Cassazione Penale, Sez. 4, 06 dicembre 2021, n. 44954 - Urto del carrello contro l'architrave del portone d'uscita del capannone e crollo fatale sul lavoratore terzo. Responsabilità del datore di lavoro


 

 

Presidente: DI SALVO EMANUELE
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 15/10/2021
 

 Fatto


1. T.G. in data 13/6/2017 veniva condannato dal giudice monocratico del Tribunale di Venezia, con le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle contestate aggravanti, alla pena condizionalmente sospesa di nove mesi di reclusione per il reato di cui all'art. 589 cod. pen. perché, in qualità di datore di lavoro di S.R., guidatore di un carrello elevatore, omettendo di valutare i rischi di tale attività e non valutando adeguatamente lo spazio disponibile tra elementi fissi e mobili, non predisponendo regole per la circolazione di tali mezzi all'interno del capannone, non provvedendo ad adottare la segnaletica di sicurezza al fine di evitare urti contro gli ostacoli ivi esistenti (v. artt. 28,29,63,71 e 163 del D.Lgs n. 81/2008), concorreva con il predetto a causare la morte di V.A. , in quanto il S.R., movimentando un carico di balle da collocare in un container posto all'esterno del capannone, urtava con i montanti del carrello elevatore l'architrave del portone d'uscita, determinando il crollo dei pannelli prefabbricati soprastanti, che schiacciavano il V.A., in attesa presso il camion, causandone la morte. In Noale il 5/7/2010.
Inizialmente, oltre al T.G. (ed al S.R. giudicato separatamente), venivano rinviati a giudizio altri quattro imputati: 1. S.L., progettista della parte architettonica; 2. S.A., progettista delle strutture prefabbricate; 3. Z.A., progettista delle strutture di fondazione; 4. F.G., collaudatore del capannone. Tali imputati, tuttavia, venivano già in primo grado assolti "per non aver commesso il fatto", non essendo stato ravvisato sussistente il nesso di causalità tra quanto da essi compiuto e la successiva morte del V.A..
La Corte d'Appello di Venezia, con sentenza del 2/3/2020, confermava la pronuncia di primo grado, appellata dall'imputato T.G..

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, T.G., deducendo gli otto motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con un primo motivo si deduce vizio motivazionale e travisamento della prova in relazione alla ritenuta irrilevanza della condotta del lavoratore, che violò di oltre mezzo metro l'obbligo di non alzare le forche durante la movimentazione del carrello.
Si critica il ragionamento seguito dalla Corte veneziana per escludere l'abnormità del comportamento del carrellista, che, procedendo con le pinze del carrello sollevate, determinava l'urto contro l'architrave.
In particolare, le critiche alla sentenza impugnata si appuntano sul passaggio ove la stessa, individuando in soli 20 centimetri la differenza della posizione delle pinze tra la condotta sicura e quella tenuta, definisce possibile e modesta la misura dell'errore, compiuto dal S.R., anche alla luce della scarsa visuale per la presenza del tetto della cabina e della mancata segnalazione dell'altezza della porta. Pertanto, pur non escludendo la gravità del comportamento del lavoratore, che da carrellista esperto aveva l'obbligo di condurre il mezzo con le forche a terra, esclude che l'errore possa valere quale scriminante della responsabilità del T.G..
Ci si duole, però, che nel ragionamento seguito dai giudici di appello non si sia tenuto conto di taluni elementi emersi chiaramente dall'istruttoria: a. che le forche, in condizioni di normale utilizzo, dovevano essere non a 40 centimetri dal suolo, come affermato in sentenza, ma a soli 15-20 centimetri, come dichiarato dal S.R. e dal consulente di parte ing. Cassella; che le forche per determinare l'incidente dovevano essere almeno a 71 centimetri di altezza, come spiegato dal consulente ing. Cassella. Di conseguenza la differenza di posizione delle pinze era di ben 55 cm., tre volte la misura di 20 cm. individuata dai giudici come "franco di sicurezza".
Si rileva in ricorso che l'ing. Cassella avrebbe ben spiegato il grave fraintendimento in cui sarebbe incorso il consulente del P.M., dimenticando la presenza di una puleggia sul mezzo, che comporta il rapporto di 2: 1 tra il movimento delle forche e quello delle alzate, per cui, a qualunque innalzamento delle forche in basso, corrisponde un innalzamento della metà dei montanti in alto.
Tale errore determinerebbe l'erronea individuazione della misura del franco di 11 centimetri da parte del consulente del P.M., poi richiamata dai giudici a supporto della motivazione nel ritenere il dato dei 20 cm. di differenza.
Il ricorrente osserva che l'esattezza dei dati numerici individuati dall'ing. Cassella sarebbe affermata dalla stessa sentenza che definisce validi i suoi criteri di calcolo, accolti anche dal perito Mannino, salvo poi discostarsene introducendo dei dati privi di riscontro.
L'affermazione secondo cui il carrello avrebbe dovuto muoversi in sicurezza con le pinze a 40 cm dal suolo, sarebbe priva di riscontro, essendo stata estratta dalla perizia Mannino-Battilana, dove era stata inserita con il valore di mera affermazione, priva di giustificazione.
Si sostiene che la circostanza che il carrello dovesse viaggiare con il carico posto più in basso possibile è stata dimostrata sia dalle dichiarazioni del S.R. che dal consulente del P.M., così come sarebbe errato ritenere che la posizione delle forche al momento dell'urto fosse a 60 centimetri, in quanto se così fosse vi sarebbero stati ancora circa 6,5 centimetri di spazio tra i montanti e l'architrave. In realtà -è la tesi proposta in ricorso- l'urto è avvenuto oltre i 70 centimetri.

Il ricorrente conclude, quindi, che le dimensioni dell'errore commesso dal lavoratore sia ben superiore rispetto alla valutazione compiuta dai giudici.
Del resto l'erroneità dei dati contenuti nella sentenza impugnata sarebbe resa evidente anche dal confronto con la sentenza di primo grado, ben consapevole della misura dell'altezza delle forche.
Il ricorrente sostiene che i giudici di appello, per superare la contraddizione del provvedimento di primo grado, non avrebbero utilizzato i dati numerici emersi dall'istruttoria, confermando indirettamente la centralità della questione dell'altezza delle forche ai fini della motivazione.
Si sottolinea che sul punto non sussiste decisione doppia conforme.
Ci si duole, poi, della contraddittorietà della giustificazione dell'errore del lavoratore per la mancanza di segnalazione dell'altezza della porta e perché la visuale era ostruita dal tetto della cabina del carrello.
La mancata segnalazione, infatti, non potrebbe rilevare se non c'era visuale.
Si evidenzia che è risultata provata la conoscenza dei luoghi e delle operazioni da compiere da parte del S.R., che le aveva compiute moltissime volte, come affermato anche dal perito Mannino, che in questo caso viene ignorato dai giudicanti.
Pertanto la convinzione dei giudici che l'errore del lavoratore sia stato scusabile ignorerebbe i dati probatori, che non sono stati assolutamente considerati, facendo uso invece di altri dati inesistenti.
Si precisa quindi che non si tratta di una diversa valutazione nel merito degli stessi dati emersi nel processo.
Con un secondo motivo, si deduce violazione di legge in relazione agli artt. 589 e 41 co. 2 cod. pen. artt. 20 e 59 D.L.vo 81/2008, nonché vizio di motivazione laddove la sentenza, pur riconoscendola, esclude che la condotta penalmente rilevante del lavoratore, violativa della regola di prevenzione, costituisca causa sopravvenuta sufficiente a determinare l'evento.
Si richiama l'orientamento di questa Corte che configura la condotta del lavoratore come interruttiva del nesso eziologico in applicazione dell'art. 41 comma 2 cod. pen., quando pur rientrando nell'ambito delle mansioni, sia contraria a precise direttive organizzative ricevute (il richiamo è alle sentenze di questa Sez.4, n.4890/2015, n.43846/2014, n.41486/2015).
Nel caso che ci occupa, si aggiunge, la condotta è consistita addirittura nella violazione di obbligo penalmente rilevante, con avvenuto accertamento della responsabilità penale.
Pertanto, a differenza di quanto ritenuto nell'impugnata sentenza, la mancanza di eccentricità del comportamento del lavoratore rispetto all'attività volta non escluderebbe la rilevanza causale della condotta.
Si evidenzia la rilevanza della condotta del S.R. alla luce del quadro normativo stabilito con il decreto 81/2008, consistita nella consapevole violazione di una regola basilare, nota al S.R., alzando di oltre settanta centimetri le forche, che invece avrebbero dovuto essere tenute a terra.
Ciò certamente, secondo il ricorrente, costituisce causa interruttiva in quanto travolge l'affidamento risposto dal datore di lavoro nella professionalità del lavoratore addetto alle mansioni e nell'obbligo di rispettare la norma penale.
La sentenza impugnata, definendo il comportamento meramente imprudente e utilizzando dati contenuti nella perizia ma non tecnicamente supportati, nega che la condotta anche se penalmente rilevante possa assumere rilievo ai fini dell'affidamento del datore di lavoro.
Sostanzialmente si afferma che la violazione di un obbligo giuridico, penalmente sanzionato, da parte del lavoratore nell'ambito di un contesto lavorativo in cui il datore di lavoro aveva creato le condizioni per il rispetto di quell'obbligo, non costituisce causa efficiente rispetto al verificarsi dell'evento interrompendo il nesso causale.
Tale affermazione costituirebbe, oltre che erronea applicazione di legge, anche una grave illogicità e contraddizione della motivazione.
Con un terzo motivo, si deduce vizio di motivazione in relazione alla contestata violazione degli artt. 28, 29 e 71 del D.L.vo 81/2008 sulla valutazione del rischio di urto dei montanti del carrello contro l'architrave del portone.
Ci si duole della ritenuta mancata valutazione del rischio di urto del mezzo contro l'architrave.
La corte di appello nell'addebitare la violazione, già sancita dal giudice di primo grado, aggiunge che il ricorrente non avrebbe sollevato censure sul punto nei motivi di appello.
Ciò non corrisponderebbe al vero, essendo stato tale argomento oggetto dei motivi di appello. Si era evidenziato che nel processo era emersa l'adeguatezza delle prevenzione dei rischi di urto, tanto è vero che il S.R. non riportava conseguenze dall'urto, in quanto il carrello elevatore rispondeva ai requisiti di sicurezza. Si era, poi, censurata la sentenza di primo grado per non aver valorizzato l'esistenza della regola prevenzionale di muovere il carrello solo con il carico abbassato a terra, per prevenire il rischio di urto dei montanti.
Il rischio era stato adeguatamente valutato tanto da adottare per la movimentazione un mezzo adeguato e aver predisposto la regola di movimentazione dello stesso mezzo a forche abbassate.
Del resto l'impugnata sentenza, osserva il ricorrente, pur addebitando l'omessa valutazione del rischio, riconosce la regolarità del mezzo utilizzato.
Pertanto si chiede il T.G., quale omissione può muoversi al datore di lavoro, alla luce delle cautele adottate, dal momento che l'urto avveniva esclusivamente per la violazione commessa dal S.R.?
Si ravvisa, pertanto, la contraddittorietà della motivazione sul punto.
Con un quarto motivo, si deduce violazione di legge in relazione agli artt. 28, 29 e 71 D. L.vo 81/2008 per quanto riguarda la valutazione del rischio di urto dei montanti del carrello contro l'architrave del portone.
Il ricorrente ribadisce l'avvenuta valutazione del rischio da parte del datore di lavoro che aveva adottato tutte le misure di sicurezza necessarie consistenti nell'utilizzo di un carrello idoneo e nella prescrizione di condurlo abbassato in modo da impedire qualsiasi collisione.
L'incidente si sarebbe verificato unicamente per l'imprudenza del S.R. che alzava le forche di oltre mezzo metro, violando la regola cautelare imposta.
Entrambi i giudici di merito hanno ravvisato il rischio di urto unicamente sul presupposto dell'esistenza di un altro portone alto, quindi, la responsabilità dell'imputato è stata dichiarata non per la pretesa mancata valutazione del rischio di urto del portone basso, ma per non aver impedito al muletto di transitare attraverso il portone basso, essendovi altre due uscite più larghe e più alte.
In sostanza i giudici di merito hanno stabilito l'obbligatorietà del divieto di uso del portone senza verificare se le misure di sicurezza adottate fossero idonee o meno.
Si evidenzia che l'obbligo gravante sul datore di lavoro non impone allo stesso di evitare tutte le attività che siano fattore di rischio, ma di valutare tale rischio e prevenirlo. Cosa avvenuta - si sostiene in ricorso- nel caso che ci occupa, in quanto il T.G. aveva valutato il rischio di urto dei montanti del portone basso.
La sentenza impugnata, però, da un lato eliminerebbe i dati emersi dall'istruttoria e dall'altro applicherebbe erroneamente il dettato normativo degli artt. 28 e 29 D.L.vo 81/2008.
I motivi di appello - si legge in ricorso- hanno affrontato il tema della prevedibilità del crollo, non per superare la contestazione dell'omessa valutazione del rischio di urto, come sostenuto in sentenza, ma perché il Tribunale aveva addebitato al T.G. il crollo e non l'urto.
I giudici di merito avrebbero confuso i due aspetti senza considerare che la prevenzione del crollo consiste nella prevenzione dell'urto come causa del crollo.
La Corte distrettuale, nel ritenere la violazione dell'art. 28, ha eliminato di dati emersi dall'istruttoria sulle regole di conduzione del carrello, regole esistenti che se rispettate avrebbero impedito l'urto e il conseguente crollo.
Con un quinto motivo, si deduce violazione di legge in relazione agli artt. 28 e 23 del D.L.vo 81/2008, 6 del D.L.vo 626/94 e al D.M. Lavori Pubblici 16/1/96 punto C.3. 2.1.1 e punto C.5.4, nonché vizio motivazionale e travisamento della prova in relazione alla contestata violazione degli artt. 28 e 29 D.L.vo 81/2008 quanto alla valutazione del rischio di crollo del capannone.
Ci si duole della dichiarata impossibilità da parte del T.G. di fare affidamento sulla idoneità strutturale del capannone a sostenere un urto senza danni, all'atto della realizzazione del DVR.
La sentenza impugnata afferma che nonostante si trattasse di un capannone collaudato per esercizio di attività artigianale-industriale, il crollo era pienamente prevedibile, trattandosi di struttura progettata per resistere solo alla forza del vento, unico vincolo esistente al momento della sua progettazione e costruzione.
Ciò per due motivi: la previsione normativa dell'epoca, come affermato dal perito Mannino e la mancata conoscenza dell'uso concreto in fase di realizzazione. La prima affermazione viene contestata dalla difesa perché contraria alla normativa vigente e perché pone a fondamento un'affermazione del perito indimostrata e poi corretta dallo stesso perito nel corso della deposizione dibattimentale. Anche la seconda affermazione viene definita contraria alla normativa vigente, la quale valorizza l'uso tipico e prevedibile secondo il normale esercizio. Inoltre sarebbe frutto di travisamento della prova, essendo noto anche in fase progettuale l'uso di muletti anche di grandi dimensioni.
Si evidenzia che l'affermazione circa la necessità di resistere solo alla forza del vento sarebbe stata inserita dal perito al solo scopo di auto-assolvere la categoria dei progettisti dalle modalità di progettazione.
Tale affermazione sarebbe in evidente contrasto con l'impianto normativo degli artt. 6 D.L.vo 626/94, 23 e 28 D.L.vo 81/2008, che impone di rispettare in sede di progettazione i principi generali di prevenzione.
Anche il D.M. Lav. Pubbl. 16/1/96 imponeva, nel 2002, di considerare il rischio di urto come causa di crollo, tenuto conto che si trattava di un capannone per sua natura destinato ad ospitare muletti.
La normativa tecnica delle costruzioni impone la progettazione dell'opera considerando anche le eventuali azioni eccezionali.
Il ricorrente rileva di avere contestato sia in primo grado che in sede di appello la tesi del perito secondo cui è il committente-acquirente a decidere se prevedere gli urti o meno, mentre in realtà è la normativa ad imporre la considerazione del rischio, tanto più nella progettazione di un capannone destinato ad ospitare un'attività produttiva.
Si ricorda poi la norma C.5.4 del D.M. Lavori Pubblici 16 gennaio 1996, che impone in sede di progettazione di "evitare l'impiego di manufatti non idonei o mal vincolati che per azioni statiche e/o impulsive dovute al normale esercizio possano provocare il lesionamento o la caduta parziale del manufatto stesso".

E' espressamente previsto, dunque, l'obbligo di progettare una struttura in grado di reggere gli urti "dovuti al normale esercizio".
La Corte veneziana avrebbe omesso di pronunciarsi sullo specifico motivo di appello sul punto, limitandosi a ribadire che la progettazione doveva prevedere di "reggere l'eventuale forza del vento", in evidente contrasto con il dettato normativo.
Si ritiene, inoltre, che la motivazione sia inficiata da travisamento della prova, in quanto fondando il proprio convincimento sull'affermazione del Mannino, esclude dal processo le affermazioni fornite dallo stesso perito in sede dibattimentale, allorquando afferma che la norma impone al progettista, di valutare il possibile effetto di un urto sulla struttura, quando si ritiene che quell'urto possa esserci in ragione dell'uso.
In relazione all'affermazione che l'uso del capannone non era noto al momento della progettazione, si rileva che è errato affermare che la normativa impone al progettista di considerare le azioni eccezionali degli urti solo quando essi siano conseguenti all'uso effettivamente posto in essere.
Le norme vigenti impongono l'obbligo di previsione al momento delle scelte progettuali e tecniche.
Si evidenzia che, nel caso che ci occupa, era nota la destinazione industriale artigianale che viene erroneamente ritenuta generica dalla Corte di appello.
Le affermazioni contenute nell'impugnata sentenza sul punto sarebbero in evidente contrasto con le norme di legge. Del resto lo stesso perito, in dibattimento, smentendo quanto dichiarato in perizia, ha ammesso che il rischio di urto è connaturato al tipo di costruzione e la presenza del muletto nel capannone è fisiologica.
Si aggiunge, inoltre, che è acclarata l'avvenuta progettazione del capannone per l'utilizzo di mezzi di grandi dimensioni, tanto da prevedere due portoni di otto metri di altezza. E' evidente quindi che l'uso concreto era stato considerato in sede progettuale.
Ciò risulta anche - come si legge in ricorso- dalle affermazioni dell'ausiliario del perito Mannino, ing. Tonon.
Illogico e contraddittorio risulterebbe, pertanto, l'addebito al T.G. del muletto, come rischio aggiuntivo rispetto alle valutazioni progettuali.
Non sarebbe condivisibile l'affermazione che il T.G. doveva considerare i rischi del tipo di mezzi impiegati, mentre lo stesso obbligo non incombeva sui progettisti.
Legittimo sarebbe l'affidamento fatto dal ricorrente sull'idoneità del capannone all'uso cui era destinato.

Ci si duole infine dell'ulteriore addebito in capo al T.G. a seguito dell'inserimento in zona sismica nell'anno 2003.
Ciò perché l'obbligo di progettazione antisismica non include l'obbligo di valutare il rischio di urto, così come la progettazione antisismica non deve includere il rischio di urto e di crollo causato dall'urto.
Tale obbligo viene invece affermato in sentenza richiamando un'affermazione del perito Mannino, ma il ricorrente obietta che il sisma non è l'urto, rilevando che la deduzione della Corte distrettuale, per cui dalla normativa antisismica discenderebbe l'obbligo di prevenzione è stata smentita dallo stesso Mannino. Quest'ultimo afferma che nonostante sia cambiata la percezione generale rispetto al sisma dopo il 2012, anche per le zone di pianura, la normativa è rimasta inalterata.
Con un sesto motivo si deduce vizio di motivazione in relazione alle violazioni cautelari di cui agli artt. 63 e 163 D.L.vo 81/2008.
Il ricorrente si duole dell'omessa motivazione sul sesto motivo di appello in merito all'insussistenza e irrilevanza delle ulteriori violazioni contestate.
Con un settimo motivo si deduce vizio di motivazione in relazione al rigetto della richiesta di rinnovazione della perizia.
Si lamenta l'apoditticità e contraddittorietà della motivazione posta a fondamento del rigetto della richiesta difensiva sottolineando che la consulenza di parte smentisce le affermazioni del perito e del consulente del P.M., poste sostegno della decisione, che ignora completamente le questioni sollevate dalla difesa sulla cor­ retta applicazione delle norme tecniche delle costruzioni e delle norme di prevenzione degli infortuni all'attività dei progettisti.
Con un ottavo motivo si deduce violazione di legge in relazione all'art. 62 cod. pen. in relazione alla determinazione della pena.
Ci si duole della mancata considerazione della circostanza dell'avvenuto risarcimento del danno ai fini della riduzione della pena.
Il ricorrente chiede, pertanto, l'annullamento, con o senza rinvio, della sentenza impugnata.
 

Diritto


1. I motivi sopra illustrati appaiono infondati e, pertanto, il proposto ricorso va rigettato.

2. Tutte le doglianze in punto di responsabilità ripropongono questioni che sono state già argomentatamente confutate dai giudici del merito e sollecitano a questa Corte di legittimità una serie di valutazioni di merito precluse in questa sede.
La ricostruzione dei fatti - che sono stati ricostruiti in sentenza in conformità alle categorie giuridiche di riferimento- è pacifica ed è stata riportata in sentenza già dal giudice di primo grado (cfr. pagg. 1-2 della sentenza del tribunale veneziano), senza che riguardo alla stessa venissero formulate particolari critiche in sede di gravame del merito, grazie alla testimonianza di S.R., imputato nel medesimo reato, la cui posizione era stata definita con sentenza irrevocabile, il quale veniva sentito con l'assistenza del difensore.
Ricorda il tribunale che egli esponeva che, all'epoca dei fatti, lavorava come carrellista presso la ditta T.G. di Noale, precisando che seguiva regolarmente i relativi corsi di formazione ai quali gli era stato anche insegnato che negli spostamenti il carrello deve essere sempre posizionato verso il basso. Egli aveva altresì riferito che il suo lavoro consisteva essenzialmente nel carico e scarico di balle di vario materiale cartaceo e che, per far ciò si serviva di un carrello elevatore modello Lind 80 (riconosciuto dal teste nella foto a pag. 123 del fascicolo del PM) che si trovava all'interno del deposito. Ve ne era anche un altro, precisava, ma non poteva essere utilizzato per quei carichi perché aveva delle forche e non delle pinze. Aveva aggiunto che nel capannone di via Fermi, in quel periodo, lavorava da solo e si occupava di tutto: scaricava le balle, le stoccava e, quando gli era richiesto, le prendeva da dove le aveva stoccate per caricarle sui camion. Solo quando era in ferie ci andava qualcun altro.
Il S.R. spiegava - si legge ancora nella sentenza di primo grado- che vi erano le strisce pedonali per i camionisti nel caso dovessero scendere dal camion, ma non c'era segnaletica per la movimentazione del muletto. E, benché vi fossero diversi ingressi, tra cui anche uno più grande, il giorno dell'incidente di cui al capo di imputazione ricordava di avere dato indicazione di parcheggiare il camion in corrispondenza dell'ingresso più vicino al materiale da caricare.
Il S.R. ammetteva anche che gli era stato indicato che poteva usare anche il portone più grande, ma riferiva che non lo faceva mai, perché per avvicinarsi a quell'ingresso i camion avrebbero dovuto fare diverse manovre. Ed inoltre, trattandosi di un portone elettrico, avrebbe dovuto attaccare la corrente. Dunque, aveva sempre utilizzato l'ingresso più piccolo, ove era avvenuto l'infortunio mortale e l'altro non l'aveva proprio mai aperto.
Il S.R. aveva anche riferito - sempre secondo quanto si legge nella sentenza di primo grado- che ogni tanto si portavano sul posto a ispezionarlo il responsabile dei materiali, i rappresentanti dei lavoratori ed i responsabili dell'azienda, ma che per lo più era lì da solo, iniziava il lavoro da solo perché sia il titolare che il responsabile avevano piena fiducia nei suoi confronti per quella che era la mansione che svolgeva dentro quel capannone. Si trattava -aveva spiegato­ solo di un capannone di stoccaggio, si metteva lì del materiale e dopo veniva caricato in un secondo momento, entrava lui da solo e non c'era nessun impiegato, entravano solo lui e l'autista del camion. L'operazione di carico consisteva nell'alzare le pinze del carrello per prendere la balla all'interno del magazzino, abbassare il carrello per passare sotto il varco dell'ingresso del magazzino e rialzare il carrello per posizionare la balla all'interno del camion, la cui apertura era posta ad un'altezza di 140 cm.
Ebbene, il 5.7.2015, come ricordato dallo stesso S.R., egli stava caricando un container di balle di cartone, quando, finito di caricare ed accortosi che il materiale era troppo pesante, aveva tolto una balla grande per sostituirla con una più piccola. Nel riporre la balla in magazzino e portare fuori quella più piccola, e precisamente uscendo dal capannone con il carrello elevatore non completamente abbassato, aveva urtato l'intelaiatura in ferro del portone ed i pannelli sovrastanti erano crollati schiacciando l'autista che aspettava accanto al camion.
Il S.R. dichiarava di non aver percepito alcuno scarrocciamento del carrello elevatore e che l'urto con il montante superiore del portone era stato provocato dal fatto che, invece di tenere il carrello a tre centimetri da terra, l'aveva posizionato a cinque centimetri da terra cosicché la parte superiore aveva urtato l'infisso.
Quanto al deposito del materiale all'interno del capannone il S.R. dichiarava - ricorda ancora il giudice di primo grado- che sebbene vi fosse un'indicazione di massima su dove collocare i prodotti, a seconda della tipologia, il materiale veniva normalmente messo dove si liberava una prima fila al momento, cioè finito un tipo di materiale ne arrivava un altro e si metteva sul posto dov'era vuoto.
Già il giudice di primo grado aveva posto l'accento sul fatto che tecnico dello Spisal Franco Bertolucci (cfr. pagg. 2-4 della sentenza di primo grado) aveva rilevato, a seguito del sopralluogo, come mancassero le indicazioni dei percorsi da seguire da parte del carrellista e non fosse segnalata l'altezza del portone in questione; aveva altresì accertato che, per uscire da quel varco, lo spazio di manovra, con le forche completamente abbassate, era di soli 20 cm.
Ed era emerso che il DUVRI non aveva considerato i rischi connessi dall'uso del muletto in quello specifico luogo di lavoro: era infatti evidente che in uno spazio così ridotto, con le forche anche solo un poco alzate, il carrello poteva andare a sbattere contro l'infisso superiore del portale; cosa del resto già successo in passato, come rivelato dalle tracce di urti riscontrate su quel portone e su quello "gemello" di pari altezza.
Si palesava, dunque, necessaria una sistemazione logistica corretta, che, in particolare, vietasse il transito dei carrelli elevatori attraverso quei portoni. Inoltre, non erano stati previsti spazi adibiti alle attese dei conducenti dei mezzi di carico e scarico delle merci, come era appunto il V.A., investito dai pannelli caduti a seguito dell'urto. Disposizioni scritte circa la collocazione dei materiali nei pressi dei portali più alti, avrebbe poi reso sicure quelle operazioni, ma queste disposizioni erano state date solo verbalmente.

3. Le sentenze di merito hanno dunque, sin dal primo grado, chiaramente descritto le responsabilità imputate al T.G. e le regole cautelari omesse.
Il T.G., quale datore di lavoro del S.R., era perfettamente consapevole del rischio dell'attività lavorativa e, piuttosto che azzerarlo mediante l'organizzazione del lavoro in modo tale che la movimentazione avvenisse in maniera sicura, riteneva di fare affidamento esclusivamente sulla professionalità del S. e sulla sua consapevolezza che la porta andava attraversata con il carico posto più a terra possibile.
Innumerevoli sono le carenze organizzative evidenziate, come la mancanza di segnaletica orizzontale, la mancata organizzazione della movimentazione in modo tale da evitare collisioni, la mancata di un luogo per far attendere i conducenti degli automezzi.

4. Prima di entrare nel merito delle singole doglianze, occorre rilevare che non corrisponde al vero che la corte di appello abbia travisato le risultanze istruttorie utilizzando dati diversi da quelli processuali.
La decisione è fondata sulle risultanze della perizia, di quanto relazionato dal consulente del P.M. e di quanto ricostruito dallo stesso S.R., unico testimone oculare sopravvissuto ai fatti.
Non va trascurato che, questa Corte, con orientamento che il Collegio condivide e ribadisce, ritiene che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l'affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (cfr. Sez. 4, n. 19710/2009, Rv. 243636 secondo cui , sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell'art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), introdotta da/la L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'in­ formazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valuta­ zione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice; conf. Sez. 2, n. 47035 del 3/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013 dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013 dep. 2014, Capuzzi ed altro, Rv. 258438; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 dep. 2017, La Gumina ed altro, Rv. 269217).
Nel caso dì specie, al contrario, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunta alla medesima conclusione in termini di sussistenza della responsabilità dell'imputato che, in concreto, si limita a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa lettura" delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti degli elementi probatori valorizzati.

5. E' necessario, poi, ricordare che le regole prevenzionali che il datore di lavoro deve predisporre e controllare che vengano attuate non valgono solo per il lavoratore, ma anche per i terzi che si trovino ad operare in quel medesimo contesto.
Costituisce ius receptum di questa Corte di legittimità il principio che in tema di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell'ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa, di talché, ove in tali luoghi si verifichino a danno del terzo i reati di lesioni o di omicidio colposi, è ravvisabile la colpa per violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, purché sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi, e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico (così Sez. 4, n. 44142 del 19/07/2019, De Remigis, Rv. 277691, che ha ritenuto immune da censure la condanna del titolare di una discoteca per le lesioni riportate da un avventore, caduto in conseguenza della presenza di liquidi sul pavimento, ravvisando la colpa dell'imputato nella violazione dell'art. 64, comma 1, lett. a) D.lgs 9 aprile 2008, n. 81, per la mancata nomina della persona preposta alla pulizia dei locali) conf. Sez. 4, n. 32178 del 16/09/2020, Dentamaro, Rv. 280070 che ha ritenuto immune da censure la condanna di un lavoratore che, nello svolgimento di operazioni di scarico merci, in violazione dell'art. 20, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, aveva consentito che un terzo estraneo si intromettesse nello svolgimento della lavorazione riportando lesioni personali; Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013, dep. 2014, S. e altro, Rv. 258436).
Ciò pur con l'ulteriore specificazione che dell'infortunio che sia occorso all"'extraneus" risponde il garante della sicurezza, sempre che l'infortunio rientri nell'a­ rea di rischio definita dalla regola cautelare violata e che il terzo non abbia posto in essere un comportamento di volontaria esposizione a pericolo (così Sez. 4, n. 43168 del 17/6/2014, Cinque, Rv. 260947 relativa ad una fattispecie, nella quale l'imputato, nella qualità di responsabile per la sicurezza, è stato ritenuto colpevole della morte di un minore, che, introdottosi con degli amici in un cantiere edile, salito su un solaio, precipitava al suolo attraverso un lucernaio rimasto aperto).
Nello stesso solco è stato affermato che, ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante del fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, occorre che l'evento realizzatosi concretizzi il rischio che la regola cautelare violata mirava a prevenire, con la conseguenza che ove la persona offesa dal reato non sia un lavoratore ma un terzo, la circostanza è ravvisabile solo se la regola prevenzionistica sia dettata a tutela di qualsiasi soggetto che entri in contatto con la fonte di pericolo sulla quale il datore di lavoro ha poteri di gestione e non anche quando la regola prevenzionistica sia posta a beneficio precipuo del lavoratore (così Sez. 4, n. 51142 del 12/11/2019, Festa c/ Losignore, Rv. 277880 che, applicazione del principio, ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva escluso la circostanza aggravante in questione in relazione all'infortunio occorso a un vigile del fuoco durante un intervento volto a domare un incendio di sterpaglie, perché folgorato da un conduttore della linea elettrica sganciatosi da un palo, in conseguenza dell'omessa manutenzione della linea elettrica).
Ebbene, non paiono esserci dubbi che il crollo del capannone costituisca la concretizzazione del rischio lavorativo che doveva essere governato dal datore di lavoro tanto a tutela del proprio dipendente S.R. che di coloro -in primis gli autotrasportatori - che si avvicendavano nel portare le balle al sito di stoccaggio.
La sentenza impugnata, su tale punto, opera dunque un buon governo anche del principio affermato dalla recente sentenza sul disastro ferroviario di Viareggio del 2009 (Sez. 4 n. 32899 dell'8/1/2021, Castaldo ed altri, non mass.) ove -a pag. 311 della motivazione - viene affermato il condivisibile principio che "ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante di cui all'art. 589, co. 2 (e all'art. 590, co. 3) cod. pen., la locuzione "se il fatto è commesso ... con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro" va interpretata come riferita ad eventi nei quali risulta concretizzato il rischio lavorativo, per essere quelli causati dalla violazione di doveri cautelari correlati a tale tipo di rischio" e che "per rischio lavorativo deve intendersi quello derivante dallo svolgimento di attività lavorativa e che ha ordinariamente ad oggetto la sicurezza e la salute dei lavoratori ma può concernere anche la sicurezza e la salute di terzi, ove questi vengano a trovarsi nella medesima situazione di esposizione del lavoratore".

6. Orbene, con l'appello e poi con il ricorso a questa Corte di legittimità la linea difensiva tesa all'esclusione di responsabilità in capo al T.G. si è mossa lungo tre direttrici: l. La corretta individuazione dei rischi connessi all'attività lavorativa; 2. L'impossibilità di prevedere rischi derivanti dalla conformazione dei luoghi e dalle carenze progettuali e costruttive del capannone; 3. In ultima analisi, l'interruzione del nesso eziologico in relazione al comportamento abnorme del S..
Ebbene, come si anticipava, a tutte queste questioni già la Corte lagunare, a fronte peraltro di una sentenza di primo grado doviziosamente e analiticamente motivata, ha fornito delle risposte confutando una ad una le specifiche doglianze. Quanto alla completezza della risposta, va detto che, ancorché paia trascurare alcuni specifici motivi di appello, in realtà offre una motivazione globale che li copre tutti.
In proposito, non va dimenticato che, in caso di doppia conforme affermazione di responsabilità le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l'univoca giurisprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte Sez. 2 n. 34891 del 16/5/2013, Vecchia, Rv. 256096; conf. Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615: Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. il 1994, Albergamo ed altri, Rv. 197250).
Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressa­ mente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià ed altri, Rv.254107).
La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini, se il giudice d'appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono l"'ossatura" dello schema difensivo dell'imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell'iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26/9/2002, dep. 2003, Delvai, Rv. 223061).
E' stato anche sottolineato da questa Corte che in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell'art. 606, comma primo lett. e) cod. proc. pen., la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisi­ vità degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione (Sez. 2, n. 9242 dell'S/2/2013, Reggio, Rv. 254988).

7. La difesa aveva già in appello sostenuto che l'imputato aveva correttamente valutato il rischio che comportava per il lavoratore l'uso del carrello elevatore, tanto è vero che la protezione della cabina aveva tenuto indenne il S.R. dalla caduta dei pannelli; e che non poteva però prevedere che un semplice urto contro il portale avrebbe determinato un crollo tale da comportare le luttuose conseguenze di cui in causa, visto che il capannone era stato costruito nel rispetto delle normative esistenti e poi regolarmente collaudato, come aveva stabilito la perizia disposta dal Tribunale.
L'argomentazione, tuttavia, con motivazione priva di aporie logiche, non era stata ritenuta fondata, in primis, sul rilievo che la mancata valutazione del rischio addebitata al T.G. non riguarda la regolarità del carrello elevatore o la sicurezza di chi lo utilizzava, quanto invece il pericolo che l'uso di quel mezzo comportava più in generale, visto che poteva transitare per una porta (la n.3 dell'allegata planimetria) alta m. 4,64, mentre i suoi montanti, durante le operazioni di trasporto, potevano raggiungere ed anche superare quell'altezza, con il rischio evidente di collidere con l'architrave della stessa, come in effetti si è verificato.
Questo rischio - come si rileva in sentenza- non è stato preso in considerazione nel DVR, e già la sentenza di primo grado su tale omissione aveva correttamente fondato il suo giudizio di colpevolezza. E la difesa non aveva censurato esplicitamente questo passaggio della motivazione nell'atto di appello, nel quale, "superando" tale questione, si era invece sostenuto che T.G., comunque, non poteva prevedere che un semplice urto del portale potesse determinare il crollo di alcuni pannelli della facciata, per cui l'imputato non doveva in ogni caso rispondere di quanto è successo.
Ebbene, neppure questa argomentazione - che viene riproposta anche nell'odierno ricorso- è stata ritenuta fondata.
La Corte veneziana, infatti, rileva che progettisti e costruttori del capannone sono stati assolti dal primo giudice poiché, secondo quanto affermato dal perito Mannino, il manufatto non violava la normativa esistente nel 2002, epoca della sua edificazione, in quanto, per la sua regolarità, era sufficiente che lo stesso avesse una struttura tale da reggere l'eventuale "forza del vento" (diversa e assai più critica era stata la valutazione espressa dal consulente del P.M., ma il giudice l'ha disattesa ed il P.M. non ha impugnato la sentenza sul punto).
Lo stesso perito d'ufficio aveva pure evidenziato che "nelle zone classificate non sismiche, le strutture prefabbricate mancavano endemicamente di sufficienti vincoli alle forze orizzontali, soprattutto i pannelli di tamponamento" (come si sarebbe poi visto col terremoto dell'Emilia: v. perizia Mannino, p. 19); che, quando il capannone era stato costruito, era stata prevista dalla committenza (l'Immobiliare Casabella), solo la generica destinazione ad uso "artigianale-industriale", ignorandosi ovviamente quale uso in concreto ne avrebbero fatto i futuri acquirenti (v. esame Mannino, udienza 13/12/2016, pp. 25-26); che, di fatto, il T.G. impiegava in azienda un muletto che a pieno carico raggiungeva le 15 tonnellate e che con i montanti alzati superava l'altezza della porta che poteva attraversare. Tuttavia, per i giudici del gravame del merito, dirimente è la considerazione che, anche nel 2002, con la legislazione allora esistente (art. 31 D.Lgs n. 626/94), il datore di lavoro che si fosse trovato ad operare con quei mezzi avrebbe dovuto porsi il problema della sicurezza dei luoghi di lavoro e valutare il rischio che non un qualsiasi urto, ma quello prodotto da una macchina così pesante, spinta contro i montanti o l'architrave del portale, poteva comportare per la solidità della facciata di un capannone, costruito solo per resistere alla forza del vento. E la consapevolezza di un simile rischio doveva essere nel T.G. ancora maggiore, poiché, quando ha acquistato quella struttura (non dalla società immobiliare, ma da un successivo dante causa), la situazione di fatto e di diritto era radicalmente cambiata, in quanto, fin dal 2003, la zona di Noale, caratterizzata da possibili "scuotimenti", era stata ricompresa tra quelle a rischio sismico (v. Ordinanza del Presi­ dente del Consiglio dei Ministri n. 3274/2003) e sottoposta, di conseguenza, alle normative assai più vincolanti, quanto a staticità degli edifici, previste dalla L. 3/2/74 n. 64 e richiamata dal D. Lgs n. 81/2008.

8. T.G., poi, aveva l'obbligo di garantire che il luogo di lavoro e le strutture ivi esistenti "possedessero una solidità che corrispondesse al loro tipo di impiego ed alle caratteristiche ambientali" (v. D.Lgs cit., AII. IV, punto 1.1.L).
L'odierno ricorrente, dunque, nel 2010, tenuto conto del lavoro che svolgeva e dei pesanti mezzi che impiegava, poco affidamento poteva fare su di un capannone collaudato solo per resistere alla forza del vento, ma non a quella di possibili urti. Avendolo inoltre acquistato in una zona individuata tra quelle a rischio sismico, avrebbe dovuto assicurarsi che quella struttura fosse in regola anche con la nuova, diversa e più stringente normativa ("allora c'era solo il vento, adesso c'è il vento e il sisma", come ricorda la sentenza impugnata, aveva dichiarato Mannino all'udienza del 13/12/2016, p. 18 del verbale).
In ogni caso avrebbe dovuto prendere atto della fragilità del capannone, agire di conseguenza ed adottare, almeno, le opportune cautele per evitare qualsiasi possibilità di urto del pesante muletto con le strutture di quell'edificio, prevedendo, innanzitutto, quel rischio specifico e provvedendo poi, anche con un'apposita segnalazione, ad impedire il transito del muletto per la porta "bassa" del capannone, visto che vi erano delle uscite più larghe e più alte ("otto metri", secondo l'approssimativa indicazione del teste C.: v. udienza 18/4/2017, p.42) che avrebbero eliminato ogni pericolo di impatto.
Che la forza d'urto del carrello, in quel momento neppure a pieno carico, contro l'architrave (valutata dal consulente del P.M. in 10.000 chili v. p. 72 dell'elaborato e in misura ancora maggiore dalla perizia, v. p. 88) potesse causare il crollo, almeno parziale, della facciata, visto che, per resistere al vento, era composta, visibilmente, solo da una serie di pannelli sovrapposti, secondo la logica motivazione della Corte veneziana, era dunque pienamente prevedibile.
Né il fatto che gli stessi fossero stati collocati in modo difforme da come pro­ gettato ha avuto il rilievo attribuito loro dalla difesa dell'odierno ricorrente nel corso del processo, posto che - come ricorda la sentenza impugnata- lo stesso perito ha confermato che, con quel tipo di urto, se anche l'esecuzione fosse stata effettuata correttamente, cioè come previsto secondo la normativa dell'epoca, "il disastro sarebbe successo lo stesso" (v. Mannino, verbale 13/12/2016, p. 13).

Il V.A. - si rileva in sentenza- non è stato colpito perché i pannelli, a causa della irregolare esecuzione, sarebbero "schizzati verso l'esterno" (sul punto viene ricordato che le foto in atti evidenziano invece come il predetto sia stato investito dai due pannelli laterali alla porta, semplicemente caduti vicino alla stessa, uno dopo l'altro, come dalle foto 25 a e 25 b dell'elaborato Pasqualon, pag. 30), ma perché il locale di attesa per gli autisti, pur previsto, non era stato reso accessibile (il richiamo è alla foto a pag. 21 della Relazione Spisal), per cui il V.A., a causa di questa ennesima inadempienza del T.G., era stato costretto a restare in piedi dietro al camion e vicino alla porta, mentre il carrellista completava il carico.

9. La Corte veneziana ha già argomentatamente confutato l'ulteriore tesi difensiva secondo cui l'incidente non sarebbe avvenuto in conseguenza delle omissioni dell'imputato, poiché, da un lato, l'azienda aveva comunque disposto che il trasporto dei carichi fosse effettuato attraverso il portone "grande" (quello alto "otto metri") e perché, dall'altro, il comportamento del S.R., non semplicemente imprudente, ma tenuto in aperta e volontaria violazione dei compiti propri del carrellista (era transitato per la porta tenendo le pinze sollevate dal suolo per oltre 70 cm), costituiva una causa interruttiva di quel nesso causale ritenuto invece dal giudice.
Nessuna delle due prospettazioni è stata ritenuta accoglibile.
Sul primo punto la Corte territoriale richiama adesivamente quanto già valutato dal giudice di primo grado in modo esauriente a pag. 25 della prima sentenza, a aggiunge che il C. ha solo asserito, peraltro senza riscontro alcuno, che a lui era stato detto verbalmente dal responsabile alla sicurezza di utilizzare i portali alti (il richiamo è al verbale di udienza del 18/4/2017, pag. 40), ma non ha mai sostenuto che vi fosse una disposizione aziendale in tal senso comunicata anche al S.R.. E questi, dal canto suo, ha spiegato le molteplici ragioni per cui era più logico e pratico uscire dalla porta bassa, come lui aveva sempre fatto, visto che presso quell'uscita stazionavano i camion e perché lì vi era la "pesa" per il controllo dei carichi (circostanza questa ammessa anche dal C., ivi, pag. 34). Per i giudici di merito è indubbio che l'incidente sia stato causato dall'urto del muletto con le travi della porta di ingresso a prescindere dalla posizione delle forche.
Il dato dei 40 centimetri, su cui pure torna l'odierno ricorso, non è affatto travisato, ma è contenuto nella perizia. E comunque quello che conta è il ragionamento sviluppato nel tessuto motivazionale delle due doppie conformi sentenze di merito, che delinea uno stato dei luoghi di estremo pericolo per il lavoratore e per chi ci veniva a contatto, con la porta più grande caduta in totale disuso e con quelle più piccole che presentavano i segni di ricorrenti urti del muletto, segno di una prassi lavorativa che contava sulla resistenza della struttura e che poco si curava delle collisioni.

10. E' indubbio, pertanto, il ruolo colposamente attivo del lavoratore S.R. - giudicato separatamente con sentenza già passata in giudicato allorquando è stato sentito- e del cui concorso di colpa si è tenuto conto ai fini della concessione al T.G. delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante- nel verificarsi dell'incidente.
Certamente, però, il comportamento del lavoratore non scrimina la responsabilità del datore di lavoro in relazione all'incidente avvenuto in una situazione di carenza di misure di sicurezza e di non corretta organizzazione del lavoro.
Questa Corte di legittimità ha da tempo chiarito che il datore di lavoro, e, in generale, il destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lo tano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (vedasi sul punto Sez. 4, n. 7188 del 10/1/2018, Bozzi, Rv. 272222).
Costante giurisprudenza di legittimità, ha affermato il principio che, in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori l'osservanza delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile (così, ex multis, Sez. 4 n. 37986 del 27/6/2012, Battafarano, Rv. 254365, che, in applicazione del principio di cui in massima ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità - in ordine al reato di cui all'art. 590, comma terzo, cod. pen. - dell'imputato, legale rappresentante di una s.a.s., per non avere adeguatamente informato il lavoratore, il quale aveva ingerito del detersivo contenuto in una bottiglia non contrassegnata, ritenendo trattarsi di acqua minerale; conf. Sez. 4, n. 3787 del 17/10/2014 dep. il 2015, Bonelli Rv. 261946 in un caso in cui la Corte ha ritenuto non abnorme il comportamento del lavoratore che, per l'esecuzione di lavori di verniciatura, aveva impiegato una scala doppia invece di approntare un trabattello pur esistente in cantiere).
Inoltre, è altrettanto pacifico che non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre comunque all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (così questa Sez. 4, n. 7364 del 14/1/2014, Scarselli, Rv. 259321 relativamente ad una fattispecie relativa alle lesioni "da caduta" riportate da un lavoratore nel corso di lavorazioni in alta quota, in relazione alla quale la Corte ha ritenuto configurabile la responsabilità del datore di lavoro che non aveva predisposto un'idonea impalcatura - "trabattello" - nonostante il lavoratore avesse concorso all'evento, non facendo uso dei tiranti di sicurezza).
Non è configurabile, in altri termini, la responsabilità ovvero la corresponsabilità del lavoratore per l'infortunio occorsogli allorquando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli (Sez. 4, n. 22813 del 21/4/2015, Palazzolo, Rv. 263497). Ciò perché il datore di lavoro quale responsabile della sicurezza gravato non solo dell'obbligo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente la loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei pre­ statori di lavoro" (vedasi anche questa Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014 dep. il 2015, Ottino, Rv. 263200). E, qualora sussista la possibilità di ricorrere a plurime misure di prevenzione di eventi dannosi, il datore di lavoro è tenuto ad adottare il sistema antinfortunistico sul cui utilizzo incida meno la scelta discrezionale del lavoratore, al fine di garantire il maggior livello di sicurezza possibile Sez. 4, n. 4325 del 27/10/2015 dep. il 2016, Zappalà ed altro, Rv. 265942).
Di rilievo anche il recente dictum di Sez. 4 n. 5007 del 28/11/2018 dep. 2019, Musso, Rv. 275017 che ribadisce che la condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore, idonea ad escludere il nesso causale, non è solo quella che esorbita dalle mansioni affidate al lavoratore, ma anche quella che, nell'ambito delle stesse, attiva un rischio eccentrico od esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (in quel caso la Corte di legittimità ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva escluso la responsabilità del datore di lavoro per le lesioni riportate da un lavoratore che, per sbloccare una leva necessaria al funzionamento di una macchina utensile, aveva introdotto una mano all'interno della macchina stessa anziché utilizzare l'apposito palanchino di cui era stato dotato).
Ribadendo il concetto di "rischio eccentrico" altra recente pronuncia (Sez. 4 n. 27871 del 20/3/2019, Simeone, Rv. 276242) ha puntualizzato che, perché possa ritenersi che il comportamento negligente, imprudente e imperito del lavoratore, pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate, costituisca concretizzazione di un "rischio eccentrico", con esclusione della responsabilità del garante, è necessario che questi abbia posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente, così che, solo in questo caso, l'evento verificatosi potrà essere ricondotto alla negligenza del lavoratore, piuttosto che al comportamento del garante (si trattava di un caso di omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro in quanto la mancata attuazione delle prescrizioni contenute nel POS e la mancata informazione del lavoratore avevano determinato l'assenza delle cautele volte a governare anche il rischio di imprudente esecuzione dei compiti assegnati al lavoratore infortunato).
Ebbene, per la logica motivazione dei giudici di merito il comportamento del S.R., non aveva causato l'interruzione del nesso causale, posto che lo stesso, sia pure imprudente, non era stato affatto eccentrico rispetto alle mansioni affidategli, in quanto, pur seguendo i criteri di calcolo suggeriti dal consulente della difesa ed accolti dal perito Mannino, il transito sotto la porta n.3, alta 464 cm., di un carrello con le pinze sollevate da terra di circa 60 cm, avrebbe determinato l'urto contro l'architrave; e poiché una condotta "normale e prudente del carrello" prevedeva il trasporto con le pinze distanti da terra di circa 40 cm., "il franco di sicurezza" per il guidatore era "molto ridotto, pari a circa 20 cm" (così la perizia Mannino e Battilana, p.231; secondo la consulenza Pasqualon lo spazio utile sarebbe stato solo di 11 cm: v. elaborato cit., p.95).
Un errore di quelle dimensioni nell'alzata delle pinze da parte del carrellista non costituiva quindi una scelta deliberata di violare le regole, come prospettato dalla difesa, ma era più semplicemente un atto in cui poteva incorrere un lavoratore distratto o frettoloso, giunto quasi al termine delle operazioni di carico, come era appunto quel giorno il S.R.: un comportamento imprudente, certo, ma sempre possibile, favorito dal fatto che l'altezza della porta non era segnalata e che, al momento del transito, il tetto della cabina del carrello rendeva ardua la visuale verso l'alto, impedendo così di fatto al guidatore di controllare bene la manovra, dovendola eseguire in quegli spazi angusti.
Lungi, perciò, dal costituire un atto abnorme, quel comportamento scorretto del lavoratore era facilmente prevedibile ed altrettanto facilmente evitabile, se solo il T.G. si fosse posto quel problema di sicurezza e l'avesse risolto, quanto meno, proibendo ai dipendenti di transitare con il carrello per le due porte basse del capannone.

11. Infondata, è anche la doglianza della mancata rinnovazione della perizia, che invece è stata adeguatamente motivata, sul rilievo da parte dei giudici di appello che la perizia e le consulenze in atti hanno consentito di raggiungere le necessarie certezze in ordine alla dinamica del fatto ed alla colpa che ha caratterizzato il comportamento dell'imputato,
Motivato, infine, è stato il mancato accoglimento di una riduzione della pena per l'avvenuto risarcimento del danno -da cui l'infondatezza del morivo di ricorso sul punto- essendo state a tal fine valorizzate negativamente la sussistenza di altre tre condanne per lesioni e, quindi, la non occasionalità della condotta negligente, che ha portato a ritenere la pena irrogata in primo grado adeguata alla gravità del danno ed alla negativa personalità dell'imputato.

12. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento

 

P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.