MA.] e con il sesto motivo di Mer*** si evoca il principio di affidamento; si sostiene che in un contesto di elevata divisione del lavoro non è esigibile dal singolo garante il dovere di controllare pedissequamente e retrospettivamente l'operato di altri garanti, autori di interventi altamente tecnici e specialistici; non si può pretendere che ogni garante si sostituisca agli altri, rinnovando accertamenti e mettendo in discussione valutazioni tecniche operati da soggetti altamente qualificati. Si lamenta l'omessa motivazione sul punto.
Il principio di affidamento ha trovato ampio riconoscimento da parte della giurisprudenza, ancorché a ciò non corrisponda un elevato numero di casi nei quali ne sia stata riconosciuta la rilevanza in chiave di negazione della responsabilità. Ciò è dipeso in principal modo dall'aver collocato il principio nel contesto dogmatico della causalità. La formulazione tradizionale espone che, in caso di condotte colpose indipendenti, non può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità (ex muttis, Sez. 4, n. 50038 del 10/10/2017, De Fina e altri, rv. 27152101).
Nella giurisprudenza più recente, a partire dalla Sez. 4, n. 46741 del 08/10/2009, Minunno, rv. 24566301, emerge una diversa concezione del principio, più in linea con le tesi prevalenti in dottrina; l'affidamento nell'altrui condotta osservante assume rilievo nella delineazione del dovere di diligenza e quindi già sul piano della colpa in senso oggettivo. Prende corpo, in tal modo, la concezione che coglie il profilo relazionale della colpa, ovvero il fatto che chi esercita un'attività lecita rischiosa non è immerso in una lunare dimensione di isolamento ma piuttosto è nodo di una rete che lo connette ad altri soggetti: ad esempio, coloro che svolgono la stessa o diversa attività lecita rischiosa, le persone in vario modo coinvolte in tali attività.
A seconda dei settori della responsabilità colposa, vengono diversamente descritte le condizioni di legittimazione dell'affidamento coltivabile dal gestore del rischio. In generale si afferma che il principio dell'affidamento trova un temperamento nell'opposto principio secondo il quale il soggetto garante del rischio è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della "ragionevole" prevedibilità in base alle circostanze del caso concreto (Sez. 4, n. 6490 del 26/11/2020, dep. 2021, P.g. c/ Olmetti, Rv. 28092703; Sez. 4, n. 35585 del 12/05/2017, Schettino, Rv. 27078001). Si tratta di un considerevole avanzamento perché si ammette implicitamente che ciascuno è responsabile del proprio comportamento e che su ciò si può fare affidamento; salvo che risulti prevedibile l'altrui inosservanza.
In ambito sanitario i più recenti approdi della giurisprudenza di questa Corte esprimono il riconoscimento più ampio al principio di affidamento giacché si ammette che, pur all'interno di contesti cooperativi, si danno sfere di rischio gestite in via esclusiva, rispetto alle quali gli altri garanti possono fare affidamento non condizionato sull'assolvimento dei compiti da parte del relativo titolare (si è già citata la pronuncia che costituisce una delle principali espressioni di tale orientamento: Sez. 4, n. 27314 del 20/04/2017, Puglisi, Rv.27018901); e rischi cogestiti, rispetto ai quali il principio di affidamento opera sino a quando non risulti venir meno la sua intrinseca premessa, ovvero la prevedibile corretta gestione da parte del relativo con-titolare.
Nel settore delle attività lavorative il principio di affidamento ha sinora trovato minore spazio. Gli argomenti più ricorrenti fanno perno sulla filiazione dell'inosservanza cautelare da parte di colui verso il quale si postula l'affidamento da una violazione cautelare commessa da chi invoca il principio, venendo ancora preferita la prospettiva ricostruttiva della causalità (interferente). Si è statuito che, in tema di infortuni sul lavoro, il principio dell'affidamento - in virtù del quale ogni consociato può confidare che ciascuno si comporti secondo le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell'attività che di volta in volta viene in questione - non opera allorché il mancato rispetto da parte di terzi delle norme precauzionali di prudenza abbia la sua prima causa nell'inosservanza di tali norme di prudenza da parte di colui che invoca il suddetto principio. Se ne è derivato, ad esempio, che l'imprenditore-costruttore che costruisca una macchina industriale priva dei dispositivi di sicurezza, nella specie priva del dispositivo di arresto, non può invocare il principio dell'affidamento qualora l'acquirente utilizzi la macchina ponendo in essere una condotta imprudente, in quanto tale condotta sarebbe stata innocua o, comunque, avrebbe avuto conseguenze di ben diverso spessore qualora la macchina fosse stata dotata dei presidi antinfortunistici (Sez. 4, n. 41985 del 29/04/2003, P.G. in proc. Morra e altro, Rv.22728801).
Quanto all'ambito della relazione datore di lavoro - lavoratore, assume rilievo l'ampiezza della sfera di rischio assegnata al primo, che si ritiene comprensiva anche delle negligenze del soggetto beneficiario della tutela apprestata dall'ordinamento. Valga anche a questo riguardo quanto si è rammentato dell'insegnamento della giurisprudenza di legittimità in materia di marchio CE.
Orbene, calando tali premesse nel caso che occupa è sufficientemente evidente che l'identificazione di un dovere cautelare che scaturisce dalla conoscenza delle defaillances dei sistemi manutentivi è di per sé incompatibile con il principio di affidamento nell'operato del manutentore. A ben vedere, la censura si risolve in una ulteriore critica alla individuazione della regola cautelare e dello status gestorio; come tale ha trovato già risposta.
Vale comunque rammentare che con riferimento alla figura del noleggiatore (quale era il Ca.[MA.] nella fornitura del carro a Tre***), è stato affermato che sussiste la responsabilità del noleggiatore di un macchinario non conforme alle norme antinfortunistiche per omicidio colposo aggravato ai sensi dell'art. 589, comma secondo, cod. pen., in quanto egli è tenuto a garantirne la perfetta funzionalità e la relativa dotazione dei sistemi cautelari, non potendosi ritenere, in virtù del principio di affidamento, che il datore di lavoro, che tale macchina abbia noleggiato, consentendone l'utilizzazione ai propri dipendenti, debba operare un controllo prima dell'uso. La S.C. ha precisato che la colpa del noleggiatore, in tal caso, non esclude quella eventualmente concorrente del datore di lavoro che di tale macchinario abbia fatto uso (Sez. 4, n. 14413 del 24/01/2012, Cova e altri, Rv. 5330001).
23.5. Il motivo 1.1. del ricorso del Ca.[MA.] attiene all'applicabilità alla "situazione di cui è processo" delle norme del d.lgs. n. 81/2008. Considerato che il ricorso prende in considerazione la condanna del Ca.[MA.] tanto quale A.D. di Ca*** Che*** quanto in veste di Responsabile della Divisione Cargo (in rapporto alla quale è stato ritenuto datore di lavoro), si prenderà in esame il motivo come espressivo di censura in merito al riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen.
La censura è fondata, per le ragioni che sono state esplicate ai paragrafi 3 e ss. del Considerato in diritto, alle quali va aggiunto soltanto la puntualizzazione che, nella qualità di A.D. di Ca*** Che***, al Ca.[MA.] è stata contestata la violazione degli artt. 2050 c.c. e dell'art. 23 d.lgs. n. 81/2008, avendo peraltro la Corte di appello espressamente escluso che venisse in rilievo una sua posizione datoriale.
Ciò implica la esclusione dell'aggravante testé menzionata e l'ulteriore effetto della necessità di constatare l'avvenuta estinzione dei reati di omicidio colposo contestati al Ca.[MA.] al capo 3 della rubrica nella predetta qualità. Ne deriva, altresì, che limitatamente a tali reati la impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, mentre i ricorsi vanno rigettati agli effetti civili (valendo quanto sin qui esposto anche quale adempimento della prescrizione di cui all'art. 578 cod. proc. pen.); e vanno rigettati ad ogni effetto quanto al reato di disastro ferroviario colposo.
L'annullamento parziale impone la necessità di ridefinire il trattamento sanzionatorio; compito che non può essere svolto da questa Corte, involgendo valutazioni di merito che le sono sottratte. Va quindi disposta la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Firenze per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio conseguente alle statuizioni qui date.
23.6. Il motivo 3. del ricorso del Ca.[MA.], attinente al trattamento sanzionatorio, resta assorbito, anche in considerazione di quanto si esporrà nel paragrafo che segue.
23.7. Onde evitare inutili ripetizioni, il settimo motivo di Mer*** Logistics, che attiene alla costituzione di parte civile oltre che delle organizzazioni sindacali (della quale si è già scritto), di Medicina Democratica e di Cittadinanza attiva troverà esame più avanti (infra, paragrafo 28).

24. I ricorsi di CA.MA. quale Direttore della Divisione Cargo di Tre*** e di SO.VI.
24.1. Con l'atto a firma dell'avv. Mittone sono state avanzate censure che investono anche le statuizioni e la motivazione che la Corte di appello ha adottato nei confronti del Ca.[MA.] quale Direttore della Divisione Cargo di Tre***, e di SO.VI., Amministratore delegato della citata società.
24.2. Con il motivo 1.1. si è contestato che alle condotte dei menzionati ricorrenti che assumono rilievo per l'attribuzione degli eventi descritti nelle contestazioni possa trovare applicazione la disciplina del d.lgs. n. 81/2008.
La censura è fondata, in primo luogo per le ragioni che sono state esposte ai paragrafi da 3 a 6 del 'Considerato in diritto'. Qui vanno aggiunte alcune ulteriori considerazioni.
Il Tribunale, dopo aver dato conto degli elementi di prova in forza dei quali ha ritenuto che il Ca.[MA.] avesse assunto la qualità di datore di lavoro, ha affermato che egli risultava quindi titolare di una posizione di garanzia che derivava da più fonti, in forza della quale egli era tenuto al (disporre per il) controllo dell'attività manutentiva svolta dal proprietario del carro oggetto del contratto stipulato con FLog***, "a tutela della salute della sicurezza dei lavoratori, dei terzi, della intera collettività". Anche per il So.[VI.] si è affermata la titolarità del ruolo datoriale.
Senonché, alla esposizione di una pertinente premessa non è seguita alcuna analisi in merito al tipo di rischio che si era concretizzato nella specifica vicenda, onde verificare se titolo di responsabilità dovesse essere la colposa gestione del 'rischio ferroviario' o quella del 'rischio lavorativo'. Omissione del tutto comprensibile alla luce delle premesse esposte in via generale dal Tribunale, ma che in ragione della erroneità di quelle si è tradotta in una palese violazione di legge.
Dimostrazione ne sia che il Tribunale ha citato promiscuamente, quali regole cautelari violate dal Ca.[MA.], gli artt. 8 e 10 d.p.r. n. 753/1980, l'art. 8 d.lgs. n. 162/2007, le disposizioni della Fiche 433, della Cotif 1980, della direttiva europea 49/2004, la procedura di cabotaggio; ai quali ha associato "gli obblighi di cui agli artt. 15, 17,18, 69, 70, 71 del D.Lvo. n. 81/2008 e quelli corrispondenti di cui al D.Lgs. 626/1994; nonché i doveri derivanti dalle regole di diligenza, prudenza, perizia desumibili dagli artt. 2043, 2050, 2087 c.c...". Un florilegio di disposizioni, tra le quali si individuano alcune poste a governo dei rischi per la sicurezza della circolazione ferroviaria, altre volte a garantire la sicurezza dei lavoratori; altre ancora sono prive di prescrizioni destinate al gestore del rischio, essendo vincolanti per lo Stato; alcune concretano norme di dovere e non regole cautelari.
La Corte di appello, dal canto suo, non ha ulteriormente approfondito il tema, ponendosi nel solco segnato dal primo giudice.
Ben diversamente i collegi territoriali avrebbero dovuto individuare quelle trasgressioni cautelari che erano state causa del sinistro e quindi domandarsi a governo di quale tipo di rischio si ponevano le relative prescrizioni, avendo presente la necessità di mantenere distinte le varie aree di rischio eventualmente facenti capo ad un medesimo soggetto (come nel caso che occupa).
Avrebbe assunto rilievo, in tale indagine, che le regole cautelari violate traevano origine dal patrimonio conoscitivo formatosi e in parte positivizzato nel settore della circolazione ferroviaria. Mentre la pur presente titolarità della competenza per il rischio lavorativo non era chiamata in causa per gli eventi omicidiari aventi quali soggetti passivi soggetti terzi all'organizzazione di impresa, non valendo per essi quelle condizioni di 'omologazione' ai lavoratori dei quali si è fatta parola al precedente paragrafo 3. Non si è trattato di persone esposte al rischio lavorativo: non erano presenti in modo non occasionale sul luogo di lavoro (che per la valutazione delle posizioni degli operatori di Tre*** è solo il convoglio e gli altri luoghi nella disponibilità di tale impresa); non svolgevano attività almeno connesse a quelle dell'impresa Tre***. Le implicazioni del giudizio di fondatezza del motivo saranno esplicitate più avanti.
24.3. Con il motivo 1.2. ci si è doluti che la Corte di appello abbia rimproverato ai ricorrenti di aver omesso la valutazione del rischio di deragliamento e di incendio. Tale rimprovero, tuttavia, è stato formulato in ragione dell'attribuzione al Ca.[MA.] ed al So.[VI.] della qualità di datori di lavoro e pertanto nella prospettiva dell'inadempimento degli obblighi prevenzionistici gravanti sul datore di lavoro. L'aver escluso che gli eventi omicidiari (in particolare) siano stati concretizzazione del rischio lavorativo priva di rilievo il tema.
24.4. Il motivo 1.3. è già stato esaminato nel paragrafo 23 nella prospettiva dei doveri gravanti sul noleggiatore Ca.[MA.]. Ora l'analisi va completata ponendosi nella prospettiva degli esponenti dell'impresa ferroviaria. Per tale versante il motivo riproduce quelle argomentazioni critiche relative alla sussistenza di una regola cautelare che imponeva l'acquisizione di informazioni in merito alla vita manutentiva del carro e dei suoi componenti già esaminate al paragrafo 21. È sufficiente quindi richiamare quanto esposto in esso.
24.5. Il motivo 1.4. è stato esposto senza differenti declinazioni a seconda del ricorrente. Quanto scritto ai paragrafi 23.5. e 23.6. vale quindi come esposizione delle ragioni per le quali esso è infondato anche in relazione alle posizioni assunte dal Ca.[MA.] e dal So.[VI.] in Tre***.
24.6. Con il motivo 2.2. si censura la sentenza impugnata per aver trascurato il tema della ripartizione interna dei compiti nell'ambito di un'organizzazione complessa quale è Tre***, dubitandosi anche della valenza salvifica del comportamento alternativo lecito qualora posto in essere.
Tanto per il Ca.[MA.] che per il So.[VI.] la censura si sostanzia in una contestazione del giudizio di irrilevanza del modello di decentramento definito all'interno di Tre***, in forza del quale erano stati costituiti datori di lavoro i responsabili delle unità produttive territoriali. Anche in questo caso si tratta di un motivo che non occorre prendere in considerazione perché si è già chiarito che il fondamento della responsabilità dei ruoli apicali di Tre*** non può essere costituito dalla violazione degli obblighi che sul medesimo gravavano in qualità di datore di lavoro. A fondamento di tale responsabilità ricorre la titolarità della gestione del rischio ferroviario discendente in primo luogo dall'art. 8 d.lgs. n. 162/2007 e i doveri cautelari imposti dalle regole di diligenza, prudenza e perizia, per come precisati dai giudici di merito ed anche in questa sede ricapitolati.
Quanto all'ulteriore profilo della causalità della colpa, sub specie di esito positivo del giudizio controfattuale, mentre per il So.[VI.] le generiche affermazioni dell'esponente - "se anche avesse disposto il controllo documentale, con quale certezza la pretesa anomalia documentale sarebbe stata colta dall'incaricato al controllo?" - si infrangono sulla assenza di elementi fattuali specifici in grado di far dubitare della osservanza di prescrizioni impartite dall'Amministratore delegato, per il Ca.[MA.] è la stessa Corte di appello a porre in evidenza alcuni dati di fatto che avrebbero richiesto un approfondimento, onde sostenere quel giudizio con ragionevole certezza. La Corte distrettuale, che esplicitamente ha indicato nel Ca.[MA.] il titolare di un ruolo direttivo in Tre***,
ha rammentato che questi aveva sostenuto di essersi uniformato all'interpretazione delle norme da sempre applicata; e in un successivo passo, essa stessa afferma l'esistenza di una prassi aziendale (alla quale il Ca.[MA.] non avrebbe dovuto uniformarsi). Inoltre, come meglio si esporrà in prosieguo, nel trattare delle posizioni dell'El.[M.M.] e del Mo.[MA.], i giudici distrettuali hanno affermato con sufficiente nettezza di ritenere che la decisione di non adottare per i carri merci in proprietà estera che trasportavano sostanze pericolose e circolanti con marcatura RIV/RID fosse stata assunta ai massimi livelli societari, in un contesto di gruppo di imprese.
Il dato appare immediatamente rilevante ai fini del giudizio controfattuale, poiché la posizione sottordinata ai vertici societari e la provenienza da questi delle indicazioni per l'adozione di prassi interpretative risulta costituire quella contingenza concreta della quale il giudice deve farsi carico nell'accertare se, dando per verificato il comportamento invece omesso, quest'ultimo avrebbe, con un alto grado di probabilità logica, impedito o significativamente ritardato il verificarsi dell'evento o comunque ridotto l'intensità lesiva dello stesso.
24.7. In conclusione, quanto alla posizione di SO.VI., va esclusa l'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen.
Il termine di prescrizione per gli omicidi colposi di cui al capo 9 della rubrica è pari a sette anni e sei mesi ed è decorso dopo la pronuncia della sentenza di primo grado. Essi sono quindi estinti. Ne consegue che, limitatamente a tali reati, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, con trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di appello di Firenze per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio relativo al So.[VI.]. Il ricorso va rigettato agli effetti civili (valendo quanto sin qui esposto anche quale adempimento della prescrizione di cui all'art. 578 cod. proc, pen.); e va rigettato ad ogni effetto quanto al reato di disastro ferroviario colposo.
Quanto alla posizione di CA.MA., nella qualità di Direttore della Divisione Cargo di Tre*** s.p.a, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali, relativamente al reato di cui all'art. 589 cod. pen. per essere il medesimo estinto per prescrizione, previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen.; ed annullata agli effetti penali relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio.
24.8. Resta assorbito il motivo 3, comune ai ricorrenti, sul trattamento sanzionatorio.

25. Il ricorso di MA.EM.
25.1. Con il primo motivo è stata dedotta la nullità della sentenza per essere stato violato il divieto di immutazione, sostenendosi che non era stata contestata in precedente la condotta per la quale la Corte di appello ha ritenuto la responsabilità del Ma.[EM.].
Il motivo è manifestamente infondato. Neppure occorre richiamare quanto si è già esposto a proposito delle condizioni in presenza delle quali può ritenersi la violazione del principio di correlazione, poiché nel caso che occupa è errata la premessa in fatto dalla quale muove la censura. Nei confronti del Ma.[EM.] erano state elevate imputazioni che gli rimproveravano essenzialmente di non aver proposto il detettore di svio, avendo il Ma.[EM.], quale vertice di un'articolazione di Tre***, la Direzione Ingegneria Sicurezza e Qualità di Sistema - DISQS, compiti di definizione di criteri generali e standard in materia di sicurezza della gestione del materiale rotabile. Il Tribunale ha rimproverato all'imputato anche di non aver garantito il controllo sui processi manutentivi effettuati da un'officina all'estero e di non aver diramato specifiche prescrizioni sulla circolazione di merci pericolose. Come rammenta il ricorrente, la Corte di appello ha escluso che al Ma.[EM.] potesse essere addebitata la mancata adozione del detettore di svio e lo ha condannato unicamente per non aver rilevato ed eliminato la errata prassi interpretativa ed attuativa circa la tracciabilità dei carri esteri e per la omessa predisposizione di direttive interne che imponessero il rispetto delle norme in materia di controllo su tali rotabili. Non si tratta di una modifica rispetto a quanto ritenuto dal Tribunale, ma di una mera riformulazione del medesimo concetto.
25.2. Ragioni di priorità logica e giuridica impongono a questo punto l'esame del quarto motivo.
Esso concerne il riconoscimento dell'aggravante della commissione del fatto con violazione di norme prevenzionistiche. Il motivo è fondato.
I giudici di merito hanno riconosciuto l'aggravante in parola anche per i reati di omicidio colposo ascritti al Ma.[EM.] sia in ragione delle premesse tracciate in via generale in tema di riconducibilità dell'evento al fenomeno infortunistico, sia per il ruolo attribuito al Ma.[EM.] nel contesto dell'organizzazione di Tre*** s.p.a.
Invero, nella sentenza di primo grado si rileva una certa ambiguità nella individuazione quale fonte della responsabilità del Ma.[EM.] il suo essere 'datore di lavoro'. Infatti, il primo giudice in principio scrive: "al di là della configurazione come autonoma Unità Produttiva (con la qualifica di Responsabile quale 'datore di lavoro' della specifica struttura di competenza.sembrerebbe quindi voler rammentare che l'imputato ricopriva il ruolo nell'ambito della specifica struttura di competenza, la DISQS, e che tale ruolo non era rilevante ai fini del giudizio. Tuttavia, in un passo successivo, il Tribunale ha sostenuto che il Ma.[EM.] era venuto meno "agli obblighi dell'imprenditore/datore di lavoro in ordine alla valutazione dei rischi e alla adozione di quei sistemi di prevenzione e protezione idonei a garantire il massimo livello di sicurezza tecnicamente realizzabile ... (artt. 15 e 18 D. Lvo 81/20008 e, in precedenza, artt. 3 e 4 D.Lvo 626/1994)".
Si è appena scritto che nel caso di specie i tragici eventi non costituiscono concretizzazione del rischio lavorativo alla cui gestione erano preposte le figure apicali e direttive di Tre***.
A riguardo della posizione del Ma.[EM.] va aggiunta una ulteriore considerazione.
La previsione normativa che prefigura la possibilità di avere nell'ambito di una medesima impresa una pluralità di datori di lavoro non permette di proiettare gli effetti del singolo ruolo datoriale sull'intera organizzazione. La costituzione di un datore di lavoro all'interno di una più ampia organizzazione per effetto dell'articolazione di questa in più unità produttive presuppone che sia individuabile ed individuata siffatta unità per le cui necessità di funzionamento il soggetto chiamato a gestirla viene dotato di tutti i poteri decisionali e di spesa necessari. Si stabilisce, così, una relazione biunivoca tra tale soggetto e l'unità organizzativa, tale per cui egli diviene in essa - e solo nell'ambito di essa - datore di lavoro. In realtà organizzative che presentano simile connotazioni si determina la contestuale presenza di un datore di lavoro al vertice dell'intera organizzazione - che pertanto potrebbe dirsi 'apicale' - e di uno o più datori di lavoro che potrebbero definirsi 'sottordinati'. Infatti, per essi il ruolo datoriale non elide il vincolo gerarchico verso il datore di lavoro 'apicale'; la particolarità è che tale vincolo si esprime con modalità che non intaccano i poteri di decisione e di spesa richiesti dalla autonoma gestione dell'unità produttiva. Quando invece tali vincoli si riflettono anche su tale gestione, è da escludersi che ricorra un datore di lavoro sottordinato, profilandosi piuttosto un dirigente (per una applicazione di tali assunti si veda Sez. 4, n. 18200 del 07/01/2016, Grosso e altro, Rv. 26664001, in motivazione).
Il datore di lavoro sottordinato è quindi destinatario di tutte le prescrizioni che si indirizzano alla figura datoriale; ma entro la e in funzione della gestione della sicurezza nell'ambito dell'unità organizzativa affidatagli. Esemplificando, egli sarà tenuto ad eseguire la valutazione di tutti i rischi connessi alle attività lavorative svolte nell'unità; a redigere il documento di valutazione dei rischi; a nominare il medico competente ed il responsabile del servizio di prevenzione e di protezione. Quella stretta connessione che lo stesso disposto normativo pone fa sì che la valutazione dei rischi non possa attenere a rischi che risultano affidati a diversi datori di lavoro (per esempio quelli ai quali è stata affidata altra unità produttiva fornita di analoga autonomia; ma anche quello che resta vertice dell'organizzazione entro la quale sono individuate le diverse unità produttive autonome).
Proprio per tale motivo è corretta la replica che i giudici di merito indirizzano al rilievo difensivo tendente a valorizzare la previsione di più datori di lavoro, costituiti dai Capi del compartimenti territoriali; una volta individuato il rischio come non specifico delle attività svolte nella singole attività, tanto che la sua gestione presuppone poteri non disponibili a quei datori di lavoro, è del tutto conseguente che la valutazione di tale rischio è oggetto di un obbligo che fa capo al datore di lavoro 'apicale'.
Sarebbe quindi censurabile il rimprovero al Ma.[EM.] di non aver svolto una valutazione di rischi che investivano l'intera organizzazione del trasporto ferroviario; tale obbligo faceva capo al datore di lavoro 'apicale'.
La Corte di appello ha fatto applicazione di tali principi.
In primo luogo ha affermato che il datore di lavoro era da individuarsi nell'AD So.[VI.] e non nei responsabili delle singole unità produttive territorialmente competenti benché nominati tali (738). Quindi ha chiaramente identificato nei responsabili delle Direzioni centrali dei dirigenti, perché essi, unitamente all'AD, avevano il compito di elaborare le normative interne e di adottare decisioni rilevanti per l'intera organizzazione e sue articolazioni. Con specifico riguardo al Ma.[EM.], la Corte di appello si è preoccupata di accertare se le sue competenze si estendessero al settore della sicurezza (745), ritenendo di dover rispondere affermativamente all'implicito quesito, sulla scorta della qualifica di responsabile della DISQS e della procura del 5/9.2.2007. Ha quindi puntualizzato che, seppure egli avesse avuto la qualifica di datore di lavoro - perché i vertici di Tre*** avevano attribuito tale qualifica a tutti i responsabili delle Unità produttive, tra cui la DISQS - la sua responsabilità non derivava dalla mancata elaborazione del DVR ma dalla mancata rilevazione ed eliminazione di deficit organizzativi in tema di sicurezza, che avrebbero dovuto condurlo a rilevare e correggere l'errata prassi interpretativa in tema di tracciabilità.
Alla luce di quanto evidenziato nella pronuncia, in rapporto alla gestione del rischio, ove esso fosse realmente di matrice prevenzionistica, dovrebbe registrarsi che il Ma.[EM.] risulta aver assunto le vesti del dirigente, secondo la definizione data dall'art. 2 lett. d) d.lgs. n. 81/2008.
In tale veste egli aveva il compito di supportare le decisioni del vertice svolgendo i compiti che sono stati puntualmente descritti dal Tribunale e dalla Corte di appello.
Tuttavia, lo si è già segnalato, questa Corte ritiene che la menzionata aggravante sia stata erroneamente contestata atteso il tipo di rischio che si è inverato nell'evento concretamente verificatosi. Si scriverà in prosieguo quale effetto deve avere siffatto giudizio.
25.3. Il terzo motivo è infondato.
Per quanto concerne i rilievi che attengono nuovamente alla contestazione dell'esistenza di norme che imponessero l'acquisizione di una documentazione completa, si rinvia a quanto già esposto nei paragrafi 19 e ss..
Tuttavia, il ricorso propone anche un profilo peculiare, sostenendo l'esponente che il mancato intervento da parte del Ma.[EM.] volto a fornire alle altre Unità Produttive la corretta interpretazione delle normative presupporrebbe necessariamente la conoscenza che quella in uso era una interpretazione distorta; e che in ogni caso si sarebbe trattato di un errore su legge diversa da quella penale, come tale ricadente nel cono applicativo dell'art. 47 cod. pen.
Quanto al primo aspetto è sufficiente rammentare che la responsabilità per colpa mette radici non solo nella conoscenza della situazione di rischio e della misura cautelare da adottare ma anche nella conoscibilità dell'una e/o dell'altra. Peraltro, l'ignoranza o l'errore deve pur sempre essere incolpevole (cfr. Sez. 4, n. 7402 del 26/04/2000, Manteco, Rv. 216476; ma è pertinente all'argomento anche la giurisprudenza già citata trattando della ipotizzabilità di una colpa datoriale anche in caso di attrezzatura di lavoro marcata CE: Sez. 4, n. 26247 del 30/05/2013, Magrini, Rv. 25694801; Sez. 4, n. 35295 del 23/04/2013, R.C., Bendotti e altro, Rv. 25639901). Inoltre, si verte in ipotesi di errore scusabile solo ove si tratti di un errore sul fatto; il che è escluso per definizione quando si ipotizzi che l'errore ha inficiato l'interpretazione del quadro disciplinare.
25.4. Il secondo motivo è invece fondato, nei termini di seguito precisati. Per l'aspetto che attiene alla contestazione dell'esistenza di un obbligo di tracciabilità vale quanto si è esposto nel paragrafo specificamente dedicato al tema.
Quanto al giudizio causale, esso viene censurato perché è stato sostenuto dai giudici di merito che avrebbe avuto esito positivo nonostante la conclusione non possa ritenersi connotata da alta probabilità logica.
Giova rammentare nuovamente che secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Molfese, Rv. 27629203, sulla scorta dell'insegnamento di S.U., n. 38343 del 24/04/2014 P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 26110301). Il principio impone al giudice di merito di non limitarsi ad un giudizio meramente logico ma di compiere una attenta ricognizione delle concrete circostanze fattuali, al fine di accertare se la relazione causale predicabile in astratto non trovi fattori di eversione nel caso concreto. Così, ad esempio in tema di responsabilità medica per omissione, viene statuito che l'accertamento del nesso causale, ed in particolare il giudizio controfattuale necessario per stabilire l'effetto salvifico delle cure omesse, deve essere effettuato secondo un giudizio di alta probabilità logica, tenendo conto non solo di affidabili informazioni scientifiche ma anche delle contingenze significative del caso concreto, ed in particolare, della condizione specifica del paziente (Sez. 4, n. 10175 del 04/03/2020, Bracchila, Rv. 278673 - 01).
Tenendo presenti tali premesse deve ritenersi che il ricorso per cassazione che voglia denunciare il vizio della motivazione o la violazione di legge in relazione all'accertamento del nesso causale deve indicare quel fattore di eversione che, non considerato dal giudice, rende il giudizio manifestamente illogico e/o in contrasto con l'art. 41 cod. pen.
Orbene, in due diversi passi l'esponente rileva che l'affermazione di responsabilità del Ma.[EM.] non ha tenuto conto della realtà dell'organizzazione dell'impresa. In uno si segnala la irrealtà della "ipotesi formulata dalla sentenza, di un ingegnere non apicale, direttore della DISQS votata alla normativa tecnica e non alla raffinata esegesi di testi normativi, che improvvisamente si determina a propugnare e imporre obblighi e adempimenti non previsti dalle norme, così come conosciute e applicate da sempre, in divergenza dalla pratica aziendale"; nel secondo si lamenta la mancanza di motivazione in merito all'esito che "/ richiami e le disposizioni diramate dall'ing. Ma.[EM.], ... avrebbe potuto sortire nelle altre numerose Unità Produttive a lui non gerarchicamente sottordinate, oltre che nella Divisione Cargo, o nella parallela FLog*** spa", lamentando che la Corte di appello non abbia spiegato perché le decisioni del Ma.[EM.] sarebbero state seguite "da immediata condiscendenza in ogni articolazione, anche apicale, di Tre***".
Il ricorrente ha quindi introdotto, quale 'fattore di eversione', l'esistenza di una prassi interpretativa aziendale che faceva capo ai vertici della società, tale da richiedere considerazione nel giudizio circa la efficienza causale della condotta dovuta dal Ma.[EM.] e tuttavia mancata. Si tratta di un dato che è diffusamente tratteggiato dalla stessa sentenza impugnata.
Come si è già osservato a riguardo del Ca.[MA.], in effetti la Corte di appello ha delineato un quadro entro il quale la decisione in merito alla interpretazione da attribuire alla normativa viene fatta risalire ai vertici delle società. Ciò nonostante essa non si è fatta carico di valutare come tale circostanza si riflettesse sulla causalità della colpa del Ma.[EM.], rendendo così una motivazione manifestamente illogica.
25.6. Da quanto sin qui esposto discende che i reati di omicidio colposo ascritti al Ma.[EM.] hanno un termine massimo di prescrizione pari a sette anni e sei mesi. Tenuto conto anche del periodo di sospensione dello stesso intervenuto nel corso dei giudizi di merito, tali reati risultano estinti per prescrizione.
Ne deriva che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio agli effetti penali, limitatamente ai reati di cui al capo 30 della rubrica e, agli effetti civili, con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio sul punto concernente la causalità della colpa ascritta al Ma.[EM.]. La medesima sentenza va annullata anche in relazione al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio sul punto. Al giudice del rinvio va demandata anche la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.

26. Il ricorso di FA.FR.
26.1. Il primo motivo prospetta la violazione della legge processuale per omesso rispetto del principio di precostituzione del giudice; per le ragioni che si sono già esposte al paragrafo 1 del Considerato in diritto il motivo è infondato.
26.2. Nell'ambito del secondo motivo viene denunciata anche la violazione del principio di correlazione, segnalando che l'addebito di non aver attivato la procedura di cabotaggio nel 2005 è stato introdotto per la prima volta dal P.M. nell'ambito della discussione in conclusione del dibattimento di primo grado e che ciò ha concretamente pregiudicato il diritto di difesa poiché l'imputato non è stato messo in grado, se non a istruttoria chiusa, di misurarsi con l'incolpazione, specie considerato che ad altri coimputati era stato contestato l'omesso avvio della procedura in altro periodo e la complessità tecnica del procedimento. Peraltro, a fronte di specifico motivo di appello, la corte distrettuale ha omesso ogni motivazione.
Anche tale motivo è infondato. Deve essere nuovamente rammentato che, in tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014, Denaro, rv. 26016101), Anche se sia stata ritenuta dal giudice di primo grado la sussistenza di un comportamento commissivo colposo, la qualificazione in appello della condotta medesima anche come colposamente omissiva non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l'imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell'addebito. A tal riguardo, occorre verificare se i profili di colpa commissiva individuati nella sentenza impugnata non potevano considerarsi estranei alla imputazione originaria, in quanto ricompresi nel fatto storico in essa delineato e, soprattutto, rientranti nella colpa generica contestata all'imputato (Sez. 4, n. 27389 del 08/03/2018, Siani, Rv. 27358801).
Nel caso che occupa effettivamente la originaria contestazione non imputava al Fa.[FR.] di aver omesso, in qualità di responsabile del Cesifer di R***I, la esecuzione della procedura di cabotaggio; l'attribuzione di tale ulteriore profilo di colpa gli è stata fatta dal Tribunale. Di ciò l'odierno ricorrente ha fatto menzione con l'appello, ma non ragione di una specifica censura di natura processuale, tanto da svolgere considerazioni critiche nel merito, peraltro senza rappresentare che la propria difesa risultava pregiudicata dalla menzionata evoluzione processuale. Ciò attesta l'assenza di quella lesione del diritto di difesa che è condizione essenziale della nullità della decisione per violazione del principio di correlazione. Va peraltro rilevato, riprendendo un aspetto ad altro proposito più approfonditamente esaminato, che la omessa esecuzione della procedura di cabotaggio non ha assunto rilievo ex sé ma come ulteriore dimostrazione della indisponibilità da parte del gestore della rete (e prima ancora dell'impresa ferroviaria e del fornitore) di un patrimonio informativo, dai giudici di merito ritenuto indispensabile per le ragioni ampiamente riepilogate anche in questa sede.
26.3. Anche per il Fa.[FR.] vale quanto si è già ritenuto per tutti gli altri imputati, ovvero che non è sussistente l'aggravante prevenzionìstica di cui agli artt. 589, co. 2 e 590, co. 2 cod. pen., con l'effetto di dover dichiarare estinti i reati di omicidio colposo per prescrizione.
La contestazione riferisce al Fa.[FR.] la violazione degli artt. 2043 e 2050 c.c., degli artt. 8 e 10 del d.p.r. n. 753/1980, dell'art. 7, co. 7 del d.p.r. n. 146/1999; degli artt. 1.2, 2.1., 2.2., 4.2. lett. d), 4.2. lett. e) ed f) del d.m. n. 247/VIG 3 del 22.5.2000; dell'art. 3, co. 1 lett. a) del d.m. n. 138 T del 31.10.2000; dell'art. 8, co. 1, 3 e 4 del D.lgs. n. 162/2007, dei punti 2.3. e 3.3. del decreto n. 1 ANSF del 6.4.2009; degli artt. 3, co. 1 lett. a), b), c), d), e), h) e 4, co. 1 e 5 lett. h), n), b), q) del d.lgs. n. 626/1994, oltre che a disposizioni della Fiche 433 e ad altre emesse dall'ASA, struttura di FS, relative al detettore di svio.
Delle ragioni per le quali gli artt. 2043 e 2050 c.c. non costituiscono 'norme per la prevenzione degli infortuni' si è scritto al paragrafo 3. Le sole norme, tra quelle appena menzionate, per le quali può ipotizzarsi plausibilmente che siano dettate per la prevenzione degli infortuni sono quelle contenute nel d.p.r. n. 753/1980.
L'art. 8 del d.p.r. n. 753/1980 consta di due commi: "Nell'esercizio delle ferrovie si devono adottare le misure e le cautele suggerite dalla tecnica e dalla pratica atte ad evitare sinistri.
Quando tuttavia si verifichi un incidente, il personale è tenuto a prestare tutti i possibili soccorsi e a mettere in opera ogni mezzo opportuno per alleviare e limitare le conseguenze dei danni occorsi e per impedirne altri".
Il primo comma detta una disposizione che ripropone la struttura dell'art. 2087 c.c. e si indirizza a tutti coloro che concorrono all'esercizio delle ferrovie, ovvero ai gestori dei rischi connessi a tale esercizio, ciascuno secondo le proprie competenze.
L'art. 10, dal canto suo, nei commi di più diretta attinenza scandisce che "Il personale delle ferrovie ha /'obbligo di svolgere con la necessaria diligenza il proprio servizio, osservando le prescrizioni delle leggi, dei regolamenti e delle istruzioni in vigore.
Esso deve adoperarsi con diligenza anche nei casi non previsti dalle norme, ai fini della sicurezza e della regolarità dell'esercizio.
Nei rapporti con il pubblico il personale stesso è tenuto ad usare la massima correttezza.
Le aziende esercenti sono tenute a vigilare su tali adempimenti, applicando in caso di inosservanza le sanzioni disciplinari stabilite dalle leggi e dai regolamenti vigenti in materia".
Questa Corte ha già precisato che tali disposizioni, "più che individuare specifici comportamenti cautelari legati al corretto esercizio della circolazione ferroviaria, si pongano piuttosto quali espressioni sostanzialmente e coerentemente riproduttive dei tradizionali parametri della colpa generica della negligenza, imprudenza e imperizia di cui all’art. 43 c.p." (Sez. 4, n. 4106 del 6/12/2012, dep. 2013, Marchi e altri, rv. 255273, in motivazione).
Peraltro, il d.p.r. n. 753/1980 ("Nuove norme in materia di polizia, sicurezza e regolarità dell’esercizio delle ferrovie e di altri servizi di trasporto") non è dedicato specificamente alla sicurezza dei lavoratori delle ferrovie ma più in generale a tutti coloro che risultano esposti ai rischi implicati dall'esercizio delle ferrovie. Tanto implica che per ritenere che la violazione di generiche regole di diligenza possa concretare la violazione di norme per la prevenzione degli infortuni è necessario che nel caso specifico esse si coordinino al quomodo dell'adempimento dell'obbligazione prevenzionistica. In altri termini, occorre che l'evento si sia concretizzato in derivazione dell'esercizio della competenza per il rischio lavorativo, le cui modalità vengono indicate nel caso concreto da quelle regole.
Fatte queste precisazioni, nuovamente risulta decisivo il dato del non essersi concretizzato negli eventi di cui alle imputazioni il rischio lavorativo, per le ragioni già esposte al paragrafo 3.
Relativamente ai reati di omicidio colposo, va quindi esclusa l'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. Ne consegue, per le ragioni più volte esposte, che i reati di omicidio colposo ascritti al Fa.[FR.] sono estinti per prescrizione.
26.4. Risultano fondati i rilievi che investono la motivazione in merito alla violazione dei doveri incombenti sul Fa.[FR.] nella qualità di responsabile del Cesifer.
È opportuno rammentare che la Corte di appello ha confermato la condanna del Fa.[FR.] limitatamente al ruolo di responsabile del Cesifer, mentre ha accolto l'appello dell'imputato quanto alla affermazione di responsabilità per violazioni commesse come responsabile dell'istituto sperimentale e ciò in ragione del breve tempo durante il quale questi aveva ricoperto la carica.
Quale responsabile del Cesifer, la Corte distrettuale ha ritenuto che dovendo essere eseguita la procedura di cabotaggio nel 2005, egli era responsabile della sua omessa esecuzione; mancata esecuzione colpevole perché della circolazione del carro merci sviato a Viareggio egli era a conoscenza o comunque avrebbe dovuto avere conoscenza.
In primo luogo vanno respinte le censure difensive che contestano la motivazione impugnata laddove giustifica il giudizio di vigenza alla data del sinistro viareggino della procedura di cabotaggio.
Esse ripropongono argomenti già respinti dai giudici di merito senza incorrere in manifeste illogicità e con piena coerenza ai dati probatori acquisiti nonché al pertinente quadro normativo; nella sostanza esse tendono ad una diversa ricostruzione dei fatti accertati in giudizio. Già il Tribunale aveva rilevato che nella Relazione predisposta dall'ANSF nel settembre 2009 la procedura veniva indicata tra le disposizioni ancora vigenti; circostanza confermata in dibattimento dal teste Chiov.. Ancor prima, e significativamente, in tempo anteriore al verificarsi del sinistro, la persistente vigenza della disposizione era stata indicata nel decreto 1/2009 dell'ANSF, dell'aprile 2009; provvedimento che dava esecuzione alla previsione del d.lgs n. 162/2007 per la quale tale autorità ha il compito di definire il quadro normativo in materia di sicurezza. I giudici di merito hanno poi rimarcato che la procedura venne in concreto eseguita allorquando, poco tempo prima del sinistro, Ci***Ri*** ne richiese per conto di G***x Rail Austria l'esecuzione; tuttavia limitandola alla sovrastruttura.
Si è già scritto che l'affermazione di una incompatibilità con il regime comunitario e anche con quello pattizio di controlli nazionali sui materiali RIV/RID è generica e peraltro priva di fondamento. Non coglie il segno neppure il rilievo di una contraddittorietà della motivazione laddove ammette da un canto l'incompatibilità della procedura con quel regime e dall'altro la nega. In realtà è la stessa procedura a prevedere che per i carri cisterna costruiti in Francia ed in Germania - immatricolati SNCF e DB - non è richiesto il parere favorevole della "Commissione Permanente per le prescrizioni sui recipienti per gas compressi" perché è stato demandato alle Fe***I*** il rilascio del relativo nulla osta alla circolazione in servizio interno italiano.
L'affermazione dei giudici secondo la quale dal tenore della dichiarazione che l'impresa ferroviaria doveva rilasciare si ricava che essa doveva essere in possesso dei piani di manutenzione non è frutto di una illogica deduzione. È da rimarcare che la dichiarazione ("Si dichiara, inoltre, che gli interventi di revisione sul carro sono stati eseguiti in conformità a quanto previsto nel piano di manutenzione dello stesso") era sottoscritta tanto dal gestore di rete che dall'impresa ferroviaria che dal proprietario del carro; a dimostrazione che ciascuno di questi si impegnava a garantire la correttezza della manutenzione, ovviamente secondo il rispettivo ruolo.
In relazione al rilievo difensivo per il quale la scheda C dell'allegato 6 della procedura, nella parte dedicata alla sottostruttura, non prevede alcun dato che potesse assumere rilievo rispetto al corso degli eventi, trattandosi delle informazioni di base esplicitate nel cartiglio apposto sul fianco del carro, va osservato che si tratta ancora una volta della riformulazione dell'assunto di una esaustività della marcatura del carro stante il regime di circolazione del carri RIV/RID, secondo la ricostruzione patrocinata dai ricorrenti. La replica al rilievo quindi si rinviene in quanto si è scritto nei paragrafi 19 e ss.
Ulteriore doglianza coglie l'oggetto della verifica tecnica eseguita nell'ambito della procedura, che nuovamente i ricorrenti indicano limitata alla sovrastruttura del carro. Anche tale affermazione è stata respinta dai giudici di merito, con motivazione che non merita censura in questa sede. Gli elementi testuali del provvedimento segnalati da questi è coerente con la conclusione dei Collegi territoriali, per i quali essa non contemplava un controllo sul solo serbatoio; secondo quanto previsto dalla disposizione che la disciplinava, con specifico riferimento ai carri RIV/RID, il tecnico ispettivo emetteva il verbale di verifica tecnica "accertate le condizioni di manutenzione del carro, lo stato di conservazione del serbatoio e la rispondenza a quanto riportato ne! mod. C ed alle norme vigenti in materia". È opportuno rimarcare che nel provvedimento si tengono chiaramente distinti i concetti di carro e di serbatoio. Lo stesso citato mod. C richiedeva dichiarazioni che riguardavano distintamente il serbatoio e la sottostruttura del carro, e per questa i carrelli, le sale montate, il costruttore, i freni, l'ultima revisione eseguita.
26.5. Tanto chiarito, non vi è contestazione in ordine al fatto che la procedura di cabotaggio dovesse essere attivata dall'impresa ferroviaria, con la richiesta di messa in servizio. Del pari, non è contestato che per il carro in questione tale procedura non sia stata attivata da Tre***. Ha scritto la Corte di appello: "In ogni caso è evidente che il treno in questione circolava senza essere compreso nei certificati di sicurezza rilasciati a Tre*** spa o comunque senza essere mai stato riconosciuto "conforme" da R***I spa, perché quest'ultima non ha mai rilasciato alcuna attestazione di conformità dei carri-cisterna che lo componevano e neppure avrebbe potuto farlo, avendo omesso ogni controllo anche solo documentale su di esso".
Il tema è pertanto quello della sussistenza di un dovere di vigilanza del Cesifer volto ad accertare che i carri conformi RIV/RID non fossero messi in servizio senza eseguire previamente la detta procedura; o di una conoscenza da parte del Cesifer dell'avvenuta irregolare messa in servizio del carro, che avrebbe imposto di attivarsi per impedire la circolazione del carro medesimo.
Orbene, quanto al primo profilo, la Corte di appello ha affermato che al Cesifer era demandato il compito di detenere i rapporti con le imprese ferroviarie ai fini del rilascio, rinnovo, modifica e revoca del Certificato di sicurezza e di verificare la persistenza della conformità agli standard di sicurezza definiti da parte delle imprese ferroviarie certificate mediante attività ispettiva, audit e monitoraggio nonché mediante analisi dei manuali, delle procedure, dei dossier e dei piani di sicurezza elaborati dalle imprese ferroviarie stesse. Ne discende, per la Corte territoriale, che il Cesifer aveva interlocuzioni continue con l'impresa ferroviaria e che avrebbe dovuto verificare periodicamente se tutti i carri utilizzati erano conformi agli standard di sicurezza e quindi se erano accompagnati dal dossier di sicurezza o dal dossier tecnico o comunque dalla documentazione prescritta per la tracciabilità.
La Corte di appello ha prospettato quindi un permanente dovere di vigilanza in capo al Cesifer; la motivazione al riguardo non è manifestamente illogica perché fa riferimento ad un potere di revoca del certificato di sicurezza che certo prescinde dalla richiesta dell'impresa ferroviaria. A ciò si coordinano, d'altronde, quei doveri e poteri di svolgere attività ispettiva, audit, monitoraggio ed analisi delle procedure e dei piani di sicurezza delle imprese ferroviarie, dei quali pure ha fatto menzione la Corte di appello.
Tuttavia, trattandosi di carro la cui circolazione sulla rete nazionale non è mai stata dichiarata da Tre***, sarebbe stato necessario esplicitare come concretamente il Cesifer avrebbe potuto avere conoscenza dello stesso. Di ciò la Corte di appello si è mostrata ben consapevole perché si è premurata di precisare che la struttura facente capo al Fa.[FR.] avrebbe dovuto verificare periodicamente se tutti i carri utilizzati erano conformi agli standard di sicurezza. Ma se ciò ha un senso per i carri dei quali è nota la presenza sulla rete nazionale, non altrettanto può dirsi per quelli dei quali si ignora la immissione in servizio. Quanto meno la Corte di appello avrebbe dovuto accertare in qual modo il Cesifer poteva avere conoscenza 'sul campo' dei carri circolanti.
Che tale profilo sia rimasto sostanzialmente inesplorato è dimostrato anche dal riferimento che la Corte di appello fa ai due certificati rilasciati a Tre*** nel 2006, aventi rispettivamente numero 74 e 76; il primo relativo alla tratta Salone- Gricignano, il secondo alla tratta Bivio Stura- Bivio Novara Ovest. La Corte di appello ne deduce che avendo la tratta del primo certificato e quella del carro sviato in comune la stazione di arrivo, quel certificato aveva riguardato tutto il materiale rotabile impiegato su entrambe le tratte dei nuovi certificati e quindi il Fa.[FR.] avrebbe dovuto verificare il deposito della documentazione di tutto quel materiale. La motivazione è manifestamente illogica, poiché si assume la possibilità di un controllo documentale su un carro non segnalato dall'impresa ferroviaria. Ulteriore dimostrazione ne è il ricorso da parte della Corte di appello all'argomento secondo il quale non avendo Tre*** presentato alcun dossier relativo ai rotabili utilizzati per il trasporto delle merci pericolose, il Fa.[FR.] avrebbe potuto (dovuto) rilevare la mancanza dei dossier per i carri-cisterna a quel trasporto aditi. Si suppone, senza esplicitare le ragioni a conforto, che il Fa.[FR.] avesse conoscenza della illegittima circolazione del carro in parola. Anzi, si ammette implicitamente che la prova di tale conoscenza non è stata acquisita perché si afferma che se il Fa.[FR.] non avesse saputo che Tre*** stava eseguendo trasporti di GPL con carri non omologati in Italia privi di documentazione sarebbe risultata una sua negligenza colpevole.
In conclusione, la Corte di appello ha definito i tratti di una responsabilità da posizione, essendo mancati puntuali riferimenti fattuali in grado di risolvere l'alternativa tra incolpevole ignoranza e conoscibilità da parte del Fa.[FR.] della circolazione del carro in questione.
26.6. Fondata è anche l'ulteriore censura che pone in evidenza un preteso deficit motivazionale rinvenibile in punto di causalità della colpa.
Il ricorrente sostiene che "in più passaggi argomentativi la sentenza impugnata dà conto dell'esistenza, all'interno dei CESIFER/R***I di una convinzione circa la non necessità di acquisire documenti attestanti la sicurezza del carro estero circolante in Italia perché, attestata dalla marcatura RIV" e sul fatto che la Corte di appello ha assolto i Direttori tecnici di R***I "che, avendo ricoperto questa funzione per un periodo limitato, non potevano essere destinatari dei rimprovero di aver prestato ossequio alla prassi di esonero dal controllo documentale dei carri esteri RIV per l'operatività del regime alternativo europeo". 
In effetti, si è già rilevato che la Corte di appello ha affermato ripetutamente che esisteva una prassi aziendale secondo la quale i carri RID venivano ammessi a circolare sulla rete italiana senza altri controlli e senza acquisire alcun dossier di sicurezza (si veda, ad esempio, quanto sostenuto nell'esaminare la posizione del Co.[GI]: p. 762). Tale circostanza non è stata evocata quando si è valutata la posizione del Fa.[FR.]. Anche trattando della posizione dell'El.[M.M.] la Corte di appello ha affermato che tutte le società del gruppo adottarono la decisione di omettere il controllo, sulla base della non corretta interpretazione delle norme nazionali; aggiungendo che: "Si tratta con evidenza, ..., di una scelta aziendale di 'alta amministrazione', che poteva essere adottata solo dai vertici societari..."; decisione che, per la corte territoriale, in realtà era stata "palesemente adottata già in precedenza (rispetto al 25.9.2006, data dell'assunzione di El.[M.M.] al ruolo di AD di R***I: n.d.r.), quanto meno dal gennaio 2005".
Orbene, poiché si è ritenuta accertata una deliberazione del tutto consapevole, non si può imputare ad un subordinato di non aver segnalato l'errore senza dimostrare che quella scelta era 'debole' in quanto suscettibile di revisione ove fatta la segnalazione da parte del dirigente.
Ciò ha palese rilevanza per chi ha compiti di mera consulenza, studio o segnalazione, come il Ma.[EM.]. Per il Fa.[FR.] la valenza impeditiva va ricercata in relazione ad un diverso comportamento, consistente nella corretta vigilanza sul materiale rotabile immesso sulla rete ferroviaria nazionale. Tuttavia, anche on tal caso, la ritenuta instaurazione da parte dei vertici aziendali della menzionata prassi richiedeva di svolgere l'accertamento della capacità impeditiva del comportamento alternativo lecito alla luce delle concrete contingenze, come già si è rimarcato per il Ma.[EM.].
26.7. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali nei confronti di FA.FR., relativamente al reato di cui all'art. 589 cod. pen. per essere il medesimo estinto per prescrizione, previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. e, agli effetti civili, con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio. La medesima sentenza va annullata nei confronti del medesimo imputato relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio sul punto. Al giudice del rinvio va demandata anche la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.

27. I ricorsi di El.M.[M.] e di MO.MA., quali A.D. di R***I s.p.a. e di R***I s.p.a. quale responsabile civile
27.1. Una volta di più, l'obiettivo di contenere all'essenza la presente trattazione consiglia di esaminare congiuntamente almeno alcuni dei motivi proposti dall'El.[M.M.], dal Mo.[MA.] e dal responsabile civile R***I s.p.a.
Essi, infatti, sono in larga parte comuni, quanto ai temi e alle argomentazioni, attenendo per ciascuno alle condotte che i menzionati imputati avrebbero tenuto nella qualità di Amministratori delegati di R***I s.p.a.; ruolo nel quale essi si succedettero.
Ovviamente non si potrà fare a meno di considerare partitamente le censure che hanno carattere personale. In particolare, quelle di R***I s.p.a. concernenti le statuizioni civili saranno esaminate successivamente, in un unitario paragrafo.
27.2. I primi tre motivi del ricorso dell'El.[M.M.] non trovano corrispondenza in quelli del Mo.[MA.] e di R***I quale r.c..
Il primo, attenendo al tema della assegnazione del processo al Tribunale di Lucca, Terzo Collegio, risulta infondato per le ragioni che sono state già esposte trattando della questione per la generalità dei ricorrenti.
27.3. Il secondo è infondato. Si lamenta, con esso, la violazione degli artt. 178 lett. c) e 521 cod. proc. pen. sia perché il Tribunale avrebbe condannato l'El.[M.M.] per condotte mai contestate prima - e la motivazione con la quale la Corte di appello ha respinto il motivo elevato dall'appellante sarebbe manifestamente illogica - sia perché la stessa Corte di appello avrebbe operato una trasformazione della contestazione, risultando ascritto all'imputato di aver omesso di assumere un provvedimento di "divieto di circolazione per quel carro a far data dal suo ingresso in Italia, nel 2005".
Orbene, quanto alla violazione che sarebbe stata perpetrata dal Tribunale, va in primo luogo considerato che trattandosi in ipotesi di violazione della legge processuale non è rilevante la motivazione con la quale la Corte di appello ha deciso il tema ma solo la coerenza del giudizio alla legge processuale. Orbene, ci si è doluti che il Tribunale avesse aggiunto profili di colpa non espressi dalle contestazioni: mancata esecuzione della procedura di cabotaggio, mancata revoca del certificato di sicurezza di Tre*** s.p.a., mancata verifica dei processi manutentivi. In effetti la lettura delle imputazioni lascia emerge che all'El.[M.M.], nelle diverse qualità assunte nel periodo di riferimento, era stato ascritto di aver omesso di proporre, evidenziare o segnalare la necessità dell'installazione del detettore di svio; di non aver emanato o concorso ad emanare prescrizioni riduttive della velocità di attraversamento delle stazioni come quella di Viareggio; di non aver proposto, evidenziato o segnalato la necessità di sostituire i picchetti di tracciamento presenti in larga parte della rete ferroviaria nazionale e nella stazione di Viareggio; di non aver proposto, evidenziato o segnalato la necessità di tenere adeguatamente separata la sede ferroviaria dalle contigue abitazioni civili; di non aver eseguito la valutazione dei rischi dovuta dal datore di lavoro; di non aver valutato il rischio insito nella circolazione di carri trasportanti merci pericolose, sia in rapporto alla possibilità di svio, sia in rapporto alla mancata adozione per essi di standard manutentivi simili a quelli adottati per i carri del medesimo tipo immatricolati in Italia.
Il Tribunale aveva dato rilievo eminente alla mancata valutazione di tutti i rischi insiti nella circolazione di carri trasportanti merci pericolose non sottoposti agli standards manutentivi previsti per quelli italiani e quindi al non aver adottato le necessarie misure, tra le quali l'esecuzione della procedura di cabotaggio e l'acquisizione del dossier di sicurezza (sintesi concettuale della verifica documentale dei processi manutentivi dei carri esteri trainati da Tre*** sulla rete nazionale).
Lo stesso primo giudice aveva rammentato che nel corso del giudizio la difesa aveva contestato che spettasse a R***I l'esecuzione dei controlli in ordine ai processi manutentivi in questione perché la competenza era trasmigrata in capo all'ANSF (cfr. pg. 665). Evidente, quindi, che il tema era stato fatto oggetto di contraddittorio. Il ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia ritenuto non leso il diritto di difesa, affermando che tale lesione si è determinata, perché l'El.[M.M.] avrebbe dovuto potersi difendere almeno sin dalla fase delle richieste istruttorie. Il rilievo però non si confronta con quanto si è appena evidenziato, ovvero che l'attività istruttoria si era concentrata anche sulla competenza a svolgere controlli concernenti i processi manutentivi. E ciò pur prescindendo dalla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale nei procedimenti per reati colposi, la sostituzione o l'aggiunta di un particolare profilo di colpa, sia pure specifica, al profilo di colpa originariamente contestato, non vale a realizzare diversità o immutazione del fatto ai fini dell'obbligo di contestazione suppletiva di cui all'art. 516 cod. proc. pen. e dell'eventuale ravvisabilità, in carenza di valida contestazione, del difetto di correlazione tra imputazione e sentenza ai sensi dell'art. 521 stesso codice (Sez. 4, n. 18390 del 15/02/2018, Pc in proc. Di Landa, Rv. 27326501).
Quanto alla violazione in tesi commessa dalla Corte di appello, la censura è manifestamente infondata. Il Collegio territoriale ha sostenuto che l'El.[M.M.] aveva omesso di interpretare correttamente la normativa e di dare disposizioni perché ci si conformasse all'esatta interpretazione. In tale quadro il divieto di circolazione del carro è menzionato per indicare ciò che sarebbe seguito al mancato deposito della documentazione sulla tracciabilità da parte di Tre***; non è la ragione del rimprovero.
Le censure che nella medesima prospettiva investono la ritenuta mancata adozione della misura cautelare consistente nella riduzione della velocità possono per ora essere pretermesse, tenuto conto di quanto questa Corte ritiene in ordine alla motivazione che supporta tale giudizio (si veda infra, paragrafo 27.10). Deve comunque rimarcarsi che la puntualizzazione in ordine alla misura della velocità alla quale ridurre quella di esercizio non concreta alcuna immutazione di una contestazione che già ascrive la omessa riduzione della velocità.
27.4. Infondato è anche il terzo motivo. Si asserisce che siano stati violati gli artt. 520 cod. proc, pen., 24, 25 e 111 Cost, degli artt. 6 e 7 CEDU, per non essere stata notificata all'El.[M.M.] la modifica del capo di imputazione operata nei confronti di MO.MA. quale amministratore di fatto di R***I s.p.a. L'eccezione sollevata con l'appello è stata respinta con motivazione che è stata contestata con il ricorso in quanto, si sostiene, è manifestamente illogica.
Anche in questo caso non ha alcun rilievo la motivazione con la quale la Corte di appello ha giustificato la propria decisione ma la correttezza della stessa. Orbene, la comunicazione della modifica della imputazione compete unicamente all'imputato nei confronti del quale essa è elevata; nel caso di specie indubitabilmente il Mo.[MA.].
Con la modifica dell'imputazione operata all'udienza del 22.1.2014 dal P.M. il Mo.[MA.] si è visto attribuire la qualità di amministratore di fatto delle società del gruppo e segnatamente di R***I s.p.a. e di Tre*** s.p.a.; ma ciò non ha mutato i tratti del fatto ascritto all'El.[M.M.], al quale si è continuato ad attribuire di non aver operato secondo quanto gli imponeva il suo essere amministratore delegato di R***I (oltre che dirigente della stessa); peraltro senza che sia mai stata formalmente prospettata una cooperazione colposa tra i due imputati. Prospettazione essenziale anche solo per ipotizzare un obbligo quale quello previsto dall'art. 516 cod. proc. pen., perché la presenza di un amministratore di fatto non esclude l'ipotesi di un amministratore di diritto estraneo al reato del primo (si pensi all'assenza di colpevolezza; per applicazioni in tema di reati dolosi ad esempio Sez. 1, n. 122 del 25/9/2019, dep. 2020, Passoni, rv. 27750701).
Va poi considerato che la Corte di appello ha sostanzialmente escluso che il Mo.[MA.] fosse divenuto amministratore di fatto di R***I (si veda quanto si esporrà esaminando i ricorsi del Mo.[MA.]), sicché la posizione dell'El.[M.M.] è stata comunque valutata sulla base delle premesse fattuali originarie.
27.5. Anche il Mo.[MA.] ha proposto censure di carattere processuale che, in quanto esclusive, è bene trattare preliminarmente.
Orbene, risulta pregiudiziale il quarto del ricorso a firma dell'avv. C., con il quale si denuncia la nullità della sentenza per violazione del principio di correlazione, essendo stata pronunciata la condanna del Mo.[MA.] per la violazione dell'obbligo della tracciabilità, che non è contemplata dalla contestazione.
Il motivo è infondato. In particolare, trattando del ricorso del Le.[JO.] si è già rammentato che per la giurisprudenza di legittimità il principio di correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 cod. proc, pen.) non impone una conformità formale tra i termini in comparazione ma implica la necessità che il diritto di difesa dell'imputato abbia avuto modo di dispiegarsi effettivamente, risultando quindi preclusi dal divieto di immutazione quegli interventi sull'addebito che gli attribuiscano contenuti in ordine ai quali le parti - e in particolare l'imputato - non abbiano avuto modo di dare vita al contraddittorio, anche solo dialettico; che nella specifica materia dei reati colposi la concreta applicazione delle indicazioni giurisprudenziali incorre in alcune peculiari difficoltà, ma che ciò non di meno occorre ancora considerare la complessiva condotta addebitata come colposa e quanto è emerso dagli atti processuali; ove risulti corrispondenza tra tali termini, al giudice è consentito di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, perché sostanzialmente non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (ex multis, Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013, Miniscalco e altro, Rv. 257902); che il ricorso che si limiti a segnalare la formale mancanza di coincidenza tra l'imputazione originaria ed il fatto ritenuto in sentenza risulta aspecifico, giacché ai sensi dell'art. 581, co. 1 lett. c) cod. proc, pen., l'impugnazione deve enunciare, tra gli altri, "i motivi, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta" e pertanto inammissibile, ai sensi dell'art. 591, co. 1, lett. c) cod. proc. pen.
Nel caso che occupa il tema del dovere della tracciabilità si è posto già nel corso del giudizio di primo grado, è stato oggetto di censure in sede di appello, vi è stato ampio contraddittorio sul punto.
27.6. Un tema comune ai ricorsi in esame è quello della competenza di R***I rispetto al rischio insito nella circolazione di carri trasportanti merci pericolose in regime di interoperabilità (motivo 4 El.[M.M.]); per gli esponenti la Corte di appello ha errato in diritto e nella giustificazione dell'assunto, laddove ha escluso che l'ANSF avesse assunto la titolarità della gestione di tale rischio già da data anteriore a quella del sinistro.
Nel ricorso di R***I r.c. il motivo (primo) si specifica in relazione ai seguenti aspetti:
b) la competenza a disporre la riduzione di velocità e il controllo sulla manutenzione del materiale rotabile del tipo che qui interessa era stata trasferita nel 2008 ad ANSF;
b) l'ente morale, e quindi l'El.[M.M.], era privo di poteri di iniziativa quanto alla procedura di cabotaggio - comunque non applicabile per effetto della direttiva n. 49/2004.
Una motivazione manifestamente illogica viene segnalata laddove la Corte di appello ha ritenuto che nessuna competenza fosse stata trasferita all'ANSF per quanto concerne i carri merci; il vizio sarebbe sia di carattere logico, posto che l'Agenzia è autorità preposta alla sicurezza ferroviaria; sia di carattere relazionale, nel senso che la motivazione non considera la documentazione dalla quale emerge che quel rischio è stato in concreto gestito dall'ANSF sin dal 2007.
Anche il Mo.[MA.] segnala l'errore nel quale sarebbe incorsa la Corte di appello nel ritenere la competenza di R***I in tempo successivo al giugno 2008.
Simili censure non si confrontano con il nucleo della motivazione contestata e replicano quanto già era stato esposto con gli atti di appello ed è stato oggetto di congrua replica da parte della Corte di appello. Questa ha convenuto sul fatto che le competenze per i controlli sulle imprese ferroviarie in tema di sicurezza erano transitate all'ANSF dal 16.6.2008; ed ha radicato l'affermazione di responsabilità dell'El.[M.M.] e del Mo.[MA.] sulla mancata adozione, risalente al 2005 e protrattasi sino al 2009, delle misure cautelari ritenute doverose. L'assunzione di competenze da parte di ANSF non aveva inciso in modo decisivo sui compiti rilevanti ai fini che occupano perché da un canto "i provvedimenti di cui è contestata l'omissione a R***I spa e al suo Amministratore Delegato avrebbero dovuto essere stati già assunti in precedenza"; segnatamente, "il controllo sul mancato deposito del 'dossier di sicurezza' avrebbe dovuto essere compiuto nel 2005 ... e avrebbe dovuto essere di nuovo compiuto nel 2006, quando sono stati rilasciati a Tre*** spa due nuovi certificati di sicurezza ..."; anche la procedura di cabotaggio doveva essere eseguita nel 2005 e solo ripetuta nel 2009.
Pertanto, non vi può essere alcuna contraddittorietà tra simile affermazione e la circostanza che in tempo successivo al sinistro fu l'ANSF a svolgere le attività di acquisizione di informazioni in merito al carro sviato.
Quanto alla riduzione della velocità, il tema della competenza ad adottare i relativi provvedimenti è strettamente connesso a quello della identificazione della relativa regola cautelare; se ne tratterà, quindi, al punto 27.10.
27.7. Nell'ambito del quarto motivo del ricorso dell'imputato El.[M.M.] si è argomentato criticamente a riguardo di quanto affermato dalla Corte di appello in merito alla assenza di una valutazione del rischio di deragliamento. È un tema investito anche dal secondo motivo del ricorso del Mo.[MA.] a firma congiunta dei difensori e dal secondo motivo del ricorso di R***I, quale responsabile civile.
L'esame dei rilievi richiede un approfondimento del ritenuto profilo di colpa incentrato sull'omessa valutazione del rischio di deragliamento.
La Corte di appello, come già il Tribunale, ha ritenuto che la valutazione del rischio specifico di deragliamento di un treno che trasporta merci pericolose fosse imposta dal ruolo datoriale in connessione alle previsioni del D.lgs. n. 81/2008 (e prima ancora del D.lgs. n. 626/1994) nonché dall'art. 8 del D.lgs. n. 162/2007. I giudici distrettuali sono stati consapevoli che in realtà la condotta colposa eventualmente correlata causalmente agli eventi verificatisi a Viareggio poteva essere solo quella della omessa adozione delle pertinenti misure di prevenzione individuate mediante la valutazione dei rischi; ma hanno ritenuto che all'omissione di quest'ultima (che integra la violazione di specifiche prescrizioni) si dovesse dare autonoma evidenza in quanto dimostratrice di una condotta genericamente imprudente e negligente e, sul piano argomentativo, come premessa che sostiene il giudizio della esistenza di misure che quel rischio eliminano o almeno riducono.
Orbene, non vi è dubbio che il datore di lavoro dell'impresa ferroviaria sia tenuto alla valutazione di tutti i rischi derivanti dall'esercizio delle attività di impresa e quindi anche dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori derivanti dalla circolazione di carri dei quali non cura direttamente la manutenzione, destinati al trasporto di merci pericolose. Ma, alla luce di quanto si è esposto al paragrafo 3, va escluso che i tragici eventi occorsi a Viareggio abbiano concretizzato un rischio lavorativo, di talché l'eventuale inosservanza dell'obbligo datoriale della valutazione dei rischi non assume rilievo causale.
Del pari, non può dubitarsi, alla stregua della previsione dell'art. 8 D.Lgs. n. 162/2007, che la valutazione del rischio per la sicurezza della circolazione, e quindi per le cose e le persone che possono essere prevedibilmente esposte ai rìschi connessi al trasporto ferroviario di merci pericolose mediante tali carri, si propone come strumento essenziale per la corretta gestione dei rischi affidati al gestore della rete ferroviaria, fermo restando che è decisivo l'accertamento della effettiva idoneità del risk assessment a condurre alla individuazione di misure in grado di eliminare o ridurre il rischio e che nella logica del giudizio di responsabilità per i delitti di cui qui si tratta assume rilievo causale unicamente la mancata adozione di tali misure.
Tale essendo il rilievo da attribuirsi al tema della valutazione dei rischi, non risulta necessario esaminare più in dettaglio le censure difensive, dovendosi invece sottoporre a verifica la motivazione che la Corte di appello ha reso in merito all'esito che tale valutazione avrebbe avuto, qualora eseguita, sul piano della individuazione di misure efficaci per la prevenzione.
Su questo piano la sentenza impugnata ha escluso sia che fosse effettivamente acquisito che il detettore di svio avesse reale efficacia nella prevenzione del rischio quale dispositivo atto a prevenire il rischio, sia che fosse effettivamente possibile predisporre barriere di delimitazione dell'area ferroviaria a protezione dell'ambiente esterno, riducendo i fondamenti dell'affermazione di responsabilità dell'El.[M.M.] e del Mo.[MA.] alla già ricordata omessa previsione di controlli documentali e alla omessa disposizione della riduzione di velocità dei convogli. Sicché è tali omissioni che deve essere portata l'attenzione.
27.8. Il tema della competenza è stato oggetto di rilievi da parte del Mo.[MA.] (motivo 3 del ricorso a firma congiunta) anche sotto un diverso profilo, ovvero quello dell'allocazione presso la Direzione tecnica di R***I dei poteri e delle responsabilità relativi alla definizione del quadro regolamentare e normativo per la circolazione dei treni e l'esercizio ferroviario. Il ricorrente ha lamentato che la Corte di appello abbia valutato erroneamente un presupposto correttamente identificato, non deducendone che la Direzione tecnica era divenuto il soggetto titolare dei poteri-doveri di gestione del rischio connesso alla circolazione ferroviaria. Il ricorso al concetto di 'alta vigilanza' per attribuire al Mo.[MA.] le decisioni in materia di trasporto ferroviario è stato definito criticamente un espediente.
Simili rilievi risultano meramente oppositivi e come tali sostanziano una valutazione alternativa a quella operata dai giudici di merito (dal Tribunale come dalla Corte di appello), che non può essere presa in considerazione ai fini del sindacato in sede di legittimità. Peraltro essi prendono vita da una parziale lettura della motivazione impugnata. A pg. 758 la Corte di appello, dopo aver sostenuto che al Mo.[MA.] (come all'El.[M.M.]), in quanto datore di lavoro ai sensi dell'art. 2 d.lgs. n. 81/2008, facevano capo doveri di alta vigilanza sulle direzioni sottordinate, pur connotate da una certa autonomia (affermazione che in questa sede risulta priva di rilievo, tenuto conto di quanto si è scritto a riguardo della assenza delle violazioni prevenzionistiche dal novero di quelle che hanno prodotto gli eventi di Viareggio), ha puntualizzato che però agli amministratori delegati di R***I non venivano ascritte omissioni per non essere intervenuti ad evitare o risolvere violazioni di loro subordinati ma condotte attive consistite nel deliberare (e quindi imporre) una determinata interpretazione del quadro normativo in tema di tracciabilità dei rotabili, funzionale all'attuazione di una politica di impresa volta a limitare gli impegni di spesa per il settore del trasporto delle merci. Una politica aziendale, ha aggiunto la Corte di appello, che certamente era in vigore negli anni in cui il Mo.[MA.] era stato amministratore delegato di R***I, considerato che nel 2005 i carri G***x avevano circolato senza che fosse richiesto all'impresa ferroviaria di documentarne la vita manutentiva, anche in sede di esecuzione della cd. procedura di cabotaggio.
Simili affermazioni sono state raggiunte in primo luogo dalla prospettazione di una violazione del principio di immutazione perché solo con la sentenza l'originaria contestazione sarebbe stata volta in rimprovero per condotta commissiva (anche il ricorrente assume che la Corte di appello gli ha infine attribuito una condotta attiva).
Il rilievo non coglie il vero perché già il Tribunale aveva ritenuto che l'omissione di qualsiasi verifica sul processo manutentivo di un rotabile estero utilizzato da Tre*** fosse "conseguenza di una generalizzata interpretazione della normativa pattizia e internazionale" (p. 814), "nell'infondato ed erroneo presupposto che la "liberalizzazione" del mercato ferroviario e la tendenziale creazione di una rete ferroviaria europea potessero legittimare la rinuncia a necessarie cautele" (p. 815). E conclusivamente: "tutte le accertate omissioni ... sono espressione di una generale linea aziendale e imprenditoriale e di precise scelte gestionali (in particolare in materia di manutenzione) nonché di strutturali carenze organizzative e valutative..." (pp. 818 e 819).
Pertanto è escluso che sia stata introdotta solo in sede di deliberazione della decisione una modifica del fatto avente riflessi pregiudizievoli sul diritto di difesa.
Il secondo rilievo elevato a riguardo della medesima affermazione fatta dalla Corte di appello è che essa non trova riscontro in alcun dato probatorio. Ma si tratta di una censura del tutto aspecifica, posto che non tiene conto della complessiva ricostruzione dell'organizzazione di R***I fatta dai giudici di merito, del ruolo in essa ricoperto dal Mo.[MA.], dell'accertamento del carattere non occasionale ma strutturale delle procedure osservate da R***I con riferimento ai carri esteri adibiti al trasporto di merci pericolose.
27.9. Altri motivi (quinto dell'El.[M.M.], primo del ricorso del Mo.[MA.] a firma congiunta, primo e secondo del ricorso a firma dell'avv. C.) investono temi e propongono rilievi che sono già stati esaminati nei paragrafi nei quali sono state esaminate le questioni relative alla ammissibilità, alla luce dei principi del diritto penale italiano, dell'affermazione di responsabilità per la violazione di regole cautelari non scritte dalle quale derivano obblighi comportamentali ulteriori rispetto a quelli indicati da regole cautelari positivizzate; alla insussistenza nel caso in esame di un vincolo alla osservanza delle sole regole positivizzate discendente dalla prevalenza del diritto dell'unione sul diritto nazionale; alla evidenziazione fatta dalla Corte di appello delle circostanze di fatto dalle quale si ricava che già prima del sinistro di Viareggio era noto agli operatori del trasporto ferroviario che la manutenzione degli assili presentava criticità tali da poter condurre a fratture degli stessi nel corso della circolazione dovute alla presenza di corrosioni e che erano ritenute misure idonee a eliminare tali rischi o quanto meno a ridurne la portata la conoscenza approfondita dei processi mantenutivi, alla procedura di cabotaggio.
A tal ultimo proposito, anche con specifico riferimento alla posizione dell'El.[M.M.] va esaminato la motivazione con la quale la Corte di appello ha dato conto del proprio giudizio quanto all'incidenza della circostanza per cui la procedura di cabotaggio era attivata su richiesta dell'impresa ferroviaria. Per il Fa.[FR.], preposto alla direzione del CESIFER, quindi di un'articolazione di R***I s.p.a., si è ritenuto che la motivazione non dia adeguatamente conto delle evidenze probatorie in ragione delle quali si è pervenuti alla conclusione che egli aveva avuto conoscenza della circolazione di carri esteri in regime RIV/RID sulla rete nazionale, movimentati da Tre*** s.p.a.
Altrettanto non può ritenersi per l'El.[M.M.], perché al suo riguardo la Corte di appello ha esposto che egli fu colui che adottò la decisione di non estendere ai carri esteri il regime cautelare che R***I prevedeva per quelli immatricolati in Italia. Ciò palesa l'infondatezza del rilievo critico della difesa dell'El.[M.M.], secondo il quale l'abolizione del registro dei rotabili circolanti in Italia, che sarebbe stata prevista dall'art. 5 della disposizione n. 1/2003, dimostrerebbe che il gestore dell'infrastruttura - e quindi l'El.[M.M.], nel periodo in considerazione - non aveva la possibilità di conoscere che sulla rete nazionale circolavano carri di tal specie.
Più in particolare, esaminando le censure difensive concernenti la rilevanza nella prospettiva della normativa prevenzionistica delle deleghe assegnate dall'El.[M.M.], la Corte di appello ha affermato che tutte le società appartenenti al Gruppo Fe***I*** - e quindi i relativi vertici - adottarono la "decisione di omettere qualunque controllo/ anche documentale, sui carri esteri, persino se trasportanti merci pericolose, sulla base di quella interpretazione non corretta delle norme nazionali, sovranazionali e interne già stigmatizzata .... Si tratta con evidenza, ..., di una scelta aziendale di 'aita amministrazione', che poteva essere adottata solo dai vertici societari ...". Scelta che la Corte di appello attribuisce anche a chi precedette nel ruolo l'El.[M.M.], ma che a questi è stato rimproverato di aver avallato e mantenuto.
Con il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. C. si è lamentato principalmente che il giudizio in merito alla colpa e al nesso di causalità sia stato compiuto dalla Corte di appello assumendo un concetto di rischio 'deragliamento' astratto, ovvero non specificamente connotato dalla connessione alla rottura di un assile determinata dalla errata esecuzione delle procedure di manutenzione. Il nucleo essenziale della censura appare sintetizzato nella seguente affermazione: «la sentenza impugnata avrebbe dovuto verificarne l'effettiva prevedibilità da parte degli amministratori e dei dirigenti dei Gruppo FS, domandandosi per l'appunto se, prima della verificazione dell'incidente, fossero emersi elementi concreti o specifici "segnali d'allarme", portati alla loro diretta e personale conoscenza, tali da poter far emergere in loro quantomeno il dubbio che il sistema tedesco di manutenzione degli assili potesse andare incontro a falle cosi vistose e imprevedibili come quelle che hanno generato il disastro di Viareggio». Più volte viene ribadito che la Corte di appello avrebbe dovuto dimostrare che quei soggetti erano stati resi edotti dei segnali di allarme; che essi avrebbero potuto attivarsi per adottare le necessarie misure; che la Corte di appello ha indebitamente negato che quei dirigenti potessero fare affidamento sulla insussistenza dello specifico rischio per i carri RIV.
Il motivo è manifestamente infondato. La Corte di appello ha definito in modo specifico l'evento verificatosi come deragliamento da rottura per fatica di un assile; rottura a sua volta causata dall'azione della corrosione, non rilevata nel corso delle attività di manutenzione e successivamente. Ed ha esattamente posto la questione della conoscibilità di un rischio così puntualmente connotato, tanto da richiamare quanto emergente dall'ordinanza Eba del 2007 in quanto evidenza documentale della valutazione della sussistenza di tale rischio e delle misure necessarie a farvi fronte proveniente proprio dall'autorità nazionale deputata a tal compito. La pretesa che il Mo.[MA.] dovesse aver avuto 'diretta e personale conoscenza' dell'ordinanza è del tutto infondata. Come si è già osservato, quel che rileva non è la conoscenza o la conoscibilità dell'ordinanza ma la conoscibilità degli eventi da essa considerati e della loro portata dimostrativa della esistenza di un rischio non adeguatamente fronteggiato dalle prescrizioni cautelari codificate per i carri merci esteri circolanti in regime RIV/RID. Per un attore primario come R***I, con le interne articolazioni deputate proprio alla analisi dei rischi, è ragionevole ritenere la capacità in concreto di acquisire le necessarie informazioni ed elaborarle, in una interlocuzione paritaria con l'agenzia nazionale. Peraltro, occorre anche considerare quanto si è già evidenziato nel paragrafo sulla tracciabilità, circa la sicura conoscenza da parte degli attori italiani della valenza cautelare della conoscenza della storia manutentiva dei carri, tanto da imporla per i carri nazionali.
L'evocazione del principio di affidamento non è risolutiva nel senso auspicato dai ricorrenti. Ai fini che occupano non vi è necessità di approfondire ulteriormente il vasto tema del variegato ruolo che tale principio può assumere nell'ambito della responsabilità per reati colposi di evento; è infatti sufficiente considerare che proprio la dimostrazione della conoscibilità di ’segnali di allarme' rende ipso facto privo di legittimazione un affidamento nella sufficienza delle regole positivizzate. Affidamento sulla inesistenza della situazione di pericolo e conoscibilità della situazione di pericolo sono concetti tra loro incompatibili.
Con il secondo motivo del medesimo ricorso del Mo.[MA.] l'esponente ha svolto censure che investono più ambiti tematici. In primo luogo ha contestato la pre¬esistenza all'incidente di una regola cautelare avente ad oggetto l'obbligo di tracciabilità, assumendo la completezza e l'efficacia del quadro regolatorio comunitario e l'assenza di segnali di allarme circa la sua inaffidabilità, rimarcando come la stessa Corte di appello abbia ritenuto la sua idoneità cautelare se adeguatamente attuato; ed ha rimarcato che la regola ritenuta dalla Corte di appello comporterebbe la paralisi del sistema della interoperabilità, che si basa sull'affidamento nell'altrui rispetto delle previsioni. Si tratta di rilievi avanzati anche con il primo motivo del ricorso a firma congiunta dei difensori.
Tali censure trovano replica in quanto si è scritto nei paragrafi 19-21 del 'Considerato in diritto', nonché in quanto appena esposto nel precedente punto. Qui è sufficiente aggiungere che l'affermazione di una idoneità delle regole positivizzate se correttamente osservate (fermo restando che esse neppure vengono in rilievo nel caso che occupa) non considera che la gestione del rischio incorpora sempre anche l'ipotesi di prevedibile fallimento delle regole, sì da precostituire misure volte a fronteggiare anche tale evenienza. Nel caso di specie ciò che viene rimproverato è proprio di aver mancato di adottare misure di controllo nonostante i più volte menzionati segnali di allarme in merito alla inefficacia dei sistemi di manutenzione rispetto al rischio di frattura di assile per corrosione del metallo.
L'ulteriore ambito tematico investito dalle censure poste con il motivo in esame attiene alla causalità, con accenti che ora indirizzano verso la causalità della colpa ora verso la causalità materiale. Si asserisce che la Corte di appello ha errato nell'impostazione del giudizio causale adottando una logica meramente prudenziale, intendendo con ciò rimarcare che la disponibilità di informazioni in merito all'epoca di costruzione dell'assile, alla provenienza e qualità dell'acciaio utilizzato non avrebbe avuto alcuna incidenza sul verificarsi dell'evento, determinato da errori compiuti durante la manutenzione dell'assile che non sarebbero stati svelati dalla documentazione sulla storia manutentiva. Dimostrazione dell'erronea impostazione è nel fatto che ipotizzando che la manutenzione fosse stata eseguita correttamente la carenza informativa non avrebbe perciò reso insicura la circolazione del carro; la regola indicata dalla Corte di appello non avrebbe avuto valenza impeditiva ed anzi avrebbe avuto l'effetto paradossale di escludere dalla circolazione carri sicuri. In sostanza, la regola non ha potenzialità impeditiva dell'evento concretamente verificatosi e non vi è regolarità causale tra essa e eventi come quelli verificatisi.
Nel considerare simili rilievi occorre in primo luogo depurare la questione della causalità della colpa dall'errore prospettico emergente dall’argomentazione dell'esponente; il quale pone quali termini del giudizio controfattuale richiesto dall'accertamento della valenza impeditiva del comportamento alternativo lecito da un lato, e correttamente, la condotta doverosa (acquisizione di informazioni sulla storia manutentiva), dall'altro, però, non l'evento concretamente connotatosi ma un evento ipotetico arbitrariamente definito. Si pone in correlazione, infatti, un ipotetico evento verificatosi nonostante la corretta manutenzione e la disponibilità informativa; laddove il giudizio controfattuale in parola deve considerare l'evento hic et nunc (ovvero determinato anche da deficit delle attività di manutenzione) e la disponibilità informativa.
Ciò chiarito, il tema, centrale, della valenza impeditiva della condotta ritenuta doverosa dai giudici di merito, va affrontato tenendo ben presente il concreto contenuto di quella condotta. I collegi territoriali hanno ritenuto che il carro dovesse essere accompagnato da informazioni che permettessero di verificare la idoneità dei sistemi di manutenzione utilizzati dal relativo proprietario, sia pure su base meramente documentale. Nel caso di specie tali informazioni avrebbero posto in luce l'assoluta inidoneità delle procedure di revisione dei controlli non distruttivi e dell'intera organizzazione delle attività di manutenzione all'interno del gruppo G***x. L'insistenza con la quale il motivo in esame (non diversamente da altri ricorsi) sottolinea che la disponibilità informativa non avrebbe comunque permesso di portare alla luce l'errore di esecuzione dei controlli non distruttivi non fa velo alla fallacia dell'assunto, che mette inopinatamente da parte il carattere sequenziale del nesso causale, costituito da una pluralità di fattori, concatenati tra loro, sì che assume rilievo giuridico qualunque condotta che abbia l'effetto di eliminare uno di tali fattori; non necessariamente quello più prossimo all'evento o quello che ha dato il via al processo eziologico. Mai la Corte di appello ha affermato che l'acquisizione di informazioni avrebbe condotto a conoscere dell'errore esecutivo; ma si è sempre preoccupata di puntualizzare che quelle informazioni avrebbero evidenziato l'inaffidabilità delle procedure di manutenzione seguite presso G***x.
Sul piano della causalità della colpa, che è il piano del concreto fatto storico (nei termini sopra precisati), il giudizio tratto dalla Corte di appello è quindi correttamente impostato e non poggia su motivazione manifestamente illogica. Sul piano della concretizzazione del rischio, alla quale sembra voler alludere l'esponente menzionando la regolarità causale, viene in considerazione non già l'evento come verificatosi in tutte le sue minute connotazioni; si tratta piuttosto di individuare quale sia la classe degli eventi che la regola cautelare mirava a prevenire, per poi verificare se in tale classe è rìcompreso anche l'evento concretamente determinatosi.
Il tema è già stato affrontato al paragrafo 22 del 'Considerato in diritto'. Ad integrazione di quanto esposto in tale sede va ribadito che l'insegnamento impartito da questa Corte pone in luce come al riguardo della prevedibilità dell'evento (che qui interessa come fonte della regola cautelare e quindi come fattore che indica quale rischio questa intenda prevenire) la riflessione giuridica abbia evidenziato l'astratta adottabilità di due distinti approcci: l'uno, che descrive l’evento così come si è storicamente verificato, con tutti i suoi contingenti dettagli; l'altro che, invece, coglie lo stesso evento in senso generalizzante, come un evento del genere di quello prodotto. Sono state segnalate le diverse conclusioni applicative cui conducono le due opposte soluzioni: l'una restringe a dismisura l'area del prevedibile, giacché esisterà sempre una descrizione abbastanza ricca da cogliere l'irripetibilità ed unicità di ciascun evento (che verrà così sottratto ad ogni possibilità di ripetizione); l'altra la amplia, in relazione alle diverse modalità con le quali si conduce la selezione degli aspetti del fatto considerati ai fini della costruzione in senso generalizzante della tipologia o classe di evento. La scelta tra le due alternative attinge a una matrice logica. È stato osservato che il giudizio di prevedibilità altro non è che il giudizio circa la possibilità di previsione di eventi simili e, dunque, di eventi che hanno in comune con il risultato concreto prodottosi determinate caratteristiche. Appurare se un evento è prevedibile implica allora l'elaborazione di una generalizzazione, una descrizione nella quale siano incluse certe particolarità del caso e non altre. Così posto il problema, si delinea un ulteriore, importante passaggio afferente all'individuazione dei criteri in base ai quali procedere alla generalizzazione dell'evento, cioè delle modalità rilevanti. Un nodo non marginale, giacché l'esito del giudizio di prevedibilità è per lo più strettamente condizionato dal tipo di descrizione data dell'evento. L'aspetto più problematico riguarda l'inclusione, nella descrizione dell'evento, dello svolgimento causale. L'accoglimento della tesi che esclude la rilevanza dello sviluppo causale comporta un'ingiustificata moltiplicazione delle ipotesi di responsabilità; e disperde la fondamentale istanza, già evocata, che attiene alla congruenza tra ragioni della regola cautelare e cause dell'evento. In dottrina non si dubita che in materia di colpa la prevedibilità non debba essere accertata rispetto al solo evento finale, ma anche in relazione al decorso causale, almeno nelle sue linee essenziali. Si tratta di porre a confronto il decorso causale che è all'origine dell'evento conforme al tipo con la regola di diligenza; e di controllare se tale evento possa ritenersi la realizzazione del pericolo in considerazione del quale è stata posta la regola cautelare. In linea con le conclusioni sul punto raggiunte dalla riflessione delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, cit.), occorrerà quindi verificare se lo svolgimento causale fosse tra quelli presi in considerazione dalla regola violata, tenendo pur sempre conto di come, anche sotto il profilo causale, la necessaria prevedibilità dell'evento non possa estendersi fino al punto di ricomprendere la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articolazioni, dovendo necessariamente circoscriversi alla classe di eventi in cui quello oggetto del processo si colloca. Già in altre occasioni, la Corte di cassazione (Sez. 4, n. 39606 del 28/06/2007, Marchesini e altro, Rv. 237880; Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015, dep. 2016, P.G. in proc. e altri in proc. Barberi e altri, Rv. 267813) ha avuto modo di considerare come la descrizione dell'evento non possa discendere oltre un determinato livello di dettaglio, dovendo mantenere un certo grado di categorialità; giacché un fatto descritto in tutti i suoi accidentali ragguagli diviene sempre, inevitabilmente, unico ed in quanto tale irripetibile e imprevedibile.
Nel caso di specie, gli eventi tipici (costituiti dai decessi e dalle lesioni delle vittime nonché dal disastro ferroviario) chiedono certamente d'essere ricostruiti, sul piano della prevedibilità ex ante, in stretta correlazione ai tratti del decorso causale che s'ipotizza, dovendo certamente ritenersi rilevante, in relazione alla natura della violazione cautelare contestata, il nesso tra il negligente controllo delle attività manutentive operato da altri e gli eventi tipici, atteso l'indiscusso nesso corrente tra quelle attività e la sicurezza della circolazione ferroviaria.
Sotto questo profilo, lo sviluppo argomentativo seguito nella motivazione della sentenza impugnata deve ritenersi del tutto immune da vizi, tanto d'indole giuridica quanto di natura logica.
Con il primo motivo del ricorso del Mo.[MA.] a firma congiunta dei difensori si muovono censure alla motivazione impugnata anche per quanto attiene ciò che è stato ritenuto in merito alla cd. procedura di cabotaggio (peraltro censurata anche dall'El.[M.M.] e da R***I s.p.a.). In sintesi si assume che eventuali disfunzioni nell'applicazione della procedura di cabotaggio non possono condurre ad una responsabilizzazione del vertice dell'impresa e che comunque quelle, determinatesi nel 2005, non possono avere rilievo causale rispetto all'evento tipico; si assume la ricorrenza di un travisamento del dato regolamentare, contestando che dalla scheda modello C si evincano gli obblighi ritenuti dalla Corte di appello (si tralasciano i rilievi in ordine alla pertinenza delle fonti dell'obbligo del controllo documentale indicate dalla Corte di appello, essendo stati trattati nel paragrafo dedicato al cd. "obbligo di tracciabilità").
I rilievi sono infondati. Tenendo fermo quanto è già stato esposto in merito alla cd. procedura di cabotaggio (paragrafo 21.3.), qui è sufficiente osservare, per rendere conto della infondatezza dei rilievi, che anche la mancata richiesta (ma anche la mancata attivazione) della cd. procedura di cabotaggio è stata ricondotta dalla Corte di appello a scelte di alta amministrazione in favore dell'omissione di ogni controllo sulla storia manutentiva dei carri esteri trasportanti merci pericolose circolanti in regime RIV/RID, a differenza di quanto previsto per i propri.
27.10. Con il settimo motivo del ricorso dell'El.[M.M.], il terzo del ricorso del Mo.[MA.] a firma dell'avv. C., il secondo del ricorso del Mo.[MA.] a firma congiunta dei difensori e con il terzo motivo del ricorso di R***I s.p.a., quale parte civile, è stata censurata l'individuazione della regola cautelare concretizzantesi nella riduzione della velocità.
Tali censure sono fondate. Ma all'esposizione delle ragioni è preliminare l'esame delle doglianze che attengono alla competenza ad adottare una simile misura. Esse sono infondate, al limite dell'inammissibilità.
Invero, in tema vengono riproposti rilievi ai quali la Corte di appello ha dato risposta non manifestamente illogica. Quanto alla asserita competenza del MIT a disporre in merito alla velocità di circolazione dei treni trasportanti merce pericolosa, i giudici di merito hanno osservato che va distinta la competenza per l'indirizzo politico e quella di carattere tecnico. L'organo politico era competente ad emanare una disciplina generale - nel caso specifico a stabilire un limite massimo di velocità - mentre competeva al gestore dell'infrastruttura di adottare provvedimenti riguardanti solo i treni privi del SSB e solo per singole tratte. Ciò è stato affermato anche sulla scorta del potere conferito al gestore della rete dagli articoli 24, 27 e 33 del d.lgs. n. 188/2003, all'epoca vigente, di assegnare le tracce orarie alle imprese ferroviarie e di disporre i cambiamenti di velocità. Inoltre, in relazione alle previsioni del RID, R***I era il soggetto delegato dal MIT a svolgere tutti gli adempimenti tecnici e operativi relativi alla circolazione dei carri trasportanti merci pericolose. Tali affermazioni sono state corroborate dall'evocazione della testimonianza del c.t. della difesa prof. Tor.; dalla stessa emanazione del provvedimento di riduzione della velocità nella stazione di Viareggio emesso dopo il sinistro (e a tal riguardo la Corte di appello ha rimarcato che le ragioni per le quali era stato adottato non contraddicono la competenza di R***I). La Corte distrettuale ha anche puntualizzato che siffatta competenza era rimasta ferma anche dopo il trasferimento di funzioni a favore dell'ANSF, richiamando la deposizione del Chiov. e la nota n. 48422 del 30.11.2009 del MIT, nonché le disposizioni emanata dalla stessa R***I (n. 9/2005 e 15/2007). In particolare, la Corte di appello ha affermato che "è sempre rimasta di competenza di R***I s.p.a., anche dopo il passaggio di competenze all'ANSF, l'emissione di provvedimenti di riduzione della velocità limitati a singoli treni o singole tratte".
Orbene, a fronte di ciò, i ricorrenti El.[M.M.] e R***I quale r.c., hanno riproposto le cennate censure concludendo che mentre al MIT compete l'adozione di provvedimenti di carattere generale (ad esempio ridurre la velocità per tutti i cari merci trasportanti GPL), al gestore compete di adottare provvedimenti relativi, ad esempio, a particolari tratte. Ma è proprio con riferimento a particolari tratte, a specìfici convogli (treni trasportanti merci pericolose in regime RID non tracciati) e a particolari segmenti delle tratte (stazioni in centri densamente abitati) che la Corte di appello ha ritenuto la competenza di R***I. Che poi nel caso concreto ricorressero le condizioni fattuali per l'adozione del provvedimento da parte del gestore (in termini ammessi dallo stesso RID) è questione che viene affrontata essenzialmente esponendo giudizi antagonistici rispetto alla valutazione fatta dai giudici di merito.
Quanto al fatto che il 26.11.2009 l'ANSF adottò un provvedimento che imponeva la riduzione di velocità per i treni che trasportavano merci pericolose per i quali non erano ancora disponibili i dati per la tracciabilità, va rilevato che, secondo quanto ritenuto dalla Corte di appello e non contestato, si trattò di un provvedimento transitorio, inteso alla massima prudenza in presenza di una carenza informativa sulle attività manutentive. Come a dire un provvedimento cautelare, adottato dall'autorità che sovrintendeva alla sicurezza della circolazione ferroviaria.
Ciò posto, questa Corte ritiene, tuttavia, che la motivazione con la quale la Corte di appello - e prima ancora il Tribunale - ha giustificato la pretesa ordinamentale non è coerente con i principi che sono stati esposti in questa sede. In particolare, tale motivazione evidenzia che la regola cautelare è stata individuata ex post, con una erronea identificazione della condotta che avrebbe evitato l'evento (o ne avrebbe mitigato gli effetti) con quella che il sapere disponibile avrebbe dovuto suggerire agli operatori del settore prima del verificarsi del sinistro. Prova più evidente di ciò è nella sostanziale incapacità dei giudici di merito di descrivere con precisione i contenuti di siffatta prescrizione; di indicare la misura della velocità ex ante conosciuta come adeguata.
Il rilievo critico era stato formulato da tutti i ricorrenti aventi posizioni in R***I (Co.[GI], D.M.[G.], Fu.[AL.], Ma.[GI.], Ma.[EN.], Mo.[MA.], El.[M.M.]) e dalla stessa società. Ad essi la Corte di appello ha replicato che la riduzione della velocità dei convogli è "nota e abitualmente applicata, essendo un dato conosciuto, per esperienza e per valutazioni scientifiche, che la minore velocità riduce il rischio e solitamente riduce le conseguenze di uno svio o di un deragliamento'', citando a conforto la testimonianza del Chiov., così riportata: "sicuramente la velocità ovviamente incide sulle conseguenze. Ma, dico, in caso di svio, in caso di collisione, in caso di qualunque cosa ovviamente la velocità ha una sua incidenza". Dopo di che la Corte di appello ha citato alcuni dati che dimostrerebbero, a suo avviso, che a basse velocità non si verifica la dispersione del contenuto dei carri cisterna sviati. Si aggiunge che non esistono disposizioni normative che impongono specificamente la riduzione della velocità ma che esse la suggeriscono. Pertanto, è stata la conclusione, "all'epoca del fatto era ampiamente conosciuta a livello scientifico l'incidenza della velocità di un treno sulla probabilità di deragliamento ma soprattutto sulla gravità delle sue conseguenze"; aggiungendo che il RID, punto 1.9.2. prevede una simile misura e che essa era stata raccomandata anche dall'ERA nel parere del 7.5.2009. La stessa R***I l'aveva disposta in casi contingenti ma anche in via ordinaria: nel Regolamento per la circolazione dei treni si prevedono "numerose riduzioni di velocità per specifiche situazioni standardizzate legate all'infrastruttura o alla categoria dei rotabili ..." o per specifiche tratte per treni trasportanti merci pericolose privi del SottoSistema di Bordo (parte del Sistema Controllo Marcia Treno). D'altronde, ha concluso la Corte di appello, il 3.9.2009 R***I dispose la riduzione della velocità a non più di 50 km/h per i treni trasportanti merci pericolose nella stazione di Viareggio ed anche l'ANSF ha fatto ricorso a tale misura dopo il sinistro che qui rileva.
Orbene, quel che in tal modo la Corte di appello ha individuato, semplicemente riformulando gli argomenti utilizzati dal Tribunale, è una valenza genericamente cautelare della riduzione di velocità, d'altro canto meramente intuitiva; ma dalla ricognizione eseguita dalla Corte territoriale non emerge quale velocità, in una prospettiva ex ante, fosse prescritta. Si tratta di un dato essenziale perché, come scritto, diversamente quel che risulta individuata, come misura di velocità adeguata, è quella che ex post si è accertata sarebbe stata in grado di impedire l'evento o le sue più gravi conseguenze.
Già il Tribunale non era riuscito a descrivere la regola cautelare altrimenti che come 'riduzione della velocità', mai indicando quale dovesse essere, nella prospettiva ex ante, la misura doverosa. Ciò è vero a tal punto che infine il Tribunale ha ascritto agli imputati incardinati in R***I s.p.a. di non aver eseguito la valutazione del rischio.
Si legge, a pg. 704, che "D'altra parte, si trattava di operazione agevolmente effettuabile sulla base di generalizzate metodologie, che tenessero conto delle concrete situazioni in cui veniva effettuato ii trasporto, alla ricerca del valore di velocità limite che offrisse le adeguate garanzie contro ii rischio di ribaltamento tenuto conto delle caratteristiche - ivi comprese quelle proprie della infrastruttura (...) - in cui si svolgeva il trasporto. Detta operazione di valutazione dei rischi andava operata sulla base peraltro di quelle metodologie specificamente fatte proprie dai Gestore nel Manuale e nelle procedure del SGS e tenendo conto dei fattori indicati anche nel 'Piano Operativo di Merci Pericolose' elaborato all'interno di R***I...”.
Come emerge con sufficiente nitidezza dal passo appena riportato, il Tribunale ha ritenuto che il valutatore 'crei' la regola cautelare piuttosto che conseguirla dal sapere preesistente. Nel medesimo orizzonte concettuale si è posta la Corte di appello, che dapprima ha argomentato per dimostrare che la riduzione della velocità era riconosciuta ex ante come misura atta a ridurre i rischi, quindi ha rimproverato agli operatori di non aver svolto quella valutazione dei rischi che avrebbe consentito di dare contenuto più specifico a quella regola generica. Tale è il senso dell'affermazione per cui "la norma cautelare operante in questo caso è quindi una norma prudenziale dal contenuto del tutto ampio e generico, cioè l'obbligo di ridurre la velocità di un treno per ridurre il rischio di gravi conseguenze in caso di alterazioni nella sua circolazione"; e dell'altra, per la quale "la misura cautelare di cui si parla non è una riduzione generalizzata della velocità per l'intera tratta percorsa da ciascun treno trasportante merce pericolosa bensì un provvedimento da applicarsi in circostanze specifiche, limitate a singoli attraversamenti e a convogli particolarmente critici".
Ma nell'enfasi che i giudici di merito hanno posto sulla mancata valutazione del rischio connesso al trasporto di merci pericolose in un contesto come quello della stazione di Viareggio, si insedia l'erronea applicazione della legge. Questa Corte ha già affermato che si deve "escludere che l'attività che va sotto il nome di 'valutazione del rischio' costituisca in via ordinaria il contenuto di una regola cautelare; potrà esserlo quando particolari elementi la propongano come misura direttamente incidente su uno specifico evento pregiudizievole. Diversamente la prescrizione che attribuisce il compito di eseguire la valutazione del rischio è da ritenersi norma attributiva di un compito doveroso" (Sez. 4, N. 12478 del 19/11/2015, (dep. 2016), Rv. 267813, in motivazione).
Una volta di più va ribadito che la valutazione dei rischi è un obbligo procedurale che non ha, in genere, diretta rilevanza causale, attributo invece della misura che attraverso la valutazione sarebbe stata individuata e di conseguenza - ma anche ciò può dover essere distintamente dimostrato - adottata. Anche per il datore di lavoro, in ordine al quale l'obbligo di valutazione è distintamente previsto e autonomamente sanzionato, esso non risolve il tema del comportamento cautelare, considerato che è tenuto a dover adottare anche quelle misure che si correlano a rischi non specificamente contemplati dal documento di valutazione dei rischi.
Quel che comunemente viene effettuata, anche in talune pronunce di questa Corte, è una allusione; menzionando la valutazione dei rìschi (omessa o incompleta) si allude alla misura che in tal modo non è stata posta in esecuzione, sulla premessa di una regolarità causale (data la valutazione segue la sua attuazione), che può rimanere implicita fin quando non oggetto di contestazione.
La circostanza rimarcata dalla Corte di appello - che l'entità della riduzione non fosse predeterminabile dal legislatore e, deve aggiungersi, prima di eseguire la valutazione del rischio - non legittima a ritenere che essa debba essere parto del gestore del rischio. Anche nel caso di regole elastiche, che si dicono tali perché non predeterminano in termini rigidi il comportamento da tenere e assegnano all'operatore il compito di apprezzare le pertinenti circostanze del caso concreto (Sez. 4, n. 57361 del 29/11/2018, Petti, Rv. 27494901; Sez. 4, n. 40050 del 29/03/2018, Lenarduzzi, Rv. 27387101), il rimprovero non si fonda sulla mancata creazione della regola cautelare ma sul mancato riconoscimento della situazione di rischio e/o sulla mancata applicazione della pertinente regola cautelare offerta dal sapere preesistente. Principio ribadito anche dalla più recente giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la natura elastica della regola cautelare violata incide sul giudizio in merito alla gravità della colpa, in quanto essa, indicando un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, si riflette sulla esigibilità della condotta doverosa omessa, richiedendo il previo riconoscimento (e non la previa creazione) delle stesse da parte dell'agente (Sez. 4, n. 15258 del 11/02/2020, Agnello, Rv. 27924202).
Da quanto precede consegue che i giudici di merito avrebbero dovuto accertare se in rapporto alle contingenze particolari del caso concreto, tenuto conto delle caratteristiche dei diversi fattori pertinenti, individuati e valutati in ragione delle informazioni scientifiche disponibili, fosse acquisita al sapere scientifico o esperenziale la valenza cautelare di una determinata misura della velocità di attraversamento di una stazione aventi le caratteristiche di quella di Viareggio da parte di un convoglio aventi le caratteristiche di quello sviato. La circostanza che successivamente all'incidente, per treni trainanti carri cisterna, dei quali non si avessero i dati relativi alla tracciabilità, sia stata disposta la riduzione della velocità di attraversamento delle stazioni a 60 Km/h non dimostra la preesistenza di una analoga regola, non essendo stato accertato che ciò rispondesse ad un orientamento preesistente ed anzi apparendo evidente la natura meramente precauzionale della misura.
La individuazione della misura della riduzione è decisiva anche per porre su corrette basì il giudizio controfattuale imposto dalla necessità che ricorra la valenza impeditiva del comportamento alternativo lecito; giacché non una qualsiasi riduzione avrebbe evitato l'evento ma solo quella che, ex post, si è apprezzata come avere tale potenzialità.
A tal proposito, appare opportuno precisare, a fronte del contrasto di posizioni che si è registrato sul punto tra quanto ritenuto dai giudici e i ricorrenti imputati e società del gruppo Fe***I***, e in ausilio al giudice del rinvio, che la valenza cautelare ricorre non solo quando la misura permette di eliminare del tutto il rischio (si parla al riguardo di regole proprie) ma anche allorché ne assicura soltanto una riduzione (regola impropria). Si tratta in ogni caso di un rischio categoriale (sia pure definito alla luce di quei fattori pertinenti dei quali si è fatta menzione) e non dell'evento in concreto verificatosi. La idoneità della misura così individuata a evitare l'evento concreto è questione che attiene al contesto concettuale della valenza impeditiva del comportamento alternativo lecito. È il tema ampiamente trattato anche dalla Corte di appello; a proposito del quale i ricorrenti hanno proposto alcune censure. L'argomento risulta assorbito dalle ragioni dell'annullamento. Ma va puntualizzato che gli eventi concreti nel caso di specie sono rappresentati dal disastro ferroviario (il quale richiede il verificarsi di un evento di gravità, complessità ed estensione straordinari, dal quale la legge penale presume il pericolo per la pubblica incolumità, altrimenti potendo configurarsi il diverso delitto di cui all'art. 450 cod. pen.: Sez. 4, n. 40799 del 18/09/2008, Pg. in proc. Merli, Rv. 241473; Sez. 4, n. 15444 del 18/01/2012, Tedesco e altri, Rv. 253500) e dalle morti e lesioni per come sono caratterizzati dal decorso causale.
27.11. L'ottavo motivo del ricorso dell'El.[M.M.] e l'analogo quarto motivo del ricorso di R***I, relativi alla mancata assunzione della prova rappresentata dalla testimonianza del Mala., avendo attinenza all'addebito concernente la mancata adozione della misura della riduzione della velocità, risulta assorbito.
27.12. I motivi (nono El.[M.M.], quinto R***I, quinto Mo.[MA.] a firma C.) che investono la riconoscibilità dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. alle condotte dell'El.[M.M.] e del Mo.[MA.], ritenute causali rispetto agli omicidi colposi di cui all'imputazione rispettivamente sub 33 e sub 35 della rubrica, sono fondati. All'El.[M.M.] ed al Mo.[MA.] è stato rimproverato di aver violato le seguenti disposizioni: artt. 2043, 2050 e 2087 c.c., 8 e 10 del d.p.r. n. 753/1980, dell'art. 7, co. 7 del d.p.r. n. 146/1999; artt. 1.2, 2.1., 2.2., 4.2. lett. d), 4.2. lett. e) ed f) del d.m. n. 247/VIG 3 del 22.5.2000; art. 3, co. 1 lett. a) del d.m. n. 138 T del 31.10.2000; art. 8, co. 1, 3 e 4 del D.lgs. n. 162/2007, dei punti 2.3. e 3.3. del decreto n. 1 ANSF del 6.4.2009; artt. 3, co. 1 lett. a), b), c), d), e), h) e 4, co. 1 e 5 lett. h), n), b), q) del d.lgs. n. 626/1994; artt. 15, co. 1 lett. a), b), c), e) f), g), t) u), 17, co. 1 lett. a), 18, co. 1 lett. h), q), z), 28, co. 1, 71 co. 1 e 4 del D.lgs. n. 81/2008 (oltre ad altre disposizioni evocate in relazione alla omessa adozione del detettore di svio).
Si è scritto che diverse tra tali disposizioni non costituiscono norme per la prevenzione degli infortuni; che alcune di esse, come quelle che impongono la valutazione dei rischi, non hanno diretta rilevanza causale e che la loro valorizzazione da parte della Corte di appello per affermare una generica negligenza o imprudenza può al più servire a connotare la colpa in senso soggettivo ma non quella in senso oggettivo; che, alla stregua delle regole cautelari individuate dai giudici di merito come aventi rilevanza causale rispetto agli eventi, il rischio concretizzatosi in essi non è quello lavorativo bensì quello ferroviario. Da ciò consegue, per l'El.[M.M.], quanto sarà precisato al punto 27.16 e per il Mo.[MA.] quanto è stato già scritto nel paragrafo 6.
27.13. Il decimo motivo del ricorso dell'El.[M.M.], con il quale si censura la assoluta mancanza di motivazione in merito alla richiesta di riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen., è aspecifico.
La prevalente interpretazione di questa Corte, che lo stesso ricorrente riconosce essere consolidato da tempo risalente, con riferimento all'omicidio colposo insegna che l'attenuante di cui all'art. 62, n. 6 cod. pen. non è applicabile ai reati produttivi di conseguenze irreversibili e non rimediabili dall'agente. Ciò in quanto tale attenuante implica che le condotte riparatorie siano efficaci, e quindi concretamente elidano o attenuino le conseguenze dannose o pericolose del reato, ed invece la commissione dell'indicato delitto determina l'irreversibile distruzione del bene giuridico protetto (Sez. 4 n. 18802 del 11/04/2019, Catalani, Rv. 27565502; Sez. 1, n. 34342 del 11/5/2005, Solpasso, Rv. 232495; Sez. 1, n. 46232 del 27/11/2008, Truffi, Rv. 242054; Sez. 1, n. 45542 del 15/9/2015, Russo, Rv. 265372; cfr. anche la risalente, ma ancora attuale Sez. 4, n. 945 del 14/10/1974, dep. 1975, Sciarafani, Rv. 129158, in tema di omicidio colposo). Non mancano tuttavia decisioni di segno contrario (Sez. 3, n. 12760 del 18/10/1991, Raimondo e altro, Rv. 188730). Di tali se ne rinvengono anche in tema di omicidio volontario, non mancando pronunce che assegnano rilevanza al risarcimento del danno patito dai prossimi congiunti della persona offesa riconoscendo l'attenuante in parola (cfr. Sez. 1, n. 20452 del 23/04/2015, Pg. in proc. Pons, Rv. 26359401; Sez. 5, n. 24272 del 09/05/2007, Pg, Pc in proc. Bertelli e altri, Rv. 23725801; Sez. 1, n. 21349 del 14/03/2007, Rodella e altro, Rv. 23676501).
Non vi è però ragione di devolvere la soluzione del contrasto giurisprudenziale alle Sezioni Unite di questa Corte (così come richiesto dal ricorrente), giacché nel caso di specie non è stata data alcuna dimostrazione della ricorrenza delle condizioni della delibazione. Ciò va rimarcato alla luce della mancanza di ogni riferimento al tema nella sentenza di primo grado e alla carenza motivazionale registrabile in quella qui impugnata. Ai sensi dell'art. 581, co. 1 lett. c) cod. proc. pen. l'impugnazione deve indicare le ragioni di fatto e di diritto a base dei motivi. Nel caso di specie ciò implica la necessaria indicazione della ricorrenza di tutte le condizioni, anche di carattere processuale, richieste per il riconoscimento dell'attenuante in parola: tempestività, integralità, imputabilità all'istante. Ben diversamente, il ricorrente si è limitato a porre la questione esponendo unicamente le ragioni di diritto a suo avviso militanti per l'accoglimento della richiesta.
Inoltre, il ricorrente ha fatto riferimento all'attenuante in parola solo in relazione ai reati di omicidio colposo; puntualizzazione essenziale, posto che la riparazione del danno cagionato con il delitto di disastro ferroviario avrebbe destinatari almeno in parte diversi. Ciò posto, il motivo risulterebbe comunque assorbito dalla declaratoria di estinzione dei reati omicidiari.
Restano invece assorbiti dall'annullamento della sentenza limitatamente all'aggravante prevenzionistica il motivo concernente la motivazione in ordine all'esito del giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen. e quello in merito alla determinazione della pena base.
27.14. Le difese dell'El.[M.M.] e di R***I s.p.a. quale responsabile civile hanno fatto istanza di rimessione alle Sezioni Unite di alcune questioni, indicate nella superiore parte narrativa, perché ritenute di massima importanza e quindi ai sensi dell'art. 610, co. 2 cod. proc. pen. (implicitamente indicato nel ricorso dell'El.[M.M.]).
Orbene, l'art. 610, co. 2 cod. proc. pen. attribuisce al solo Presidente della Corte di cassazione il potere di investire le Sezioni Unite di questioni di "speciale importanza", su richiesta del PG, delle parti o di ufficio. L'art. 618 cod. proc. pen. attribuisce alle Sezioni semplici il potere di rimessione alle Sezioni Unite delle questioni che hanno dato luogo o possono dar luogo a contrasto interpretativo (ipotesi, la prima, che l'art. 610, co. 2 cod. proc. pen. rapporta anche all'iniziativa del Presidente della Corte di cassazione).
Pertanto la richiesta indirizzata a questa Corte è irricevibile (cfr. Sez. 6, n. 45275 del 16/11/2001, Rv. 221309, in motivazione; Sez. 6, n. 2613 del 13/7/1998, Rv. 211563, in motivazione).
D'altro canto, non si ravvisano neppure le condizioni previste dall'art. 618 cod. proc. pen., salvo che in ordine alla applicabilità dell'art. 62 n. 6 cod. pen. al delitto di omicidio colposo. Ma, come si è scritto, si tratta di questione che nel caso concreto non rileva.
27.15. Il motivo proposto anche dall'El.[M.M.] relativo alla ritenuta legittimazione attiva degli enti costituitisi parti civili troverà trattazione nel paragrafo comune ai motivi proposti da R***I s.p.a. quale responsabile civile.
27.16. Conclusivamente, per quanto concerne l'El.[M.M.], la sentenza impugnata va annullata senza rinvio agli effetti penali, relativamente al reato di cui all'art. 589 cod. pen. per essere il medesimo estinto per prescrizione. Sempre nei confronti dell'El.[M.M.] la medesima sentenza va annullata relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., in relazione ai profili di colpa costituiti dalla violazione dell'obbligo datoriale di valutazione di tutti i rischi lavorativi e dalla omessa disposizione della riduzione della velocità dei convogli merci e va disposto il rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione. Ad essa va anche demandata la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.
Per quanto concerne il Mo.[MA.], le statuizioni saranno esplicitate all'esito dell'esame dei motivi di ricorso che attengono alla sua condanna in quanto A.D. di Fe***I*** s.p.a.
In questa sede vanno ancora esaminati i motivi di natura personale che il Mo.[MA.] ha proposto con riferimento alla motivazione avente ad oggetto la condotta attribuitagli quale A.D. di R***I s.p.a.
27.17. Con il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. C. si propongono censure che attengono al tema della esistenza di segnali di allarme e alla valenza impeditiva del comportamento alternativo lecito. Si tratta di rilievi ai quali si è già data risposta al superiore paragrafo 27.9. Qui può aggiungersi, a fronte dell'affermazione che la Corte di appello non avrebbe spiegato da dove si ricava che se la documentazione fosse stata chiesta a G***x Rail Austria questa non avrebbe potuto fornirla, che la Corte di appello ha spiegato che i deficit strutturali del settore manutenzione del gruppo G***x si concretizzavano anche nell'assenza del dossier informativo, tanto da farne specifico rimprovero ai dirigenti del gruppo.
Si contesta, poi, che sia stata realmente dimostrata l'adozione di una decisione di politica di impresa militante per la non estensione ai carri RIV/RID dei controlli documentali previsti per i carri nazionali. Ciò non risponde al vero.
In effetti la Corte di appello non ha affrontato il profilo in termini distinti e specifici; ma in più passaggi essa ha posto in evidenza le circostanze di fatto ed espresso giudizi che concretano una motivazione al riguardo.
A p. 760 la Corte territoriale ha spiegato che avendo R***I s.p.a. emanato il 10.4.2006 "la nota n. 283/2006 con la quale segnalava alle imprese ferroviarie di aver rilevato delle criticità in materia di manutenzione del materiale rotabile e di rintracciabilità ... dell'omologazione del materiale rotabile in servizio, omologato al di fuori delle procedure di certificazione di sicurezza affidate a questo gestore", risultava che il problema della carenza di informazioni e di documentazione per i carri non omologati da R***I s.p.a., anche in tema di manutenzione, si era già manifestato prima del 2006 e che se ne comprendeva la pericolosità. Ciò nonostante, i carri di proprietà di G***x Rail Austria iniziarono a circolare nel 2005 in Italia in assenza di controlli e di garanzie in ordine ad una qualità manutentiva almeno pari a quella caratterizzante i carri di proprietà di Tre***. Garanzia che era dovuta non perché le procedure estere fossero intrinsecamente scadenti - come hanno voluto intendere le difese degli imputati e delle responsabili civili - ma perché esse erano diverse e quindi non permettevano di presumerne la piena affidabilità; concetto chiaramente espresso e argomentato dalla Corte di appello.
Il carattere strutturale di tale modalità di accesso alla rete ferroviaria nazionale dei carri RIV/RID rimanda ragionevolmente ad una decisione di politica aziendale assunta dai vertici delle imprese del Gruppo Ferrovie (e, al riguardo, deve considerarsi anche quanto si esporrà nel trattare del ricorso del Mo.[MA.] quale A.D. della capogruppo Fe***I***).
27.18. Con il quarto motivo del ricorso a firma congiunta si lamenta che la Corte di appello abbia reso motivazione manifestamente illogica in ordine alle ragioni per le quali il concludersi dell'incarico del Mo.[MA.] di A.D. di R***I s.p.a. nel 2006 non abbia avuto effetto sull'attribuibilità allo stesso dell'evento verificatosi nel 2009.
Il motivo è manifestamente infondato. La Corte di appello ha fatto riferimento ai principi posti dal giudice di legittimità in tema di successione dei garanti. In particolare merita di essere riproposto quello secondo il quale, "in tema di successione di posizioni di garanzia, quando l'obbligo di impedire l'evento connesso ad una situazione di pericolo grava su più persone obbligate ad intervenire in tempi diversi, l'accertamento del nesso causale rispetto all'evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun titolare della posizione di garanzia, stabilendo cosa sarebbe accaduto nel caso in cui la condotta dovuta da ciascuno dei garanti fosse stata tenuta, anche verificando se la situazione di pericolo non si fosse modificata per effetto del tempo trascorso o di un comportamento dei successivi garanti" (Sez. 4, n. 1350 del 20/11/2019, dep. 2020, L, Rv. 27795301).
La Corte di appello si è rifatta a tali principi ed il riferimento, censurato dal ricorrente, alla circostanza dell'esser rimasto il Mo.[MA.] nel Gruppo Ferrovie vale ad indicare che egli, pur dopo la cessazione dalla carica in R***I s.p.a., aveva avuto "forti poteri di controllo e di indirizzo sulle società collegate, tra cui la stessa R***I spa" e quindi aveva mantenuto un potere di influenza, senza però che il mancato esercizio di esso sia stato posto a base del giudizio di responsabilità del Mo.[MA.] quale A.D. di R***I s.p.a.
Una volta ritenuto che il Mo.[MA.] abbia instaurato o anche solo mantenuto quella prassi interpretativa che ha raccolto le censure dei giudici di merito non è manifestamente illogico né in contrasto con la disciplina legale ritenere che tale condotta abbia spiegato effetto su un evento determinatosi in un tempo in cui l'incarico era cessato.

28. I ricorsi di MO.MA. quale A.D. di Fe***I*** s.p.a. e di Fe***I*** s.p.a. quale responsabile civile.
28.1. Anche l'esame dei motivi proposti dal Mo.[MA.] e dalla responsabile civile Fe***I*** s.p.a. che investono l'affermazione di responsabilità penale del primo in relazione al ruolo svolto in tale società deve essere unitario.
28.2. Appare opportuno rammentare che la Corte di appello ha concordato con il Tribunale nell'escludere che il mero esercizio dei poteri di direzione e di coordinamento di cui all'art. 2497 c.c. possa assumere rilievo penalistico e nel negare che fosse emersa la prova di una perpetrata "ingerenza sostanziale nelle scelte operate dagli organi delle controllate, tali da implicarne un completo annullamento". Tuttavia il secondo giudice ha ritenuto sussistente una posizione di garanzia dell'amministratore di diritto della società capogruppo che nel caso concreto si sarebbe consolidata in capo a questi per effetto della struttura stessa dei rapporti con le controllate, non esaurientesi nella 'direzione e coordinamento' ma concretizzatisi in un "ruolo di co-gestore nel settore della sicurezza del trasporto ferroviario sia mediante interventi diretti sia mediante il controllo delle attività svolte in tale campo dalle controllate".
28.3. La principale, comune, censura lamenta che sia stata qualificata come amministrazione di fatto delle società controllate ciò che invece è stata fisiologica attività di direzione e di coordinamento delle stesse; ovvero esercizio ordinario dei poteri/doveri che caratterizzano l'amministratore della società capogruppo.
Ad avviso di questa Corte il rilievo non è fondato; non lo è laddove assume perpetrata una violazione di legge ma anche nel segnalare pretesi vizi motivazionali.
Nell'ambito del fenomeno del gruppo di impresa il tema della ipotizzabilità di una responsabilità penale dell'amministratore (di diritto) della capogruppo per atti compiuti dagli amministratori di una o più società del gruppo trova soluzioni giurisprudenziali piuttosto definite.
Su un piano più generale, la giurisprudenza è incline ad escludere che l'amministratore di una società possa rispondere per una condotta omissiva che si concreti nell'omesso impedimento dell'agire illecito dell'amministratore di altra società. In un caso nel quale si valutava l'ipotesi accusatoria di un concorso esterno in bancarotta fraudolenta patrimoniale distrattiva dei dirigenti ed amministratori di istituti di credito, in relazione ad una operazione di affitto di azienda facente parte di un gruppo di imprese, si è affermato che "l’amministratore di società non assume una posizione di garanzia generalizzata (...) nei confronti dei terzi, dei soci o dei creditori, essendo il suo obbligo limitato alla vigilanza ed alla personale attivazione per impedire l’adozione di atti di gestione pregiudizievoli; tale obbligo ... è sempre circoscritto alle condotte gestorie realizzate dagli altri amministratori. Si vuole dire, cioè, che la responsabilità omissiva di cui all’articolo 40, co. 2, cod. pen., integrata dalla posizione di garanzia assunta ex articolo 2392 cod. civ., è invocabile solo con riferimento agli atti di gestione della società amministrata e non può invece estendersi ad atti compiuti da amministratori di società terze (come potrebbe l’amministratore impedire il compimento di un atto da parte di una diversa società?), né può riguardare atti od iniziative che non siano pregiudizievoli per i soci o i creditori della società amministrata, perché è lo stesso articolo 2392 cod. civ. ad introdurre tale limite ...". La Corte è quindi pervenuta alla conclusione che, in materia di bancarotta per distrazione, l’amministratore di una società diversa da quella fallita può concorrere quale extraneus nel reato solo mediante una partecipazione attiva e non invece ai sensi dell'articolo 40, co. 2 cod. pen.. Il concorso mediante omissione è comunque sempre mediato da una condotta attiva di uno o più amministratori della società concorrente nel reato (Sez. 5, n. 7556 del 28/11/2012, dep. 2013, Accorinti e altri, Rv. 25465301).
Il medesimo principio è alla base di una più recente pronuncia che ha considerato la posizione dei componenti del Collegio sindacale di una società diversa dalla fallita, per i quali è stata esclusa la responsabilità nel reato proprio di bancarotta preferenziale, ex art. 40, comma secondo, cod. pen., poiché la posizione di garanzia che essi ricoprono è esclusivamente a tutela della società presso cui operano ed è invocabile solo con riferimento all'obbligo di controllo dell'operato degli amministratori di tale società e non può invece estendersi ad atti di bancarotta compiuti da amministratori di società terze, in relazione ai quali possono concorrere solo attraverso una condotta attiva (Sez. 5, n. 11936 del 05/02/2020, De Lisa, Rv. 27898502).
Tuttavia si è ritenuto diversamente per l'amministratore della società capogruppo.
In una ormai risalente pronuncia, a riguardo della ipotesi di responsabilità dell'amministratore della società capogruppo per la falsità del bilancio consolidato di gruppo, questa Corte ha affermato che gli amministratori della capogruppo hanno una posizione di garanzia "in quanto collocati al vertice dell'ente che determina le scelte gestionali di quanti amministrano le società controllate...; e ciò alla luce del preciso obbligo di vigilanza stabilito dall'art. 2392 c.c.", radicando tale posizione di garanzia, che espressamente si indica esistente "nei confronti della gestione della controllata", anche sull'onere di attivarsi per richiedere a quest'ultima le informazioni da riversare nel bilancio consolidato (Sez. 5, n. 191 del 19/10/2000, dep. 2001, Mattioli F. P. e altri, Rv. 21807301).
Il principio, nella sua estrema latitudine e genericità, non può essere in questa sede ribadito. In primo luogo va osservato che l'art. 2392 c.c. disciplina il rapporto tra amministratore e società amministrata; esso non autorizza quindi a stabilire connessioni tra l'amministratore della capogruppo e la società controllata, che ha suoi propri organi sociali. Solo una concezione delle relazioni infragruppo che individui nella società capogruppo, e quindi nei suoi organi, l'amministratrice di fatto delle società controllata può sostenere l'interpretazione della disposizione fornita dalla sentenza Mattioli. Ma si tratta di tesi che, risolvendosi nella negazione del fenomeno del gruppo di imprese, risulta superata dalla novella del 2003 della quale si scriverà a breve.
La dottrina, dal canto suo, appare in prevalenza incline a negare la rinvenibilità di una posizione di garanzia dell'amministratore della capogruppo derivante proprio da tale ruolo, stante l'assenza di poteri impeditivi incidenti sull'operato degli amministratori delle controllate.
Le decisioni giudiziarie nelle quali si affronta il tema non sono in grande numero e per lo più si tratta di pronunce di merito concernenti ipotesi dolose; che peraltro hanno posto l'accento soprattutto sul profilarsi di una amministrazione di fatto della controllata. Si è così affermato che "se si hanno elementi per ritenere che l'amministratore della controllante si ingerisca non episodicamente nella direzione operativa della controllata e che gli atti da lui compiuti sistematicamente in quest'ultima siano dovuti al rapporto di fatto che il soggetto instaura con la controllata, allora si deve concludere che questo svolga funzioni di amministratore di fatto di quest'ultima" (Trib. Milano, sez. riesame, 14.12.2004, n. 2333).
Secondo la giurisprudenza penale, la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall'art. 2639 cod. civ., postula l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione. Quanto all'accezione che va riconosciuta rispettivamente alla significatività e alla continuità, sin dalle sentenze Sez. 5, n. 43388 del 17/10/2005, Carboni, Rv. 232456 e Sez. 5, n. 15065 del 02/03/2011, Guadagnoli, Rv. 250094 si è precisato che i menzionati connotati non implicano l'esercizio di tutti i poteri propri deH'amministratore di una società; ma richiedono unicamente lo svolgimento di un'apprezzabile attività di gestione in termini non occasionali o episodici. Quanto alla prova della posizione di amministratore di fatto, essa si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive - in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare - il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534). Il principio è stato ribadito nei medesimi termini in una pronuncia più recente, Sez. 5, n. 45134 del 27/06/2019, Bonelli, Rv. 27754001, nella quale si è anche rammentato che l'amministratore di fatto è da ritenere gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili; principio affermato in riferimento alla bancarotta fraudolenta documentale già da Sez. 5, n. 39593 del 20/05/2011, Assello, Rv. 250844. In precedenza era stato affermato che il soggetto che assume, in base alla disciplina dettata dall'art. 2639 cod. civ., la qualifica di amministratore di fatto di una società, essendo gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore formale, è penalmente responsabile per tutti i comportamenti a quest'ultimo addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall'art. 40, comma secondo, cod. pen. (così la già citata Sez. 5, n. 15065 del 02/03/2011, Guadagnoli, Rv. 250094).
28.4. Le linee ricostruttive che si sono appena sintetizzate sono state tracciate con riferimento alla responsabilità dolosa. Il presente giudizio pone il tema con riferimento ad una prospettata responsabilità colposa.
Per cogliere le importanti peculiarità che ne derivano è necessario tener nuovamente presente quel che la più recente giurisprudenza di questa Corte afferma in tema di responsabilità per il delitto colposo di evento. Ci si riferisce alla cd. teoria della competenza per il rischio, in ragione della quale, ai fini dell'attribuzione dell'illecito penale, è decisivo individuare il soggetto titolare dei compiti di gestione del rischio che si è concretizzato nell'evento tipico realizzatosi, per poi accertare se la concreta gestione doveva essere svolta osservando la regola cautelare nel caso risultata causalmente efficiente. In altre pagine (paragrafo 2) sono stati già rammentati i principi e le argomentazioni formulati dal giudice di legittimità a partire da concetti quali ’sfera di rischio', ’area di rischio', ’gestione del rischio'. Tenuto fermo quanto già si è esposto, qui è sufficiente riproporre quanto al proposito nitidamente insegnano le Sezioni Unite (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri). «L'individuazione della responsabilità penale», hanno osservato, «passa non di rado attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all'interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche (...), dall'altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno. Si tratta, in breve, di una ricognizione essenziale per un'imputazione che voglia essere personalizzata, in conformità ai sommi principi che governano l'ordinamento penale; per evitare l'indiscriminata, quasi automatica attribuzione dell'illecito ai diversi soggetti». Anche il S.C. ha rimarcato che «esistono diverse aree di rischio e, parallelamente, distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare. Soprattutto nei contesti lavorativi più complessi, si è frequentemente in presenza di differenziate figure di soggetti investiti di ruoli gestionali autonomi a diversi livelli degli apparati; ed anche con riguardo alle diverse manifestazioni del rischio. Ciò suggerisce che in molti casi occorre configurare già sul piano dell'imputazione oggettiva, distinte sfere di responsabilità gestionale, separando le une dalle altre. Esse conformano e limitano l'imputazione penale dell'evento al soggetto che viene ritenuto "gestore" del rischio. Allora, si può dire in breve, garante è il soggetto che gestisce il rischio».
Si tratta di una impostazione che ormai si è ampiamente diffusa nella giurisprudenza di questa Corte; e che propone implicazioni non solo sul piano della causalità ma prima ancora su quello della puntuale demarcazione degli obblighi gestori. Delimitazione che risulta necessaria ove ricorra la compresenza di altri gestori del medesimo rischio (si pensi alle ipotesi di cooperazione sincronica, come tipicamente si verifica nell'attività medica di equipe, o diacronica), trattandosi allora di accertare con quali specifiche modalità dovesse essere da ciascuno esercitata la competenza (ovvero, gestire il rischio condiviso).
Quel che merita di essere rimarcato ai fini che qui occupano è che un medesimo rischio può essere oggetto di gestione da parte di più soggetti, i cui compiti si differenziano in ragione dei poteri a ciascuno attribuiti, oltre che delle eventualmente differenti regole cautelari da osservare.
Ad avviso di questa Corte l'esame del fenomeno del gruppo di imprese e della sua disciplina permette di individuare in capo agli amministratori della holding un nucleo di poteri caratteristici e in corrispondenza degli stessi un nucleo di corrispondenti doveri; in ragione di essi anche all'amministratore della holding fa capo una sfera di competenza, esercitata attraverso i poteri di direzione e di coordinamento dei quali si dirà, rapportata ai rischi connessi alle attività svolte direttamente e dalle società dell'intero gruppo.
Per dare conto delle ragioni a base di tale assunto occorre ripercorrere brevemente il processo di emersione del fenomeno dei gruppi di imprese nella dimensione giuridica.
28.5. Sino al 1 gennaio 2004, data dell'entrata in vigore delle disposizioni del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, è mancata una disciplina legale della c.d. "impresa di gruppo", ovvero una regolamentazione che su un piano generale superasse il diaframma costituito dalla personalità giuridica delle singole società collegate, e che, con riguardo alla responsabilità degli amministratori, derogasse al rigoroso regime dettato dal codice civile. La figura del gruppo di imprese acquistava rilievo giuridico solamente in materie e nelle ipotesi espressamente disciplinate (ad esempio in tema di società collegate e\o controllate: art. 2359 c.c.).
Secondo molti il legislatore aveva cercato di tradurre il fenomeno in termini giuridici rinunciando all'elaborazione di una disciplina unitaria e organica e privilegiando invece la frammentaria modulazione di norme finalizzate a comporre gli specifici problemi proposti al diritto comune dall'aggregazione tra imprese.
A non essere riconosciuta era l'esistenza di un interesse del gruppo, prevalente rispetto agli interessi delle singole società. Tra società facenti parte dello stesso raggruppamento, da un lato, potevano sussistere conflitti d'interesse, non assorbibili né giustificabili in un interesse della capogruppo; dall'altro, non era possibile riportare la responsabilità degli amministratori ad una valutazione globale, prescindendo dalla tutela del patrimonio delle singole società, valutando l'eventuale vantaggio conseguito da altra società del gruppo. Il fenomeno del gruppo finiva quindi per ridursi alla dimensione economica, riconoscendosi l'unitarietà dell'impresa sotto tale aspetto, corrispondendo ad essa, sul piano giuridico, più società con autonomia patrimoniale; la stessa responsabilità degli amministratori andava valutata in relazione alle singole società, anche quando rivestivano tale qualità in diverse società del gruppo.
Tra le implicazioni di tale ricostruzione vi era che nell'interesse del gruppo non era possibile sacrificare il patrimonio delle singole società che lo componevano, ove non conseguisse, direttamente o indirettamente, uno specifico vantaggio da altra operazione del gruppo.
Siffatta posizione giurisprudenziale (adottata, ad esempio, da Sez. 1 civ., n. 521 del 21/01/1999, Rv. 52246901) è stata ritenuta superata a seguito del menzionato d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, che ha inserito nel codice civile il nuovo Capo IX del Titolo V del Libro quinto, che, sotto la rubrica «Direzione e coordinamento di società », ha collocato, agli artt. 2497 e ss., una disciplina tesa a regolamentare sotto diversi profili (responsabilità, pubblicità et similia) gli effetti della riconosciuta esistenza di aree di aggregazione tra imprese caratterizzate per l'appunto da una unitarietà dell'indirizzo gestionale e organizzativo.
Il soggetto titolare dell'attività direzionale viene identificato dall'art. 2497- sexies cod. civ., in via presuntiva, in quello che esercita il controllo (organico o di fatto) sulle altre componenti del gruppo.
Sebbene tali norme costituiscano il più evoluto strumento di "interpretazione" del fenomeno dei gruppi presente nel nostro ordinamento, esse non hanno introdotto uno "statuto" dei gruppi, nè hanno operato una esatta e compiuta perimetrazione di tale fenomeno, non evocandosi mai, negli artt. 2497 e ss. cod. civ., il termine "gruppo".
Si è detto, dunque, che il legislatore ha inteso disciplinare le conseguenze di una situazione di fatto determinata dall'effettivo esercizio dell'attività di direzione e controllo (senza tuttavia esplicitarne gli elementi identificativi), con la volontà di catalogare il fenomeno dei gruppi di fatto attraverso quello che ne è ritenuto un elemento rivelatore, e cioè, per l'appunto, l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento. Ciò perché la legittimazione di tale fenomeno, come è stato ben osservato, trova la sua primaria fonte nella libertà di iniziativa economica sancita dall'art. 41 Cost., che consente all'imprenditore di scegliere, tra l'altro, anche il tipo di organizzazione col quale esercitare l'attività di impresa. Forse anche per questo il legislatore italiano non ha cercato di ingabbiare il fenomeno in forme giuridiche eccessivamente rigide, ed ha rinunciato alla creazione di una fattispecie legale tipica ed alla definizione giuridica di "gruppo", fermo restando che l'ontologia del "gruppo" non è tanto nella natura societaria di tutti i suoi componenti quanto piuttosto nella relazione economico-imprenditoriale tra i soggetti imprenditoriali componenti del gruppo e nella presenza di un ente con funzioni di coordinamento e direzione (così Sez. 5, n. 31997 del 06/03/2018, Vannini e altri, Rv. 273635).
Il giudice di legittimità ha preso atto che, alla luce del nuovo complesso di norme dedicate alla "Direzione e coordinamento di società", assume rilievo essenziale il fatto obiettivo dell'esercizio di attività di direzione e coordinamento di una o più società da parte di un diverso soggetto, con il limite "costituito dal rispetto dei valori essenziali del bene partecipazione sociale" (bene che la legge individua nella partecipazione all'esercizio in comune di una attività economica al fine di divederne gli utili).
Infatti, il momento caratterizzante viene riconosciuto essere quello di direzione e di coordinamento da parte di una società controllante sulla/e controllata/e, inteso come centro autonomo di imputazione, quale sviluppo di un unico disegno imprenditoriale.
In tale quadro l'attività di direzione e coordinamento di società può essere fonte di responsabilità civile; ipotesi che però deve confrontarsi con il riconoscimento riservato dal legislatore alla teoria dei vantaggi compensativi, laddove ha previsto che "non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e di coordinamento" (art. 2497, co. 1 c.c.).
Pertanto, l'esistenza di un'unica impresa di gruppo e, quindi, di un "interesse di gruppo", sovraordinato a quello delle singole società che lo compongono, non comporta automaticamente la piena liceità della direzione unitaria e dell'emanazione di direttive di gruppo, con conseguente venir meno dell'autonomia delle singole controllate.
Ai sensi dell'art. 2497 c.c., le società e gli enti coordinatori, dato che agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio ed altrui, in caso di violazione dei principi di corretta gestione societaria, assumono la diretta responsabilità nei confronti dei soci per il pregiudizio arrecato e nei confronti dei creditori sociali per la eventuale lesione del patrimonio sociale della controllata. Le decisioni di chi esercita attività di direzione e di coordinamento debbono essere analiticamente motivate e si debbono indicare le ragioni economiche ed imprenditoriali dell'operazione al fine di una valutazione in ordine al risultato di gruppo (art. 2497 ter c.c.), dandone conto nella relazione che accompagna il bilancio (art. 2428 c.c.).
In conclusione - è stato rilevato - vi è gruppo di imprese quando una pluralità di società risulta sottoposta alla guida unitaria che una di esse esercita sulle altre; peraltro, la veste di "holding", di soggetto, cioè, che in forza della propria partecipazione di controllo, di diritto o di fatto, ovvero in forza di particolari vincoli contrattuali, svolge detta funzione di guida unitaria, può essere assunta, non soltanto da una società (come di norma accade), ma anche da una persona fisica (Sez. 5, n. 10688 del 18/11/2004, dep. 2005, Giammarino, Rv. 230565; Sez. 1 civ., n. 12113 del 09/08/2002, Rv. 55687301; Sez. 1, n. 1439 del 26/02/1990, Rv. 46553801, in motivazione).
Il riconoscimento del fenomeno dei gruppi di impresa da parte del legislatore si è spinto sino alla previsione di una causa speciale di non punibilità per il reato di infedeltà patrimoniale previsto dall'art. 2634 cod. civ., incardinata sulla esclusione dell'ingiustizia del profitto "se compensato da vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo."
Con tale ultima espressione, la disposizione mira ad attribuire pieno diritto di cittadinanza penalistica alla menzionata teoria dei vantaggi compensativi (cfr., in particolare, Sez. 1 civ., n. 12325 del 05/12/1998, Rv. 52141901).
La predetta teoria riconosce che a fronte delle dinamiche tipiche del fenomeno dei gruppi, caratterizzate da continui interscambi tra le diverse componenti, non sarebbe corretto isolare, considerandolo come fonte di responsabilità, il singolo atto, pur di per sé dannoso per la società che lo compie (in particolare, concessione di garanzie senza corrispettivo a favore di altra società del gruppo), ma occorrerebbe tener conto dei ritorni di utilità connessi all'appartenenza al gruppo, che possono comportare, in una valutazione globale, un sostanziale riequilibrio di vantaggi e svantaggi patrimoniali.
In conclusione, nel diritto vigente il fenomeno del gruppo di imprese ha quindi assunto una sua peculiare rilevanza giuridica, in corrispondenza alla forza connotativa dell'interesse di gruppo e del particolare atteggiarsi dell'organizzazione preordinata al raggiungimento degli obiettivi economici, articolata tra più società tra loro collegate, di fatto o su base contrattuale.
28.6. Con specifico riguardo al campo penalistico, si è rilevato che l'unico indicatore certo, attualmente desumibile dall'ordinamento, per individuare un "gruppo" di imprese può essere rinvenuto nell'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento della controllante sulla controllata, nota come "direzione unitaria"; dall'altro che manca una definizione normativa del fenomeno giuridico-economico in quanto tale. Si è nuovamente rammentato che l'art. 2634 cod. civ. fa riferimento al "gruppo" solo per indicare la possibilità che in tal caso si possano configurare i cd. "vantaggi compensativi", senza tuttavia dare alcuna nozione in senso tecnico¬giuridico di esso e che nemmeno l'art. 2359 cod civ., nel definire le società controllate e quelle collegate, offre aiuto quanto alla nozione di "gruppo di imprese". Si è rilevato che non soccorre neppure la giurisprudenza della Cassazione civile, che rimarca l'assenza di una nozione normativa di "gruppo" di imprese ed esclude la possibilità a legislazione invariata, di ipotizzare procedure di concordato "di gruppo". In particolare, Sez. 1 civ., n. 19014 del 1/7/2017, Rv. 645174 ha affermato in motivazione che, nell'ambito del codice civile, il "gruppo di società" costituisce oggetto di un riconoscimento solo indiretto, senza formule definitorie. Tale riconoscimento è insito negli artt. 2497 e ss. cod. civ., ove si rinviene la disciplina della responsabilità da direzione e coordinamento. All'atto della crisi d'impresa, il riferimento al "gruppo" è legittimo in quanto correlato all'istituto desumibile dalla suddetta disciplina - della direzione e del coordinamento tra società -, in modo da potersi propriamente discorrere di "gruppo" in quelle (sole) dinamiche in cui una di tali società (la capogruppo) esercita la propria attività d'impresa dirigendo e coordinando le altre.
Una volta di più si è osservato che la giurisprudenza si muove nella direzione di ipotizzare un gruppo solo quando sussiste una direzione ordinata e programmata della società controllante sulle controllate.
Tuttavia, si è anche considerato che secondo la miglior dottrina lo schema tradizionale del "controllo" da parte di una società su un'altra non esaurisce il tema e non comporta automaticamente l'esistenza di un 'gruppo" di imprese, ma ne costituisce mero indice di presunzione: quello che rileva, invece, è l'attività di direzione e coordinamento svolta dalla capogruppo o holding che ha in ogni caso valenza solo sul piano delle finalità organizzative d'impresa, ma non pone alcun vincolo giuridico per gli amministratori delle società controllate.
Si prende atto che l'ordinamento giuridico italiano, dopo aver a lungo volutamente ignorato il fenomeno dell'aggregazione d'imprese, a fronte della sua incontenibile affermazione come modulo di organizzazione aziendale, ha finito per disciplinarne alcuni aspetti, soprattutto al fine di correggerne eventuali effetti distorsivi (cfr. la già citata Sez. 5, n. 31997 del 06/03/2018, Vannini e altri, Rv. 27363501).
Quel che deriva da tale ricostruzione, ad avviso di questa Corte, è che il gruppo di imprese è un particolare attore economico, orientato nei suoi atti dall'interesse di gruppo, perseguito attraverso l'esercizio da parte della capogruppo dei poteri di direzione e di coordinamento delle società 'operative', le cui attività devono contribuire al conseguimento dell'interesse di gruppo. Come è stato scritto, "l’impresa che svolge attività di direzione e coordinamento delle attività delle società partecipate persegue un risultato economico diverso da quello della mera sommatoria dei risultati altrimenti conseguibili dalle singole società e che è riferibile proprio alla attività di coordinamento e direzione unitaria, in virtù della quale il risultato economico si svincola dal dato giuridico-formale dell’esistenza di più imprese e può correlarsi al dato economico- sostanziale dell’unità dell'impresa" (Sez. 1 civ., sent. n. 12113/2002).
L'autonomia giuridica che comunque è propria di ciascuna delle società del gruppo non fa velo alla unitarietà organizzativa del gruppo e al reale assetto dei rapporti correnti tra la capogruppo e le controllate. Nella dimensione penalistica è pur sempre necessario cogliere l'effettiva dinamica delle relazioni intersoggettive (che si danno tra persone fisiche). Assume quindi rilievo che la menzionata autonomia giuridica degli amministratori delle società controllate si accompagni appunto al controllo da parte della società capogruppo; come è stato osservato in dottrina, "oltre ad un rapporto formale, esiste un parallelo rapporto fiduciario fra il capitale di comando e gli amministratori, essendo il primo che, con il proprio voto determinante, ne provoca la nomina e può, in ogni momento, provocarne la revoca".
Come è stato osservato da attenta dottrina, commentando la UNI ISO 37001 emanata nel dicembre 2016 dall'International Organization for Standardization (ISO), in materia di regole di controllo in tema di sistemi di gestione per la prevenzione della corruzione, "si prevede - coerentemente con Ie best practice in materia- che il dato dell'appartenenza al gruppo sia esso stesso per la holding un rischio da presidiare anzitutto attraverso la proceduralizzazione delle aree direttamente rilevanti, quali quelle connesse alla formazione del bilancio consolidato, ai servizi svolti in maniera accentrata, agli eventuali interlocking directors ecc. Nel contesto dell'ordinario esercizio dei poteri di direzione e coordinamento che competono alla controllante, si rende altresì necessaria la sollecitazione diretta alle società controllate all'adozione di principi etici comuni, nonché di modelli e organismi di vigilanza coerenti nell'impostazione con quello della controllante".
Pertanto, né i poteri di direzione e di coordinamento né l'autonomia giuridica degli organi di gestione delle controllate sono ontologicamente incompatibili con la titolarità, in capo all'amministratore della capogruppo, di una competenza inerente eventuali aree di rischio connesse alle attività di impresa; come invece sembra propensa a ritenere buona parte della dottrina. Ai fini della identificazione di una competenza nel senso sin qui evocato, va considerato il concreto contenuto dei poteri detenuti, rispetto al quale il dato nominalistico risulta recessivo.
Rispetto ai fenomeni organizzativi con il quale usualmente interloquisce la teoria della competenza per il rischio, la peculiarità offerta dal fenomeno del gruppo di imprese risiede nelle forme di esercizio di tale competenza quando rimanga nell'alveo dei poteri indicati dall'art. 2497 c.c. senza trasmodare in diretti atti di gestione delle società controllate (dando luogo all'amministrazione di fatto). Si ipotizzi il caso di una capogruppo che definisca criteri di indebitamento delle controllate che risultino oggettivamente incompatibili con la sostenibilità delle spese richieste dalla messa a norma degli impianti sotto il profilo della sicurezza del lavoro; e che pur nella giuridica possibilità degli amministratori della controllata di deliberare un indebitamento in contrasto con quei criteri essi si vi adeguino. Sul piano penalistico non sembra che l'autonomia degli amministratori della controllata sia di ostacolo alla ipotizzabilità di una responsabilità degli amministratori della capogruppo per aver adottato deliberazioni conducenti alla violazione della normativa prevenzionistica.
28.7. Può essere utile a rappresentare con maggior chiarezza il pensiero di questa Corte richiamare quanto le Sezioni Unite hanno rimarcato a proposito del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (SU n. 38343/2014). Per tale figura si è sovente dubitato che possa essere destinataria del rimprovero penale, essenzialmente perché titolare di una funzione di consulenza in favore del datore di lavoro, perché priva di poteri operativi, mentre è appunto al datore di lavoro che fa capo ogni potere decisionale.
Orbene, il S.C. ha rilevato, convalidando un consonante pregresso orientamento giurisprudenziale, che ai fini dell'individuazione del garante è decisivo accertare che il soggetto sia destinatario di obblighi giuridici; nel caso del r.s.p.p., con l'assunzione dell'incarico, questi assume l'obbligo giuridico di svolgere diligentemente le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Egli ha quindi l'obbligo di svolgere in autonomia, nel rispetto del sapere scientifico e tecnologico, il compito di informare il datore di lavoro e di dissuaderlo da scelte magari economicamente seducenti ma esiziali per la sicurezza. Tale ricostruzione riposa esattamente sulla teoria della competenza nella gestione del rischio - come si è scritto, adottata dalle stesse Sezioni Unite -, che specie in un contesto plurisoggettivo non è riconoscibile solo quando si hanno poteri direttamente operativi ma anche quando si ha il potere giuridico di incidere sull'esercizio di questi.
Calando tali premesse nel contesto che qui occupa è agevole riconoscere in capo all'amministratore della capogruppo un fascio di poteri in grado di incidere sulla gestione del rischio affidata sul piano operativo alle società controllate. Per quanto essi si estrinsechino attraverso l'emanazione di direttive, il controllo dei risultati della gestione delle controllate in rapporto all'interesse di gruppo e non sopprimano l'autonomia decisionale degli amministratori delle stesse, quando essi siano esercitati in modo negligente, imprudente o imperito, e ciò abbia avuto efficacia causale nella verificazione dell'evento, risultano concretizzati i primi presupposti della responsabilità colposa.
Ovviamente la gamma delle situazioni può proporre diverse declinazioni dei poteri di direzione e di coordinamento, parallelamente alle differenti tipologie di società capogruppo; si pensi alla differenza che corre tra l'ipotesi della mera partecipazione finanziaria e quella della holding mista. Occorre quindi una ricostruzione puntuale della concreta fisionomica dei poteri che formalmente o anche solo fattualmente fanno capo alla capogruppo e al suo amministratore. Da quella fisionomia discende il profilo del correlato dovere.
Tirando le somme di quel che si è sin qui esposto, si deve registrare come accanto all'ipotesi, pacificamente ammessa, nella quale l'amministratore della capogruppo risponde per aver scientemente determinato l'amministratore della controllata alla violazione della legge penale, profittando della sua posizione di primazia all'interno del raggruppamento societario (caso riconducibile al concorso di persone nel reato), e all'ipotesi dell'amministratore della capogruppo che abbia operato come amministratore di fatto della società controllata, si dà l'ipotesi di una responsabilità 'diretta' dell'amministratore della capogruppo per l'esercizio 'colposo' dei poteri di direzione e di coordinamento. Si tratta del primo presupposto del giudizio di responsabilità, dovendosi poi ancora rinvenire gli ulteriori, non ultimo tra i quali la valenza impeditiva del comportamento doveroso.
28.8. Prima di venire all'esame della sentenza impugnata per verificarne la tenuta alla luce delle censure dei ricorrenti, appare utile premettere la trattazione del sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. C., del quinto del ricorso a firma congiunta e del secondo del ricorso di Fe***I*** s.p.a., nella parte in cui la Corte di appello viene censurata per aver violato l'art. 6, punti 1 e 3 Cedu e l'obbligo di rinnovazione istruttoria nonché quello di motivazione rafforzata.
Si tratta di censure aspecifiche quanto al primo profilo e infondate quanto al secondo.
Occorre muovere dalla previsione dell'art. 603, co. 3-bis cod. proc, pen., introdotto dalla legge n. 103 del 23.6.2017, vigente dal 3 agosto 2017; norma che in forza del principio tempus regit actum è applicabile nel caso che occupa al giudizio di appello, introdotto da impugnazioni proposte dopo tal ultima data (Sez. 6, n. 10260 del 14/02/2019, Cesi, Rv. 275201; Sez. 6, n. 16860 del 19/03/2019, Cuppari, Rv. 275934).
Orbene, secondo la menzionata disposizione "Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, ii giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale". Come è noto, siffatta previsione trae origine dal diritto vivente che rinviene il proprio cardine nella pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte con la quale si è stabilito, in consonanza con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che «È affetta da vizio di motivazione ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc, pen., per mancato rispetto del canone di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio", di cui all'art. 533, comma primo, cod. proc, pen., la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali » non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell'art. 603, comma terzo, cod. proc, pen.; ne deriva che, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell'art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata» (S.U., n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267489).
Secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite la decisività della prova ricorre laddove si tratti di un elemento che, sulla base della sentenza di primo grado, ha determinato o anche soltanto contribuito a determinare un esito liberatorio e che, se espunto dal complesso del materiale probatorio, si rivela potenzialmente idoneo a incidere sull'esito del giudizio di appello. È opportuno rimarcare, in rapporto a quanto in questa sede più rileva, che costituiscono prove orali decisive anche quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti - da sole o insieme ad altri elementi di prova - ai fini dell'esito della condanna.
I principi sin qui rammentati sono stati ribaditi in ulteriori pronunce delle Sezioni Unite; una prima, S.U., n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269786, ha esteso l'obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in appello anche al caso in cui il ribaltamento riguardi una decisione di primo grado avvenuta nelle forme del rito abbreviato non condizionato; una seconda, S.U., n. 14426 del 28/01/2019, Pavan, Rv. 275112, ha sancito l'obbligo di rinnovazione in appello, nel caso di ribaltamento della decisione assolutoria di prime cure, anche quando a venire in gioco è l'escussione del perito.
La giurisprudenza successiva ha individuato specifici presupposti dell'obbligo di rinnovazione istruttoria. Ancora le Sezioni Unite hanno rilevato come "il giudice d'appello sia obbligato ad assumere nuovamente non tutte le prove dichiarative, ma solo quelle che - secondo le ragioni puntualmente e specificamente prospettate nell'atto di impugnazione del pubblico ministero - siano state oggetto di erronea valutazione da parte del giudice di primo grado e vengano considerate decisive ai fini dello scioglimento dell'alternativa "proscioglimento-condanna" (S.U., n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Pg. in proc. Troise, Rv. 272430 - 01). Si è poi precisato che per "motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa devono intendersi non solo quelli concernenti l'attendibilità dei dichiaranti, ma, altresì, tutti quelli che implicano una diversa interpretazione delle risultanze delle prove dichiarative, posto che il loro contenuto passa comunque attraverso la percezione soggettiva del propalante, onde il giudice del merito è inevitabilmente chiamato a "depurare" il dichiarato dalle cause di interferenza provenienti dal dichiarante, in modo da pervenire ad una valutazione logica, razionale e completa, imposta dal canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio" (Sez. 2, n. 13953 del 21/02/2020, lacopetta, Rv. 279146; in termini, Sez. 5, n. 27751 del 24/05/2019, 0., Rv. 276987; Sez. 3, n. 16444 del 04/02/2020, C., Rv. 279425).
Risulta anche ribadito che il giudice di appello, per riformare "in peius" una sentenza di assoluzione, non è obbligato - in base all'art. 6 CEDU così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo nel caso Dan c. Moldavia - alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale quando compie una diversa valutazione di prove non dichiarative, ma documentali (tra le altre, Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260234; Sez. 2, n. 53594 del 16/11/2017, Piano, Rv. 271694); infatti, anche la nuova disposizione processuale chiarisce testualmente che la valutazione della prova effettuata dalla sentenza di primo grado di proscioglimento impugnata dal pubblico ministero per motivi che a tale valutazione attengano, è esclusivamente quella avente ad oggetto la "prova dichiarativa" (Sez. 3, n. 36905 del 13/10/2020, Vergine, Rv. 28044801). Al contempo, nel mentre si è affermato che "per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa devono intendersi non solo quelli concernenti l'attendibilità dei dichiaranti, ma, altresì, tutti quelli che implicano una diversa interpretazione delle risultanze delle prove dichiarative", si è fatta espressa salvezza dell'ipotesi che il contenuto delle prove dichiarative "attenga ad un oggetto del tutto definito o ad un dato storico semplice e non opinabile"(Sez. 2, n. 13953 del 21/02/2020, lacopetta, cìt.). Similmente, in altra pronuncia che si pone nel medesimo solco, si sono distinti i fatti che presentano una consistenza oggettiva di natura astratta e asettica, limitando implicitamente l'area di applicazione dei principi posti ai casi nei quali la risultanza probatoria risente della mediazione dell'interpretazione che ne dà il dichiarante (Sez. 3, n. 16444 del 04/02/2020, C., Rv. 27942501; nei medesimi termini già Sez. 5, n. 27751 del 24/05/2019, 0., Rv. 27698701).
Ed anzi, recenti pronunce ripropongono con chiarezza l'esistenza di limiti ancor più stringenti. Si afferma, ad esempio, che "la reformatio in appello della pronuncia assolutoria di prime cure non impone sempre, in automatico, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per il riascolto di tutti i soggetti esaminati nel corso del giudizio di primo grado, essendo necessaria tale rinnovata assunzione della prova dichiarativa solo se la stessa sia determinante ai fini della decisione di condanna; se sia riconoscibile una reale divergenza tra la sentenza del giudice di primo e quella del giudice di secondo grado in ordine alla valutazione della attendibilità del dichiarante ovvero del contenuto della relativa deposizione; e, comunque, se vi sia una difformità tra il contenuto della deposizione valutato dal primo giudice e quello valorizzato dalla Corte di appello". Si aggiunge che "non sussistono i presupposti per la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello qualora la riforma in peius della sentenza assolutoria di primo grado sia fondata, non già su un diverso apprezzamento in ordine all'attendibilità di una prova dichiarativa diversamente valutata in primo grado, ovvero su una diversa valutazione del suo contenuto e della sua portata, bensì su una valutazione organica, globale ed unitaria degli ulteriori elementi indiziari a carico (esterni alle dichiarazioni), erroneamente considerati in maniera atomistica dalla decisione del primo giudice (cosi, da ultimo, Sez. 5, n. 53415 del 18/06/2018, Boggi, Rv. 274593)" (Sez. 6, n. 36555 del 10/12/2020, Bello, Rv. 28028702, che ha pertanto escluso che dovesse essere rinnovata l'istruttoria "tenuto conto che l’overruling non è stato basato su una diversa valutazione contenutistica delle prove dichiarative a disposizione del giudice di primo grado, bensì su una differente valorizzazione del tenore delle intercettazioni di comunicazioni telefoniche e soprattutto ambientali, nonché su una diversa valutazione di quelle emergenze processuali ai fini del riconoscimento della sussistenza degli elementi costitutivi oggettivi del reato contestato").
L'implicazione che si intende rimarcare ai fini che qui occupano è che, da un canto, la violazione dell'obbligo di rinnovazione istruttoria assume rilievo quale vizio denunciabile con il ricorso per cassazione nella forma del vizio della motivazione di cui alla lettera e) del comma 1 dell'art. 606 cod. proc. pen. Dall'altro che, dovendo il motivo che ne lamenta la violazione soddisfare i requisiti di specificità che risultano indicati dall'art. 581, co. 1 lett. d) cod. proc. pen., in forza del quale vanno indicate le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, esso non può fare a meno di indicare l'esistenza dei menzionati presupposti dell'obbligo giudiziale.
Nel caso che occupa, la pur analitica contestazione della motivazione resa dalla Corte di appello non lascia emergere in rapporto a quali prove dichiarative si sarebbe dovuto provvedere alla rinnovazione istruttoria. I soli passaggi nei quali si fa menzione di prove dichiarative sono i seguenti:
- si ricorda che sulle modalità di finanziamento di R***I tramite la Holding FS S.p.a. aveva testimoniato V.F. ma l'evocazione non è associata ad alcuna censura processuale;
- si ripete che sul tema della tesoreria centralizzata aveva riferito la teste F., ancora una volta limitandosi a riportare le relative dichiarazioni;
- si rammenta che il Tribunale aveva ritenuto prive di concreto rilievo le dichiarazioni del teste G. circa la riconducibilità al Mo.[MA.] della decisione di non autorizzare investimenti necessari a fronteggiare i rischi connessi al trasporto ferroviario di merci pericolose; si aggiunge che la Corte di appello avrebbe potuto superare questo giudizio solo procedendo alla rinnovazione istruttoria; ma si conclude che la Corte di appello non si era discostata dal giudizio del Tribunale circa l'impossibilità di ricavare dalla testimonianza G. elementi a favore della tesi di accusa, tanto da ripiegare sulle dichiarazioni di D.P., ignorate dal Tribunale;
- si sostiene che la Corte di appello è incorsa in una errata interpretazione delle parole dell'ing. Chiov., a riguardo dell'assenza di una struttura di audit di R***I, ma non si coordina tale affermazione al preteso vizio derivante dalla omessa rinnovazione;
- si cita un passo delle dichiarazioni del Braccia. ma per sostenere che dal loro uso viene la conferma che la Corte di appello si era focalizzata su un solo argomento giuridico (la gestione unitaria come concetto divergente dalla direzione unitaria) laddove da quelle dichiarazioni il Tribunale aveva ricavato l'esercizio appunto di una direzione unitaria.
Da quanto esposto emerge la aspecificità del motivo, che non evidenzia quali prove dichiarative avrebbero dovuto essere oggetto di rinnovazione istruttoria e solo in un caso, la testimonianza G., adombra tale obbligo ma subito dopo evidenzia la concorde valutazione della stessa operata dai due collegi.
28.9. Quanto alla lamentata violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata, è stato già rammentato da questa Corte che il giudice di appello che ritenga di pervenire a conclusioni diverse da quelle accolte dal giudice di primo grado "non può risolvere il problema della motivazione della sua decisione inserendo nella struttura argomentativa di quella di primo grado - genericamente richiamata - delle notazioni critiche di dissenso, in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni fra loro dissonanti, essendo invece necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (cfr. S.U., n. 6682 del 04/02/1992, Pm, pc, Musumeci e altri, Rv. 191229), in modo da fornire puntuali ed esaustive risposte alle censure dedotte con i motivi di appello (se specifici e pertinenti)" (Sez. 4, n. 4222 del 20/12/2016, dep. 2017, Pc in proc. Mangano e altro, Rv. 26894801).
Si tratta di una linea interpretativa che si è progressivamente consolidata, essendosi affermato che, in caso di totale riforma della decisione di primo grado, il giudice dell’appello ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (cfr. S.U., n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679), mettendo alla luce carenze e aporie di quella decisione sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato (cfr. Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Pc in proc. Fu e altri, Rv. 261327), dando alla decisione, pertanto, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (cfr. Sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013, dep. 2014, Pg in proc. Ricotta, Rv. 258005; Sez. 6, n. 46742 dell'08/10/2013, Pg in proc. Hamdi, Rv. 257332; Sez. 4, n. 35922 dell'l 1/07/2012, Pc in proc. Ingrassia, Rv. 254617).
Come è stato rimarcato, "il dovere di 'motivazione rafforzata' da parte del giudice dell'impugnazione, in caso di dissenso rispetto alla decisione di primo grado, il canone 'al di là di ogni ragionevole dubbio', il dovere di rinnovazione della istruzione dibattimentale ed i limiti alla reformatio in pejus si saldano sul medesimo asse cognitivo e decisionale" (così le già citate SU in causa Dasgupta). Peraltro, l'obbligo di motivazione si atteggia diversamente a seconda che si verta nell'ipotesi di sovvertimento della sentenza assolutoria ovvero in quella di totale riforma di una sentenza di condanna. Mentre nel primo caso, infatti, al giudice d'appello si impone l'obbligo di argomentare circa la plausibilità del diverso apprezzamento come l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano inficiato la permanente sostenibilità del primo giudizio, per il ribaltamento della sentenza di condanna, al contrario, il giudice d'appello può limitarsi a giustificare la perdurante sostenibilità di ricostruzioni alternative del fatto, sulla base di un'operazione di tipo essenzialmente demolitivo.
Deve trattarsi, peraltro, di ricostruzioni non solo astrattamente ipotizzabili, ma la cui plausibilità nella fattispecie concreta risulti ancorata alle risultanze processuali, assunte nella loro oggettiva consistenza. È dunque necessario che il dubbio ragionevole risponda non solo a criteri dotati di intrinseca razionalità, ma sia suscettibile di essere argomentato con ragioni verificabili alla stregua del materiale probatorio acquisito al processo (S.U., n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Troise, Rv. 27243001).
La definizione dei contenuti della motivazione rafforzata è stata ulteriormente precisata in una successiva pronuncia, nella quale si è affermato che essa consiste nella compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonché in un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanziale o processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore (Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 27805601).
Anche a riguardo della denuncia della violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata il giudice di legittimità non può divenire giudice del merito. Il sindacato introdotto con il ricorso per cassazione non può tradursi in una opzione a favore o contro il giudizio espresso dall'uno o dall'altro giudice ma piuttosto si estrinseca nella verifica del rispetto del percorso logico-giuridico imposto da quell'obbligo. Il quale pretende che si metta in campo una "rigorosa e penetrante analisi critica, seguita da completa e convincente motivazione [...] che dia ragione delle scelte operate"; dove la completezza sta ad indicare la presenza di tutti i passaggi argomentativi necessari alla revisione critica e la persuasività non può che segnalare la non manifesta illogicità della giustificazione. Quando l'apparato argomentativo lasci emergere il confronto con tutti gli assunti del giudice impugnato ed il superamento di essi in forza di ragioni che non si riducono al 'diverso avviso', ma mettono radice in una più penetrante ed esaustiva ricognizione o valutazione del materiale probatorio o del quadro giuridico pertinente, la motivazione dovrà ritenersi rafforzata.
Semplificando all'estremo, la motivazione riformatrice deve proporre 'qualcosa in più' e non solo 'qualcosa di diverso' rispetto alla motivazione riformata. Come è stato annotato in dottrina, occorre "dimostrare che si è sviscerato il provvedimento criticato, esponendo le attività di giudizio - sia mentali (es. applicazione di una norma non considerata), sia materiali (es. rinnovazione dell'istruttoria) - al riguardo compiute; ii) successivamente, rendere conto dei perché si è condiviso oppure si è ritenuto erroneo o inesatto il decisum contestato e quali sono le ragioni fondanti - a livello logico e probatorio - la nuova decisione assunta".
Pertanto, la verifica di questa Corte attiene alla completezza dell'esame degli elementi acquisiti, delle valutazioni in merito alla loro valenza probatoria fatta dal primo giudice, alla individuazione di carenze e di contraddizioni di quella decisione sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato e alla delineazione da parte del secondo giudice di un proprio, alternativo ragionamento probatorio e alla confutazione specifica dei più
28.10. Alla luce delle coordinate appena tracciate è finalmente possibile esaminare le motivazioni redatte dal Tribunale e dalla Corte di appello.
Il primo Collegio aveva assolto l'imputato dall'accusa rivoltagli escludendo che fosse stata dimostrata un'amministrazione di fatto delle controllate ed emergendo, all'inverso, il fisiologico esercizio dei poteri tipici della capogruppo; ed altresì escludendo la ricorrenza di una posizione di garanzia derivata dall'esercizio dei poteri di indirizzo e di coordinamento.
Su tale tema il Tribunale aveva formulato un primo passaggio che è utile riportare: "Né ritiene il Tribunale che la posizione di garanzia in capo a FS S.p.a. e ai suo amministratore delegato - per i pericoli connessi all'esercizio dell'impresa ferroviaria, al trasporto delle merci pericolose e alla gestione dell'infrastruttura - possa scaturire solo da un particolare assetto, più o meno interferente, dei rapporti tra la società controllante e le società controllate, .... Esiste, invero, un dato insuperabile, rappresentato dalla ineliminabile ed ineludibile distinzione della soggettività giuridica tra gli enti considerati...". Affermazioni che si è ritenuto di confortare con una rassegna di principi posti dalla giurisprudenza in tema di responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.
Il Collegio aveva poi affrontato il tema della configurabilità in capo alla holding di una posizione di garanzia rispetto ai pericoli afferenti le attività di impresa svolte dalle società controllate derivante dallo svolgimento delle attività di indirizzo e di coordinamento, adottando una posizione negatoria fondata essenzialmente sulla estraneità all'art. 2497 c.c. di doveri di preventiva valutazione dei rischi connessi alle attività imprenditoriali svolte dalle controllate e più in generale di doveri impeditivi.
Infine aveva considerato l'ipotesi che un simile dovere sorgesse dal concreto esercizio dei poteri di cui all'art. 2497 c.c. che ne travalicasse i limiti, traducendosi in una "ingerenza sostanziale nelle scelte operate dagli organi delle controllate".
Per il Tribunale questa è esclusa dal fatto che l'art. 2497 c.c. riconnette conseguenze esclusivamente civilistiche all'abuso dei poteri di indirizzo e coordinamento; e anche in fatto, per il Tribunale, non è dato rinvenire traccia di quella "ingerenza sostanziale nelle scelte operate dagli organi delle controllate, tali da implicarne un completo annullamento". Ovvero di un'amministrazione di fatto, da parte del Mo.[MA.], delle controllate.
La Corte di appello ha nella sostanza concordato su tal ultimo giudizio ed ha incentrato ^overturning sulla ritenuta sussistenza di una posizione di garanzia che nel caso concreto si sarebbe consolidata in capo all'amministratore della holding per effetto della struttura stessa dei rapporti con le controllate, non esaurientesi nella 'direzione e coordinamento' ma concretizzatisi in un "ruolo di co-gestore nel settore della sicurezza del trasporto ferroviario sia mediante interventi diretti sia mediante il controllo delle attività svolte in tale campo dalle controllate" . A tal proposito non si può tacere che la Corte di appello ora ha fatto parola di 'posizione di garanzia', ora di gestione del rischio. Appare però chiaro che, una volta di più, il ricorso alla tradizionale terminologia trova causa nella identificazione di una omissione che si riporta al modello dell'art. 40 cpv. cod. pen.; mentre nella prospettiva prescelta dalla Corte di appello si tratta di accertare l'esistenza di una competenza gestoria (del rischio ferroviario) connotata da colpa consistente nella mancata adozione di una misura cautelare.
Il dissidio tra i giudici di merito attiene quindi essenzialmente al profilo normativo; mentre il Tribunale ha ritenuto che i poteri di indirizzo e di coordinamento non possano comportare responsabilità alcuna per l'amministratore della capogruppo (peraltro senza approfondire il tema alla luce dei principi espressi da questa Corte), la Corte di appello ha preso le mosse dal principio che laddove sussiste una titolarità di poteri di gestione si pone anche il dovere di gestione diligente, prudente e perita (ancorché abbia poi utilizzato ecletticamente i concetti di gestione del rischio e di posizione di garanzia).
L'obbligo di motivazione rafforzata imponeva quindi alla Corte di appello di impegnarsi non tanto sulle premesse in diritto - essendo sufficiente, al riguardo, la correttezza delle opzioni giuridiche - ma nella dimostrazione della titolarità di una competenza del Mo.[MA.], nella qualità, avente ad oggetto la sicurezza del trasporto ferroviario; il diverso avviso della Corte di appello avrebbe richiesto di essere espresso essenzialmente attraverso una esauriente esposizione, declinata senza manifeste aporie logiche e in coerenza con i dati probatori, delle ragioni per le quali è possibile affermare che l'amministratore della holding aveva assunto una competenza diretta ed autonoma nella gestione del rischio ferroviario, sia pure nel peculiare ruolo assegnato alla capogruppo e in parallelo alle competenze degli amministratori delle controllate.
Orbene, ad avviso di questa Corte i giudici dell'appello hanno correttamente fatto fronte all'obbligo su loro incombente.
In primo luogo hanno rimarcato il particolare atteggiarsi dell'oggetto sociale della capogruppo e delle procedure infragruppo.
Quanto al primo, hanno evidenziato come lo statuto della capogruppo assegnasse alla medesima non solo compiti di holding di partecipazione ma anche quelli di holding operativa (in particolare, gestoria) e come la circostanza - non considerata dal Tribunale - rivestisse una importanza fondamentale ai fini dell'accertamento. Il dato è stato corroborato dal riferimento allo statuto del 27.4.2007, laddove indica quale oggetto sociale "la realizzazione e la gestione di reti di infrastruttura per il trasporto ferroviario", "lo svolgimento di ogni altra attività strumentale, complementare e connessa a quelle suddette", da realizzarsi non esclusivamente attraverso società controllate e collegate. Di qui l'ulteriore precisazione, circa "il fatto che essa possa compiere direttamente operazioni rilevanti per la realizzazione e la gestione della rete ferroviaria o per U trasporto di persone e merci". In tal modo la Corte di appello ha individuato un profilo non valutato dal Tribunale; lo ha dedotto da elementi di prova documentali non oggetto di contestazione, apprezzati in modo non manifestamente illogico. È così stata delineata una competenza statutaria che quanto meno conferisce specifico contenuto ai poteri di direzione e di coordinamento delle attività delle controllate, concretizzandosi nel potere di dispiegare "un intervento legittimo di imposizione di obiettivi e strategie, di controllo finanziario e sulle operazioni svolte dalle singole società, ed eventualmente persino di sostituzione ad esse per perseguire gli obiettivi funzionali al gruppo".
Giova rammentare, a completamento di quanto è stato già osservato, che il fenomeno del gruppo di imprese conosce una fondamentale partizione, distinguendosi le holding 'pure' da quelle 'operative'. Le prime si limitano alla gestione della partecipazione nelle società controllate attraverso il controllo e il coordinamento delle attività di quest'ultime, mentre le seconde svolgono (aggiuntivamente; perciò anche dette 'miste') attività di produzione o di scambio di beni o di servizi con le altre società del gruppo. Se sul piano dell'organizzazione aziendale ciò non preclude il richiamo definitorio al concetto di holding, nella prospettiva dell'identificazione delle competenze non è senza rilievo che ci si attribuisca la gestione diretta di un determinato settore, poiché ciò equipara, per quell'area, alla società operativa.
Per ulteriormente corroborare il giudizio di una capogruppo titolare di poteri di diretto intervento nella materia, la Corte di appello ha evocato la determinazione n. 40/2008 della Corte di Conti, nella quale si registrava che attraverso la tenuta della tesoreria centralizzata la capogruppo "gestisce in via esclusiva i rapporti con il Ministero del Tesoro; ... autorizza preventivamente ogni operazione sui capitali sociali, sui patti parasociaii o gii statuti, la designazione alla carica di Amministratori e di sindaci di controllate e collegate e gestisce direttamente, salvo espressa delega della Capogruppo alle società controllate interessate, ogni operazione societaria straordinaria e di valorizzazione..
La Corte di appello ha anche fatto riferimento alla circostanza che la controllata R***I s.p.a. avesse assunto come obiettivo il risanamento del gruppo e scelto di sottoporre le proprie scelte fondamentali, i propri interventi e la richiesta di finanziamento allo Stato alla analisi e all'approvazione della capogruppo; e al fatto che l'A.D. di tale società doveva sottoporre la richiesta di finanziamenti allo Stato alla capogruppo prima che fosse deliberata dal C.d.a. della propria società.
Tutto ciò per evidenziare che la capogruppo si era attribuito un ruolo di cogestione di quelle operazioni; peraltro - ha aggiunto la Corte di appello - formalizzato con le disposizioni di gruppo n. 29/AD del 23.11.2004 e 100/AD del 17.5.2007. Si tratta delle disposizioni che definiscono le procedure per gli investimenti delle controllate.
La Corte di appello ha così posto in evidenza come, secondo tali procedure, il c.d.a. della controllata non potesse conoscere le proposte eventualmente bocciate dalla controllante, sulla base di valutazioni alle quali rimaneva del tutto estranea la controllata (si evidenzia che mentre nella disposizione 29/D del 2004 l'elenco dei progetti rilevanti per il gruppo veniva individuato su proposta delle società, con la successiva disposizione 100/D la valutazione è rapportata a una indefinita 'rilevanza per il Gruppo' ed è svolta in esclusiva dalla capogruppo).
Quanto agli investimenti non aventi rilevanza di gruppo, essi erano sì esclusi dalla procedura di approvazione della controllante ma erano dalla stessa monitorati e potevano essere fermati se implicanti costi superiori di oltre il 10% la previsione di spesa e, più in generale, in forza del sistema del cash pooling la controllante poteva fermare ogni progetto delle controllate, ancorché nell'unica cassa confluissero i finanziamenti che lo Stato rilascia a R***I.
L'ulteriore dato valorizzato dalla Corte di appello è la già menzionata gestione della tesoreria centralizzata da parte della capogruppo. Per il Tribunale il sistema del cash pooling, in forza del quale le singole società del gruppo stipulano singoli contratti di conto corrente con la società pooler che a sua volta stipula un contratto di conto corrente con un'azienda di credito su cui confluiscono tutti i movimenti che transitano per i conti correnti delle singole società, è null'altro che una modalità operativa che risponde ad esigenze di efficiente gestione della tesoreria aziendale quanto ai rapporti tra le società del gruppo e gli istituti di credito e non implica una degradazione delle società controllate ad articolazioni della società controllante.
Anche la Corte di appello ha considerato che la tesoreria centralizzata è pratica ricorrente nell'ambito dei gruppi di imprese; ma ha rilevato che nello specifico caso le ragioni ad essa sottese non erano quelle ordinarie (annullare o ridurre le diseconomie derivanti dalla coesistenza di saldi attivi e passivi in capo alle varie società del gruppo e operare dei microfinanziamenti a quelle in passivo) ma quelle del controllo sulla gestione economico-finanziaria delle controllate, come si ricava dalla circostanza che, secondo le previsioni di legge, la società che gestiva la rete non poteva essere finanziariamente collegata all'impresa ferroviaria e gli introiti della prima non potevano andare a beneficio della seconda. Pertanto, è stata la conclusione sul punto della Corte distrettuale, la controllante non si era limitata a impartire direttive o a elaborare programmi finanziari e produttivi di gruppo, poi verificandone il rispetto; nel caso di specie essa interveniva "... prima che tali scelte vengano assunte, valutandole, analizzandole alla luce dell'interesse del gruppo, e modificandole prima ancora che la controllata, con il suo Cda, le abbia anche solo conosciute ... o decise".
Il tratteggio dei poteri attribuiti alla controllante, sin qui riferito alla generalità delle attività del gruppo, si è poi fatto più specifico, avendo la Corte di appello preso in esame gli interventi della capogruppo nel settore della sicurezza. Richiamando ancora la deliberazione n. 40/2008 della Corte dei Conti, il Collegio territoriale ha evidenziato come fosse risultato che il management della capogruppo avesse "prestato particolare attenzione ai criteri di selettività e di priorità degli interventi individuando le seguenti linee di azione: garantire gli interventi di manutenzione straordinaria della rete e degli impianti; garantire il proseguimento degli interventi di sicurezza e in particolare delle tecnologie connesse alla sicurezza di terra e di bordo". Senza manifesta illogicità la Corte di appello ha dedotto che "gli interventi di manutenzione straordinaria della rete e gli interventi di sicurezza costituiscono investimenti del 'Gruppo Fe***I***'", decisi quindi dalla capogruppo nei termini sopra delineati. Circostanza - quella della riferibilità al Mo.[MA.] della scelta di non investire sul già esistente progetto di creare una flotta di ferrocisterne per il trasporto commerciale di merci pericolose - ulteriormente confortata dal richiamo delle deposizioni del G. e del D.P..
Dopo aver indicato le evidenze in ragione delle quali ha ritenuto che la capogruppo avesse assunto un "obbligo giuridico di gestione anche dei rischi propri delle controllate ... attribuendosi ... il potere di disposizione sugli investimenti proposti dalle controllate anche in tema di sicurezza ...", la Corte di appello ha considerato le implicazioni della previsione, contenuta nella disposizione n. 113/AD del 1.4.2008, con la quale la capogruppo attribuiva alle proprie direzioni doveri di controllo ispettivo sulle controllate, anche in tema di sicurezza. Come ha chiarito la Corte distrettuale, non si trattava di una verifica circa il fatto che le controllate provvedessero con le proprie strutture alle attività di audit ma del potere di svolgere tali attività. La previsione di tale potere implicava, ha affermato la Corte di appello, un potere/dovere di controllo sulle società operative, anche nel settore della sicurezza (si tratta di un profilo non esaminato dal Tribunale).
Occorre osservare, al riguardo, considerando anche i rilievi difensivi, che l'accentramento delle attività di audit presso la controllante non costituisce evenienza distonica rispetto al fisiologico assetto delle relazioni tra capogruppo e controllate; ma nell'ottica della individuazione di un fascio di poteri di intervento sul rischio certamente quel dato pone in evidenza l'esistenza di simili poteri.
La Corte di appello ha fatto riferimento anche alla circostanza che la DCRUO (Direzione Centrale risorse umane e organizzazione) era il nucleo che per FS s.p.a. determinava per tutte le controllate l'interpretazione delle norme in materia di scurezza del lavoro e vigilava sulla loro applicazione svolgendo attività ispettive. Ha citato a dimostrazione del fatto il documento 'Comunicazione organizzativa di Tre*** spa n. 296/DRUO del 3.3.2009, dal quale ha tratto che "prima che una modifica delle procedure in tema di sicurezza possa essere approvata da questa controllata, la capogruppo interviene in questa fase intermedia verificando la coerenza a livello di gruppo di tate modifica, e quindi approvandola". Richiamando la deposizione del Braccia. la Corte distrettuale ha rammentato che "la capogruppo dava periodicamente 'indicazioni ... a tutte le società operative, con degli obiettivi di decremento del fenomeno infortunistico, obiettivi che poi le società erano impegnate nei confronti della capogruppo a perseguire' e il cui raggiungimento veniva da questa controllato".
Tali elementi confermano l'esistenza di significative competenze gestorie facenti capo alla capogruppo.
Sempre dalle dichiarazioni del Braccia. la Corte di appello ha ricavato che durante la gestione del Mo.[MA.], per conseguire il risanamento del gruppo, "si ritenesse essenziale uno stretto controllo ed anche un intervento diretto della capogruppo e del suo Amministratore" e come fossero stati dispiegati interventi per il taglio dei costi inutili, per l'elaborazione dei piani industriali, per la stipula di nuovi contratti di servizio con le Regioni, per l'utilizzo dell'asset immobiliare. In questa cornice la Corte distrettuale ha collocato anche l'intervento diretto del Mo.[MA.] in operazioni che riguardavano solo una delle controllate, il suo presentarsi come amministratore di queste ultime, rammentando ancora la deposizione del Braccia. per evidenziare che era prevista una competenza anche della capogruppo per quanto attiene i rapporti istituzionali.
Al medesimo teste sono riferite le seguenti, rilevanti affermazioni: "nello statuto è previsto che Fe***I*** spa possa agire anche direttamente in attività connesse all'esercizio del trasporto ferroviario regionale piuttosto che del trasporto a lunga percorrenza"} "lo statuto prevede anche attività svolte direttamente dalla capogruppo Fe***I*** spa, che siano in qualche misura collegabili alle attività principali del trasporto e della gestione dell'infrastruttura ... la capogruppo... non è una holding finanziaria ma ha ... dei poteri anche operativi...".
In termini nient'affatto manifestamente illogici la Corte di appello ha dedotto da quanto premesso che sulla base di quanto previsto dallo statuto della holding "la capogruppo non ha usurpato poteri altrui né ha compiuto ingerenze indebite nella gestione delle controllate, ma ha affiancato queste ultime esercitando i poteri che le sono stati volutamente attribuiti, ..., e che le hanno però attribuito la gestione di un'area di rischio, anche in tema di sicurezza della circolazione e del lavoro, che si sovrappone in parte alle aree gestite dalle predette società controllate". Sicché in capo al Mo.[MA.] si sarebbe costituita una posizione gestoria (analoga ma distinta da quella degli amministratori delle controllate), "perché anch'egli è tenuto, nelle scelte imprenditoriali a cui partecipa direttamente o attraverso le sopra indicate forme di controllo degli investimenti, a valutare i rischi ad esse connessi e ad assumere le iniziative necessarie per il rispetto della sicurezza della circolazione e dei lavoratori".
L'assunto conclusivo della Corte di appello è che il Mo.[MA.], nella qualità, avesse "assunto tale posizione in modo autonomo, non ingerendosi indebitamente nella gestione delle controllate ma esercitando i poteri, fortemente interferenti con l'autonomia di queste ultime, che la società capogruppo si è attribuita con propria autonormazione".
Come emerge da quanto si è sin qui esposto, tale giudizio è consonante al principio che si è sopra formulato, per il quale l'attività di direzione e di coordinamento non è di per sé incompatibile con la titolarità di una competenza gestoria, dovendosi guardare al reale assetto dei poteri attribuiti alla capogruppo. Inoltre è stato nutrito dal richiamo di numerosi fatti. I quali neppure esauriscono il novero delle circostanze sulle quali la Corte di appello ha fondato il proprio convincimento.
Invero, i giudici distrettuali hanno fatto menzione anche: dell'invio, il 30.7.2009, a Fe***I*** spa da parte della Direzione Generale per il Trasporto ferroviario del Ministero dei Trasporti di un 'Atto di indirizzo' con il quale veniva richiesto alla capogruppo di svolgere una serie di attività sulle controllate finalizzate ad elevare il livello di sicurezza della circolazione delle ferro-cisterne; della nota del 19.8.2009 che lo stesso Ministero inviò al Mo.[MA.] nella quale si rimarcava che "il richiamo a dare priorità ai processi riguardanti la sicurezza coinvolge le politiche dell'intero Gruppo FS"; della nota del 30.11.2009 con la quale il Ministero contestò alla capogruppo (e non a R***I s.p.a.) il fatto di non essere state soddisfatte molte delle richieste avanzate con il citato Atto di indirizzo: la Corte di appello senza alcun inciampo logico ha osservato che tutto ciò conferma il ruolo di diretta responsabilità in tema di sicurezza della circolazione ferroviaria che la capogruppo aveva assunto e che le veniva riconosciuto anche dall'interlocutore istituzionale.
In tale quadro assume certamente rilievo, perché dato coerente e perspicuo, il fatto che nel 2008 il presidente e l'amministratore delegato di R***I fossero dirigenti della capogruppo FS; ovvero soggetti subordinati al Mo.[MA.].
28.11. Quanto appena esposto evidenzia come la Corte di appello abbia delineato una sfera di competenza dell'amministratore della società capogruppo avente ad oggetto anche la sicurezza del trasporto ferroviario. Per ciò che concerne le modalità di esercizio di tale competenza, si è rammentato come già il Tribunale avesse rimproverato al Mo.[MA.] di aver, nella qualità di amministratore delegato di R***I, deliberato "una precìsa politica aziendale probabilmente diretta a limitare gli impegni di spesa retativi al trasporto delle merci, settore minoritario anche per Tre*** spa nonché fonte di minori guadagni, per investire piuttosto, anche in termini di sicurezza, nei trasporto passeggeri: si è deciso di non investire nella realizzazione di una fiotta di carri-merci di proprietà ma di utilizzare carri di proprietà di terzi, e di non impegnare personale e denaro per sottoporli a controlli particolarmente attenti, applicando appunto i criteri di interoperabilità ed i regimi internazionali RIV e CUU come un'autorizzazione ad omettere qualunque controllo e a non pretendere dai fornitori dei carri stessi di assicurare, dimostrando la \ medesima qualità manutentiva a cui erano sottoposti i carri di proprietà di Tre*** spa". In termini analoghi la Corte di appello ha ascritto al Mo.[MA.], divenuto A.d. di FS S.p.a., di non aver fornito e imposto "una interpretazione corretta delle norme che eliminasse la prassi errata di non effettuare alcun controllo, neppure documentale, sui carri esteri circolanti, in regime RIV", e la previsione "di misure precauzionali idonee in caso di mancanza di tracciabilità". Appare chiaro che al di là della formulazione in termini omissivi, al Mo.[MA.] si rimprovera di aver adottato ed imposto quella interpretazione indebitamente riduttiva dell'impegno cautelare, dalla quale è discesa la mancata adozione della misura della acquisizione di informazioni attinenti alla storia manutentiva dei carri merci esteri circolanti in regime di RIV/RID.
28.12. A fronte di quanto esposto, tra le pagine 125 e 163 i rilievi difensivi (sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. C.) attribuiscono alla Corte di appello di aver considerato il Mo.[MA.], nella qualità, amministratore di fatto delle controllate; si è visto che ciò non corrisponde al vero. La peculiare interpretazione della motivazione impugnata ne inficia la critica, essenzialmente volta a dimostrare che quanto valorizzato dalla Corte di appello degli elementi fattuali disponibili non è idoneo a dar prova che il Mo.[MA.] si era fatto amministratore delle società controllate e pertanto incline a rimarcare l'assenza di concrete esplicazioni dell'influenza esercitata su queste ultime. Una critica che peraltro si avvale il più delle volte di una autonoma ed oppositiva valutazione degli elementi di prova, con ciò rendendosi non consentita in sede di legittimità (ci si riferisce, in particolare alla discussione della portata dimostrativa che andrebbe riconosciuta alle plurime circostanze menzionate dalla Corte di appello). Non si considera che la Corte di appello ha inteso individuare una formale competenza dell'amministratore della capogruppo nella gestione del rischio per la sicurezza ferroviaria, derivante dal particolare assetto del gruppo e solo manifestata da taluni atti concreti.
Solo a pg. 163 il ricorrente prende atto che la Corte di appello "tenta di dimostrare l'esistenza di un diretto potere di controllo della holding sulle attività in materia di sicurezza delle società controllate". Tralasciando la imprecisa indicazione della ratio decidendi, vale considerare che la censura che segue confuta direttamente il significato attribuibile alla disposizione n. 113/AD del 1.4.2008, sostenendosi che "le direttive sopra riportate, non implicano affatto che la holding possa direttamente svolgere attività di audit sulle controllate sostiene che vi sia stata "una errata interpretazione delle parole dell'Ing. Chiov." (senza dedurre il travisamento della prova); deduce il mancato esercizio del potere laddove la Corte di appello intende rimarcare la titolarità dello stesso. Si tratta, quindi, di rilievi non consentiti in questa sede o manifestamente infondati.
Il rilievo più puntuale è senz'altro quello che lamenta che la Corte di appello abbia identificato una 'gestione unitaria' laddove emerge unicamente una fisiologica 'direzione unitaria', stante "l'insostenibilità, innanzitutto sul piano giuridico, di una simile prospettazione". Ma l'assunto dal quale muove il ricorrente - di una incompatibilità ontologica tra poteri di direzione e di coordinamento e competenza gestoria - non è condiviso da questa Corte, per le ragioni già esposte.
28.13. Quanto al ricorso a firma congiunta dei difensori, con il quinto motivo si lamenta innanzitutto la violazione dell'art. 603, co. 3-bis cod. proc. pen.
Il tema è stato già trattato; ad integrazione valgano le seguenti considerazioni.
La violazione è stata denunciata in relazione alla testimonianza Fi., la cui credibilità si reputa sia stata svalutata dalla Corte di appello, "laddove ha mostrato di non credere al fatto che il coordinamento della holding con il Ministero riguardava (peraltro fino al 2006) solo il momento dell'incasso dei contributi assegnati a R***I in base a! contratto di programma"; in relazione alle testimonianze Po. e Braccia., laddove essi avevano riferito che la creazione di un comune patrimonio di manager all'interno del gruppo corrisponde ad una politica standard adottata alle più importanti aggregazioni industriali (secondo la sintesi proposta dalla difesa); in relazione al giudizio di attendibilità del c.t. di parte civile dr. Riveda, premessa dell'acritico recepimento della ricostruzione offerta dal medesimo.
Orbene, dopo averaffermato, sulla scorta del verbale della riunione del C.d.a. di R***I s.p.a. del 2.7.2001, che la società aveva scelto di subordinare la richiesta di finanziamenti allo Stato all'analisi e alla programmazione da parte della capogruppo, alla quale l'A.D. della partecipata doveva sottoporre la richiesta prima di averla presentato al proprio C.d.a., la Corte di appello ha aggiunto: "anche se secondo la teste Fi., l'intervento della capogruppo è un 'coordinamento forte' con il Ministero dell'Economia e Finanze ma relativo solo al momento dell'incasso del contributo che esso eroga a R***I spa”. Ad avviso di questa Corte non è ravvisabile il ripudio da parte della Corte di appello della dichiarazione della Fi.. Lo stesso ricorrente, nel lamentare il travisamento del contenuto di quel verbale, perché la Corte di appello ne ha tratto che la capogruppo aveva il potere di approvare le richieste come appena rammentato, dà conto del fatto che nel documento era stabilito il previo "svolgimento della necessaria propedeutica attività di analisi tra le competenti strutture delle società e della capogruppo", come pedissequamente riportato anche nella motivazione qui impugnata. Quindi la testimonianza della Fi. non è in contrasto con quanto emerge dal verbale ma lo integra. Il punto saliente è nell'aver la Corte di appello dedotto dalla previsione dell'analisi propedeutica da parte della capogruppo anche un potere di approvazione della richiesta. Senonchè, anche ad ammettere che si versi in ipotesi di travisamento della prova, si tratterebbe di vizio non decisivo, posto che il potere di intervento sugli investimenti delle controllate viene subito dopo fondato sulle disposizioni di gruppo n. 29/AD del 2004 e n. 100/AD del 2007.
Le dichiarazioni del Po. e del Braccia. non risultano citate dal Tribunale quando affronta il tema della "commistione tra società del gruppo a livello di personale apicale"; ed anzi quel Collegio non ha posto in dubbio il dato effettuale, solo valutandolo di nessuna idoneità dimostrativa della tesi di accusa "posto che le competenze specialistiche acquisite nel settore ben possono essere valorizzate in una circolazione all'interno del gruppo delle persone che hanno maturato esperienze, conoscenze, professionalità". È appena il caso di osservare che in questione non era la legittimità della prassi in parola ma il suo significato sul piano dei concreti rapporti correnti tra controllante e controllate. Quel che è risultato divergere nelle due sentenze sullo specifico punto è la valutazione di ciò che può dedursi dalla circostanza dichiarata dai testi, non la attendibilità degli stessi. Si è quindi al di fuori di ogni ipotesi implicante la rinnovazione istruttoria.
Infine il contributo del Riv.. Anche la censura avanzata con il ricorso in esame ha contenuto generico, non risultando individuati con puntualità i temi in ordine ai quali si sarebbe determinato un contrasto tra i collegi territoriali in merito alla attendibilità dell'esperto. Peraltro, dall'insieme delle motivazioni appare sufficientemente chiaro che se questi aveva offerto una sua interpretazione dei dati fattuali, nel senso di ricavarne l'esistenza di una amministrazione delle controllate facente capo sostanzialmente alla controllante, il Tribunale se ne è distaccato escludendo la ricorrenza dell'ipotesi; ma altrettanto ha fatto la Corte di appello ritenendo che si profilasse una autonoma competenza gestoria proprio per l'esercizio - particolarmente penetrante - dei poteri di direzione e di coordinamento. Insomma, le premesse fattuali riferite dal consulente non sono state negate dall'uno e recepite dall'altro collegio; piuttosto diversa è stata la valutazione giuridica delle medesime.
Il rilievo che chiama in causa l'art. 603, co. 3-bis cod. proc. pen. è quindi infondato.
La censura che evoca la violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata ha trovato replica in quanto si è già scritto al proposito.
Quindi occorre occuparsi di alcuni ulteriori rilievi.
Il ricorrente sostiene che la Corte di appello avrebbe attribuito al Mo.[MA.] una posizione di garanzia che coincide con quella assegnata agli amministratori di R***I e di Tre***; e che ciò risulterebbe in contraddizione con quanto dalla medesima Corte ritenuto nell'escludere la responsabilità dell'ente FS incolpata ai sensi del decreto n. 231/2001, ovvero che era errato, come preteso dall'appellante accusa, estendere alla capogruppo i medesimi obblighi giuridici delle controllate.
È il caso di registrare che il rilievo è immediatamente contraddetto dal ricorrente medesimo, il quale ha preso atto, per denunciare la contraddittorietà della motivazione, dell'aver la Corte di appello affermato che la società FS si era attribuita la gestione di un'area di rischio che si sovrapponeva in parte alle aree di rischio gestite dalle società controllate, derivandone per il suo amministratore
delegato "una posizione di garanzia ulteriore e diversa a quella conseguente ai doveri e poteri di A.D. di FS spa".
Ritiene questa Corte che non vi sia contraddittorietà tra quanto scritto dalla Corte di appello trattando della responsabilità del Mo.[MA.] e quanto sostenuto a riguardo dell'ente FS s.p.a. Come ampiamente esposto in precedenza, la Corte di appello ha individuato in capo al Mo.[MA.] un obbligo giuridico distinto ma analogo a quello gravante sugli amministratori delle controllate. E si è già chiarito che tanto va inteso come identificazione di una competenza gestoria che radica proprio nei poteri di direzione e di coordinamento.
Il ricorrente lamenta che la Corte di appello non abbia spiegato "con trasparenza il percorso giuridico seguito per arrivare a simile conclusione". Si può convenire sulla mancata esplicitazione delle premesse in diritto della ricognizione probatoria operata dalla Corte di appello; ma ciò non rifluisce nel vizio della motivazione e nemmeno dà luogo ad una violazione di legge, atteso che la conclusione e prima ancora l'impostazione adottata dal Collegio territoriale è coerente con i principi giuridici rammentati in questa sede. Alla Corte di appello si può rimproverare una certa ambiguità testuale; ma ciò non rende meno chiaro che essa ha posto a perno del proprio giudizio la identificazione di una sfera di competenza gestoria e il ritenuto errato esercizio della stessa.
Quanto ai rilievi che investono ciascuna delle valutazioni dei dati fattuali operate dalla Corte di appello, va osservato quanto segue.
Si assume che la lettura dello statuto di FS sarebbe contraddittoria, perché da un verso viene rilevato che nell'oggetto sociale è prevista la realizzazione e la gestione di reti di infrastruttura per il trasporto ferroviario e lo svolgimento del trasporto ferroviario e dall'altro si scrive che tali attività fanno capo a distinte società controllate, come la stessa Corte di appello ha riportato nella motivazione impugnata. Non si riporta però l'esatto testo trascritto in sentenza, secondo il quale lo statuto "prevede di realizzare tale oggetto sociale 'principalmente - ma non esclusivamente - attraverso società controllate e collegate ...". D'altronde la Corte di appello non ha affermato che FS abbia svolto tali attività ma che, nell'esercizio dei poteri conferiti dallo statuto, essa poteva "compiere direttamente operazioni rilevanti per la realizzazione e la gestione della rete ferroviaria o per il trasporto di persone o merci". Non corrisponde al vero, quindi, che la Corte di appello ha affermato che FS gestiva la rete e il trasporto. Così come non è la Corte di appello che ha richiamato le decisioni della Corte di Giustizia Europea e dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, avendo ad esse fatto riferimento unicamente quando ha riportato gli argomenti utilizzati dal pubblico ministero appellante.
Viene poi denunciato il travisamento del dato testuale contenuto nel verbale del C.d.a. di R***I s.p.a. del 2.7.2001. In realtà ciò che risulta prospettato non è un travisamento della prova bensì una pretesa scorretta valutazione della stessa. Infatti, non viene considerato il medesimo enunciato, senza e poi con la variazione testuale concretante il travisamento, ma due enunciati diversi. Né viene argomentata la decisività del preteso travisamento. Della cospicua e consolidata giurisprudenza sul tema è sufficiente rammentare quella che si è espressa formulando il principio secondo il quale, ai fini della deducibilità con il ricorso per cassazione del vizio di "travisamento della prova", che si risolve nell'utilizzazione di un'informazione inesistente (per l'errore incidente sul significante e non sul significato) o nella omessa valutazione della prova esistente agli atti, è necessario che il ricorrente prospetti la decisività del travisamento o dell'omissione nell'ambito dell'apparato motivazionale sottoposto a critica (Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, Villari, Rv. 28011701).
Il dato rappresentato dalla esistenza di una tesoreria centralizzata viene considerato dal ricorrente 'totalmente irrilevante', sulla scorta del richiamo alle dichiarazioni della Fi.; evidente la giustapposizione da parte del ricorrente del proprio giudizio sulla prova a quello operato dalla Corte di appello, senza l'evidenziazione di alcuna manifesta illogicità.
Si censura, invero, al riguardo, la svalutazione della deposizione della Fi., tanto da prospettare la necessità per la Corte di appello di rinnovare la prova; ma l'oggetto sarebbe ancora quello del momento in cui, prima del 2006, interveniva la holding (quello dell'incasso dei contributi assegnati ad R***I dallo Stato): sul punto si è già espresso il giudizio di questa Corte.
Si assume la manifesta illogicità - anche per la mancata indicazione delle prove sulle quali fonda - della motivazione nella parte in cui giudica il sistema di cash polling finalizzato a garantire il controllo della capogruppo sulla gestione economico-finanziaria delle controllate.
Il rilievo è infondato. La Corte di appello ha esplicitato che, diversamente da quanto vale per la generalità dei casi, R***I e Tre*** non possono essere finanziariamente collegate, sicché il sistema non può avere l'ordinario scopo di assicurare microfinanziamenti alle società del gruppo in passivo; di qui la conclusione che si è già rammentata. Non è compito di questa Corte formulare un diverso giudizio sulle implicazioni del ricorso al cash pooling nella particolare realtà del 'Gruppo Ferrovie'; al giudice di legittimità compete di verificare se la valutazione al riguardo operata dal giudice di merito sia motivata e lo sia senza illogicità, che deve essere manifesta per valere l'annullamento della decisione, e senza tradire il dato probatorio. Un dato probatorio che per essere pertinente non deve evidenziare che entrate di R***I siano state riversate dalla capogruppo a Tre*** (come pretende il ricorrente, lamentando l'assenza della prova); quel che la Corte di appello ha inteso porre in risalto, infatti, è l'assetto strutturale dei poteri di FS s.p.a. rispetto alle controllate.
Tanto da osservare, nei confronti del Tribunale che aveva escluso ingerenze della controllante nel settore della sicurezza per l'assenza di prova che essa avesse mai posto limiti ad interventi in materia, che "per individuare l'esistenza di una posizione di garanzia della controllante non è necessario che il potere di disposizione sugli investimenti delle controllate, ..., abbia portato a scelte limitanti nel campo della sicurezza della circolazione e del lavoro, essendo sufficiente il fatto di essere titolari del potere di intervenire in quel settore e di avere un obbligo giuridico di farlo".
Quanto al rilievo secondo il quale la Corte di appello non avrebbe considerato che la determinazione della Corte dei Conti n. 40/2008 atteneva agli esercizi 2005- 2006 e quindi al tempo anteriore all'assunzione della carica in FS s.p.a. da parte del Mo.[MA.], che in tale ruolo aveva adottato decisioni volte a separare le funzioni della holding da quelle delle controllate "soprattutto in tema di esercizio" - come sarebbe stato dimostrato dalla difesa con la produzione di documenti non valutati dalla Corte di appello - ancora una volta va rilevato che la Corte distrettuale, dopo aver illustrato i connotati 'originari' del Gruppo, ha fondato il proprio giudizio in merito alla esistenza di una competenza gestoria della capogruppo sulle disposizioni n. 29/Ad del 2004 e n. 100/AD del 17.5.2007; quest'ultima, quindi, adottata mentre il Mo.[MA.] era in carica in FS s.p.a.
Giova precisare che la denuncia del vizio di travisamento della prova per omissione, quale deve ritenersi la censura sopra sintetizzata, è ammissibile solo se si indicano specificamente le prove non valutate; non può essere sufficiente un generico richiamo ai documenti prodotti - sia pure con indicazione delle date di produzione - ed è necessario, come si è già rammentato, che venga dimostrata la decisività degli stessi in rapporto all'apparato motivazionale sottoposto a critica. Nel caso di specie, secondo la stessa prospettazione del ricorrente, quel che si evincerebbe dalla menzionata documentazione sarebbe una generale opera di riorganizzazione decisa dal Mo.[MA.], volta a quella separazione della quale si è fatta menzione; non si prospetta, però, che tale riorganizzazione abbia avuto ad oggetto anche la tenuta della tesoreria centralizzata.
Del pari priva di capacità dimostrativa di una manifesta illogicità della fi motivazione impugnata e/o di un travisamento della prova per omissione è la U puntualizzazione concernente la gestione del servizio di audit, che il ricorrente segnala essere stato trasferito - divenuto A.D. il Mo.[MA.] - al Presidente di FS. È sufficiente rilevare, sul punto, che la Corte di appello non ha sostenuto che quel servizio facesse capo all'amministratore delegato e che anche dal rilievo difensivo
resta confermato che, come affermato dalla Corte di appello, esso era posto in capo alla capogruppo.
Il ricorrente ha poi censurato l'affermazione della Corte di appello secondo la quale il Mo.[MA.] si presentava frequentemente "come se fosse stato l'Amministratore" delle controllate ed in specie di Tre*** s.p.a., "ad esempio nella stipula dei contratti con le Regioni per il trasporto locale". Ha infatti rappresentato che il Mo.[MA.] aveva operato in tali casi "in forza di procure ad acta rilasciate dagli amministratori di quelle società" e che anche se egli "fosse stato sfornito di una procura, il suo intervento si sarebbe giustificato solo per circostanze che avevano a che fare con il suo ruolo istituzionale di rappresentante del gruppo", fermo restando che la stipula degli atti veniva fatta dagli amministratori delle controllate interessate.
Il rilievo richiede di rammentare quanto aveva ritenuto accertato il Tribunale.
Nella prospettiva di verifica della tesi di accusa secondo la quale il Mo.[MA.] aveva operato quale amministratore di fatto delle controllate Tre*** s.p.a. e R***I s.p.a., il Tribunale aveva escluso che fosse stata acquisita la prova che il Mo.[MA.] avesse firmato il contratto di servizio 2009 tra Tre*** e la Regione Liguria, quello, concluso nel 2011, tra Tre*** e la Regione Piemonte, quello tra Tre*** e la Regione Puglia, risalente al 2009. Aveva però dato conto del fatto che il Mo.[MA.] era stato presentato mediaticamente come l'effettivo contraente.
Per contro, il Collegio territoriale aveva ritenuto accertate le seguenti circostanze, comunque valutate inidonee a dare dimostrazione dell'assunto accusatorio:
- la posizione inizialmente assunta dai vertici di Tre*** presenti all'incontro con i vertici della Regione Lombardia del 29.4.2009 - di non firmare un determinato accordo sulla mobilità - era stata modificata dopo una serie di contatti telefonici intercorsi con il Mo.[MA.];
- nei protocolli di intesa firmati da FS s.p.a. con la Regione Veneto il 18.9.2009 e con la Regione Toscana sempre nel 2009, erano stati definiti integralmente i contenuti del contratto di servizio successivamente stipulato da Tre***;
- nel protocollo con la Regione Veneto, FS s.p.a. aveva impegnato R***I s.p.a. a valorizzare gli investimenti strutturali; nel protocollo con la Regione Toscana FS s.p.a. si era impegnata a potenziare le linee ferroviarie Pistoia-Lucca e Livorno- Pisa, di competenza di R***I s.p.a.; in un protocollo di intesa del 22.3.2010 FS s.p.a. aveva impegnato R***I s.p.a. a cedere al Comune di Viareggio il sedime di una serie di binari dismessi, a presentare un progetto di contenimento acustico e a realizzarlo a seguito dell'approvazione da parte del Comune (ha aggiunto il Tribunale che 'sembrerebbe' anche impegnare la controllata a stipulare una convenzione per disciplinare l'attraversamento ferroviario, a realizzare una sottostazione elettrica a Viareggio e a dismettere quindi gli elettrodotti); nel protocollo di intesa del 4.6.2013 con la Regione Toscana FSI s.p.a. aveva impegnato l'intero gruppo, e quindi anche le controllate, "a verificare ia disponibilità di spazi all'interno delle stazioni toscane ... da destinare ad attività sociali o socio ambientali”.
Sul presupposto che i fatti segnalati dal c.t. Riv. fossero dimostrati (salvo per la stipula dei contratti di servizio, come sopra riportato), il giudizio del Tribunale è stato che il quadro non restituiva un ruolo del Mo.[MA.] di amministratore di fatto delle controllate in parola essendo, in particolare i protocolli di intesa, "espressione di atti di indirizzo che individuano esclusivamente prospettive di sviluppo verso le quali ii gruppo nei suo complesso deve tendere; e, dunque, una pianificazione di attività e di prospettive che dovranno poi essere successivamente realizzate da parte delle società operative, ovviamente con l'autonomia loro propria".
Ciò posto va osservato che neppure la Corte di appello afferma che il Mo.[MA.] aveva stipulato i contratti di servizio; piuttosto afferma "il suo frequente presentarsi come se fosse stato l'Amministratore di queste ultime ed in particolare di Tre*** spa, ad esempio nella stipula dei contratti con le Regioni per ii trasporto locale". Una ricostruzione del tutto combaciante con quanto ritenuto dal Tribunale. Sicché, il rilievo in esame non si confronta adeguatamente con la motivazione che pure contesta, muovendo da premesse che non trovano corrispondenza in questa.
Tanto vale anche per il rilievo successivo, che attinge la motivazione impugnata laddove afferma che la scelta di non investire nel trasporto merci risaliva al Mo.[MA.].
Infatti, la denuncia di travisamento per omissione (enunciata richiamando il vizio di omessa motivazione) per non essere stati valutati "tutti i progetti pervenuti alla Direzione Centrale Strategie e Pianificazione di holding", depositati in sede di appello, prende in considerazione la sola testimonianza del G., laddove la Corte di appello ha fatto riferimento anche a quanto dichiarato dal D.P. (oltre che alla delibera n. 40/2008 della Corte dei conti). Una volta di più va ribadito che il ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l'omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l'inammissibilità, ad addurre l'esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece, a) identificare l'atto processuale cui fa XV riferimento; b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato nonché della effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l'atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Pg c/ Papini, Rv. 27481607).
Inoltre, e con ancor più pertinenza al caso in esame, va rilevato che la condizione della specifica indicazione degli "altri atti del processo", con riferimento ai quali, l'art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità, può essere soddisfatta nei modi più diversi (quali, ad esempio, l'integrale riproduzione dell'atto nel testo del ricorso, l'allegazione in copia, l'individuazione precisa dell'atto nel fascicolo processuale di merito), purché detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di cassazione ad una lettura totale degli atti, dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma primo, lett. c), e 591 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, Sisti, Rv. 26099401).
Con riferimento alla valutazione data dalla Corte di appello alla esistenza di un sistema informatico dell'intero Gruppo il ricorrente lamenta che la deduzione trattane da quel giudice, di un intervento della capogruppo nella gestione della rete ferroviaria e nella gestione d Tre*** s.p.a., non sia assisa sulla indicazione della fonte di conoscenza. Il rilievo è infondato per un duplice aspetto. In primo luogo quella della Corte di appello può ben essere una deduzione logica, che quindi non presuppone un ulteriore elemento di prova rispetto a quelli già indicati e andrebbe considerata nella sua coerenza ai canoni della razionalità. In secondo e decisivo luogo, occorre rilevare che il mancato riferimento a dati probatori acquisiti non in ogni caso può costituire motivo di ricorso sotto il profilo della omessa motivazione. Se è vero che tale vizio è ravvisabile non solo quando manca completamente la parte motiva della sentenza, ma anche qualora non sia stato considerato un argomento fondamentale per la decisione espressamente sottoposto all'analisi del giudice, il concetto di mancanza di motivazione non può essere tanto esteso da includere ogni omissione concernente l'analisi di determinati elementi probatori. Invero, un elemento probatorio estrapolato dal contesto in cui esso si inserisce, non posto a raffronto con il complesso probatorio, può acquisire un significato molto superiore a quello che gli è attribuibile in una valutazione completa del quadro delle prove acquisite. Ritenere il vizio di motivazione per la omessa menzione di un tale elemento nella sentenza comporterebbe il rischio di annullamento di decisioni logiche, e ben correlate alla sostanza degli elementi istruttori disponibili. Per questo motivo la giurisprudenza di legittimità insegna che il difetto di motivazione, quale causa di nullità della sentenza, non può essere ravvisato sulla base di una critica frammentaria dei singoli punti di essa, costituendo la pronuncia un tutto coerente ed organico, per cui, ai fini del controllo critico sulla sussistenza di una valida motivazione, ogni punto di essa va posto in relazione agli altri, potendo la ragione di una determinata statuizione anche risultare da altri punti della sentenza ai quali sia stato fatto richiamo, sia pure implicito (Sez. 4, n. 4491 del 17/10/2012, dep. 2013, Pg in proc. Spezzacatena e altri, Rv. 255096; conforme Sez. 2, n. 38818 del 07/06/2019, Saraco, Rv. 27709101).
Ciò vale più in generale per tutti gli indici (oltre a quello appena menzionato, l'unico contratto di lavoro centralizzato, la provenienza da FS s.p.a. degli amministratori delle controllate) di una "concreta estrinsecazione di quella 'gestione unitaria' delle controllate" della quale fa parola la Corte di appello, per i quali il ricorrente opera una valutazione parcellizzata, tendente a porre in luce che la Corte distrettuale ha errato nel loro apprezzamento, poiché si tratta di evenienze caratteristiche del gruppo di imprese. Occorre solo ribadire che la prospettiva adottata dalla Corte di appello non la impegnava a dimostrare una gestione diretta delle controllate - come sottende il ricorrente - ma l'esistenza di una sfera di azione della capogruppo incidente sul settore della sicurezza ferroviaria.
Infondata è anche la censura che attinge la ricostruzione delle procedure per gli investimenti. Si attribuisce alla Corte di appello di aver erroneamente escluso che tali procedure mantenessero intatta l'autonomia giuridica e gestionale delle singole società del gruppo, e ciò per effetto di un (non meglio specificato) "grave travisamento circa i passaggi essenziali della procedura". Ben diversamente, la Corte di appello non ha mai affermato che quell'autonomia fosse mancante; tanto da scrivere, con precipuo riferimento al periodo in cui il Mo.[MA.] era AD di FS s.p.a., che "l'unica possibilità di scelta autonoma della controllata" - quindi esistente - "quando finalmente riceve ia 'proposta' approvata e validata dalla controllante, rimane quella di non realizzare il progetto stesso (...) esponendosi però a rilievi da parte della capogruppo atteso che quel progetto è stato ritenuto avere 'rilevanza di Gruppo"'. Ancora una volta il motivo non si indirizza alla esatta ratio decidendi e tende a dimostrare - con una inammissibile interlocuzione diretta con gli elementi di prova - una 'legittimità' del controllo operato dalla capogruppo che non è messa in discussione, essendone piuttosto tratte le implicazioni sul piano della titolarità di \ V una competenza per il rischio. Di ciò si mostra in definitiva avvertito lo stesso ricorrente, che infine fa riferimento al "concetto, spesso richiamato nel suo discorso" dalla Corte di appello, di "gestione dell'area di rischio", per sostenere che questo presupporrebbe una ingerenza non fisiologica della holding nel settore della sicurezza della circolazione. Una premessa teorica la cui infondatezza è stata in questa sede già esaminata. Espressa nel mentre si conviene che i poteri di direzione e di coordinamento avevano investito anche quel settore.
I rilievi che concernono la motivazione che attiene all'accentramento nella capogruppo delle funzioni di audit sono limitati alla estensione di tali funzioni anche al settore della sicurezza del lavoro. L'estraneità del rischio lavorativo alle fondamenta del giudizio imputativo priva di rilievo la censura. Ma, come si è già scritto, la circostanza ha una valenza indiretta, dando comunque dimostrazione di significative competenze gestorie facenti capo alla capogruppo. Sicché va osservato che la Corte di appello, laddove tratta del tema, non fa riferimento alla sicurezza del lavoro (citata solo nelle parole del teste Var.) ma alla sicurezza dell'esercizio ferroviario o della circolazione, così specificando il più generico riferimento alla 'sicurezza'. La titolarità di una competenza per il settore della sicurezza del lavoro è stata tratta dai compiti assegnati alla DCRUO (Direzione Centrale risorse umane e organizzazione). Anche questa censura è quindi infondata.
Per quanto concerne la critica che investe l'evocazione della diretta interlocuzione del MIT con la capogruppo, vale quanto si è già scritto a proposito della inammissibilità di una critica parcellizzata della motivazione.
28.14. A questo punto è possibile esaminare i motivi che investono il trattamento sanzionatorio.
Il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. C. concerne il diniego del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle concorrenti aggravanti di cui all'art. 589, co. 2 e 590 co. 2 cod. pen. Si tratta di motivo assorbito dal venire meno delle citate aggravanti. La Corte di appello in sede di rinvio dovrà provvedere alla riduzione della pena conseguente al riconoscimento delle attenuanti generiche, divenuto definitivo.
28.15. L'asserita violazione del divieto di reformatio in peius (ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. C.) è palesemente insussistente ed il motivo è manifestamente infondato. La Corte di appello ha aumentato la pena base per il reato di omicidio colposo plurimo, assumendo a termine di riferimento la pena edittale prevista per l'ipotesi non circostanziata, avendo riconosciuto le attenuanti generiche, poste in giudizio di equivalenza con la ritenuta aggravante prevenzionistica. Ciò è dipeso dall'estensione della responsabilità, ritenuta anche per le condotte commesse quale amministratore delegato della società capogruppo. Poiché overturning è stato determinato dall'impugnazione del pubblico ministero non vi è campo per alcuna ipotesi di illegittima reformatio in peius.
Sicché risulta che il perno dell'argomentazione del ricorrente è che la Corte di appello avrebbe dovuto determinare la pena base per il reato di omicidio colposo plurimo, aumentarla in ragione della ritenuta rilevanza della condotta quale amministratore delegato della capogruppo (cosa che, come appena scritto, ha fatto), quindi diminuire la pena per “effetto della concessione delle attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti". Senonchè il giudizio di equivalenza priva le circostanze eterogenee concorrenti della attitudine ad avere effetto sulla pena (art. 69, co. 3 cod. pen.). Del tutto correttamente, quindi, la Corte di appello ha provveduto ad apportare specifici ed evidenziati aumenti derivanti dal concorso di reati, senza motivare in ordine ad un’inesistente diminuzione derivante dalle attenuanti generiche.
In ogni caso il giudice del rinvio dovrà provvedere alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio, fermo quanto rimane definitivamente stabilito all'esito della presente decisione.
28.16. Il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. C., che lamenta la violazione dell'art. 133 cod. pen. ed il vizio della motivazione in relazione alla pena finale inflitta è esso pure assorbito, dovendosi provvedere a nuovo giudizio implicante la ridefinizione del trattamento sanzionatorio, salvo quanto resta definitivamente stabilito per effetto della presente pronuncia.
28.17. In conclusione nei confronti di MO.MA. la sentenza impugnata deve essere annullata, relativamente all'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen., che va eliminata, e relativamente ai profili di colpa consistenti nella mancata adozione di provvedimenti di riduzione della velocità dei convogli, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione. Al giudice del rinvio va anche demandata la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.

29. I motivi di ricorso concernenti le statuizioni civili
29.1. Le statuizioni adottate dalla Corte di appello in merito alle azioni civili introdotte nel presente giudizio sono state oggetto di censure da parte di G***x Rail Austria, G***x Rail Germania e Ju***l Waggon, quali responsabili civili (quarto e quinto motivo), di Mer*** Logistics (settimo motivo), di El.M.[M.] (undicesimo motivo), di R***I s.p.a. quale responsabile civile (sesto e settimo motivo), di FSI quale responsabile civile (quarto e quinto motivo), di Tre*** s.p.a. quale responsabile civile (i motivi saranno analiticamente indicati in prosieguo).
Tutti i menzionati ricorrenti hanno appuntato le proprie doglianze sul riconoscimento della legittimazione attiva ai soggetti operanti nel settore sindacale, a Medicina Democratica, a Cittadinanzattiva Onlus, al Comitato 'Associazione Mattia Valenti', ai Comune di Viareggio, alla Provincia di Lucca, alla Regione Toscana. Ulteriori censure sono state indirizzate ancora con riferimento al riconoscimento del risarcimento dei danni al Comune di Viareggio; mentre Tre*** s.p.a. ha investito con i propri rilievi critici un più esteso novero di statuizioni, contestando che fosse stata resa adeguata motivazione in ordine alla sussistenza di danni risarcibili ai menzionati enti morali e ad alcune tra le persone fisiche costituitesi parti civili.
In via di premessa, e con specifico riferimento al ricorso di Tre*** s.p.a., quale responsabile civile, va esplicitato che è inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino a lamentare l'omessa valutazione, da parte del giudice d'appello, delle censure articolate con il relativo atto di gravame, rinviando genericamente ad esse, senza indicarne specìficamente, sia pure in modo sommario, il contenuto, al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l'atto di ricorso essere autosufficiente, e cioè contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (Sez. 2, n. 9029 del 05/11/2013, dep. 2014, Mirra, Rv. 25896201). A tal fine non è sufficiente l'allegazione dell'atto di appello perché anche in tal modo si rimette al giudice di legittimità l'identificazione di tali ragioni ed elementi, da selezionare alla luce del contenuto della sentenza di secondo grado. Nel caso di specie la ricorrente ha più volte richiamato genericamente l'atto di appello, allegato al ricorso; tale richiamo deve essere considerato aspecifico; potranno essere esaminate unicamente le censure compiutamente formulate con il ricorso.
29.2. Appare preliminare il tema della legittimazione passiva di Tre*** s.p.a.
Ad esso inerisce in primo luogo una censura di carattere processuale. Con il secondo motivo Tre*** ha dedotti vizi (violazione di legge e vizio motivazionale) che attingerebbero la motivazione resa dalla Corte di appello in replica alla censura che imputava al Tribunale di non aver motivato in merito ai rilievi avanzati con la memoria depositata all'udienza del 23.11.2016; con essi si argomentava la non applicabilità dell'art. 2043, 2050 e 2051 c.c. a Tre*** e la tesi della mancanza di legittimazione passiva di questa. Premesso che l'omessa valutazione della memoria difensiva, secondo la giurisprudenza di legittimità (viene citata Cass. n. 13085/2013) determina nullità ex 178, lett. c) cod. proc. pen., la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere che i temi della memoria fossero stati decisi dal Tribunale con l'ordinanza emessa il 9 dicembre 2013 e che nel caso potesse registrarsi una motivazione implicita [configurandosi quindi la violazione degli artt. 125, co. 3 e 546, co. 1 lett. e) cod. proc. pen.] ed avrebbe sostenuto che il Tribunale ha fondato la responsabilità di Tre*** sull'art. 2049 c.c. laddove ciò non risponde al vero.
Il motivo è infondato. Va senz'altro escluso che l'omessa motivazione da parte del giudice di primo grado di una memoria difensiva possa determinare la nullità della sentenza. La quasi totalità delle pronunce di questa Corte formulano il principio secondo il quale l'omessa valutazione di una memoria difensiva non determina alcuna nullità, ma può influire sulla congruità e sulla correttezza logico¬giuridica della motivazione del provvedimento che definisce la fase o il grado nel cui ambito sono state espresse le ragioni difensive (Sez. 1, n. 26536 del 24/06/2020, Cilio, Rv. 27957801). Orientamento al quale anche questo Collegio ritiene di dover aderire in quanto fondato su persuasive considerazioni. Le nullità sono assoggettate al principio di tassatività e tale sanzione non è in alcun modo sancita dall'art. 121 cod. proc. pen. Il diverso indirizzo (cfr. Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013, dep. 2014, Amato, Rv. 259488; Sez. 1, n. 37531 del 07/10/2010, Pirozzi, Rv. 248551), secondo cui l'omessa valutazione di una memoria difensiva determina la nullità di ordine generale prevista dall'art. 178, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., in quanto impedisce all'imputato di intervenire concretamente nel processo ricostruttivo e valutativo effettuato dal giudice in ordine al fatto-reato, comportando la lesione dei diritti di intervento o assistenza difensiva dell'imputato stesso, non può essere condiviso perché sovrappone il piano della esplicazione del diritto di difesa con quello della sua incidenza sul giudizio.
La mancata valutazione di quanto rappresentato nella memoria difensiva può semmai dare corso ad un vizio della motivazione (cfr. Sez. 6, n. 18453 del 28/02/2012, Cataldo, RV. 252713); il che implica che la parte che deduca l'omessa valutazione ha l'onere di indicare in fase di impugnazione quale argomento decisivo per la ricostruzione del fatto le memorie contenevano e cioè evidenziare il nesso tra il memoriale e il preteso vizio, altrimenti peccando di genericità il motivo di gravame proposto sul punto. In tal senso depone anche la circostanza che la stessa mancanza assoluta della motivazione della sentenza non rientra tra i casi, tassativamente previsti dall'art. 604 cod. proc. pen., per i quali il giudice di appello deve dichiarare la nullità della sentenza appellata e trasmettere gli atti al giudice di primo grado, ben potendo lo stesso provvedere, in forza dei poteri di piena cognizione e valutazione del fatto, a redigere, anche integralmente, la motivazione mancante (Sez. 6, N. 58094 del 30/11/2017, Rv. 271735 - 01).
Pertanto, anche quando fosse realmente omessa la motivazione del Tribunale la Corte di appello non avrebbe dovuto dichiarare una qualche nullità della sentenza di primo grado.
Quanto al merito della questione posta da Tre*** s.p.a., sono manifestamente infondati i rilievi proposti dalla ricorrente a riguardo della motivazione che ne afferma la legittimazione passiva rispetto all'azione civile esercitata per il risarcimento dei danni conseguenti ai reati di cui è processo.
Lo stesso esponente rammenta che la responsabilità dell'ente per il fatto del suo amministratore è esclusa solo quando questi ha agito con abuso dei poteri conferitigli e nel suo esclusivo interesse. Nel caso di specie tanto il Tribunale che la Corte di appello hanno descritto le condotte tenute dal So.[VI.], dal Ca.[MA.] (e dal Ma.[EM.]) come espressione di scelte di politica di impresa. In effetti, la responsabilità della società per il fatto del suo amministratore, in forza dell'art. 2049 c.c., è pacificamente riconosciuta. Nella pronuncia Sez. 6, n. 24548 del 22/05/2013, Pc, Gilardoni e altri, Rv. 25681601, evocata anche dalla ricorrente, si è esclusa la responsabilità civile della società per i danni da reato commessi dai soci, o dagli amministratori nell’interesse proprio, non potendo essa trovare fondamento nell’art. 2049 cod. civ., non già in quanto non sussiste alcun rapporto di subordinazione tra società e amministratori (la massima, richiamata dalla ricorrente, non appare coerente alla motivazione) bensì perché tale disposizione presuppone che gli atti illeciti siano, o si manifestino, come esplicazione dell’attività dell’ente. Nel caso di specie si trattava di responsabilità civile della società ritenuta per atti di appropriazione commessi dagli amministratori nel loro interesse ed in danno della società medesima.
Palesemente infondata è l'asserzione di una carenza del rapporto tra amministratore ed ente che assume rilievo ai fini dell'art. 2049 c.c.. In primo luogo va rilevato che la prospettazione della necessità di un rapporto di preposizione, funzionale a dimostrare che questo manca nel caso dell'amministratore, è manifestamente infondata. La giurisprudenza civile insegna che ai fini della responsabilità di cui all'art. 2049 c.c. non è necessaria l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e il carattere di continuità dell’incarico affidato all’agente, essendo sufficiente che detta attività sia stata agevolata o resa possibile dal suo inserimento nell’attività d’impresa e sia stata realizzata nell'ambito e coerentemente alle finalità in vista delle quali l'incarico è stato conferito, in maniera tale da far apparire al terzo in buona fede che l'attività posta in essere per la consumazione dell'illecito rientrasse nell'incarico affidato (nella specie si trattava del fatto del promotore finanziario e della banca mandante) (Sez. 1 civ., n. 17393 del 24/07/2009, Rv. 60966201).
In secondo luogo, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che "la responsabilità degli amministratori della persona giuridica verso i terzi è qualificata dal rapporto di immedesimazione organica con l'ente, che, mentre per un verso consente di ritenere l'ente direttamente responsabile verso i terzi, estranei o meno alla sua organizzazione, per i fatti compiuti dagli amministratori nell'ambito del rapporto organico, per altro verso profila la responsabilità diretta degli amministratori, sì da porre in essere un cumulo di responsabilità per il medesimo fatto" (Sez. L, n. 6125 del 25/06/1994, Rv. 48720401, in motivazione). Principio che risulta ribadito dalla giurisprudenza successiva, citata dalla ricorrente per dimostrare che non viene riconosciuta la relazione di preposizione, la quale esplicitamente sostiene l'esistenza del rapporto di immedesimazione organica tra la società e il suo amministratore, fermo restando che la prestazione di questi non è riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato bensì ad un contratto d'opera.
Che poi dal predetto rapporto di immedesimazione organica discenda, per effetto del testo dell'art. 185 cod. pen., un ostacolo a che Tre*** assuma la veste di responsabile civile nel presente processo penale è anch'esso assunto manifestamente infondato. L'art. 185 cod. pen. obbliga al risarcimento del danno derivante da reato il colpevole e colui che deve rispondere, in forza delle leggi civili, per il fatto altrui. Sicché ove sussistano i presupposti dell'art. 2049 c.c. è palese che l'ente viene chiamato a rispondere per il fatto altrui e non per il fatto proprio. Il precedente vocato dalla ricorrente (Sez. 6, n. 41520 del 27/09/2012, R.c. e Zaccagnini, Rv. 253810) riguarda un caso nel quale colpevole del reato era stato un commissario liquidatore e la Corte di cassazione ha escluso che questi fosse in rapporto di immedesimazione organica con il Ministero dell'Economia; perciò quest'ultimo è stato ritenuto non responsabile ai sensi dell'art. 2049 c.c. e pertanto, essendo stata evocata una culpa in vigilando, siccome in ipotesi responsabile ex art. 2043 c.c. dei danni patiti dai terzi, incompatibile con lo status di responsabile civile nel processo penale a carico del reo.
Ben diversa la situazione nel caso che occupa, nella quale Tre*** è stata giudicata responsabile esclusivamente per il fatto altrui ai sensi dell'art. 2049 c.c.
Del pari manifestamente infondato è l'assunto che dal rapporto di immedesimazione organica discende che quella dell'ente per il fatto dell'amministratore è una responsabilità diretta. Oltre quanto si è già osservato basta considerare che la pronuncia sulla quale la ricorrente ha inteso fare leva (Sez. 1 civ., n. 20771 del 26/10/2004, Rv. 57783901) attiene alla riferibilità alla società del contratto stipulato dal suo amministratore e pone l'immedesimazione organica a base del fenomeno di imputazione del contratto stipulato dall'amministratore alla società, senza alcun riferimento al diverso piano delle responsabilità extracontrattuali.
Per ciò che concerne la responsabilità civile discendente dal fatto dei dirigenti ex art. 2049 c.c., viene assunto che essa è esclusa dall'adozione ed efficace attuazione di un modello di organizzazione idoneo a prevenire reati della specie di quelli commesso. Anche questa prospettazione è priva di ogni fondamento in diritto. La giurisprudenza civile insegna che la responsabilità di cui all'art. 2049 c.c. ha base meramente oggettiva. Si è statuito, ad esempio, che la società di intermediazione mobiliare risponde a titolo oggettivo dei danni causati ai risparmiatori dai propri preposti, sulla base dell'esistenza del solo nesso di occasionalità necessaria tra l'attività del promotore finanziario e l'illecito, a prescindere da qualsiasi indagine sullo stato soggettivo di dolo o colpa della preponente (Sez. 3 civ., n. 12448 del 19/07/2012, Rv. 62335401). Ed ulteriormente, che nel giudizio sulla responsabilità di una compagnia di assicurazioni, ex art. 2049 c.c., per il fatto illecito del suo agente, che abbia venduto un prodotto assicurativo "fantasma" impossessandosi del denaro versato dal risparmiatore per l'acquisto, il giudice di merito, accertata la responsabilità dell'agente, è tenuto a verificare la sussistenza di un nesso di occasionalità necessaria tra l'attività di questi e la commissione dell'illecito, ravvisabile ove sia stata agevolata o resa possibile dalle incombenze affidate all'agente, mentre non è necessario che il danneggiato provi il dolo o la colpa della società assicuratrice, ovvero di aver verificato la reale esistenza e la riconducibilità alla stessa del prodotto venduto (Sez. 3 civ., n. 18860 del 24/09/2015, Rv. 63704101). I pretesi vizi motivazionali al riguardo segnalati dalla ricorrente sono non solo insussistenti (la Corte di appello ha replicato che i modelli previsti dal decreto 231/2001 non rilevano ai fini dell'applicazione dell'art. 2049 c.c.) ma prima ancora irrilevanti, essendo questione di diritto correttamente risolta.
29.3. Con il quinto motivo Fe***I*** s.p.a. ha sostenuto che ai fini della condanna al risarcimento dei danni in sede di appello, ove venga riformata la sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado, è necessario che la parte civile abbia proposto il gravame. L'assunto viene proposto richiamando il principio secondo il quale alla parte civile costituita non può riconoscersi il risarcimento del danno se, assolto l'imputato nel giudizio di primo grado, vi sia condanna dello stesso su appello del solo pubblico ministero. Ciò in quanto la parte lesa, una volta costituitasi parte civile, può liberamente decidere di insistere, nei gradi successivi del processo penale, nell'attivata azione per le restituzioni e/o il risarcimento del danno, nonostante l'assoluzione dell'imputato e il ritenuto accertamento (da parte del giudice del processo in una fase suscettibile di impugnazione) dell'insussistenza del fatto o della non commissione di esso da parte del chiamato in giudizio, ovvero di altra evenienza esonerante da responsabilità o implicante l'improcedibilità (e ciò quantunque il pubblico ministero abbia optato per l'accettazione.della decisione); oppure scegliere di non coltivare l'azione stessa, anche quando il pubblico ministero attivi l'impugnazione nell'interesse dello Stato, con la conseguenza di far formare il giudicato in ordine al relativo rapporto, con effetti sia sostanziali, sia processuali (S.U., n. 5 del 25/11/1998, dep. 1999, Loparco, Rv. 21257501).
Orbene, il risalente principio è stato superato dalla successiva giurisprudenza di legittimità che è in assoluta prevalenza schierata per l'interpretazione che vuole il giudice di appello tenuto a provvedere anche sulla domanda della parte civile non impugnante la pronuncia di assoluzione dell'imputato, riformata in condanna su gravame del solo pubblico ministero (Sez. 3, n. 15902 del 03/03/2016, T., Rv. 26663701; Sez. 5, n. 20343 del 29/01/2015, Trotta, Rv. 26407601; Sez. 5, n. 12190 del 13/01/2015, Rebella e altri, Rv. 26345701; Sez. 2, n. 20652 del 14/02/2014, Pc in proc. Cillo e altro, Rv. 26181801; Sez. 5, n. 16961 del 12/02/2010, Lazzeretti, Rv. 24687601).
È stato osservato nella pronuncia n. 15902/2016 che già la sentenza delle Sezioni Unite n. 30327 del 10/07/2002, Guadalupi, Rv. 222001 aveva modificato l'orientamento enunciato dalle Sezioni Unite Loparco, ponendo in evidenza, sulla base di specifiche disposizioni del codice (segnatamente gli artt. 576, 574, comma 4, e 587, comma 3 cod. proc. pen.) significative dello stretto collegamento tra azione penale e azione civile nei gradi di impugnazione, un sistema in cui la decisione nel giudizio di impugnazione sulla responsabilità penale si riflette sulla decisione relativa alla responsabilità civile automaticamente, ovvero anche in mancanza di impugnazione del capo concernente l'azione civile, che nei casi appena indicati forma oggetto di una devoluzione di diritto. Le più recenti Sezioni Unite hanno poi confutato il diverso percorso argomentativo della pronuncia Loparco rammentando come, nel caso di proscioglimento, la sentenza non contenga alcun capo relativo all'azione civile (come desumibile sia dall'art. 538, comma 1, che dall'art. 576, comma 1 cod. proc. pen.) e ponendo in rilievo il significativo aspetto della non conformità rispetto al sistema della formazione di un giudicato sull'azione civile che avvenga sulla base della sentenza di proscioglimento impugnata dal P.M. e non anche dalla parte civile. Ove si formasse agli effetti civili un giudicato rispetto ad un'assoluzione per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, il diritto al risarcimento dovrebbe considerarsi definitivamente escluso, senza considerare però, in contrasto con ciò, che se in seguito all'impugnazione del P.M. l'imputato venisse condannato, la sentenza, a norma dell'art. 651 c.p.p., avrebbe invece efficacia di giudicato e quindi ben potrebbe essere posta a base di una domanda di risarcimento del danno. La sentenza Guadalupi è quindi pervenuta alla conclusione che poiché "la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo" (art. 76, comma 2, cod. proc. pen.), il giudice di appello è tenuto a citare la parte civile (art. 601, comma 4 cod. proc. pen.) e, ove l'appello è stato proposto dal P.M. contro una sentenza di proscioglimento, il giudice di appello può pronunciare condanna "e adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge" (art. 597, comma 2 lett. a e b, cod. proc. pen.), "quando pronuncia sentenza di condanna", il giudice di appello deve decidere "sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno", anche se la parte civile non abbia proposto impugnazione. Si tratta di una ricostruzione che trova questo Collegio del tutto consenziente.
Ne deriva la non fondatezza dell'assunto di contrario tenore della ricorrente Fe***I*** s.p.a.
29.4. I ricorrenti sopra indicati denunciano la mancanza di legittimazione attiva di alcuni dei soggetti ammessi come parti civili, dalla quale sarebbe dovuta conseguire la declaratoria di inammissibilità della costituzione in giudizio.
Per una più snella trattazione è bene rammentare che con la locuzione 'legittimazione attiva' nel contesto dell'azione civile introdotta nel giudizio penale si indica la cd. legittimatio ad causam attiva, ovvero l'astratta titolarità della posizione soggettiva cui la legge riconnette il diritto al risarcimento del danno e alle restituzioni e che pertanto può esercitare l’azione. Diversa è, invece, la titolarità effettiva di tale diritto. Per la ammissibilità della costituzione di parte civile è sufficiente che l'interessato prospetti di essere titolare della posizione soggettiva presupposta dalla domanda, sicché il giudice non deve fare altro che verificare se viene rappresentata una condizione soggettiva dalla quale consegue in astratto la titolarità del diritto. Per il riconoscimento dei danni è invece necessario che quella titolarità sia realmente posseduta e che sia stata data dimostrazione del pregiudizio subito in conseguenza del reato. Si è, in concomitanza con tale accertamento, nel merito della controversia sul rapporto obbligatorio.
Nel presente giudizio sono state avanzate censure che mirano a dimostrare sia che la costituzione di talune parti civili non poteva essere ammessa, sia che non è risarcibile il danno da reato; e la non risarcibilità deriverebbe sia dalla mancanza di titolarità effettiva, sia dal fatto che non sarebbe stata dimostrata l'esistenza di un danno da reato.
Il primo rilievo, che chiama in causa da un canto gli enti morali e dall'altro quelle parti civili non legate da rapporti di parentela alle persone offese dal cui decesso esse assumono di aver ricavato un danno, è manifestamente infondato per tutti gli enti salvo che per quelli di natura sindacale.
Riguardo a queste ultime la legittimatio ad causam va verificata in rapporto ai vari reati per come risultano accertati nel processo. Si è scritti diffusamente in merito al fatto che le morte e le lesioni, nonché lo stesso disastro ferroviario, non trovano causa nella violazione di norme in materia di prevenzione degli infortuni bensì in regole cautelari positivizzate e non che attengono alla gestione del rischio connesso alla circolazione ferroviaria.
Orbene, si è già esaminata la censura con riferimento ai casi nei quali l'inesistenza della legittimazione all'azione è indefettibile conseguenza di quanto qui ritenuto in merito alla insussistenza dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen., disponendo l'annullamento senza rinvio delle relative statuizioni civili
29.5. Per quanto attiene alla associazione 'Comitato Matteo Valenti' i ricorsi colgono reali vizi della decisione.
La Corte di appello ha correttamente rammentato il principio formulato dalla giurisprudenza di legittimità per il quale i comitati privi di personalità giuridica e le associazioni non riconosciute sono autonomi centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, sicché in caso di incorporazione del primo nella seconda, l'associazione è legittimata all'azione civile per il risarcimento del danno subito dal comitato (Sez. 5, n. 39228 del 17/07/2008, Pc e Graviano, Rv. 24193801). Si è precisato, da parte della Corte di cassazione civile, che l'incorporazione di un comitato o di un'associazione non riconosciuti in un'associazione o in un comitato riconosciuti, lungi dal creare una situazione di liquidazione dei primi, crea, invece un'ipotesi di successione a questi del nuovo Comitato o dell'associazione, in cui sono stati incorporati; pertanto in questo caso nei rapporti giuridici del comitato o dell'associazione incorporati subentra il Comitato incorporante, mentre il Comitato o l'associazione inglobati si estinguono (Sez. 3 civ., n. 6985 del 30/1/2003, n.m.; Sez. L, n. 21880 del 09/10/2020, Rv. 65925801).
Nel caso che occupa la Corte di appello ha dato conto del fatto che il Comitato Matteo Valenti era nato il 20.12.2005 e che il 29.2.2012 era stata costituita l'Associazione 'Comitato Matteo Valenti'. In nessun passo la Corte di appello ha affermato che l'associazione aveva incorporato il preesistente Comitato; chiaramente ha sostenuto che la prima ha assunto le finalità che erano state del secondo. Ha aggiunto, la Corte distrettuale, che l'associazione venne costituita richiamando esplicitamente l'atto di nascita del Comitato e il fatto che dodici persone elencate nell'atto costitutivo di questo si erano poi fatte promotrici, con altri, della costituzione dell'associazione.
In nessun modo tanto vale a rappresentare l'avvenuto accertamento di una fusione o di una incorporazione. Né colma la lacuna l'evocazione di un precedente nel quale si menziona genericamente 'l'evoluzione del comitato in un ente munito di personalità giuridica', e che peraltro pone quale presupposto della conservazione e trasmissione dei rapporti giuridici posti in capo ai componenti del comitato il mantenimento, oltre che dello scopo, anche dei beni inerenti alla realizzazione di quello (Sez. 1 civ., n. 4902 del 12/11/1977, Rv. 38850301).
Sulla scorta dei dati di fatto esposti dalla Corte di appello l'annullamento delle statuizioni civili deve essere senza rinvio.
29.6. Fondati sono anche i motivi che investono la legittimazione dell'Associazione Dopolavoro Ferroviario di Viareggio e di Medicina Democratica Onlus.
In merito alla prima, va rilevato che la Corte di appello ha radicato la legittimazione attiva dell'associazione, quanto al danno non patrimoniale, sulla finalità di tutela della salute dei lavoratori appartenenti al settore ferroviario, espressa nello statuto. Tanto implica, per le ragioni già esposte, l'esclusione di tale legittimazione.
Dalla sentenza impugnata sembrerebbe tuttavia emergere una ulteriore ragione di legittimazione dell'ente (che motiva la presente ulteriore trattazione). La Corte di appello ha affermato che l'associazione aveva subito una limitazione della ripresa dell'attività "per l'allontanarsi di molti soci anche a causa dell'alterazione dello stato dei luoghi provocata dal sinistro". Si tratta di un'affermazione del tutto carente nella prospettiva della dimostrazione della titolarità di una pretesa avente ad oggetto il danno non patrimoniale. Giova rammentare che secondo l'insegnamento della Corte di cassazione, sezioni civili, in materia di responsabilità civile, anche nei confronti delle persone giuridiche ed in genere degli enti collettivi è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, da identificare con qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione - compatibile con l'assenza di fisicità del titolare - di diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all'immagine, il cui pregiudizio, non costituendo un mero danno-evento, e cioè "in re ipsa", deve essere oggetto di allegazione e di prova, anche tramite presunzioni semplici (Sez. 3 civ., n. 20643 del 13/10/2016, Rv. 64292302). La motivazione resa dalla Corte di appello è carente perché non esplicita la lesione di quale diritto sarebbe dimostrata dall'allontanamento di molti soci ed è altresì contraddittoria perché richiama una causale che nega la compromissione del diritto immateriale della personalità e appare maggiormente inerente al danno patrimoniale.
Per tale aspetto la sentenza deve essere annullata, con rinvio alla Corte di appello per nuovo giudizio sul punto della legittimazione dell'ente morale in parola per il risarcimento dei danni non patrimoniali.
Per ciò che concerne la statuizione relativa a Medicina Democratica Onlus, occorre considerare che, da un canto, è ammissibile la costituzione di parte civile di un’associazione anche non riconosciuta che avanzi, "iure proprio", la pretesa risarcitoria, assumendo di aver subito per effetto del reato un danno, patrimoniale o non patrimoniale, consistente nell'offesa all'interesse perseguito dal sodalizio e posto nello statuto quale ragione istituzionale della propria esistenza ed azione, con la conseguenza che ogni attentato a tale interesse si configura come lesione di un diritto soggettivo inerente la personalità o identità dell'ente (S.U., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 26111001); dall'altro, come precisato dalle medesime SU, che va osservato "un principio regolatore che, ferme le linee di fondo dello sviluppo della giurisprudenza, eviti esiti inappropriati, come l'indiscriminata estensione della legittimazione tutte quante volte un qualunque organismo rivendichi di essere custode dell'interesse leso dal reato". Di qui la necessità di far riferimento ad una situazione storica determinata; al ruolo concretamente svolto dall'organismo che si costituisce nel giudizio. Su tali premesse in quel procedimento è stata ritenuta incensurabile l'ammissione della costituzione di parte civile di Medicina Democratica Onlus, avendo questa svolto la propria attività statutaria anche all'interno dell'azienda nella quale si erano verificati i gravi sinistri di cui al processo.
Nel caso che occupa va rilevato che per la Corte di appello "lo scopo rilevante perseguito dall'associazione, che legittima la sua costituzione, è anche quello della salute della popolazione gravemente messa in pericolo dalla violazione di norme anche antinfortunistiche L'affermazione appare inidonea a chiarire se l'associazione in parola abbia inteso rappresentarsi come custode dell'interesse alla salute e alla sicurezza dei lavoratori o piuttosto alla salute della popolazione, ritenuta esposta a pericolo ed anzi compromessa dalla violazione di norme, (solo) alcune delle quali prevenzionistiche. È palese la diversità delle conseguenze a seconda che si versi nell'una o nell'altra ipotesi; in un caso la legittimazione attiva resta esclusa dalla circostanza che i reati non sono derivati dalla violazione di norme prevenzionistiche, nell'altro sussiste, trovando un diverso fondamento.
Per tal motivo le statuizioni concernenti la domanda azionata da Medicina Democratica Onlus deve essere annullata con rinvio, affinché il giudice di merito esplichi senza incertezze quale sia l'interesse fatto valere con la domanda di costituzione di parte civile.
In vista del giudizio di rinvio appare opportuno rimarcare che costituisce errore di diritto ritenere che sussista quella capacità di rappresentare, in un contesto ben determinato, gli interessi per la cui tutela si intende esercitare, nel processo penale, l'azione civile richiesta dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 4562 del 5.10.2017, dep. 2018, n. m.) in forza della circostanza che "l'evento ha messo in luce una carenza di sicurezza riguardante l'intero territorio nazionale e coinvolgente l'intera popolazione'', come scritto dalla Corte di appello. L'ente deve avere un collegamento con il contesto entro il quale si è verificato il reato e non con una qualche ulteriore situazione a questo connessa. A mantenere ferma la interpretazione della Corte di appello si giungerebbe ad esiti paradossali del tutto evidenti.
29.7. Vanno invece rigettati i restanti motivi che denunciano la mancanza di legittimazione attiva del Comune di Viareggio, della Provincia di Lucca nonché della Regione Toscana.
Secondo la previsione dell'art. 91 cod. proc, pen., agli enti e alle associazioni senza scopo di lucro ai quali, anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede, sono state riconosciute, in forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi dal reato, è attribuito il diritto di esercitare, in ogni stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato. Ma la giurisprudenza di legittimità ammette da tempo che tali enti (e tra loro anche quelli territoriali) possano subire un danno iure proprio e siano pertanto legittimati ad esercitare l'azione per il suo risarcimento. Anche nei confronti della persona giuridica ed in genere dell’ente collettivo si ritiene configurabile la risarcibilìtà del danno non patrimoniale; accade quando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell'ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, come il diritto all'immagine, alla reputazione, al nome, all'identità. Questa Corte ha statuito che la legittimazione alla costituzione di parte civile dell'ente territoriale che invoca un danno alla propria immagine è ammissibile anche in riferimento ad un reato commesso da privati in danno di privati (nella specie lesioni personali aggravate e minaccia), fermo restando che il riconoscimento del diritto al ristoro risarcitorio è comunque subordinato alla dimostrazione da parte dell'ente, secondo le ordinarie regole civilistiche, dell'effettiva esistenza di un danno patrimoniale o non patrimoniale, subito in concreto, derivante dall'illecito contestato (Sez. 5, n. 1819 del 27/10/2016, dep. 2017, Montefameglio, Rv. 26912401; Sez. 2, n. 13244 del 07/03/2014, Lazzaro e altri, Rv. 25956001). In altro caso - si trattava di reati sessuali - si è precisato che il Comune nel cui territorio il reato è stato commesso è legittimato a costituirsi parte civile onde ottenere il risarcimento dei danni morali e materiali derivati dall'offesa, diretta ed immediata, dello scopo statutario. Nella specie è stata ritenuta legittima la costituzione del Comune di Torino in quanto finanziatore e diretto erogatore di servizi specìficamente rivolti alle vittime di violenza sessuale, e statutariamente e concretamente impegnato contro la violenza alle donne (Sez. 3, n. 45963 del 27/06/2017, A. e altri, Rv. 27179601).
Anche rispetto al delitto contro l'incolumità pubblica si è esplicitamente espressa la giurisprudenza civile, affermando che non vi è dubbio che un disastro costituente fatto reato di enorme gravità, per il numero delle vittime e per le devastazioni ambientali dei centri storici determini, come fatto - evento, la lesione del diritto costituzionale dell'ente territoriale esponenziale (il Comune) alla sua identità storica, culturale, politica, economica costituzionalmente protetta. Da ciò consegue che è insita la lesione della posizione soggettiva e che l'ente ha legittimazione piena e titolo ad esigere il risarcimento del danno morale (Sez. 3 civ., n. 3807 del 15/04/1998, Rv. 51449901).
29.8. Anche il motivo di Tre*** concernente la motivazione e la statuizione relativa a B.I. è manifestamente infondato. Si lamenta il travisamento della testimonianza di F.S.. Al di là dell'enunciazione, però, quel che si contesta è la valutazione del dichiarato: si propone dell'espressione "rapporto di conoscenza e di frequentazione" un'interpretazione alternativa a quella assunta dalla Corte di appello. Si lamenta la violazione di legge ma la Corte di appello si è attenuta ai principi posti dalla giurisprudenza di legittimità e anche in questa sede rammentati, in specie con riferimento al necessario ricorrere dell’affectio familiaris, che i giudici distrettuali hanno affermato senza alcuna manifesta illogicità sulla base del rapporto di affinità corrente tra la B. e il defunto cognato A.F..
29.9. Quanto alla asserita limitazione della legittimazione attiva ai soli danni patrimoniali (perché unicamente ad essi si farebbe cenno nelle costituzioni di parte civile) e al preteso connesso difetto di motivazione rispetto al motivo che lamentava il riconoscimento anche dei danni non patrimoniali, si tratta di censura infondata. L'orientamento del tutto consolidato di questa Corte insegna che in tema di costituzione di parte civile, l'impegno argomentativo necessario a giustificare l'esercizio dell'azione civile nel processo penale dipende dalla natura delle imputazioni e dal rapporto tra i fatti lamentati e la pretesa azionata; ne consegue che quando tale rapporto sia immediato, ad integrare il requisito previsto dall'art. 78, comma primo, lett. d) cod. proc. pen. è sufficiente il mero richiamo al capo di imputazione descrittivo del fatto (Sez. 5, n. 544 del 13/12/2006, dep. 2007, Bianco e altri, Rv. 23577701; Sez. 2, n. 23940 del 15/07/2020, Rosati, Rv. 27949001, la quale specifica che tanto vale quando il nesso tra il reato contestato e la pretesa risarcitoria azionata risulti con immediatezza).
Quanto alla indicazione del petitum si sostiene che l'esposizione delle ragioni che giustificano la domanda concerne unicamente la "causa petendi", vale a dire il nesso tra le conseguenze pregiudizievoli per la parte offesa ed il reato, mentre il "petitum" è di per sé insito nella costituzione stessa (Sez. 2, n. 43405 del 23/10/2003, Anseimo, Rv. 22765401). D'altronde, non appare coerente pretendere, peraltro in assenza di previsione normativa, che con la costituzione si debba specificare per quale danno si intende ottenere il risarcimento quando la giurisprudenza esclude che se nelle conclusioni scritte delle parti civili non è determinato l'ammontare dei danni dei quali si chiede il risarcimento ricorra una qualche nullità o il giudice sia impedito di pronunciare condanna generica al risarcimento (Sez. 6, n. 7128 del 22/12/2015, dep. 2016, Biffi, Rv. 26653701). Invero, l'esercizio dell'azione civile ha come unica condizione essenziale la richiesta di risarcimento, la cui entità può essere precisata in altra sede dalla stessa parte o rimessa alla prudente valutazione del giudice.
29.10. Un secondo ordine di rilievi attiene alla effettiva titolarità della posizione soggettiva alla quale la legge riconduce il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale.
Risultano fondati quelli che concernono le parti civili P.A., N.W.L.E. e S.C.. Esse si sono costituite rappresentando legami affettivi con talune tra le persone decedute nel sinistro (si dirà più specificamente nel prosieguo), pur in assenza di rapporti di parentela.
In via di principio va rammentato che viene ammessa la costituzione di parte civile nel processo penale di un soggetto non legato da rapporti di stretta parentela e non convivente con la vittima del reato, al fine di ottenere il risarcimento dei danni morali; ciò in quanto ad assumere rilevanza è la definitiva perdita di un rapporto di 'affectio familiaris', la quale può comportare l'incisione dell'interesse all'integrità morale, ricollegabile all'art. 2 Cost., sub specie di intangibilità della sfera degli affetti, la cui lesione comporta la riparazione ex art. 2059 cod. civ.; peraltro, in tal caso è escluso il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali (Sez. 4, n. 20231 del 03/04/2012, Piazze, Rv. 25268301).
In diretta connessione si è affermato che il diritto al risarcimento dei danni morali in caso di morte prescinde dalla valutazione dei rapporti di convivenza, fondandosi sulla definitiva perdita di un legame di 'affectio familiaris' da cui deriva l'incisione dell'interesse all'integrità morale, ricollegabile all'art. 2 Cost, ed al diritto all'intangibilità della sfera degli affetti. Tanto conduce a privare di rilevanza la frequenza dei tempi nei quali si è coltivata la relazione familiare affettiva e ad attribuire decisività unicamente alla perdita di tale relazione, intesa come "punto di contatto emotivo e sentimentale", senza che essa debba essere stata supportata da frequentazioni o da condivisione, anche sporadica, di momenti di vita (Sez. 5, n. 18048 del 01/02/2018, S., Rv. 27374601).
Risulta quindi non pertinente il richiamo operato dalla ricorrente Tre*** s.pa. ad una giurisprudenza civile che ammette la risarcibilità del danno non patrimoniale solo se costituito dalla perdita di una persona appartenente alla stessa famiglia nucleare dell'attore.
Tuttavia la relazione familiare deve essere pur sempre dimostrata; ed essa deve essere esistita tra il preteso danneggiato e la persona la cui perdita si è patita.
Quanto a Stefania Ca.[MA.], questi si è costituito parte civile lamentando il danno non patrimoniale derivatogli dalla morte di S.M.. Onde dare dimostrazione della affectio familiaris tra lo St. e quest'ultima la Corte di appello ha richiamato delle dichiarazioni nelle quali risulta evidenziato un rapporto di frequentazione tra nuclei familiari, senza alcuna specificazione coinvolgente S.M.. Solo in un passo delle dichiarazioni dei fratelli M. si legge "E hanno aiutato spesso anche mia sorella quando magari non potevo io o mia madre". Dove alla puntualizzazione che attiene a S.M. corrisponde la generica allusione a un 'loro' che non è spiegato a chi corrisponda e perché comprenda anche lo St.. Del pari, alla luce del chiaro coinvolgimento di interi nuclei familiari, non è univoca l'indicazione di chi avesse trascorso insieme le feste, talvolta le vacanze, ed avesse tenuto reciprocamente a battesimo i figli. Proprio per la evidenziata relazione intrattenuta con componenti della famiglia della M. non può assumere rilievo dirimente neppure che la notte del sinistro e poi nei giorni successivi lo St. accompagnò il fratello della vittima alla ricerca dei congiunti rimasti coinvolti nel disastro. In conclusione, proprio la descrizione di forti relazioni tra nuclei familiari avrebbe richiesto l'evidenziazione di circostanze che permettessero di specificare l'esistenza di quella affectio proprio tra lo St. e S.M..
Quanto a P.A. e N.W.L.E., colgono il segno i rilievi dei ricorrenti che lamentano la sostanziale assenza di riferimenti, nella motivazione impugnata, a circostanze dimostrative di quella affectio familiaris essenziale premessa del diritto al risarcimento. La Corte di appello non ha descritto alcuna circostanza che desse conto dell'innestarsi di una simile relazione sul rapporto contrattuale che legava i predetti alle affittuarie che erano decedute nel sinistro. Tale non può essere uno stato d'animo che viene descritto come indotto genericamente dalla visione della catastrofe (P.) o la solitaria circostanza dell'aver ricercato le inquiline, si immagina la notte del disastro (N.).
In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente alle statuizioni civili concernenti St. Ca.[MA.], P.A. e N.W.L.E.; tali statuizioni vanno eliminate.
29.11. I restanti motivi, che attengono alla prova dei danni, sono infondati.
È rilevante evidenziare che il Tribunale ha pronunciato unicamente condanne al risarcimento dei danni (cd. condanna generica), demandando al giudice civile la quantificazione degli stessi. Inoltre, laddove ha ritenuto non provato l'intero danno risarcibile ma solo una sua parte, ha commisurato ad essa la provvisionale riconosciuta; in altri casi ha ritenuto totalmente carente la prova sull'entità dei danni subiti (ma non l’an debeatur) e rinviando al giudice civile per la liquidazione, non ha riconosciuto una provvisionale.
La ricorrente Tre*** censura la motivazione con la quale la Corte di appello ha respinto i motivi con i quali si era lamentata, con riferimento alla prima decisione, la mancanza di motivazione sull'an debeatur. In sostanza, attraverso una analitica ricognizione dei pertinenti passaggi motivazionali, si vuol dimostrare che la condanna generica è stata pronunciata nonostante la mancata prova dell'esistenza di danni.
La censura è tuttavia manifestamente infondata. Con insegnamento risalente questa Corte afferma che, ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni, non è necessaria la prova della concreta esistenza di danni risarcibili, essendo sufficiente l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza di un nesso di causalità tra questo e il pregiudizio lamentato, desumibile anche presuntivamente (Sez. 6, n. 28216 del 25/09/2020, lonata, Rv. 27962501). Si tratta di un orientamento del tutto consolidato, che ha avuto modo di affinarsi anche in alcuni specifici aspetti. Così si è affermato che, in tema di esercizio dell'azione civile nel processo penale, la parte civile può limitarsi ad allegare genericamente di aver subito un danno dal reato, senza incorrere in alcuna nullità, in quanto il giudice ha sempre la possibilità di pronunciare condanna generica, là dove ritenga che le prove acquisite non consentano la liquidazione del danno con conseguenti effetti sull'onere di allegazione e prova spettante alla parte civile (Sez. 4, n. 6380 del 20/01/2017, Regispani, Rv. 26913201); ed anche che la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l'accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione e l'entità del danno, ivi compresa la possibilità di escludere l'esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all'evento illecito (Sez. 3, n. 36350 del 23/03/2015, Ber. e altri, Rv. 26563701). In definitiva, la condanna generica costituisce una mera "declaratoria juris", da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione (Sez. 4, n. 12175 del 03/04/2016, dep. 2017, Bordogna, Rv. 270386; Sez. 6, n. 9266 del 26/04/1994, Mondino ed altro, Rv. 199071).
Il solo precedente che va in diverso avviso (Sez. 6, n. 16765 del 18/11/2019, dep. 2020, Giovine, Rv. 27941814), sostenendo che non è sufficiente la sussistenza di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, occorrendo la prova, sia pure con modalità sommaria, dell'“an debeatur", fa leva su alcune decisioni della Corte di cassazione civile. Tuttavia, proprio tra queste si rinviene la pronuncia che statuisce nel modo che segue: "La condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non esige e non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, mentre resta impregiudicato l'accertamento, riservato al giudice civile, in ordine all' “an" - in concreto - ed al "quantum" del danno da risarcire. Entro tali limiti, detta condanna, una volta divenuta definitiva, ha effetti di giudicato sulla azione civile e portata onnicomprensiva, riferendosi ad ogni profilo di pregiudizio scaturito dal reato, ancorché non espressamente individuato nell'atto di costituzione di parte civile o non fatto oggetto di pronunce provvisionali, che il giudice non abbia formalmente dichiarato di escludere nel proprio "dictum"" (Sez. 3, n. 4318 del 14/02/2019, Rv. 65268901).
La Corte di appello si è esplicitamente attenuta a tali principi, rammentando in particolare la decisione n. 6380/2017, la cui massima è stata sopra riportata. Pertanto, dato atto che il Collegio distrettuale ha esposto per ciascuna delle statuizioni attinte dalle censure dei ricorrenti gli elementi anche solo presuntivi che a suo avviso attestano la potenzialità lesiva del fatto dannoso e l'esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, tutti i rilievi proposti con riferimento alla prova dei danni sono manifestamente infondati.
Per ciò che concerne le doglianze che investono la liquidazione delle provvisionali, si tratta di censure che non possono trovare spazio in questa sede, atteso il consolidato orientamento per il quale non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento (Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019, Tuccio, Rv. 27777302; Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D.G., Rv. 263486).
Solo per Cittadinanzattiva Onlus (tra le parti civili per le quali non è disposto l'annullamento in questa sede) il Tribunale aveva liquidato i danni in via equitativa.
Per essa Tre*** non fa alcun motivo.
Va anche precisato, a fronte del rilievo contenuto nel quinto motivo del ricorso di G***x Rail Austria, G***x Rail Germania e Ju***l Waggon quali parti civili e nel settimo motivo del ricorso di R***I quale responsabile civile, secondo il quale sarebbe stata riconosciuta senza adeguata prova l'esistenza di un danno del Comune di Viareggio ulteriore rispetto a quello per il quale l'ente ha ricevuto 400.000,00 euro in esito ad accordo transattivo, che già la Corte di appello ha puntualizzato che la costituzione di parte civile dell'ente territoriale era limitata al risarcimento dei danni non patrimoniale, rimasti esclusi da quell'accordo. La censura è pertanto manifestamente infondata.
29.12. Anche per i motivi che concernono la condanna al pagamento delle spese processuali è bene muovere dai principi posti dalla giurisprudenza di legittimità. Si è statuito che le disposizioni di condanna alle spese processuali in favore della parte civile sono sottratte al sindacato di legittimità per l'aspetto della valutazione discrezionale a riguardo dei parametri di commisurazione della somma dovuta, fatto salvo il controllo circa il rispetto dei limiti minimi e massimi previsti dalla tariffa forense per i compensi professionali e l'adeguatezza della motivazione in riferimento alla gravità del processo e alla rilevanza della prestazione professionale (Sez. 1, n. 21868 del 07/05/2008, Grillo e altro, Rv. 24042101). Si è anche precisato che il giudice nel liquidare le voci di spesa sostenute dalla parte civile non è tenuto ad adottare una motivazione specifica sul punto, quando si attenga ai valori medi di cui alla tabella allegata al D.M. n. 55 del 10 marzo 2014, in quanto l'art. 12 del medesimo decreto prevede espressamente di tener conto dei valori medi (Sez. 2, n. 47860 del 14/11/2019, Rizzelli, Rv. 27789401).
Correlativamente, viene ritenuto inammissibile per difetto di specificità il motivo di ricorso per cassazione con cui si censura la statuizione sulle spese processuali liquidate in favore della parte civile senza indicare le voci tabellari i cui limiti, minimo o massimo, sarebbero stati violati, non essendo peraltro sufficiente un riferimento solo sommario, nel ricorso, a tali voci tabellari (Sez. 5, N. 49007 del 14/06/2017, Rv. 271443 - 01). Si tratta di principi del tutto consolidati. Per ciò che concerne la mancata compensazione tra le parti delle spese del giudizio, anche in caso di soccombenza reciproca, il giudice dell'appello non è obbligato a disporre la compensazione delle spese ma può condannare alla refusione di quelle sostenute dalla parte civile l'imputato quando l'impugnazione di quest'ultimo risulti infondata, perché l'imputato non può essere condannato alle spese solo quando in appello sia modificata la decisione di primo grado in senso a lui favorevole (Sez. 5, n. 48206 del 10/09/2019, Paez, Rv. 27804001).
Orbene, Tre*** s.p.a. ha censurato la motivazione con la quale la Corte di appello ha respinto la richiesta di compensazione delle spese, in quanto contraddittoria, avendo essa ritenuto una quasi totale soccombenza della società nonostante la condanna solo generica e la determinazione del danno solo in via equitativa. Si tratta di rilievo manifestamente infondato, posto che la condanna generica non determina alcuna soccombenza del richiedente. Analogamente a quanto viene ritenuto per il procedimento civile, il criterio della soccombenza deve essere riferito alla causa nel suo insieme, con particolare riferimento all'esito finale della lite, sicché è totalmente vittoriosa la parte nei cui confronti la domanda avversaria sia stata totalmente respinta, a nulla rilevando che siano state disattese eccezioni di carattere processuale o anche di merito (Sez. 6 civ., n. 18503 del 02/09/2014, Rv. 63210801). La condanna generica e il riconoscimento della provvisionale attestano l'accoglimento della domanda attorea.
Con riguardo all'ulteriore doglianza, incentrata sulla critica della motivazione laddove si esclude che le questioni giuridiche affrontate fossero state nuove o complesse con riferimento alle domande civili mentre della complessità e novità delle questioni implicate dalla materia penale non può farsi carico alle parti civili, si tratta di rilievi che sottendono la richiesta a questa Corte di adottare una propria valutazione (della ricorrenza dei presupposti per la compensazione delle spese), come tale non consentita in sede di legittimità. Esclusa la negazione della compensazione per ragioni estranee al disposto normativo (la stessa reiezione di alcuni degli appelli delle parti civili non comporta necessariamente la compensazione delle spese: cfr. la n. 40206/2019, citata), resta una valutazione discrezionale non censurabile con il ricorso per cassazione ove sostenuta, come nella specie, da motivazione non manifestamente illogica.
Risulta infine non censurabile il rigetto della richiesta di sospensione delle condanne provvisionali. Ai fini dell'accoglimento della richiesta di sospensione dell'esecuzione della condanna civile al pagamento di una provvisionale è necessaria la ricorrenza di un pregiudizio eccessivo per il debitore, che può consistere nella distruzione di un bene non reintegrabile ovvero, se si tratta di somme di denaro, nel nocumento derivante dal palese stato di insolvibilità del destinatario della provvisionale, tale da rendere impossibile o altamente difficoltoso il recupero di quanto pagato, nel caso di modifica della condanna (Sez. 5, n. 19351 del 18/12/2017, dep. 2018, Zambrelli, Rv. 27320201).
La Corte di appello ha affermato che non è stata data prova del grave e irreparabile danno conseguente al pagamento delle provvisionali; l'affermazione è contestata dalla ricorrente perché non si sarebbe tenuto conto dei costi implicati dal ricorso alle Compagnie assicuratrici. È agevole osservare che con l'obiezione non si prospetta un 'grave e irreparabile danno' ma solo un aumento dei costi. La valutazione circa l'insussistenza di gravi motivi che militerebbero per la sospensione non è manifestamente illogica, ed essi non possono essere colti nella complessità del procedimento o nell'evoluzione dei contenuti dell'accertamento processuale.
Con riferimento alla asserita mancanza di motivazione in ordine alla incertezza della eventuale ripetibilità delle somme una volta versate, va considerato che è l'istante a dover fornire la prova della futura insolvenza del creditore che metta in pericolo la possibilità di recupero della somma (Sez. 6, n. 29617 del 19/05/2016, Piermarini, Rv. 26779401). Tale prova, come documenta già la formulazione del motivo, non è stata data; il che rende privo di rilievo che la Corte di appello non abbia replicato.
Gli ulteriori argomenti portati dalla Corte di appello a sostegno del rigetto della richiesta risultano non essenziali per la compiutezza della motivazione ed è quindi superfluo considerare le critiche (comunque in fatto) sollevate al riguardo.

31. I ricorsi del P.G. e delle parti civili. Il detettore di svio.
31.1. Risulta opportuna una trattazione unitaria dei ricorsi proposti dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Firenze e dei ricorsi proposti dalle parti civili. Infatti, oltre la comunanza di numerosi motivi vi è che essi aggrediscono i medesimi punti della decisione impugnata.
I primi sei motivi del ricorso del P.G. coincidono con le censure argomentate dall'avv. M. per i ricorrenti Comune di Viareggio e signori P.; con essi si censura la motivazione con la quale è stata giustificata l'assoluzione di CO.GI. e di D.M.G..
Il settimo motivo del ricorso del P.G. investe la motivazione con la quale la Corte di appello ha escluso la ascrivibilità al Co.[GI], al D.M.[G.], al Fu.[AL.], al Ma.[GI.], al Ma.[EN.], al Ca.[MA.], al So.[VI.], al Ma.[EM.] e al Fa.[FR.] dell'omessa adozione del detettore di svio.
Alla esclusione della illiceità della omessa adozione del detettore di svio sono dedicati i motivi che sostanziano il ricorso delle parti civili patrocinate dagli avvocati M., C., D.L. e A..
31.2. I motivi che lamentano l'assoluzione di CO.GI. e di D.M.G. sono infondati. Le posizioni di tali imputati sono state ritenute analoghe dalla Corte di appello e ciò si è riflesso sull'impianto motivazionale; anche in questa sede, al fine di evitare ripetizioni, si esporranno argomentazioni che, salvo limitati aspetti che vengono perciò trattati autonomamente, valgono per entrambe le posizioni.
In relazione al Co.[GI], i ricorrenti hanno sostenuto che questi era titolare di una posizione di garanzia che gli avrebbe imposto di revocare il certificato di sicurezza di Tre*** e di verificare la mancata effettuazione della procedura di cabotaggio, sicché la Corte di appello sarebbe incorsa nella violazione di legge, in relazione a quanto previsto dall'articolo 27 d.lgs. n. 162/2007 (che, ad avviso dei ricorrenti, stabilisce una disciplina transitoria in ragione della quale per i compiti non trasferiti all'Agenzia nazionale permane il regime preesistente al decreto); nonché nel vizio della motivazione per essere, quella del trasferimento anche di tali competenze ad ANSF a partire dal 16.6.2008, una affermazione meramente apodittica.
Entrambe le censure non trovano riscontro nei materiali evocati.
L'art. 27 citato, al comma 3, recita: "Al fine di garantire la continuità nel presidio della sicurezza ferroviaria e nello svolgimento dei compiti in materia di sicurezza della circolazione ferroviaria, nelle more dell'assunzione da parte dell'Agenzia delle competenze in materia di sicurezza di cui ai presente decreto, come disciplinata dall'articolo 4, resta fermo il vigente quadro normativo in materia, sia per quanto concerne i compiti del Ministero dei trasporti che quelli del gestore dell'infrastruttura R***I S.p.A.".
La Corte di appello ha rammentato che il Co.[GI], che acquisì il ruolo di Responsabile della Direzione tecnica di R***I s.p.a. nel maggio 2008 e che nel giugno rilasciò un certificato di sicurezza a Tre***, era stato giudicato responsabile per non aver previamente eseguito i controlli (tra i quali la procedura di cabotaggio) in ordine alla presenza di un corredo documentale attinente la vita manutentiva del carro.
Il giudice di secondo grado, tuttavia, ha ritenuto che con il 16.6.2008 la competenza in merito ai controlli sulle imprese ferroviarie (ma non quella per i controlli sui gestori di rete) fosse stata trasferita all'ANSF. Ciò sulla scorta dei 'molti documenti acquisiti' e delle dichiarazioni del Chiov..
Sicché "non erano quindi più nei poteri dell'ing. CO.[GI] né il rilascio o la revoca del certificato di sicurezza di Tre*** spa né la effettuazione o la verifica della mancata effettuazione della procedura di cabotaggio"’, nel marzo 2009 l'esecuzione della procedura doveva essere richiesta all'ANSF; il tempo durante il quale il Co.[GI] aveva avuto la competenza (21 o 26 maggio- 16.6.2008) era stato troppo breve per acquisire la conoscenza dello status del carro in questione necessaria a determinarsi (ha rammentato che l'ANSF impiegò due anni di istruttoria prima di rilasciare un nuovo certificato di sicurezza a Tre***); ha quindi valutato anche il rilascio del certificato di sicurezza avvenuto il 13.6.2008 osservando che aveva riguardato una tratta diversa, non era noto per quali materiali rotabili, e che non poteva escludersi che fosse stato acquisito il dossier di sicurezza e che esso in seguito era stato prorogato dalla ANSF. Quindi non era esigibile dal Co.[GI] la revoca del certificato rilasciato per le tratte di interesse.
Per la Corte di appello neppure l'adozione di un provvedimento di riduzione della velocità, la cui competenza era rimasta in capo a R***I s.p.a., era esigibile dal Co.[GI] tenuto conto del tempo in cui aveva svolto il ruolo, "stante la pluralità di attività da esso imposte, la mancanza di segnali di criticità e l'esistenza della più volte descritta interpretazione delle norme instaurata già negli anni precedenti dai vertici aziendali, che escludeva la doverosità di tracciabilità per i carri esteri anche se utilizzati continuativamente dalle imprese ferroviarie". E, ha precisato la Corte distrettuale, segnali di allarme relativi alle attività manutentive non erano evincibili dalla nota dell'ANSF 2026/08 del 18.11.2008.
A fronte di tale motivazione i ricorrenti riportano ampi stralci della sentenza di primo grado evidenziando come l'analisi del tema del trasferimento di competenze da parte del Tribunale fosse stato particolarmente approfondito. Mentre le diverse conclusioni della Corte di appello risulterebbero apodittiche e sostanzialmente prive di confronto con quanto sostenuto dal primo giudice.
Orbene, ad avviso di questa Corte sono numerosi i documenti dal cui esame il primo giudice aveva tratto le proprie conclusioni negando che con il 16.6.2008 fossero transitati in ANSF anche le competenze relative ai carri trasportanti merci pericolose. La sentenza impugnata sul punto non è conforme al principio dettato da questa Corte, nella sua massima espressione nomofilattica, secondo il quale "il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva" (S.U., n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Troise, Rv. 27243001).
Tuttavia il giudizio nei confronti del Co.[GI] trova altri, essenziali, presupposti. Come si è già rammentato, la Corte di appello ha rimarcato l'inesigibilità dall'imputato in parola delle condotte doverose in considerazione del breve tempo corrente tra la sua presa di possesso del ruolo gestorio e il trasferimento delle connesse competenze all'ANSF. Argomentazione che, anche alla luce di quanto ritenuto dalla Corte di appello a riguardo della analoga posizione del D.M.[G.], non viene travolta dal ravvisato vizio di motivazione. Infatti, per quest'ultimo imputato la Corte di appello ha ritenuto insufficiente ad acquisire le conoscenze necessarie ad adottare i provvedimenti che si imponevano il periodo di un anno e due mesi durante il quale il D.M.[G.] ricoprì la carica di responsabile della Direzione Tecnica. I ricorsi, quindi, per poter conseguire l'obiettivo dell'annullamento della statuizione, avrebbero dovuto evidenziare eventuali vizi presenti in tale giudizio, siccome riferibile anche al Co.[GI], per il quale assume rilievo il periodo di titolarità delle funzioni compreso tra il maggio 2008 e il 29 giugno 2009.
Peraltro, anche con riferimento a tale imputato la Corte di appello ha fatto riferimento alla "esistenza della più volte descritta interpretazione delle norme instaurata già negli anni precedenti dai vertici aziendali, che escludeva la doverosità di tracciabilità per i carri esteri anche se utilizzati continuativamente dalle imprese ferroviarie". Si tratta di un profilo che, come si è esposto esaminando i ricorsi degli altri dirigenti del Gruppo Ferrovie, è in grado di sostenere da solo la pronuncia assolutoria e che i ricorrenti non hanno investito con le proprie censure.
Di qui l'infondatezza del motivo.
31.3. Infondato è anche il motivo (terzo), con il quale si segnalano vizi in relazione a quanto sostenuto dalla Corte di appello circa la inesigibilità dal Co.[GI] della condotta cautelare consistente nella riduzione di velocità dei convogli. Si sono già esposte le ragioni per le quali questa Corte ritiene che la pre-esistenza di tale regola cautelare al sinistro ed il suo preciso contenuto modale non siano stati adeguatamente giustificati dalla Corte di appello. Il motivo, che peraltro non considera tale profilo, è quindi privo di referente.
31.4. I successivi due motivi concernono la motivazione con la quale la Corte di appello ha giustificato l'assoluzione del D.M.[G.]. Anche per questo imputato la Corte distrettuale ha riformato la pronuncia di primo grado ritenendo non esigibili le condotte doverose in ragione del periodo di tempo durante il quale questi ricoprì la carica di Responsabile della Direzione Tecnica di R***I s.p.a. (3.10.2006- 31.12.2007).
Il giudizio della Corte di appello è investito da censure che per lo più si concretizzano in una alternativa ricostruzione, venendo rimarcato, ad esempio, che ai sensi dell'art. 15 d.lgs. n. 81/2008 la valutazione del rischio deve essere effettiva e non risolversi nell'approntamento di documentazione; che il quotidiano transito lungo la rete ferroviaria nazionale di carri merci trasportanti sostanze pericolose rendeva immanente il pericolo. Rilievi che vorrebbero sostenere il conclusivo giudizio, per il quale il D.M.[G.] avrebbe dovuto essere ben consapevole di quell'immanenza e disporre immediatamente la riduzione della velocità. Simili asserzioni neppure si confrontano con quanto esposto dai giudici distrettuali (a proposito del Co.[GI] ma con integrale valenza anche per il D.M.[G.]); ovvero che la riduzione di velocità presupponeva "una piena valutazione della maggiore pericolosità di simili treni e una verifica di tutta la documentazione depositata nel tempo da Tre*** spa", non acquisibile nell'arco di un anno. Per tale motivo la Corte di appello pone l'accento anche sull'assenza, nel periodo in considerazione, di segnali di allarme o di altre evenienze che richiamassero all'immediato intervento.
Per dare dimostrazione dei vizi evocati, i ricorsi avrebbero dovuto segnalare la contrarietà di quelle affermazioni a specifici elementi di prova acquisiti al giudizio, oppure la palese frattura logica tra le premesse assunte e le conclusioni; invece si oppone un diverso giudizio, sostenuto unicamente da mere asserzioni; ad esempio a riguardo dei segnali di allarme, che non sarebbero stati necessari perché, citando le parole del teste Gen., "ogni cisterna è una fonte autonoma di pericolo". La adozione da parte dei ricorrenti di un autonomo percorso ricostruttivo emerge anche nella censura che si indirizza alla Corte di appello per aver evidenziato che l'inesigibilità del comportamento doveroso era da ritenersi anche per l'essere una consolidata prassi aziendale quella attinente alla interpretazione della disciplina dei carri merci esteri circolanti in regime RIV/RID. Infatti, nel mentre si ribadisce che fu una "spietata politica dell'Azienda" - si è visto che anche la Corte di appello ripete più volte che quell'interpretazione risaliva ad una scelta di politica di impresa - si rimarca che il D.M.[G.], essendo titolare di posizione di garanzia, avrebbe dovuto non soggiacere alla stessa. La prospettazione si risolve in una pura e semplice negazione della 'possibilità materiale di agire' come uno dei costrutti essenziali alla responsabilità omissiva e a quella colposa perché il giudizio possa ambire ad essere rispettoso del principio di personalità. I ricorrenti avrebbero dovuto evidenziare gli elementi di prova in forza dei quali nonostante quella prassi interpretativa il D.M.[G.] avrebbe potuto, nell'arco di tempo nel quale fu in carica, nonostante fosse in posizione subordinata all'A.D., operare con successo per la modifica di quella prassi o operare in difformità alla stessa. Tale evidenziazione è mancata; di qui la concretizzazione di una mera censura in fatto (quanto alla violazione di legge essa viene enunciata ma non esplicata).
31.5. Né risulta fondato l'ultimo motivo, del gruppo in esame, posto che non si vede quale manifesta illogicità o altro vizio derivi alla motivazione impugnata dal fatto che il D.M.[G.] cessò dalla carica prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 162/2007 e della redazione dei verbali del 2008. L'intero impianto responsabilizzante dei giudici di merito si fonda sull'identificazione di doveri cautelari che germinarono da un sapere esperenziale risalente ad epoca anteriore al 2005 e che persisteva, quale fonte di indicazione comportamentale, ancora al tempo del sinistro di Viareggio (anzi, venendo da questo ulteriormente confermato).
31.6. Come già rammentato, il settimo motivo del ricorso del P.G. investe la motivazione con la quale la Corte di appello ha escluso la ascrivibilità al Co.[GI], al D.M.[G.], al Fu.[AL.], al Ma.[GI.], al Ma.[EN.], al Ca.[MA.], al So.[VI.], al Ma.[EM.] e al Fa.[FR.], dell'omessa adozione del detettore di svio. Sul medesimo tema convergono le parti civili dei ricorsi a firma degli avvocati M., D.L., C. ed A..
Per un verso le censure si concretano in asserzioni che attingono la ricostruzione delle premesse fattuali del giudizio, senza indicazione di reali vizi motivazionali; per altro delineano una traiettoria argomentativa del tutto avulsa dalla ratio sottesa alle statuizioni impugnate.
In estrema sintesi, la Corte di appello ha ritenuto che non fosse stata acquisita la prova che "nel 2009 tale dispositivo venisse ritenuto e presentato come "la migliore scienza ed esperienza" esistente in tema di sicurezza nel trasporto di merci pericolose. Infatti esso, soprattutto in sede europea, era in quel momento valutato come utile ma non esente da criticità, e non indispensabile in quanto validamente sostituibile Giudizio al quale i giudici di secondo grado sono pervenuti dopo una approfondita disamina dei molti materiali acquisiti al giudizio e confrontandosi con acribia con la motivazione del Tribunale.
A tanto i ricorrenti oppongono alcune affermazioni lapidarie; poiché entrambi i giudici avevano ritenuto che la adozione del detettore di svio costituisse misura 'precauzionale'; e poiché lo svio è un pericolo costante, si sarebbe dovuto ritenere obbligatoria la sua installazione, come dimostra anche il fatto che le autorità svizzere lo avevano omologato (modello EDT 100), e quelle tedesche ne avevano
raccomandato l'adozione (modello EDT 101); infine, il detettore di svio era contemplato nel CUU del 1.7.2006.
Come si è già scritto, si tratta di mera valutazione oppositiva a quella formulata dalla Corte di appello e che peraltro non tiene neppure conto degli argomenti da questa utilizzata.
Dalla motivazione impugnata emerge chiaramente che il detettore di svio era un dispositivo adottato in Spagna, in Svizzera e raccomandato in Germania; ma anche che i dubbi a proposito della sua reale idoneità a garantire la sicurezza della circolazione ferroviaria non erano ancora stati dissipati. Tant'è che il RID ancora nel 2013 contemplava l'installazione del modello EDT 101 solo come volontaria e facoltativa. Ciò perché, come rileva il rapporto dell'ERA del 2012, citato dalla Corte di appello, "la frenatura automatica del treno effettuata da questo dispositivo può costituire essa stessa una fonte di rischio, in quanto attiva delle forze longitudinali di compressione tra i vari carri che, in circostanze particolari come il transito in curva e la bassa velocità, possono contribuire a causare uno svio".
A dimostrazione del fatto che il detettore non viene riconosciuto dagli operatori del settore, ivi comprese le Autorità preposte, come la misura indicata dalla migliore scienza ed esperienza, la Corte di appello ha citato anche i risultati di un'indagine condotta percento dell'ERA dalla quale risulta che al 2011 il dispositivo era utilizzato, nel mondo, per un numero di carri in proporzione molto piccolo (1400, di cui 1000 nella sola Svizzera).
I ricorsi non tengono in alcun conto quanto esposto dalla Corte di appello e giudicano assertivamente 'utile' una misura della quale è stata evidenziata la possibile pericolosità.
L'ulteriore rilievo che attiene al mancato annullamento dei contratti da parte di Tre***, stante l'assenza sui carri fornitigli del detettore di svio, chiama in causa un profilo che risulta recessivo una volta acciarato che l'installazione del dispositivo non era doverosa.
Infine, rammentato quanto si è diffusamente esplicato a riguardo della pertinenza al caso di specie dell'art. 2087 c.c. in relazione ai fatti omicidiari, deve aggiungersi che l'evocazione fatta dai ricorrenti di tale norma come fondante un dovere di adozione del detettore di svio pur nella assenza di una acquisita conoscenza della sicura efficacia cautelare dello stesso è in contrasto con la corrente interpretazione del reato colposo che, ancorando la condotta tipica alla violazione di una regola cautelare, i cui tratti sono stati anche in questa sede minutamente descritti, rifugge da logiche meramente precauzionali.
31.7. In conclusione, i ricorsi in parola devono essere rigettati. Le sole parti civili ricorrenti vanno anche condannate al pagamento delle spese processuali.

32. Riepilogo delle statuizioni
In conclusione, è utile riportare le statuizioni già esplicitate all'esito dell'esame dei diversi ricorsi.
La sentenza impugnata deve essere:
- annullata nei confronti di LE.JO., con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio;
- annullata senza rinvio agli effetti penali nei confronti KR.UW., BR.HE., SC.AN., LI.PE., KO.RA., MA.RO., MA.JO., PI.PA., G.F.D. e SO.VI., limitatamente ai reati di cui all'art, 589 cod. pen., previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. perché estinti per prescrizione, con rinvio per la determinazione del trattamento sanzionatorio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione; va dichiarata irrevocabile l'affermazione di responsabilità dei menzionati imputati in relazione al residuo reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen.;
- annullata senza rinvio agli effetti penali nei confronti di CA.MA., relativamente ai reati di cui all'art. 589 cod. pen. per essere i medesimi estinti per prescrizione, previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen.;
- annullata agli effetti penali nei confronti del Ca.[MA.], nella posizione di Direttore della Divisione Cargo di Tre*** s.p.a., relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio sul punto; va dichiara irrevocabile l'affermazione di responsabilità del Ca.[MA.] in relazione al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen. commesso quale Amministratore delegato di Ca*** Che*** s.r.l. e poi di Responsabile della B.U. Industria Chimica e Ambiente di F.S. Logistica s.p.a.;
- annullata senza rinvio agli effetti penali nei confronti di MA.EM. e FA.FR., relativamente ai reati di cui all'art. 589 cod. pen. per essere i medesimi estinti per prescrizione, previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. e, agli effetti civili, con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio;
- annullata nei confronti del Ma.[EM.] e del Fa.[FR.] relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio sul punto; al giudice del rinvio va demandata la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità;
- annullata senza rinvio agli effetti penali nei confronti di El.M.[M.], relativamente ai reati di cui all'art. 589 cod. pen. per essere i medesimi estinti per prescrizione, previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen.;
- annullata nei confronti dell'El.[M.M.] relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., in relazione ai profili di colpa puntualizzati in motivazione, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione; al giudice del rinvio va demandata la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità;
- annullata nei confronti di MO.MA., relativamente all'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen., aggravante che va eliminata, e relativamente ai profili di colpa puntualizzati in motivazione, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione; al giudice del rinvio va demandata la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità;
- annullata senza rinvio nei confronti di G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germania GmbH, Ju***l Waggon GmbH, Tre*** s.p.a., Mer*** Rail s.r.l., R***I S.p.a., in relazione all'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001, perché il fatto non sussiste;
- annullata senza rinvio con riferimento alle statuizioni in favore delle seguenti parti civili: Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Provinciale di Lucca (Or.S.A Ferrovie), Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Regionale della Toscana (Or.S.A Ferrovie), Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Generale (Or.S.A Ferrovie), Sindacato UGL Federazione Trasporti Autoferrotranvieri Regione Toscana, Sindacato Unione Territoriale del Lavoro UTL dell'unione Generale del Lavoro UGL Provincia di Lucca, CGIL Provincia di Lucca, CGIL Regione Toscana, FILT CGIL Lucca, CGIL Nazionale, Associazione "Comitato Matteo Valenti", D.A.D., G.M., C.F., C.V., P.G., P.A., P.A., N.W.L.E., S.C., statuizioni che vanno eliminate;
- annullata con riferimento alle statuizioni civili in favore di Associazione Dopolavoro Ferroviario di Viareggio e Medicina Democratica Onlus., con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione; al giudice del rinvio va demandata la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.
Vanno rigettati nel resto i ricorsi degli imputati sopra menzionati e dei responsabili civili.
Va rigettato il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Firenze.
Vanno rigettati i ricorsi delle parti civili, che vanno condannate al pagamento delle spese processuali.
Gli imputati Kr.[UW.], Br.[HE.], Sc.[AN.], Li.[PE.], Ko.[RA.], Ma.[RO.], Ma.[JO.], Pi.[PA.], G.F.[D.], So.[VI.] e Ca.[MA.], vanno condannati, in solido con i responsabili civili - eccezion fatta per R***I s.p.a. e Fe***I*** s.p.a. - alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità in favore delle parti civili appresso elencate, secondo la seguente liquidazione:
R.S., euro cinquemila/00;
Cittadinanzattiva Onlus, euro cinquemila/00, con disposizione di pagamento in favore dell'erario ai sensi dell'art. 10, co.3 d.p.r. n. 115/2002;
Regione Toscana, euro cinquemila/00;
P.M. euro cinquemila/00;
O.V.M., euro cinquemila/00;
P.F. e P.C., euro seimilacinquecento per onorario ed euro millequattrocentottanta per indennità e spese di trasferta, da distrarsi in favore del difensore avv. F.B., dichiaratosi antistatario;
O.A. euro cinquemila/00;
R.R. euro cinquemila/00;
oltre, per tutti, spese generali pari al 15%, CPA ed Iva. Vanno compensate le spese di questo giudizio di legittimità tra gli imputati, i responsabili civili e le parti civili ricorrenti.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di LE.JO., con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio.
Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata nei confronti KR.UW., BR.HE., SC.AN., LI.PE., KO.RA., MA.RO., MA.JO., PI.PA., G.F.D. e SO.VI., limitatamente al reato di cui all'art. 589 cod. pen., previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. perché estinto per prescrizione e rinvia per la determinazione del trattamento sanzionatorio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione.
Dichiara irrevocabile l'affermazione di responsabilità dei menzionati imputati in relazione al residuo reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen.
Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata nei confronti di CA.MA., relativamente al reato di cui all'art. 589 cod. pen. per essere il medesimo estinto per prescrizione, previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen.
Annulla la medesima sentenza agli effetti penali nei confronti del Ca.[MA.], nella posizione di Direttore della Divisione Cargo di Tre*** s.p.a., relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio sul punto.
Dichiara irrevocabile l'affermazione di responsabilità del Ca.[MA.] in relazione al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen. commesso quale Amministratore delegato di Ca*** Che*** s.r.l. e poi di Responsabile della B.U. Industria Chimica e Ambiente di F.S. Logistica s.p.a.
Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata nei confronti di MA.EM. e FA.FR., relativamente al reato di cui all'art. 589 cod. pen. per essere il medesimo estinto per prescrizione, previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. e, agli effetti civili, con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio.
Annulla la medesima sentenza nei confronti del Ma.[EM.] e del Fa.[FR.] relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio sul punto, cui demanda la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.
Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata nei confronti di El.M.[M.], relativamente al reato di cui all'art. 589 cod. pen. per essere il medesimo estinto per prescrizione, previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen.
Annulla la medesima sentenza nei confronti dell'El.[M.M.] relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., in relazione ai profili di colpa puntualizzati in motivazione e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, cui demanda la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di MO.MA., relativamente all'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen., aggravante che elimina, e relativamente ai profili di colpa puntualizzati in motivazione, e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, cui demanda la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di G***x Rail Austria GmbH, G***x Rail Germania GmbH, Ju***l Waggon GmbH, Tre*** s.p.a., Mer*** Rail s.r.l., R***I S.p.a., in relazione all'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001, perché il fatto non sussiste.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento alle statuizioni in favore delle seguenti parti civili: Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Provinciale di Lucca (Or.S.A Ferrovie), Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Regionale della Toscana (Or.S.A Ferrovie), Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Generale (Or.S.A Ferrovie), Sindacato UGL Federazione Trasporti Autoferrotranvieri Regione Toscana, Sindacato Unione Territoriale del Lavoro UTL dell'unione Generale del Lavoro UGL Provincia di Lucca, CGIL Provincia di Lucca, CGIL Regione Toscana, FILT CGIL Lucca, CGIL Nazionale, Associazione "Comitato Matteo Valenti", D.A.D., G.M., C.F., C.V., P.G., P.A., P.A., N.W.L.E., S.C., statuizioni che elimina.
Annulla la sentenza impugnata con riferimento alle statuizioni civili in favore di Associazione Dopolavoro Ferroviario di Viareggio e Medicina Democratica Onlus e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, cui demanda la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.
Rigetta nel resto i ricorsi degli imputati sopra menzionati e dei responsabili civili.
Rigetta il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Firenze.
Rigetta i ricorsi delle parti civili, che condanna al pagamento delle spese processuali.
Condanna gli imputati Kr.[UW.], Br.[HE.], Sc.[AN.], Li.[PE.], Ko.[RA.], Ma.[RO.], Ma.[JO.], Pi.[PA.], G.F.[D.], So.[VI.] e Ca.[MA.], in solido con i responsabili civili - eccezion fatta per R***I s.p.a. e Fe***I*** s.p.a. - alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità in favore delle seguenti parti civili, così liquidate:
R.S., euro cinquemila/00;
Cittadinanzattiva Onlus, euro cinquemila/00, con disposizione di pagamento in favore dell'erario ai sensi dell'art. 10, co.3 d.p.r. n. 115/2002;
Regione Toscana, euro cinquemila/00;
P.M. euro cinquemila/00;
O.V.M., euro cinquemila/00;
P.F. e P.C., euro seimilacinquecento per onorario ed euro millequattrocentottanta per indennità e spese di trasferta, da distrarsi in favore del difensore avv. F.B., dichiaratosi antistatario;
O.A. euro cinquemila/00;
R.R. euro cinquemila/00;
oltre, per tutti, spese generali pari al 15%, CPA ed Iva.
Compensa le spese di questo giudizio di legittimità tra gli imputati, i responsabili civili e le parti civili ricorrenti.
Così decisa in Roma, nella camera di consiglio dell'8 gennaio 2021.