Cassazione Civile, Sez. Lav., 31 gennaio 2022, n. 2864 - Risarcimento alla dipendente comunale per lo svuotamento delle funzioni alla stessa assegnate e la protratta inattività lavorativa. Mobbing


 

 

Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: NEGRI DELLA TORRE PAOLO
Data pubblicazione: 31/01/2022
 

 

Premesso

che con sentenza n. 604/2014, depositata l'1 luglio 2014, la Corte di appello di Catania ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale di Siracusa aveva condannato il Comune di Priolo Gargallo al risarcimento del danno biologico e morale subito da L.G. quale effetto di un totale svuotamento delle funzioni alla stessa assegnate e di protratta inattività lavorativa;
- che a sostegno della propria decisione la Corte: - ha ritenuto di condividere la decisione appellata, là dove il giudice di primo grado aveva affermato la sussistenza del giudicato esterno, di cui alla sentenza n. 933/2003 del Tribunale di Siracusa, limitatamente alla legittimità del provvedimento di assegnazione della dipendente (già coordinatrice dei servizi sociali) alle funzioni di coordinatrice dell'ufficio biblioteca, con la conseguenza che non potevano essere esaminate né la pretesa della medesima di essere riassegnata alle precedenti funzioni, né la pretesa del Comune di estendere l'ambito del giudicato a tutte le domande proposte nel successivo giudizio, nel quale era fatta valere la responsabilità dell'Ente non in relazione all'adozione del provvedimento ma in relazione alla condotta tenuta successivamente ad esso: - ha osservato come il primo giudice non fosse incorso in ultrapetizione, pronunciando sulla domanda di natura contrattuale (risarcimento danni da inutilizzazione della prestazione lavorativa) a fronte di una domanda di risarcimento danni da mobbing, poiché, al di là della qualificazione giuridica (e fermo restando che il mobbing integra un'ipotesi di responsabilità contrattuale, non extracontrattuale, avente piena copertura nell'art. 2087 cod. civ.), erano coincidenti i fatti allegati dalla ricorrente a fondamento della propria domanda e quelli posti a base della decisione; - ha considerato dimostrata la responsabilità dell'Ente datore di lavoro, alla luce delle prove testimoniali assunte, e confermato un danno biologico nella misura del 12%, previo espletamento di una nuova consulenza tecnica d'ufficio (disposta al solo fine di vagliare le critiche mosse al primo elaborato peritale dal consulente del Comune appellante, mentre la lavoratrice, con il proprio gravame incidentale, aveva semplicemente e genericamente reiterato, sul punto, le proprie maggiori richieste, senza fare oggetto di alcuna censura le valutazioni espresse dal consulente d'ufficio); - ha infine ritenuto, quanto al danno esistenziale, che mancasse nel ricorso introduttivo ogni pur minima allegazione e che, per tale ragione, non potesse neppure il giudice ricorrere alla prova per presunzioni, la quale presuppone che venga comunque offerta dalla parte una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano il pregiudizio subito;

- che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Comune, con sette motivi;
- che la L.G. ha resistito con controricorso, con il quale ha proposto ricorso incidentale,
affidato a due motivi, cui l'Ente ha resistito con controricorso;


Rilevato

che con il primo motivo del proprio ricorso, deducendo violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2909 cod. civ., il Comune censura la sentenza impugnata per avere ritenuto non coperte da giudicato le domande risarcitorie, senza considerare che la dipendente, già nel procedimento definito con la sent. n. 933/2003 del Tribunale di Siracusa, aveva allegato quali fatti costitutivi della sua pretesa, seppure finalizzati alla reintegra nelle precedenti funzioni, comportamenti del datore di lavoro riconducibili ad una sistematica azione di mobbing, comportamenti successivamente posti anche alla base del presente e nuovo giudizio;
- che con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia il vizio di cui all'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nonché la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 132 cod. proc. civ. e dell'art. 118 disp. att. cod. proc. civ., per avere la Corte completamente omesso l'esame della questione della infrazionabilità delle domande relative al credito derivante da un unico rapporto;
- che con il terzo motivo viene dedotta, ex art. 360 n. 4, la nullità della sentenza e del procedimento per avere la Corte di appello erroneamente escluso la sussistenza del vizio di ultrapetizione nella decisione di primo grado, senza considerare che il principio, per il quale la qualificazione giuridica della domanda è compito del giudice, deve ritenersi valido nell'ambito di quanto prospettato dalla parte e della effettiva volontà manifestata dalla stessa;
- che con il quarto motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione della fattispecie di creazione giurisprudenziale denominata mobbing, il ricorrente censura la sentenza di appello nella parte in cui ha ritenuto provata una condotta ascrivibile a tale nozione, sebbene, ad integrare il mobbing, non sia sufficiente l'accertamento della dequalificazione professionale e sia necessaria la dimostrazione di uno specifico intento persecutorio volto all'espulsione del lavoratore;
- che con il quinto motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 116 e 132 cod. proc. civ., nonché dell'art. 118 disp. att. cod. proc. civ., il ricorrente si duole che la Corte territoriale sia giunta alle proprie conclusioni sulla base di una lettura incompleta e fuorviante delle dichiarazioni testimoniali, in particolare trascurando che le dichiarazioni relative ai fatti direttamente appresi dai testi non sarebbero state idonee a supportare l'accoglimento della domanda;
- che con il sesto motivo, deducendo il vizio di cui all'art. 360 n. 5, nonché la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 132 cod. proc. civ. e dell'art. 118 disp. att. cod. proc. civ., il ricorrente principale si duole che la Corte, pur avendo disposto altra consulenza tecnica che rispondesse alle critiche formulate dal consulente di parte resistente nei confronti di quella di primo grado, non aveva a sua volta dato risposta alle note difensive, con le quali erano stati avanzati specifici rilievi a tale seconda C.T.U.;
- che con il settimo viene infine dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 91 cod. proc. civ. per avere la Corte condannato il Comune alla rifusione delle spese del giudizio di appello, senza valutare che entrambe le parti avevano impugnato la sentenza di primo grado e che entrambe erano rimaste soccombenti in relazione alle domande proposte;
- che con il primo motivo del ricorso incidentale la L.G. censura la sentenza impugnata
per violazione o falsa applicazione dell'art. 2909 cod. civ., avendo la Corte erroneamente escluso la possibilità per la ricorrente di riproporre la domanda di riassegnazione alle funzioni di coordinatrice del settore servizi sociali: domanda che ben poteva, invece, essere nuovamente formulata in un diverso giudizio di risarcimento danni da mobbing, poiché la determina dirigenziale di trasferimento della ricorrente (all'Ufficio Biblioteca, in qualità di coordinatrice), se pure valutabile come legittima all'esito di un accertamento di equivalenza professionale delle mansioni, aveva costituito il primo di una serie di atti vessatori, con conseguente diritto della lavoratrice alla rimozione del provvedimento e al ripristino della posizione giuridica lesa;
- che con il secondo motivo del ricorso incidentale è dedotto il vizio di cui all'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. e la violazione degli artt. 2727 e 1226 cod. civ. e dell'art. 115 cod. proc. civ., censurandosi la sentenza impugnata là dove era stata rilevata la mancanza di ogni pur minima allegazione in ordine al danno esistenziale e peraltro in contrasto con il contenuto del ricorso introduttivo, che aveva fornito tutti gli elementi di fatto necessari a configurarne la sussistenza nel caso di specie;

 

Osservato

quanto al ricorso principale, che il primo motivo risulta inammissibile;
- che è consolidato il principio, secondo il quale "L'interpretazione del giudicato esterno può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena, nei limiti, però, in cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso per cassazione, in forza del principio di autosufficienza di questo mezzo di impugnazione, con la conseguenza che, qualora l'interpretazione che abbia dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta, il ricorso deve riportare il testo del giudicato che si assume erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo, atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla comprensione del comando giudiziale" (Cass. n. 5508/2018; conforme, fra altre: Cass. n. 26627/2006);
- che, nella specie, il ricorrente si limita a riportare taluni passaggi dell'atto di appello e delle note difensive depositate nel giudizio di secondo grado, oltre ad alcune proposizioni della prima relazione di consulenza tecnica d'ufficio, ove il C.T.U. riferisce dichiarazioni della lavoratrice, sicché non risulta in alcun modo contrastata la lettura che della sentenza n. 933/2003 del Tribunale di Siracusa ha dato la Corte territoriale nella sentenza ora impugnata;
- che parimenti inammissibile è il secondo motivo, riguardando il vizio di motivazione, a seguito della riformulazione dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., un "fatto storico" (Sez. U n. 8053 e n. 8054/2014), e cioè un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, la cui nozione non è chiaramente estensibile a questioni, deduzioni o argomentazioni difensive, e comunque potendo configurarsi una implicita pronuncia di rigetto dell'eccezione, alla luce delle considerazioni svolte dal giudice di appello in tema di giudicato esterno;
- che il terzo motivo è infondato, essendosi la Corte territoriale attenuta al principio, secondo il quale "Per causa petendi debbono intendersi non solo e non tanto le ragioni giuridiche addotte a fondamento della pretesa avanzata, quanto e soprattutto l'insieme delle circostanze di fatto che la parte pone a base della propria richiesta, essendo compito del giudice individuare correttamente gli effetti giuridici derivanti dai fatti dedotti in causa, sicché l'enunciazione che la parte faccia delle ragioni di diritto sulle quali la pretesa si fonda può valere a circoscrivere la cognizione del giudice solo nella misura in cui essa stia a significare che la parte medesima ha inteso trarre dai fatti esposti soltanto quelle e non altre conseguenze" (Cass. n. 14142/2000; conforme, fra altre: Cass. n. 11157/1996);
- che, d'altra parte, la condotta riferibile alla nozione di mobbing costituisce violazione del generale obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro dall'art. 2087 cod. civ. (Cass. n. 18093/2013, fra le molte conformi), venendo, pertanto, a collocarsi anch'essa nell'area della responsabilità di natura contrattuale;
- che il quarto, il quinto e il sesto motivo risultano inammissibili;
- che, in particolare, il quarto motivo - oltre a non enucleare affermazioni in diritto, contenute nella sentenza impugnata, contrastanti con le norme regolatrici o con la interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, pur a fronte di denuncia del vizio di cui all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ. - non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, la quale, partendo dall'esautoramento delle mansioni e dalla impossibilità per la dipendente di rendere una qualsiasi prestazione lavorativa (ma non esaurendo in tale rilievo la propria valutazione della fattispecie concreta), è pervenuta all'accertamento di una situazione di mobbing verticale (cfr. p. 8); sicché il motivo in esame, nella sostanza delle censure svolte, si limita a contrapporre a quella della Corte di appello una propria e diversa ricostruzione della vicenda, come, del resto, emerge con tutta evidenza anche dal richiamo ad elementi di fatto alternativi;
- che il quinto motivo propone difformi conclusioni probatorie, mediante la valorizzazione di parti delle dichiarazioni testimoniali, mentre è pacifico che spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere dal complesso delle risultanze del processo quelle più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass. n. 6288/2011, fra le numerose conformi);
- che il sesto motivo egualmente non si misura con l'effettivo contenuto della sentenza impugnata, la quale, senza restringere il proprio percorso argomentativo a mere clausole di stile, ha preso in esame la seconda relazione di C.T.U., rapportandola con motivazione adeguata alle note critiche successivamente depositate dal Comune appellante;
- che il settimo motivo è infondato, avendo il giudice di appello fatto applicazione, nel "considerare le complessive ragioni della decisione", del principio, per il quale il criterio della soccombenza deve essere riferito alla causa nel suo insieme, con particolare riferimento all'esito finale della lite (Cass. n. 18503/2014; conforme n. 5373/2003);
- che parimenti non può trovare accoglimento il ricorso incidentale della lavoratrice, a prescindere dall'esame della questione relativa alla tardività della sua notifica;
- che, riguardo al primo motivo, possono invero riproporsi le stesse considerazioni già svolte per il primo motivo del ricorso (principale) del Comune, analogo essendo il difetto di autosufficienza in relazione alla fonte del giudicato esterno;
- che il secondo motivo del ricorso incidentale è chiaramente inammissibile: da un lato, per ciò che attiene al vizio di motivazione, in quanto non si conforma al paradigma del nuovo art. 360 n. 5 cod. proc. civ., quale definito dalle modifiche introdotte nel 2012 e dalla giurisprudenza di questa Corte a Sezioni Unite (n. 8053/2014 e n. 8054/2014, già citate); dall'altro, per ciò che attiene al vizio di cui all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., perché non individua le affermazioni in diritto della sentenza impugnata, che integrerebbero una violazione o falsa applicazione di norme di legge, risultando al contrario che il giudice di appello si sia richiamato a orientamenti consolidati in tema di prova per presunzioni del danno esistenziale (Sez. Un. 6572/2006);

Ritenuto


conclusivamente che devono essere respinti entrambi i ricorsi;
- che, stante la reciproca soccombenza, le spese del presente giudizio vanno compensate integralmente fra le parti

 

P.Q.M.



La Corte rigetta il ricorso principale; rigetta altresì il ricorso incidentale; spese interamente compensate.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Così deciso in Roma nell'adunanza camerale del 22 giugno 2021.