Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 22 dicembre 2021, n. 46842 - Lavoro di braccianti agricoli. Indici di sfruttamento


 

 

Presidente: DOVERE SALVATORE
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 11/11/2021
 

Fatto


1. Il Tribunale del Riesame di Cosenza, il 1/7/2020, in accoglimento dell'istanza di riesame presentata da F.G., annullava il decreto di sequestro preventivo dell'azienda nella sua disponibilità emesso dal GIP di Castrovillari in data 22/5/2020, in quanto indagato per il reato di cui al capo 42) dell'incolpazione provvisoria: delitto di cui agli artt. 81 cpv, 110, 603-bis, co. 1 n. 2), 3 nn. 1), 2), 3) e 4), 4 nn. 1) e 3) perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, in concorso con il coimputato F.GA., utilizzavano, assumevano ed impiegavano presso l'azienda agricola D. I. F.GA. manodopera e, in particolare, i seguenti braccianti agricoli: OMISSIS, sottoponendo loro a condizioni di sfruttamento - attesa la reiterata corresponsione di retribuzioni difformi dai contratti collettivi nazionali o territoriali e, comunque, sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato, la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria e alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza ed a situazioni alloggiative degradanti - ed approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, i quali, invero, attese le precarie condizioni economiche ed avendo la necessità di provvedere ai loro bisogni, erano costretti ad accettare le prefate condizioni di lavoro.
Con l'aggravante di aver utilizzato lavoratori in numero superiore a tre nonché dell'aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo per la loro incolumità, e tanto avuto riguardo alle caratteristiche della prestazione da svolgere (trattandosi di lavoro agricolo) e delle condizioni di lavoro (in particolare, essendo i lavoratori impiegati sui campi senza alcun dispositivo di protezione individuale e senza poter godere di periodo di riposo).
In Calabria dal mese di marzo 2018, a tutt'oggi.
Secondo la prospettazione accusatoria F.G., unitamente al padre F.GA., utilizzava, presso la ditta individuale di quest'ultimo, manodopera bracciantile, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. In particolare, presso i terreni nella disponibilità della predetta azienda, avrebbe utilizzato, in condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno, tra gli altri, i seguenti braccianti: OMISSIS.
L'attività di utilizzazione sarebbe stata svolta mediante l'intermediazione illecita di A.L.A. detto Mustafa, E.S. e K.E. detto "Monti" o "Mondi" - coindagati nell'ambito del medesimo procedimento penale ed a capo di un'organizzazione criminale finalizzata al compimento di plurimi delitti di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro -, reclutatori di manodopera bracciantile in condizioni di sfruttamento per molteplici aziende, tra cui quella riconducibile all'indagato (vengono richiamate le pagg. 1435 e ss. dell'ordinanza del Gip di Castrovillari).

2. Ricorre il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, co. 1, disp. att., cod. proc. pen.
In premessa, il PM ricorrente indica gli elementi di fatto a sostegno dell'ipotesi accusatoria - intercettazioni telefoniche (pagg. 3-68), esito del servi­ zio di O.C.P. del 4/4/2018 (pag. 68) e di quello del 9/4/2018 (pagg. 68-69); sommarie informazioni del 9/4/2018 rese dai braccianti identificati in pari data nel corso del predetto o.c.p. (pagg. 69-71); quindi dà conto del contenuto dell'ordinanza di applicazione della misura cautelare reale del GIP di Castrovillari del 22/5/2020 (pagg. 71-92) e dell'ordinanza del tribunale del riesame del 29/6/2020, che riporta per esteso (pagg. 92-96) e che - lamenta- avrebbe deliberatamente selezionato soltanto gli elementi investigativi utili ad annullare l'ordinanza generica, omettendo un vero vaglio giudiziale, risultando peraltro identica all'ordinanza 76/2020 pronunciate nei confronti di altro indagato. Quindi, con un primo motivo, il PM cosentino denuncia violazione di legge con riferimento all'art. 603-bis cod. pen e della contrattazione territoriale della provincia di Matera per gli operai agricoli, richiamata dall'art. 603- bis co. 3 cod. pen. In particolare, rileva che la norma incriminatrice novellata si applica anche alle aziende utilizzatrici, prima esenti da penale responsabilità, norma violata dal tribunale della libertà, che avrebbe operato una non consentita scissione tra la figura del reclutatore e quella dell'utilizzatore.
La disposizione in esame - prosegue il ricorso- è chiara: 1. nel distinguere le condizioni di sfruttamento a cui il lavoratore deve essere sottoposto dall'approfittamento dello stato di bisogno, trattandosi di autonomi elementi costitutivi del reato; 2. nel ritenere integrato, ipso iure, l'elemento dello sfruttamento sulla base di una sola delle condizioni sopra indicate; 3. nel ritenere integrato il reato anche in presenza di un solo lavoratore reclutato ed utilizzato, invero prevedendo una specifica aggravante laddove i lavoratori reclutati siano in numero superiore a tre.
In altri termini, trattandosi di reato eventualmente abituale, per la sua esistenza non sarebbe necessaria la reiterazione di intermediazioni o utilizzazioni, potendo il reato perfezionarsi anche con una sola intermediazione od utilizzazione (relativa ad un solo lavoratore), ma allorché tale reiterazione si verifichi si ha pur sempre un reato unico.
In particolare, alle pagg. 102 e ss. il PM ricorrente indica tutti quegli ele­menti emergenti dalle indagini (intercettazioni, servizi di o.c.p., sommarie informazioni già specificate in premessa), che sarebbero stati completamene oblitera­ti dal Tribunale del riesame e che, contrariamente a quanto da quest'ultimo affermato, erano sintomatici del fumus del reato di cui all'art 603-bis cod. pen.
Si evidenzia come dalle sommarie informazioni in atti si evinca che venivano corrisposti ai braccianti 34 euro lordi al giorno, inferiori ai 41,378 previsti dalla contrattazione di categoria. Avrebbe altresì ignorato che i lavoratori -sempre per quello che emerge dalle sommarie informazioni acquisite- erano privi dei dispositivi individuali di protezione.
Il tribunale cosentino -ci si duole- avrebbe arbitrariamente disapplicato la fattispecie criminosa di cui all'art. 603-bis cod. pen. nella parte in cui ritiene sufficiente, ai fini dell'integrazione del requisito dello sfruttamento penalmente rilevante, anche uno solo degli indici ivi indicati.
E, ancora, il tribunale del riesame avrebbe completamente obliterato le sommarie informazioni dei braccianti, che hanno tutti dichiarato lavorare ogni giorno 6,50 ore.
Con un secondo motivo il PM ricorrente lamenta violazione dell'art. 125 co. 3 cod. proc. pen. per mancanza assoluta di motivazione, motivazione meramente apparente, omesso esame di punti decisivi per l'accertamento del fatto.
Afferma che la motivazione del provvedimento impugnato avrebbe natura apparente dissimulando la totale mancanza di un vero e proprio esame critico degli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione, ciò in ordine agli orari di lavoro, alla sussistenza dello stato di bisogno dei lavoratori ,alla conoscenza di tale elemento in capo ai datori di lavoro, alla sussistenza dell'indice di sfruttamento di cui all'art. 603-bis comma 3 n. 2 cod. pen.
Sarebbero stati, inoltre, trascurati punti decisivi per l'accertamento del fatto, e in particolare le risultanze investigative di cui ai servizi di o.c.p. del 4/4/2018 e 9/4/2018. Inoltre, il giudice del gravame cautelare non chiarirebbe quali sono le conversazioni poste a fondamento del proprio convincimento né quali passaggi di tali dialoghi assumano rilevanza ai fini della decisione.

E, ancora, il tribunale del riesame non spiegherebbe perché, nel caso di specie, occorreva un "approfondimento sulle effettive condizioni di lavoro cui venivano sottoposti i braccianti ovvero sulla ricorrenza di situazioni di degrado o di violazione della disciplina sulla sicurezza sul lavoro", tenuto conto che "la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti" è solo uno degli indici dello sfruttamento penalmente rilevante e che il reato integrato dalla ricorrenza di uno soltanto di essi (cfr. art. 603-bis, co. 3 cod. pen.).
Senza contare che il tribunale cosentino, dopo aver reso tale apodittica af­fermazione, nemmeno si confronta con le emergenze investigative in atti, univocamente attestanti la sussistenza, quantomeno in punto di fumus commissi delicti, di tutti gli indici di sfruttamento di cui all'art. 603-bis cod. pen., anche di quello rispetto al quale il Tribunale del riesame ritiene difetti l'approfondimento.
Inoltre, ci si duole che il tribunale del riesame non abbia chiarito da dove trae il dato per cui dalle conversazioni tra E.S. e F.G. emerga "... esclusivamente la volontà del primo di assumere regolarmente alcuni braccianti... " nonché le ragioni per cui tale circostanza sia incontrastata, laddove si ritiene che avrebbe dovuto spiegare: 1. quali erano i rapporti tra l'indagato e la reclutatrice E.S.; 2. perché l'indagato, anziché ricorrere agli istituzionali canali di somministrazione della manodopera, si rivolgeva ripetutamente alla caporale E.S. per reperire manodopera da impiegare presso la sua azienda, sebbene ella non sia un soggetto autorizzato alla somministrazione di manodopera;
3. perché l'indagato discorreva con E.S., reclutatrice di manodopera" delle assunzioni dei braccianti e dei documenti occorrenti per fare le assunzioni, quando in realtà avrebbe dovuto egli, in qualità di titolare dell'azienda, curare le pratiche relative alle assunzioni dei lavoratori impiegati presso la sua azienda.
Peraltro, si evidenzia che il tribunale cosentino avrebbe escluso il fumus del delitto contestato, ma avrebbe ritenuto evidentemente sussistente quello della diversa fattispecie criminosa prevista dall'art. 18, co. 2, d.lgs, 276/03, circostanza che avrebbe dovuto indurlo a mantenere comunque il sequestro del compendio aziendale.
Con un terzo motivo il PM ricorrente lamenta inosservanza degli art. 321 e 322 cod. proc. pen. anche in relazione all'art. 603-bis. 2 cod. pen.
In particolare, si censura l'ordinanza impugnata, perché il tribunale del riesame avrebbe ritenuto insussistente il fumus commissi delicti senza limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale ipotizzata, ma anticipando la decisione della questione di merito. E, ancora, perché il giudice del gravame cautelare sarebbe giunto alla predetta conclusione sulla scorta di un'analisi, peraltro apparente, soltanto parziale degli elementi indiziari di valenza accusatoria valorizzati dal Gip di Castrovillari, abdicando, così, a quella funzione di controllo che gli è propria e che impone una lettura globale delle emergenze investigative in atti.
Chiede, pertanto, annullarsi con rinvio l'ordinanza impugnata.
3. Nei termini di legge hanno rassegnato le proprie conclusioni scritte per l'udienza senza discussione orale (art. 23 co. 8 d.l. 137/2020), il P.G., che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso e il difensore del F.G., Avv. Roberto Laghi, che, con memoria difensiva del 25/10/2021, ha chiesto che il ricorso del PM di Cosenza venga dichiarato inammissibile o rigettato.
Il difensore del ricorrente deduce anche la tardività del proposto ricorso per Cassazione sul rilievo che le comunicazioni al PM ricorrente del provvedimento impugnato sono state inoltrate il 6/7/2020 e che il ricorso del PM depositato il 20/7/2020 sarebbe stato violativo del termine per proporlo di 10 giorni.
La vicenda per quanto riguarda l'odierno ricorrente ed il padre -deduce ancora il difensore- trova collocazione cronologica esclusivamente nella primavera, mesi Aprile- Maggio, del 2018, mentre il capo d'incolpazione indica "dal mese di Marzo 2018 a tutt'oggi" e non c'è elemento alcuno, nell'intero fascicolo processuale che rappresenti un'attività, non ici illecita, ma meramente "non chiara" successiva al Maggio del 2018. E con riferimento a tale periodo, l'azienda era nell'esclusiva titolarità e gestione di F.GA., classe 1942, contadino, con otto figli. L'odierno ricorrente sarebbe subentrato nella gestione dell'azienda, dopo la malattia del padre, solo dopo un contratto di affitto, regolarmente regi­ strato, del 9.1.2020, quindi successivamente ai fatti.
Viene evidenziato anche che i lavoratori utilizzati dall'azienda del F.GA., e di cui all'imputazione, sono OMISSIS sono stati tutti dichiarati, tutti regolarmente assunti, tutti pagati con buste paga che vengono depositate in atti. Poi - si aggiunge- nel capo di imputazione sono indicati anche OMISSIS, ma di costoro, invero, non ci sarebbe traccia alcuna, perché mai avrebbero lavorato nell'azienda del F.GA..
 

Diritto

 


1. I motivi sopra illustrati appaiono in parte non consentiti in questa sede di legittimità ed in parte manifestamente infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.

2. In premessa va evidenziata l'infondatezza dell'eccezione sollevata dal difensore di F.G., che assume essere tardivo il ricorso per cassazione proposto dal Pm il 20/7/2020, sul rilievo che a questi era pervenuta comuni­cazione del provvedimento impugnato il 6/7/2020.
In realtà, il ricorso è stato proposto nei termini, perché, diversamente da quanto opina il difensore, il termine per proporlo era di quindici e non di dieci giorni.
Questa Corte di legittimità, in più pronunce, ha chiarito che il termine per proporre ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 325, co. 1, cod. proc. pen. avverso le ordinanze emesse dal tribunale all'esito di appello o di riesame nei con­ fronti di provvedimenti in materia di misure cautelari reali non è quello di dieci giorni previsto dall'art. 311, co. 1, cod. proc. pen., che si riferisce esclusivamente alla materia delle misure cautelari personali e non viene richiamato dal successivo art. 325 cod. proc. pen., ma quello ordinario di quindici giorni di cui all'art. 585, co. 1, lett. a), cod. proc. pen. stabilito per le decisioni adottate in camera di consiglio, decorrente, secondo il disposto del successivo comma 2, lett. a), della medesima disposizione, dal momento della comunicazione o notificazione dell'avviso di deposito dell'ordinanza (così Sez. 4, n. 51345 del 9/10/2018, S., Rv. 274007; conf. Sez. 3, n. 13737 del 15/11/2018, dep. 2019, Ficarra, Rv. 275190 che ha precisato che detto termine si applica anche qualora nel dispositivo dell'ordinanza fosse precisato che il deposito della motivazione è riservato nel termine di trenta giorni; Sez. 2, n. 49966 del 15/09/2015, Miccichè, Rv. 265559).

3. Preliminarmente, va anche ricordato, in punto di diritto che l'art. 325 cod. proc. pen. prevede contro le ordinanze in materia di appello e di riesame di misure cautelari reali che il ricorso per cassazione possa essere proposto per sola violazione di legge.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, ha più volte ribadito, tuttavia, come in tale nozione debbano ricomprendersi sia gli "errores in iudicando" o "in procedendo", sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice vedasi Sez. Un. n. 25932 del 29/5/2008, Ivanov, Rv. 239692; conf. Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093; Sez. 3, n. 4919 del 14/07/2016, Faiella, Rv. 269296).
E' stato anche precisato che è ammissibile il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l"'iter" logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (così Sez. 6, n. 6589 del 10/1/2013, Gabriele, Rv. 254893 nel giudicare una fattispecie in cui la Corte ha annullato il provvedimento impugnato che, in ordine a contestazioni per i reati previsti dagli artt. 416, 323, 476, 483 e 353 cod. pen. con riguardo all'affidamento di incarichi di progettazione e direzione di lavori pubblici, non aveva specificato le violazioni riscontrate, ma aveva fatto ricorso ad espressioni ambigue, le quali, anche alla luce di quanto prospettato dalla difesa in sede di riesame, non erano idonee ad escludere che si fosse trattato di mere irregolarità amministrative).
Motivazione assente è quella che manca fisicamente (Sez. 5, n. 4942 del 04/08/1998, Seana; Sez. 5, n. 35532 del 25/06/2010, Angelini) o che è graficamente indecifrabile (Sez. 3, n. 19636 del 19/01/2012, Buzi).
Motivazione apparente, invece è solo quella che «non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui si è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti» (Sez. 1, n. 4787 del 10/11/1993, Di Giorgio), come, per esempio, nel caso di ricorso a clausole di stile ovvero quando la motivazione dissimuli la totale mancanza di un vero e proprio esame critico degli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione, o sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidonea a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (così le già citate Sez. Un., n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov).
Di fronte all'assenza, formale o sostanziale, di una motivazione, atteso l'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, viene dunque a mancare un elemento essenziale dell'atto. E anche l'omesso esame di punti decisivi per l'accertamento del fatto, sui quali è stata fondata l'emissione del provvedimento di sequestro, si traduce in una violazione di legge per mancanza di motivazione, censurabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 325, comma primo cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 28241 del 18/2/2015, Baronio, Rv. 264011; Sez. 1, n. 48253 del 12/09/2017, Serra, n.m.; Sez. 3, n. 38026 del 19/04/2017, De Cieco, n.m.; Sez. 3, n. 38025 del 19/04/2017, Monti, n.m.).
Va anche aggiunto che, anche se in materia di sequestro preventivo il co­ dice di rito non richiede che sia acquisito un quadro probatorio pregnante come per le misure cautelari personali, non è però sufficiente prospettare un fatto co­ stituente reato, limitandosi alla sua mera enunciazione e descrizione, ma è invece necessario valutare le concrete emergenze istruttorie per ricostruire la vicenda anche in semplici termini di "fumus".

4. Ebbene, ricordati i principi giuridici di riferimento, ritiene il Collegio che, nel caso in esame, si sia senz'altro al di fuori dell'ipotesi di motivazione mancante o apparente, perché il Tribunale di Cosenza offre una reale motivazione del proprio decisum.
Sulla scorta di tale considerazione si palesa, pertanto, evidente come il secondo ed il terzo motivo di ricorso (ed anche, parzialmente, il primo) proposti dal Procuratore della Repubblica di Cosenza, seppure rubricati formalmente come violazione di legge, contestino; in realtà, la tenuta del tessuto motivazionale del provvedimento impugnato, il che non è consentito in questa sede di legittimità per quel tipo di provvedimenti.
Le restanti censure in diritto mosse con il primo motivo, seppure non fondate, necessitano, tuttavia, ad avviso del Collegio, di alcune puntualizzazioni relative all'ambito applicativo del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all'art. 603-bis cod. pen.
Come evidenziato in premessa, la Procura ricorrente lamenta violazione di legge con riferimento all'art. 603-bis cod. pen. e della contrattazione territoriale della provincia di Matera per gli operai agricoli, richiamata dall'art. 603 bis comma 3 cod. pen. In particolare, rileva che la norma incriminatrice novellata si applica anche alle aziende utilizzatrici, prima esenti da penale responsabilità, norma che sarebbe stata violata dal tribunale della libertà, che avrebbe operato una non consentita scissione tra la figura del reclutatore e quella dell'utilizzatore, invece entrambi punibili. Ancora, rileva erronea applicazione di legge da parte del tribunale del riesame laddove: 1. non avrebbe considerato che la fattispecie punisce la condotta di utilizzazione di manodopera anche mediante l'attività di intermediazione di cui al n. 1; 2. non avrebbe ritenuto sufficiente uno solo degli indici di sfruttamento ivi previsti; 3. avrebbe disapplicato la disciplina in tema di indici di sfruttamento penalmente rilevanti concernenti la retribuzione, l'orario di lavoro, le ferie e i riposi; 4. avrebbe omesso di confrontarsi con le emergenze investigative sintomatiche della ricorrenza di una utilizzazione mediante intermediazione di attività bracciantile in condizioni di sfruttamento ed approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, nonché sintomatiche della sussistenza di almeno uno degli indici di sfruttamento e dello stato di bisogno rispetto ad un solo lavoratore; 5. omette di esaminare punti decisivi per l'accertamento del fatto, sui quali è fondata l'ammissione del provvedimento di sequestro.
Si tratta di doglianze manifestamente infondate.
Il legislatore, attraverso il di 13 agosto 2011, n. 138, ha inserito nel codice penale il delitto di cui all'art. 603-bis cod. pen. al fine di colmare quello spazio vuoto di tutela creatosi fra il confine, da un lato, della grave ipotesi di riduzione in schiavitù e tratta degli esseri umani di cui all'art. 600 cod. pen., riformato già con la l. n. 228/2003, norma che punisce assai gravemente la riduzione o il mantenimento in schiavitù o in servitù (includendo nell'ipotesi di riduzione in servitù anche forme di lavoro forzato o obbligatorio) e, dall'altro, quello degli illeciti contravvenzionali, di effimero disvalore penale, previsti dalla legge delega 14 febbraio 2003, n. 30 (la cd. "legge Biagi"), poi attuata con l'emanazione del d.lgs, 10 settembre 2003, n. 276.
L'art. 603-bis cod. pen., nella sua originaria formulazione, puniva chiunque svolgesse "un'attività organizzata di intermediazione, reclutandone manodopera o organizzandone l'attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori".
La condotta tipica, dunque, era solo quella di intermediazione e, come aveva da subito notato la dottrina, inspiegabilmente, veniva sanzionata solo una fattispecie ristretta di sfruttamento, ovvero quello violento, e il datore di lavoro poteva solo concorrere nel reato con l'intermediario. Modalità più diffuse e subdole di sfruttamento, attuate senza ricorrere necessariamente alla violenza, alla minaccia o all'intimidazione, venivano lasciate alla blanda gestione di un sistema penale più mite, quello predisposto attraverso le ipotesi contravvenzionali previste in tema di intermediazione illecita ex art. 18 d.lgs.n. 273/2003. Inoltre, la mancata previsione della responsabilità degli enti, sembrava ignorare che nella realtà il fenomeno del caporalato è schermato da agenzie di intermediazione o società cooperative e come le stesse imprese utilizzatrici siano gestite da soggetti collettivi.
Il reato, nella sua formulazione previgente, era ben compendiato da Sez. 5, n. 14591 del 4/2/2014, Stoican, Rv. 262541 che chiariva come, in tema di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, il reato di cui all'art. 603-bis, cod. pen., punisse tutte quelle condotte distorsive del mercato del lavoro, che, in quanto caratterizzate dallo sfruttamento mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, non si risolvessero nella mera violazione delle regole relative all'avviamento al lavoro sanzionate dall'art. 18 del d.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (in quella pronuncia la Corte ritenne integrato il requisito della intimidazione nella rinuncia dei lavoratori stranieri, privi di adeguati mezzi di sussistenza, a richiedere il pur irrisorio compenso pattuito con l'agente, per il timore di non essere più chiamati a lavorare).
Questa Corte di legittimità ebbe anche a precisare che il reato di cui all'art. 603-bis, cod. pen., nel testo precedente alla legge di modifica 29 ottobre 2016, n. 199, richiedeva "l'attività organizzata" di intermediazione come modalità della condotta, che non richiedeva necessariamente la forma associativa ma deve svolgersi in modo non occasionale, attraverso una strutturazione che comporti l'impiego di mezzi (così Sez. 5, n. 6788 del 23/11/2016, dep. 2017, Vecchio ed altro, Rv. 2694471 nella cui motivazione la Corte, applicando, perché più favorevole, la formulazione precedente alla novella del reato di cui all'art. 603 bis cod.pen., ritenne sussistente il requisito dell'attività organizzata di intermediazione nei confronti dei due imputati, i quali curavano tutti gli aspetti organizzativi del lavoro in condizioni di sfruttamento di alcuni braccianti agricoli).
Così congegnata, tuttavia, la norma ha subito nei suoi pochi anni di vigenza, un'applicazione assai ridotta, da un lato per la difficoltà di prova della violenza e dell'intimidazione e, dall'altro, perché, per la sua caratterizzazione violenta, la disposizione poneva spesso, in concreto, un problema di concorso apparente di norme con le ipotesi più gravi, tipizzate dall'art. 600 cod. pen..
Tra l'altro, in seguito alla modifica apportata dal d.lgs 4 marzo 2014, n. 24, l'art. 600 cod. pen., aveva previsto quale elemento tipico dello stato di soggezione anche l'approfittamento di una situazione di vulnerabilità, ampliando così lo spazio di illiceità riconducibile alla riduzione o al mantenimento in schiavitù o servitù. E finendo così per sovrapporsi sempre più ricorrentemente con la fattispecie delineata dall'art. 603-bis.
L'art. 603-bis, nel testo previgente, finiva perciò per assumere, così, una funzione residuale e uno spazio di operatività molto ridotto, anche per la presenza della clausola di riserva.

5. Ben presto, pertanto, ebbe a palesarsi necessario un nuovo intervento del legislatore, volto a riformulare la fattispecie di cui all'art. 603-bis cod. pen., pre vedendo un alleggerimento sostanziale della tipicità, così da ampliare la sua sfera di operatività e favorire una più agevole praticabilità processuale, grazie anche a un più limitato onere probatorio.
L'intervento c'è stato con la  l. 29 ottobre 2016, n. 199, che ha modificato l'art. 603-bis cod. pen. distinguendo l'ipotesi di intermediazione illecita, il cd. "caporalato", configurandolo come delitto di pericolo a dolo specifico, da quella di sfruttamento del lavoro, condotta propria del datore di lavoro, equiparandole - da molti ritenuto irragionevolmente - sul piano sanzionatorio.

Concorrono a realizzare le condotta tipiche di reclutamento e di utilizzo, rilevanti penalmente, solo lo sfruttamento e l'approfittamento dello stato di bisogno, indici già presenti nella disposizione previgente, mentre la violenza e la minaccia, che prima entravano nella tipicità del reato, oggi ne costituiscono circostanze aggravanti.
L'articolo 603-bis cod. pen. come vigente recita testualmente:
"Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1. 000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque: 1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; 2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l'attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:
1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
2) la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimana/e, a/l'aspettativa obbligatoria, alle ferie;
3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Costituiscono aggravante specifica e comportano l'aumento della pena da un terzo alla metà: 1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre; 2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; 3) l'aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro".
Gioverà aggiungere che la legge n. 199/2016 non si è limitata ad una modifica della fattispecie penale, ma, attraverso un approccio integrato fra sistema penale ed extrapenale, ha articolato una strategia razionale di lotta al fenomeno del caporalato e, più in generale, allo sfruttamento lavorativo, in particolare nel settore agricolo.
A tal fine, il legislatore del 2016 ha ampliato la responsabilità da reato dell'ente giuridico, con l'inserimento dell'art. 603-bis nell'elenco dei reati di cui l'ente risponde ex art. 25-quinquies d.lgs. n. 231/2001. E ha reso possibile il ricorso a strumenti repressivi di tipo patrimoniale, come i diversi tipi di confisca e il sequestro giudiziario, a riprova di una raggiunta maggiore consapevolezza che siamo di fronte, a tutti gli effetti, a forme di criminalità economica.

Orbene, già è possibile, a questo punto, evidenziare come, in punto di diritto, è manifestamente infondata la doglianza del PM ricorrente della distinzione da parte del giudice del gravame della cautela tra la figura dell'utilizzatore e quella dell'intermediario, perché tale distinzione è nella norma.
Per contro, è corretta la motivazione in punto di diritto del tribunale cosentino, che ha ritenuto di mantenere separate le figure dell'utilizzatore e dell'intermediario.
La ratio dell'intervento legislativo del 2016 è stata, infatti, proprio quella di prevedere quale soggetto attivo del reato, oltre al caporale, il datore di lavoro.

6. Il F.G. -è chiaro sia il riferimento normativo che quello in fatto dell'imputazione- è stato indagato per avere utilizzato, assunto o impiegato manodopera, mediante l'attività di intermediazione dei caporali A.L.A. detto Mustafà, E.S. e K.E. detto "Monti" o "Mondi", sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Allo stesso sono state anche contestate le aggravanti di avere utilizzato lavoratori in numero superiore a tre nonché dell'avere commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo per la loro incolumità, e tanto avuto riguardo alle caratteristiche della prestazione da svolgere (trattandosi di lavoro agricolo) e delle condizioni di lavoro (in particolare, essendo i lavoratori impiegati sui campi senza alcun dispositivo di protezione individuale e senza poter godere di periodo di riposo).
Dunque, vengono in rilievo, in primis, le condizioni di sfruttamento cui sarebbero stati sottoposti i lavoratori.
La norma come novellata nel 2016, come già quella del 2011, non definisce il concetto di sfruttamento - almeno non lo definisce in modo diretto -, ma lo "indicizza", individuando alcuni elementi di contesto da cui è possibile desumere la prova dello sfruttamento.
Gli indici di sfruttamento, come chiaramente affermato nella relazione ministeriale di accompagnamento alla legge, non fanno parte del fatto tipico, dal che deriva che la loro genericità non costituisce un vulnus alle garanzie sottese al principio di legalità. E nemmeno gli stessi possono consentire presunzioni, assolute o relative, dello sfruttamento, perché altrimenti contrasterebbero con i principi di garanzia che presiedono alla materia processuale. Tutt'al più, costituiscono delle linee guida che, secondo le intenzioni del legislatore, possono aiutare l'interprete a meglio destreggiarsi in un ambito interpretativo così poco definito e a diradare la vaghezza del concetto di sfruttamento.
Il legislatore ha individuato quattro indici di sfruttamento, tutti contestati nel caso in esame al F.G.: 1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2. la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3. la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
A ben vedere, ricondotte violenza, minaccia ed intimidazione al rango di aggravanti, è restata immutata con la novella del 2016 la struttura della disposizione penale, non solo perché sempre basata sul concetto di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno, ma anche perché il legislatore ha adottato la medesima tecnica legislativa e di tipizzazione della condotta di sfruttamento - ovvero l'elencazione di indici quali sono la remunerazione, il tempo di lavoro, le condizioni di salute e di sicurezza sul lavoro, i metodi di sorveglianza e le situazioni alloggiative - che già la giurisprudenza aveva enucleato rispetto alla fatti­ specie di cui all'art. 600 cod. pen. E questo, peraltro, non fa che aumentare la difficoltà di distinguere le due fattispecie.

7. Tema fondamentale ai fini dell'odierno decidere è che è vero che basta che il giudice individui anche solo uno degli indici di sfruttamento (cfr. in tal senso la condivisibile Sez. 5, n. 17936 del 12/1/2018, Svolazzo, n.m. che ha ritenuto sufficiente anche la prova di un solo indice, purché significativo della condizione di sfruttamento). Ma il tribunale del riesame cosentino dà conto in motivazione di non averne individuati.
Lasciando per un attimo da parte quelli sopra indicati sub 1. e sub 2., per i quali occorre la reiterazione, nei termini per i quali si dirà, il giudice del gravame cautelare dà atto che la sussistenza di indici sintomatici dello sfruttamento dei braccianti non si possa rinvenire dagli esiti dei servizi di o.c.p., che consentivano esclusivamente di verificare la presenza dei braccianti suindicati sui terreni del F.GA., impegnati nella raccolta delle fragole, dato giammai smentito dalla difesa e semmai cristallizzato nella stessa documentazione prodotta.
Non sussistono, in altri termini gli indici sopra indicati sub 3. (la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro) e sub 4. (la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti).
Si legge, ancora, nel provvedimento impugnato, che: "Nessun elemento obiettivo è emerso, altresì, dal compendio intercettivo o dall'attività investigativa espletata, in merito alla protrazione dell'attività lavorativa dei braccianti oltre le 6 ore e 45 minuti (tetto giornaliero massimo secondo i vigenti contratti). Chiaramente insussistente, inoltre, il profilo afferente la violazione della normativa sulla sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro, trattandosi di mera attività di raccolta di fragole che non necessitava di dispositivi di protezione o presidi particolari, ad eccezione dei guanti che venivano regolarmente forniti dal datore di lavoro. L'eventuale indisponibilità di tali "strumenti di lavoro" non avrebbe d'altronde determinato un grave rischio o pregiudizio per l'incolumità dei lavoratori, ma esclusivamente il rischio di una errata manipolazione del frutto e conseguente deterioramento dello stesso" (così pagg. 4-5 dell'ordinanza impugnata).
Rispetto agli indici sub 3) e 4), al di là che possano integrare censure alla motivazione o violazioni di legge, il PM ricorrente non introduce elementi concreti da cui debbano e/o possano essere desunti.
Va anche ricordata e ribadita la consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità - di cui la sentenza impugnata opera un buon governo- secondo cui la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento vale­ vole da solo ad integrare il reato di cui all'art. 603-bis cod. pen. caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavorato­ re, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rap­ porto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio (Sez. 4, n. 27582 del 16/09/2020, Savoia, Rv. 279961, in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del "caporale" e del datore di lavoro, essendo lo sfruttamento evincibile dalla penosa situazione personale e abitativa degli extracomunitari, dalla durata oraria della prestazione, svolta senza dotazioni di sicurezza e corsi di formazione e senza fruizione del riposo settimanale, nonché dall'entità della retribuzione, decurta­ ta sensibilmente per spese affrontate dal datore di lavoro; conf. Sez. 4 n. 11546 del 18/2/2020, Sarker, n.m.; Sez. 4, n. 49781 del 09/10/2019, Kuts, Rv. 277424).
Ed invece, come ricorda il provvedimento impugnato a pag. 3, il provvedi­ mento del Gip aveva desunto la sussistenza del fumus del reato in via quasi automatica dalla riscontrata non corrispondenza delle condizioni previste dai contratti collettivi di categoria.
Il provvedimento impugnato dà anche atto, con riferimento all'assente modalità di controllo sull'attività lavorativa, da parte dei F.G., della equivocità soggettiva del contenuto della conversazione n. 921 del 15 aprile 2018, nel corso della quale la E.S., conversando con tale K.E., afferma che "il vecchio" non permette alle lavoratrici di parlare al telefono, né di uscire di casa, potendo le stesse solo recarsi a lavoro e fare la spesa. Appare non censurabile in questa sede l'affermazione che, in assenza di ulteriori elementi, non si possa affermare con certezza che tale "vecchio" si identifichi con F.GA..
Non pare essere contrastata in concreto dai motivi espressi in ricorso, allora, la considerazione espressa nel provvedimento impugnato secondo cui "rimane del tutto pretermesso un approfondimento sulle effettive condizioni di lavoro cui venivano sottoposti i braccianti ovvero sulla ricorrenza di situazioni di degrado o di violazione della disciplina sulla sicurezza sul lavoro".
Peraltro, il tribunale cosentino dà anche atto della "neutralità delle conversazioni intercettate ed intercorse tra F.G. ed E.S,, nel corso della quale emerge esclusivamente la volontà del primo di assumere regolarmente alcuni braccianti, a tempo determinato, per la raccolta di fragole, dato assolutamente incontrastato, laddove, con riferimento alle conversazioni intercorse tra la E.S. e terzi interlocutori (al di là della valenza accusatoria del contenuto delle stesse), non si può non notare l'equivocità dei riferimenti nominativi ivi presenti, ove si menziona tale Pino, dato chiaramente non dirimente, atteso che la Ene, in altre occasioni, conversa anche con tale M.G. ed A.G.".

8. Non pare casuale, allora, vista la totale carenza degli indici sub 3. e 4., che il PM ricorrente si soffermi su quelli sub 1. (reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato) e sub 2. (reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie).
Per entrambi tali indici, tuttavia, la norma fa riferimento al concetto di reiterazione.
Il tema si collega, anzitutto, al dato temporale della contestazione. Nell'incolpazione provvisoria si legge, come visto "in Calabria, dal marzo 2018 a tutt'oggi".
Orbene, al di là che né il GIP e nemmeno il PM ricorrente danno conto della posizione soggettiva del F.G. rispetto ai fatti del 2018, laddove lo stesso ha provato di essere subentrato al padre nella gestione dell'azienda con un contratto dell'affitto della stessa solo nel 2020, dopo la malattia del padre, non è dato comprendere a cosa venga ancorato tale dato a fronte di investigazioni che paiono avere interessato solo pochi mesi dell'anno 2018.

Peraltro, a motivare l'insussistenza di tale reiterazione, viene il rilievo che opera il tribunale cosentino laddove dà atto che la sussistenza di condizioni de­ gradanti o di significative alterazioni del rapporto sinallagmatico non si evince dalle dichiarazioni rese dagli stessi braccianti, i quali confermavano il dato retributivo indicato anche dai soggetti escussi dal difensore in sede di investigazioni difensive (euro 34,00 a giornata), dato assolutamente in linea con le tariffe contrattuali vigenti (euro 37,514 secondo le tabelle paga per lavoratori a tempo de­ terminato, vigenti per la provincia di Matera). E che i medesimi braccianti nulla riferivano in merito al godimento di ferie e riposo settimanale.
I giudici del gravame cautelare rilevano che se anche si dovesse dare maggior credito al dato che si desume dalle intercettazioni (da cui pare evincersi che la retribuzione oraria fosse di 30 euro) "non si può non rilevare lo scarto minimo tra la paga effettiva (euro 30) e quella dovuta, tale da non consentire di affermare la sussistenza di una situazione di sfruttamento, come intesa dalla giurisprudenza di legittimità" (così pag. 4 dell'ordinanza impugnata).
Peraltro, con specifico riferimento alla violazione delle norme in materia di orario di lavoro, di ferie e riposi festivi, i giudici cosentini evidenziano che si trattava di lavoro stagionale, limitato a due soli mesi all'anno e, segnatamente, a 15/20 giorni per ogni mese (come riferito dalle dipendenti escusse e come risultante dalle buste paga), di talché appare oltremodo lampante l'assenza di qualsivoglia profilo di censurabilità. E si rileva come l'eventuale svolgimento di attività lavorativa durante una giornata festiva (volontario e non frutto di coercizione, profilo non emerso dalle intercettazioni) veniva evidentemente compensata dal riposo in altro giorno.
Ma c'è anche un altro tema su cui, ad avviso del Collegio, va sgombrato il campo da dubbi ed è che se è vero che gli indici in questione, affinché sia integrato il reato, possono valere anche per un solo lavoratore, la reiterazione delle condotte che concretizzano lo sfruttamento deve essere riferita ad ogni singolo lavoratore.
Non c'è, in altri termini, lo sfruttamento per una mera sommatoria di condotte realizzatesi episodicamente in danno di lavoratori diversi (peraltro nemmeno quella, nel caso in esame, provata).
La reiterazione deve riguardare il medesimo soggetto passivo.
Va considerato, infatti, che l'art. 603-bis è collocato nell'ambito del Titolo XII, dedicato ai delitti contro la persona, e più specificamente nel Capo III, avente ad oggetto i delitti contro la libertà individuale. Si tratta di un significativo indizio del fatto che oggetto di tutela non è un bene collettivo, ma piuttosto è la dignità della singola persona, lavoratore o lavoratrice.

Ciò implica che, se in linea generale non si può escludere che dal generale contesto organizzativo entro il quale si colloca la prestazione del singolo lavoratore possano trarsi elementi di prova dello sfruttamento proprio di quest'ultimo, tuttavia, è comunque necessario, ai fini dell'integrazione del reato, che venga accertata la peculiare condizione di sfruttamento del singolo lavoratore.
Ebbene, anche su questo punto manca un concreto attacco critico da parte del PM ricorrente al provvedimento impugnato volto a dimostrare che vi fossero elementi per cui le condizioni suddette si fossero realizzate per ogni singolo soggetto e che il tribunale del riesame non abbia preso in considerazione.

9. Sempre in punto di retribuzione o remunerazione della prestazione lavorativa occorre precisare un altro aspetto, che rileva tanto sotto il profilo oggettivo che sotto quello dell'elemento soggettivo del reato.
Sotto il profilo oggettivo, al fine di determinare quale sia il trattamento economico riservato al lavoratore, termine di riferimento per accertare se lo stesso sia sperequato rispetto a quanto previsto dalla contrattazione, deve essere indagato l'accordo intervenuto tra le parti.
Come emerge anche nel caso che occupa, può accadere che la somma versata dal datore di lavoro sia diversa da quella, minore, che giunge al lavoratore; ciò può essere dovuto al fatto che l'intermediario trattiene per sé una somma per l'intermediazione, oppure perché si tratta del prezzo di una prestazione da questi erogata al lavoratore (ad esempio, il trasporto dal luogo di abitazione a quello di lavoro).
Ne consegue la necessità di accertare se la somma trattenuta dall'intermediario sia causalmente connessa alla condotta illecita (sua propria o quella dell'utilizzatore, alla quale abbia dato un contributo che lo renda concorrente nel reato) o trovi ragione in una diversa causa.
In questo secondo caso è la somma versata dal datore di lavoro a dover essere considerata, posto che la parte percepita dall'intermediario non trova causa nel reato. Diversamente, la somma trattenuta dall'intermediario non è giustificata da una prestazione lecita resa in favore del lavoratore e quindi va considerato, ai fini sopra rammentati, solo il quantum effettivamente percepito da quest'ultimo.
Giova considerare che l'art. 18 d.lgs. n. 276/2003, ai commi 4 e 4-bis, punisce con la pena alternativa dell'arresto non superiore ad un anno o dell'ammenda da 2.500 a 6.000 euro la violazione del divieto di imposizione di oneri in capo ai lavoratori per averli avviati ovvero assunti al lavoro.
Ebbene, come è stato osservato in dottrina, si tratta di fattispecie che mira a prevenire fenomeni di prevaricazione da parte degli intermediari (autorizzati o non autorizzati, come appunto i cd. caporali) nei confronti dei lavoratori, ossia la richiesta a questi ultimi di parte della retribuzione per assicurare loro una determinata occupazione, o, in taluni casi, quell'unico posto di lavoro che altrimenti si vedrebbero negato.
Ad avviso della medesima dottrina, tale fattispecie sarebbe stata assorbita dal più grave delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, posto che le "detrazioni" imposte dai "caporali" determinano la corresponsione di una retribuzione inadeguata e palesemente sproporzionata al lavoro prestato, indice sintomatico di sfruttamento.
Il quadro così delineato pone ancor più in evidenza la manifesta infondatezza del ricorso che si limita a censurare che il tribunale abbia tenuto conto della somma esborsa dal F.G. e peraltro il collegio territoriale ha considerato il valore sintomatico anche della somma effettivamente percepita dal lavoratore), senza rappresentare le peculiari premesse fattuali che farebbero emergere la erronea applicazione della legge.
Peraltro, anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato, non pare condivisibile la motivazione del tribunale cosentino laddove pare ritenere che l'elemento dirimente è il quantum versato dal datore di lavoro all'intermediario (38 euro al giorno per lavoratore) e che non rileva la consapevolezza o meno di quanta parte dello stesso finisca nelle tasche dei lavoratori.
L'utilizzatore, infatti, non può "schermarsi" con il caporale ed il giudice deve porsi il problema del dolo eventuale in capo all'utilizzatore, ovvero valutare se quest'ultimo abbia consapevolmente accettato il rischio che molto meno di quanto egli versasse al caporale finisse nelle tasche del lavoratore.
Sul punto della consapevolezza da parte del datore di lavoro che solo una parte residuale di quanto lui pagava finiva al bracciante, tuttavia, il ricorso non fa questione di violazione di legge, ma di congruità della motivazione, il che rende il ricorso anche sul punto inammissibile. Peraltro, nulla dice il ricorso sugli elementi da cui si sarebbe dovuto desumere la consapevolezza in capo al datore di lavoro della reale retribuzione del bracciante.
Il tribunale cosentino -che dà conto di avere utilizzato ai fini della decisione tutti gli elementi che oggi il PM ricorrente ripropone, dai servizi di o.c.p. alle intercettazioni- dà anche atto che dall'attività d'indagine compiuta dagli investiga­tori, non è emersa una intromissione del F.G. nel reperimento di alloggi per i braccianti, i quali non dimoravano all'interno dell'azienda (come riferito dalle di­ pendenti escusse dal difensore del F.G. e come riscontrato anche nel corso del servizio di OCP in data 9 aprile 2018), né tantomeno è emersa una consapevolezza, in capo al medesimo, della circostanza che alcuni di tali lavoratori dimorassero presso l'abitazione della E.S. ( come riferito dalla medesima nel corso di una conversazione) ovvero in ordine all'eventuale stato di bisogno dei braccianti (elemento anche questo oltretutto non comprovato), od ancora in merito alla sussistenza di una clausola vessatoria in base alla quale questi ultimi avrebbero dovuto corrispondere pare del loro compenso al caporale. In particolare, i giudici del gravame cautelare danno atto che tale circostanza viene desunta dagli investigatori sulla base di una affermazione della E.S., contenuta in una intercettazione, ma aggiungono che a ben vedere, la predetta si limita a precisare che la sua paga era di 42 euro e che quella dei braccianti stranieri era di 30 euro, ma nessun riferimento la medesima fa in merito ad indebite trattenute operate sulle retribuzioni. D'altronde -è la logica conclusione del provvedimento impugnato- la somma di euro 42 indicata dalla E.S. coincide perfettamente con il dato riferito dalla Sp., dalla L. e dalla C., le quali, concordemente, indicavano in euro 43 al giorno la retribuzione base percepita anche dalla predetta (esclusa l'integrazione corrisposta a titolo di indennità di trasferta).

10. Il secondo elemento tipico dell'intermediazione illecita e dello sfrutta­mento lavorativo è l'approfittamento dello stato di bisogno, temi su cui il PM ricorrente censura ancora una volta la motivazione del provvedimento impugnato, senza delineare, in realtà, alcuna violazione di legge e senza delineare elementi concreti relativi a quest'ultimo che siano stati omessi nella valutazione del giudice del gravame cautelare.
Ciò pure nella più ristretta accezione di "stato di bisogno" affermata in relazione al reato in esame recentemente da questa Corte, secondo cui, ai fini dell'integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose (così Sez. 4, n. 24441 del 16/3/2021, Sanitrasport, Rv. 281405 che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto immune da censure il provvedimento impugnato che aveva ravvisato lo stato di bisogno nella condizione di difficoltà economica delle vittime, capace di incidere sulla loro libertà di autodeterminazione, trattandosi di persone non più giovani e non particolarmente specializzate, e quindi prive della possibilità di reperire facilmente un'occupazione lavorativa).
Manifestamente infondata è anche la doglianza che il giudice del gravame cautelare abbia operato il dissequestro nonostante abbia riconosciuto, nel caso di specie, la sussistenza del diverso reato di cui all'art. 18 co. 2 d.lg 276/2003, in quanto gli illeciti contravvenzionali della "legge Biagi" erano stati sostanzialmente espunti dall'ordinamento, in quanto dapprima il Jobs Act (con l'art. 55, comma 1, lett. d, d.lgs n. 81/2015) ha abrogato espressamente l'art. 28 d.lgs n. 276/2003, limitando le reazioni sanzionatorie alle fattispecie di somministrazione irregolare e somministrazione abusiva, poi il d.lgs n. 8/2016 ha trasformato in illeciti amministrativi i reati di somministrazione abusiva e di utilizzazione illecita di manodopera [nel caso di specie non viene in rilievo l'ipotesi di abusiva intermediazione di cui al combinato disposto dagli artt. 18, co. 1 e 4, co. 1 lett. c) del d.lgs. n. 276/2003], fatto salvo soltanto il caso dell'impiego di minorenni. (cfr. Sez. 3, n. 10484 del 10/2/2016, Piticco, Rv. 266292; conf. Sez. 3, n. 48015 del 31/05/2019, Bizzi, Rv. 277992).

11. Lamenta, in ultimo, il PG ricorrente che il tribunale del riesame abbia ritenuto insussistente il fumus commissi delicti senza limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale ipotizzata, anticipando la decisione della questione di merito, operazione che esulerebbe dai limiti del procedimento incidentale di riesame.
Anche tale doglianza è manifestamente infondata, in quanto si è registrata, negli anni, la graduale tendenza della giurisprudenza di questa Corte di legittimità a valutare con maggiore rigore i presupposti che giustificano l'adozione del sequestro preventivo, richiedendosi che il giudice verifichi la sussistenza del fumus commissi delicti attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione obiettiva e seria di elementi dimostrativi, sia pure sul piano oggettivamente indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato.
Deve ritenersi, dunque, superata, la tesi, pur autorevolmente sostenuta, secondo cui, in tema di sequestro preventivo, ai fini della verifica del requisito del fumus, sarebbe sufficiente accertare l'astratta configurabilità del reato ipotizzato (riconducibile a Sez. Un., n. 4 del 25/03/1993, Gifuni, Rv. 193118), sicché può dirsi che il giudice del provvedimento cautelare reale debba individuare il presupposto del sequestro preventivo nella concretezza degli elementi di reato, pur escludendo la tesi estrema che richiederebbe la presenza dei gravi indizi di col­ pevolezza (Sez. Un., n. 23 del 20/11/1996, Bassi, Rv. 206657; cfr., inoltre, Sez. Un., n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Mantella, Rv. 226491).
Va rilevato, infatti, che le misure cautelari hanno la funzione strumentale di evitare fatti tali da pregiudicare l'efficacia del provvedimento definitivo, finale e di merito, ed il sequestro preventivo, salvo rarissimi casi (art. 240, co. 2, n. 2 cod. pen.), è una misura di coercizione reale connessa e strumentale allo svolgimento del procedimento penale ed all'accertamento del reato per cui si procede, nel senso che è suo scopo quello di evitare che il trascorrere del tempo possa pregiudicare irrimediabilmente l'effettività della giurisdizione espressa con la sentenza di condanna. Su tale premesse coerente è, quindi, l'affermazione per cui un reato deve essere configurabile ed il giudice deve poter esercitare un controllo effettivo che, pur coordinato e proporzionale con lo stato del procedimento e con lo stato delle indagini, non può essere meramente formale, apparente, appiattito alla mera prospettazione astratta della esistenza di un reato da parte della Pubblica accusa, sicché indispensabile è la verifica della sussistenza del requisito del fumus commissi delicti, tenendo nel debito conto le contestazioni di­fensive sull'esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando sotto ogni aspetto l'integralità dei presupposti che legittimano il sequestro. (Sez. 5, n. 49596 del 16/09/2014, Armento, Rv. 261677).
 

P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma 1'11 novembre 2021