Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 02 novembre 2021, n. 31054 - Parità di trattamento: discriminazione datoriale e onere della prova



 

Presidente Raimondi – Relatore Amendola

 

Fatto



1. La Corte d'Appello di Roma, con sentenza del 10 novembre 2015, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva rigettato il ricorso proposto da N.A. nei confronti di Telecom Italia Spa, ponendo a fondamento delle sue domande sia lo svolgimento di compiti inerenti la qualifica superiore di quadro, sia la discriminazione di genere che sarebbe stata operata ai suoi danni per l'accesso a detta qualifica.

2. La Corte territoriale, per quanto riguarda la discriminazione di genere, ha ritenuto che correttamente il Tribunale avesse valutato come il dato statistico fornito dalla Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Roma Capitale non avesse evidenziato "un'ipotesi discriminatoria connessa causalmente con lo sviluppo della carriera richiesto dall'Ing. N. ", tanto che 3 delle 4 donne "assunte ed ammesse al corso CPT 12/A hanno raggiunto immediatamente la qualifica di quadro", mentre solo la ricorrente non aveva conseguito tale risultato, sicché - per la Corte - "il mancato raggiungimento dello sviluppo di carriera (è) imputabile a motivi di carattere individuale, strettamente connessi con la prestazione di lavoro dell'Ing. N. , che in alcun modo può ritenersi discriminata per genere". Una volta esclusi "elementi idonei a fondare una forma di potenziale disparità di trattamento dell'Ing. N. rispetto ai suoi colleghi uomini", la Telecom era dispensata dal dimostrare l'assenza di discriminazione, non operando il meccanismo di agevolazione probatoria previsto dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, comma 4.

3. Pure in merito al mancato riconoscimento della qualifica di quadro per lo svolgimento di mansioni superiori, la Corte ha confermato il giudizio del Tribunale, ritenendo che la documentazione prodotta e la prova per testi espletata in primo grado avessero dimostrato che l'Ing. N. non avesse mai assunto la responsabilità di alcuna unità organizzativa, così come richiesto dalla disciplina contrattuale vigente per la qualifica di quadro, ed anche per quanto concerneva la materia della sicurezza le allegazioni fornite erano state smentite dalla prova per testi espletata.

4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con 3 motivi; ha resistito con controricorso Telecom Italia Spa, mentre non ha svolto attività difensiva la Consigliera di Parità intimata.

5. Il Procuratore Generale, con la memoria  D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 - bis, conv. con modif. dalla L. n. 176 del 2020, ha concluso per l'inammissibilità o, in subordine, per il rigetto del ricorso.

Sia la parte ricorrente che la società controricorrente hanno comunicato memorie ex art. 378 c.p.c.

 

Diritto



1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 198 del 2006, artt. 25,29 e 40, "circa la portata unitaria della discriminazione di genere".

Si sostienè che l'art. 25 del D.Lgs. citato "vieta qualunque comportamento che discrimini il genere femminile, a qualunque livello della scala gerarchica e sfavorendolo in qualunque diritto o legittima aspettativa"; si lamenta che la Corte territoriale avrebbe "spezzettato la nozione di discriminazione, valutandola con riferimento al grado gerarchico (separatamente per i quadri e per i dirigenti) e con riferimento alla tipologia di danno (distintamente nelle assunzioni e nella progressione di carriera), senza considerare che la discriminazione vietata è quella che sfavorisce il personale femminile, in qualunque maniera ed a qualunque livello gerarchico"; in tale modo la Corte - per parte ricorrente - avrebbe ritenuto "insussistente la discriminazione nella promozione a quadro, pur avendo accertato che la discriminazione in danno delle lavoratrici sussisteva obiettivamente nell'accesso all'impiego, nell'accesso alle qualifiche dirigenziali, e persino nella percentuale di donne che accedeva alla qualifica di quadro".

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 40,D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28 e dell'art. 2697 c.c., "in materia di ripartizione dell'onere probatorio sulla discriminazione".

Si lamenta che la Corte territoriale, "pur affermando che i dati statistici comprovavano l'esistenza di diffuse discriminazioni in danno delle l'lavoratrici", avrebbe imputato alla ricorrente "di non avete provato il carattere discriminatorio della sua mancata promozione, mentre avendo ella assolto l'onere di provare l'esistenza nell'azienda di pratiche discriminatorie per sesso diveniva onere della datrice di lavoro (che non vi ha provveduto) provare che il trattamento riservatole non aveva carattere discriminatorio, ma aveva altre lecite spiegazioni".

2. I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, non meritano accoglimento in quanto non evidenziano realmente degli errori di diritto della sentenza impugnata.

I giudici del merito hanno fatto applicazione del principio, più volte affermato da questa Corte e che il Collegio condivide, secondo cui: "In tema di comportamenti datoriali discriminatori, del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, art. 40 - nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità - non stabilisce un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall'art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso" (Cass. n. 14206 del 2013; Conf.: Cass. n. 17832 del 2015; Cass. n. 2113 del 2016; Cass. n. 25543 del 2018; da ultimo Cass. n. 15950 del 2021).

Analogo principio è stato affermato, in relazione all'interpretazione dell'art. 19 della richiamata direttiva, dalla Corte di Giustizia, la quale ha evidenziato che "spetta alla lavoratrice che si ritenga lesa dall'inosservanza nei propri confronti del principio della parità di trattamento dimostrare, dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi a qualsiasi altro organo competente, fatti od elementi di prova in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta (v., in tal senso, sentenza del 21 luglio 2011, Kelly, C-104/10, EU:C:2011:506, punto 29). È solo nel caso in cui la lavoratrice interessata abbia provato tali fatti od elementi di prova che si verifica un'inversione dell'onere della prova e che spetta alla controparte dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non discriminazione (v., in tal senso, sentenza del 21 luglio 2011, Kelly, C-104/10, EU:C:2011:506, punto 30)" (Corte di Giustizia 19.10.2017 in causa C-531/15 Otero Ramos).

Significativamente si è affermato che il lavoratore deve provare il fattore di rischio ed il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, "deducendo una correlazione significativa fra questi elementi che rende plausibile la discriminazione" (Cass. n. 1 del 2020).

Evidentemente compete all'apprezzamento del giudice del fatto valutare se, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, chi denuncia la discriminazione abbia fornito sufficienti elementi, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, e se gli stessi siano idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del genere sessuale.

Nella specie, la ricorrente, pur denunciando la violazione e l'errata applicazione di norme di diritto, in realtà si limita a dedurre che nel caso tali elementi di fatto sussistessero, esprimendo un apprezzamento diverso rispetto a quello operato concordemente in entrambi i gradi del giudizio di merito.

In tal modo si sollecita un sindacato non consentito a questa Corte di legittimità, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale sono rimessi in via esclusiva l'individuazione delle fonti del proprio convincimento, l'assunzione e la valutazione delle prove e il controllo della loro attendibilità e concludenza, nonché la scelta, tra le complessive risultanze del processo, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare - la veridicità dei fatti ad esse sottesi. Al riguardo va richiamato l'orientamento consolidato di questa Corte secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.

3. Parimenti deve essere respinto il terzo motivo di censura, con cui si denuncia, sempre a mente dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione "dell'art. 23 del CCNL Telecomunicazioni del 2000"; ci si duole che la motivazione impugnata "non spiega perché i controlli dei superiori fossero incompatibili con la declaratoria contrattuale di quadro".

Anche in tal caso la doglianza, lungi dall'enucleare un errore di diritto, nè tanto meno un errore di interpretazione della disciplina contrattuale collettiva, nella sostanza denuncia difetti di motivazione, di per sé non più sindacabili nel vigore della nuova formulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avuto riguardo all'avere o meno la N. espletato certe mansioni riconducibili all'inquadramento rivendicato, che è questione di fatto non attingibile in una ipotesi di cd. "doppia conforme" (v. Cass. n. 23021 del 2014; Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 20944 del 2019); neanche si confuta adeguatamente l'assunto centrale dei giudici del merito, secondo i quali l'Ing. N., sulla base di documenti e testimonianze, non aveva "mai assunto la responsabilità di alcuna unità organizzativa" e, "per quanto concerne la materia della sicurezza", le allegazioni fornite erano state "smentite".

4. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo in favore della società, mentre nulla va disposto per la Consigliera di Parità intimata che non ha svolto attività difensiva.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

 

P.Q.M.
 


La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali al 15% ed accessori secondo legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.