Cassazione Penale, 04 febbraio 2022, n. 3941 - Sfruttamento del lavoro


 

 

 

Presidente: DOVERE SALVATORE Relatore: NARDIN MAURA
Data Udienza: 11/11/2021
 

Fatto


1. Il Tribunale del riesame di Cosenza con ordinanza in data 24 giugno 2020, in accoglimento dell'istanza formulata da A.R., ha annullato il provvedimento del G.I.P. del Tribunale di Castrovillari, con cui -ravvisato il fumus commissi delicti del reato di cui all'art. 603 bis, comma 1 n. 2), comma 3 nn. 1, 2, 3, 4 e comma 4) nn. 1 e 3) cod. pen.- era stato disposto il sequestro preventivo del complesso aziendale dell'Azienda agricola A.R. s.a.s., disponendone il dissequestro.
2. Avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame propone ricorso per cassazione il Pubblico ministero presso il Tribunale di Cosenza, formulando tre motivi di impugnazione.
3. Con il primo fa valere la violazione della legge penale, con riferimento all'art. 603 bis cod. pen. ed il vizio di motivazione. Ricordato che con la novella del 2016 il legislatore ha esteso la fattispecie all'utilizzatore, osserva che il Tribunale contravvenendo al disposto normativo, da un lato, ritiene necessaria per l'integrazione del reato la sussistenza di più indici di sfruttamento, dall'altro, opera una commistione fra autonomi elementi costitutivi del reato, ritenendo non integrato l'approfittamento dello stato di bisogno, in assenza degli indici di sfruttamento; e ciò senza affrontare il vaglio degli indizi valorizzati dal G.I.P., che si limita ad elencare, così operando una sintesi non consentita. Sostiene, in particolare, che il giudice del riesame trascura: le conversazioni intercettate nn. 723, 1408, 2245, 1153, 2081, 2093, 2313, 2758, 3640 3316; le relazioni del servizio di osservazione (OCP) in data 2 luglio 2018 e 11 aprile 2018; gli esiti del sequestro in data 9 maggio 2018; le sommarie informazioni rese dai lavoratori OMISSIS. Rileva che la distinzione introdotta dal giudice del riesame, secondo la quale -in relazione all'indice dello sfruttamento dei lavoratori di cui al n. 1) del comma 3 dell'art. 603 bis cod. pen., relativo alla reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi dal contratti collettivi nazionali o territoriali­ occorre distinguere fra la somma versata dall'azienda al caporale e quella da questi ridistribuita, finisce per comportare la disapplicazione della disposizione.. Osserva che il Tribunale dimentica che il primo comma della disposizione punisce sia chi recluta la manodopera, che chi la utilizza, anche mediante attività di intermediazione, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando dello stato di bisogno. Assume che il Tribunale del riesame omette il vaglio degli indici di sfruttamento di cui al comma 3 dell'art. 603 bis cod. pen., non provvedendo a valorizzare l'intero quadro probatorio esaminato dal G.I.P.. Dal compendio intercettativo, infatti, era risultato che G.A. era il referente di A.R., reclutando per il medesimo la manodopera, curando il trasporto dei braccianti sul luogo di lavoro, percependo dall’indagato la somma di euro 40,00 giornaliere per ciascun lavoratore, dato questo evincibile dalla documentazione acquisita. Mentre dai servizi di osservazione dei 2 luglio 2018 era emerso che G.A. trasportava i braccianti per A.R.. In occasione di quel controllo i lavoratori avevano dichiarato di avere lavorato per l'indagato per sette giorni la settimana. Egualmente dai servizio di osservazione dei 19 marzo 2019 era risultato che L.S.A. aveva trasportato, su veicoli di G.A., alcuni braccianti agricoli ed il caporale A.F., i quali tutti avevano riferito di lavorare per A.G.. Rileva, inoltre, che il giudice dei riesame, nel valutare la sussistenza dell'approfittamento dello stato di bisogno, svilisce il fatto che molti dei braccianti fossero ospitati nel Centro di accoglienza di Corigliano Calabro. Sostiene che la reiterata violazione dei parametri retributivi, di cui ai contratti collettivi nazionali e territoriali, é emersa dall’appunto sequestrato ad G.A., in cui si legge che la paga corrisposta ai braccianti era pari ad euro 28,00 giornalieri per otto ore di lavoro al giorno, come ben evidenziato dal G.I.P.. Ricorda che la contrattazione territoriale della Provincia di Matera a|i'epoca vigente prevedeva un compenso lordo giornaliero di euro 41,378 pari ad euro 37,514 netti, per sei ore e mezza di lavoro. La circostanza della corresponsione di somme inferiori e confermata dalla conversazione intercettata n. 641, fra G.A. e F.G.. Dalla conversazione n. 723 fra G.A. e A.G., invece, si trae che gli operai agricoli lavorano tutti i giorni, domenica compresa, non fruendo, quindi del riposo settimanale. Le investigazioni, come chiarito dall'ordinanza genetica, consentono di affermare il coinvolgimento di A.R., legale rappresentante della società, anche perché egli si rapportava direttamente con il dipendente della Coldiretti T., che curava le assunzioni e l'elaborazione delle buste paga per conto dell’indagato, ciò dimostrando la consapevolezza del medesimo in ordine alla condizioni di lavoro dei dipendenti. Rileva che, in violazione dei disposto dell'art. 2 cod. pen. e dell'art. 603 bis cod. pen., nella parte in cui individua presupposto sufficiente per l’integrazione del reato ‘la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dalle previsioni dei contratti collettivi nazionali o territoriali, stipulati dalla organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale', il Collegio della cautela, discostandosi dall'ordinanza genetica, si rifà - ritenendola più aggiornata- alla tabella paga dei lavoratori a tempo determinato valide per la provincia di Matera in vigore dai 1" febbraio 2018, diversa da quella vigente ai momento del fatto. L'applicazione di una tabella paga più aggiornata, nondimeno, comporta la disapplicazione dell'art. 603 bis, comma 3 cod. pen., rendendo lecite condotte illecite all’epoca della commissione del fatto.
 

Invero, dall'applicazione della tabella paga vigente all'epoca dei fatti si trae: che le retribuzioni corrisposte sono inferiori a quelle previste, all'epoca dei fatti, dalla contrattazione territoriale per la provincia di Matera, secondo cui la retribuzione lorda è pari ad euro 41,378 e quella netta è pari ad euro 37,514, mentre è stato provato che le retribuzioni dei lavoratori sono inferiori anche a quelle previste dalla tabella 'più aggiornata; applicata dal Tribunale del riesame; che le ore di lavoro svolte dai braccianti impiegati 'superiori a quelle previste dagli accordi sindacali, essendo i medesimi impiegati per otto ore giornaliere per sette giorni la settimana, per un totale di cinquantasei ore, in luogo delle sei e mezza contrattualmente previste, per un totale settimanale di trentanove ore. Sicché debbono ritenersi ictu oculi integrate le violazioni di cui all'art. 603 bis comma 3 nn. 1) e 2) cod. pen., stante la reiterata corresponsione di retribuzioni difformi a quelle previste dalla contrattazione nazionale e territoriale e la reiterata violazione dell'orario di lavoro, ivi stabilita. Parimenti -come risulta dall'ordinanza genetica, con la quale il giudice del riesame manca il confronto- è integrata la violazione di cui al n. 3) del medesimo comma, non avendo il datore di lavoro fornito i presidi previsti dalla normativa sulla sicurezza del luogo di lavoro.
4. Con il secondo motivo si duole della violazione dell'art. 125, comma 3 cod. proc. pen.. Sostiene che la motivazione dell'ordinanza impugnata si rivela del tutto apparente e che viene omesso l'esame di elementi decisivi per l'accertamento del fatto. Sottolinea l'assenza di un valido percorso argomentativo idoneo ad escludere il coinvolgimento dell'indagato, non essendo chiarito perché il fatto che egli non figuri nelle conversazioni intercettate possa far venir meno il ben più complesso quadro probatorio a suo carico; né il Tribunale approfondisce l'argomento, limitandosi a sostenere come non sia possibile configurare in capo all'interessato una responsabilità di posizione, per il solo fatto di essere il legale rappresentante della società utilizzatrice. Rileva che neppure l'esclusione dell'approfittamento dello stato di bisogno è adeguatamente argomentata, essendo pacifico che molti dei braccianti impiegati erano ospiti del Centro di accoglienza di Corigliano Calabro e che il Tribunale non indica quali siano i braccianti che avrebbero dichiarato di avere reperito un'abitazione, non riprendendo il contenuto delle loro dichiarazioni. Né si desume dal provvedimento impugnato per quale ragione possa affermarsi che A.R. ed i suoi familiari coindagati non hanno commesso il delitto, avvalendosi dell'intermediazione di G.A., ancorché si evinca dalle intercettazioni nn. 641 e 454 fra G.A. e F.G. e fra E.S. e M. P. che la retribuzione assicurata in concreto ai lavoratori era di 28,00 euro giornalieri. Osserva che il giudice di prima cura aveva valorizzato siffatti elementi, dimostrativi del fatto che A.R. si avvaleva di G.A., cui demandava il pagamento dei braccianti, mentre il Collegio del riesame sostanzialmente li ignora. Così come ignora le conversazioni fra l'indagato ed G.A. e fra questi ed A.G. ed A.M., giungendo ad affermare che non può parlarsi di reiterate e palesi violazioni dei minimi retributivi, senza dar conto delle ragioni per cui dissente dalle chiare valutazioni del G.I.P., che aveva evidenziato i vantaggi conseguiti dagli utilizzatori della manodopera reclutata da G.A., anche sotto il profilo del risparmio di costi per l'assunzione di figure professionali adeguate. Denuncia l'inadeguatezza della motivazione in ordine alla violazione delle disposizioni sull'utilizzo di presidi individuali di protezione, in relazione alla mancata consegna di calzature adeguate ai lavoratori - i quali lavoravano con scarpe da ginnastica sporche di fango- avuto riguardo al fatto che la normativa si estende ai lavoratori del settore agricolo. Assume che il Tribunale non si pone a confronto con quanto emerso dal Servizio di osservazione del 2 maggio 2018, né con gli esiti del sequestro del 9 maggio 2018. Il primo atto di indagine, infatti, valorizzato dal G.I.P., dimostra che i braccianti OMISSIS reclutati da A.F., subcaporale di G.A., risultavano ospiti del Centro di accoglienza di Corigliano Calabro, ed erano stati assunti dall'Azienda Agricola A.R. s.a.s. di A.R.. Il secondo atto di indagine, invece, rivolto al sequestro di 750,00 di gasolio di contrabbando, a carico di G.A., consentiva il reperimento di un foglio manoscritto da cui era possibile evincere che G.A. percepiva la somma di euro 40,00 giornalieri per bracciante, nonché della fotocopia dei documenti di alcuni lavoratori e di subcaporali. Né il Collegio esamina gli esiti dei servizi di osservazione del 2 luglio 2018 e del 19 marzo 2019, allorquando nel corso controllo dei veicoli condotti da G.A. e da L.S.A., i lavoratori ivi trasportati dichiaravano di lavorare o per tale A.R. o per l'azienda Agricola di A.G.. L'insieme di tutti questi elementi dimostra, come ritenuto dal G.I.P., la sussistenza del fumus commissi delicti e rende privo di giustificazione il dissequestro dell'azienda.
5. Con il terzo motivo fa valere l'inosservanza degli artt. 321 e 322 cod. proc. pen. e dell'art. 603 bis.2 cod. pen.. Si duole che il Tribunale del riesame, anziché limitarsi al controllo di compatibilità fra la fattispecie concreta e quella legale, abbia trasmodato nella valutazione del merito delle accuse, ponendosi in contrasto con i principi enunciati dalle Sezioni Unite (richiama Sez. Unite, n. 4 del 25/03/1993, Gifuni Rv. 193118). Conclude per l'annullamento dell'ordinanza impugnata.
6. Con requisitoria scritta, ai sensi dell'art. 23, comma 8 d.l. 137/2020, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
 



Diritto


l. Le doglianze vanno affrontate nel loro ordine logico e trattate congiuntamente ove necessario.
2. Il terzo motivo -da esaminarsi per primo in quanto costituente la premessa giuridica dell'impugnazione- è manifestamente infondato.
3. Il Pubblico ministero ricorrente lamenta che il Tribunale per il riesame, anziché limitarsi al controllo di compatibilità fra la fattispecie concreta e quella legale, al fine di verificare la ricorrenza del fumus commissi delicti, si sia spinto a valutare la sussistenza del quadro indiziario, benché la giurisprudenza di legittimità escluda che l'esame sulle condizioni di legittimità delle misure cautelari reali possa tradursi nell'anticipazione della decisione di merito sulla fondatezza delle accuse.
L'assunto muove da un presupposto erroneo sui limiti del sindacato del giudice della cautela in ordine alla sussistenza del fumus commissi delicti, rifacendosi ad un indirizzo risalente secondo cui "Il controllo del giudice del riesame non può investire, in relazione alle misure cautelari reali, la concreta fondatezza di un'accusa, ma deve limitarsi all'astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato" (Sez. U, Sentenza n. 4 del 25/03/1993, Gifuni, Rv. 193118). \
Siffatta impostazione, che circoscrive il giudizio sul presupposto dell'apparenza del reato alla sola compatibilità fra la fattispecie legale e quella ipotizzata, risulta essere stata superata da un orientamento che, pur senza tradurre l'esame del giudice in quella valutazione della gravità indiziaria della fondatezza dell'accusa nei confronti dell'indagato che connota le misure cautelari personali, valorizza l'effettività del controllo al di là della mera postulazione dell'esistenza del reato da parte del pubblico ministero, imponendo al giudice di "rappresentare in modo puntuale e coerente, nella motivazione dell'ordinanza, le concrete risultanze processuali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, dimostrando la congruenza dell'ipotesi di reato prospettata rispetto ai fatti cui si riferisce la misura cautelare reale sottoposta al suo esame" (così Sez. 6, Sentenza n. 16153 del 06/02/2014, De Amicis, Rv. 259337; in precedenza: Sez. 4, n. 15448 del 14/03/2012, Vecchione, Rv. 253508; Sez. 6, n. 45591 del 24/10/2013, Ferro, Rv. 257816, nonché analogamente da ultimo: Sez. 3, Sentenza n. 26007 del 05/04/2019, Pucci, Rv. 276015).
L'esigenza di riscontrare il collegamento fra il reato e la res -che può appartenere ad un terzo- passa, infatti, attraverso la premessa della sussistenza di un reato a carico di taluno, che rende non indispensabile l'individuazione del responsabile dell'illecito, ma ineludibile il giudizio prognostico positivo sulla pronuncia di condanna per il reato perseguito, pur nei termini tipici del procedimento cautelare. In questa differenza fra il collegamento della cosa sottoposta a sequestro ed il reato e l'individuazione di gravi indizi di reità nei confronti dell'autore di un illecito sta la diversità di valutazione che distingue il sindacato del giudice nell'ipotesi di misura cautelare reale ed in quella di misura personale, essendo nel primo caso sufficiente, ma indispensabile, la constatazione che si sia effettivamente verificato un fatto avente la natura dell'illecito penale e che la cosa sequestrata inerisca al reato, nel secondo, invece, essendo necessario che sussista a carico di un preciso soggetto un quadro di gravità indiziaria di colpevolezza. Non è, dunque, sufficiente per comprimere la libera disponibilità della cosa sottoposta a sequestro preventivo la semplice ed astratta configurabilità di un reato, come rappresentata dall'accusa, essendo invece essenziale che la sua sussistenza risulti in concreto configurabile, sulla base delle risultanze processuali e degli elementi eventualmente sottoposti dalle parti, perché, pur prescindendo dal profilo di colpevolezza dell'indagato, occorre stabilire il collegamento fra la cosa e l'illecito, che deve, pertanto, essere valutato nella sua esistenza materiale, pur avendo riguardo allo stato del procedimento ed alla sua natura cautelare ( in questo senso da ultimo cfr.: "Nella valutazione del "fumus commissi delicti", quale presupposto del sequestro preventivo, il giudice deve verificare la sussistenza di un concreto quadro indiziario, non potendosi limitare alla semplice verifica astratta della corretta qualificazione giuridica dei fatti prospettati dall'accusa" Sez. 6, Sentenza n. 18183 del 23/11/2017, dep. 24/04/2018, Polifroni, Rv. 272927; in senso analogo: Sez. 5, Sentenza n. 49596 del 16/09/2014, Armento, Rv. 261677; Sez. 6, Sentenza n. 49478 del 21/10/2015, Macchione, Rv. 265433; in precedenza in senso parzialmente difforme: Sez. U, Sentenza n. 920 del 17/12/2003, dep. 19/01/2004, Mantella Rv. 226492).
4. D'altro canto, che questo sia il criterio che il giudice del riesame deve seguire è principio che, nella sua sostanza, appare condiviso dallo stesso Pubblico ministero ricorrente che, nell'esporre in questa sede i motivi di gravame si spinge, con parte della prima e parte della seconda doglianza, sino a rimproverare al Tribunale di non avere adeguatamente motivato sul quadro indiziario a carico di A.R., tanto da dolersi del mancato confronto con gli esiti dei servizi di osservazione e con il contenuto delle intercettazioni telefoniche, giungendo ad affermare che 'il Tribunale non spiega perché, nel caso di specie' A.R. unitamente ai familiari coindagati, non ha commesso il reato, mediante l'intermediazione di G.A.'.

5. Simili contestazioni, nondimeno, pur prospettate come violazione di legge, non solo, da un lato, contestano il vizio di motivazione, sindacabile rispetto a siffatti provvedimenti cautelari reali solo in ipotesi di assenza o apparenza della motivazione, ai sensi dell'art. 325 cod. proc. pen., ma, dall'altro contraddicono la stessa premessa giuridica del ricorso, che non casualmente è stata formulata a chiusura dell'impugnazione.
6. Escluso -avuto riguardo ai limiti di indagine del tribunale per il riesame nelle ipotesi di misure cautelari reali, come sopra delineati- che si possa ritenere assente o apparente la motivazione del provvedimento gravato, non potendosi affermare che sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza tali da rendere comprensibile la vicenda e l'itinerario logico seguito dal giudice (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 18951 del 14/03/2017, Napoli e al. Rv. 269656) entrambi perfettamente intellegibili, pur se non condivisi dal ricorrente, deve procedersi al vaglio delle ulteriori critiche formulate dal Procuratore ricorrente, che ineriscono più puntualmente alla lettura del disposto dell'art. 603 bis cod. pen..
7. La prima censura formulata, ripercorse le modifiche al testo normativo intervenute con la novella contenuta nella l. 199/2016, imputa all'ordinanza impugnata, innanzitutto, di avere operato un'indebita commistione fra sfruttamento ed approfittamento dello stato di bisogno, elementi costitutivi autonomi del reato, ritenendo insussistente il primo -nonostante la chiara sussistenza degli indici di cui all'art 603 bis comma 3- sulla base della ritenuta insussistenza del secondo, e 'di avere operato una scissione' fra le figure del reclutatore (G.A.) e dell'utilizzatore (A.R.), sebbene l'art 603 bis, comma 1 n. 2) cod. pen., punisca chi utilizza assume o impiega manodopera anche mediante l'attività di intermediazione di cui al n. 1).
8. Per rispondere alle sollecitazioni introdotte con il primo profilo occorre fare un passo indietro e ricordare che il legislatore non definisce lo 'sfruttamento' -condizione che deve caratterizzare tanto l'attività di reclutamento [art. 603 bis, comma 1 n. 1)], quanto quella di utilizzazione, assunzione o impiego della manodopera [art. 603bis, comma 1 n. 2)]- preferendo, in un'ottica di facilitazione della prova, indicare degli indici che lo caratterizzano e che vengono elencati al terzo comma della disposizione nelle seguenti condizioni: 1) reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
La stessa dizione normativa -non menzionando la necessità dell'integrazione di una pluralità di indici- chiarisce non solo che la ricorrenza di una sola delle circostanze sintomatiche è sufficiente per integrare lo sfruttamento, ma anche che in relazione alla violazione dei contratti collettivi in tema di salario e delle disposizioni relative all'orario (siano esse di natura pattizia o normativa), è necessaria la 'reiterazione' della condotta. E ciò per distinguere il mero ed isolato inadempimento, non rilevante, dallo sfruttamento, che invece integra la fattispecie. Ciò implica, altresì, che per aversi reiterazione la condotta deve essere posta in essere nei confronti del singolo lavoratore, non essendo tale l'isolata violazione nei confronti di una pluralità di lavoratori, che configura semplicemente una pluralità di singoli inadempimenti, nei confronti di una molteplicità di soggetti. Ancora, il testo normativo suggerisce, non individuando il numero minimo dei lavoratori in relazione ai quali debbono realizzarsi i comportamenti integranti sfruttamento, che la condotta sia punibile ancorché riguardi un solo lavoratore.
9. L'indicazione di condizioni che integrano lo sfruttamento, tuttavia, non chiude la strada dell'interprete e quella del giudice all'individuazione di altre condotte che integrino la condotta di abuso del lavoratore, posto che esse costituiscono appunto 'indici' del fatto tipico, cioè sintomi della sua sussistenza, che ben può risultare diversamente, purché si concreti la condizione di coartazione a condizioni di lavoro di cui si subisce l'imposizione.
10. Distinto dallo sfruttamento appare - nella dizione normativa -il concetto di approfittamento dello stato di bisogno, presupposto quest'ultimo che deve ricorrere affinché la condotta di sfruttamento sia punibile.
Anche in questo caso il legislatore non definisce la nozione, pur richiedendo che lo sfruttamento 'derivi' dallo stato di bisogno, il quale, quindi, deve essere noto e causa del vantaggio che il reclutatore o l'utilizzatore tendono a realizzare proprio attraverso l'imposizione di quelle condizioni lavorative che indicano lo sfruttamento.
Questa Sezione ha recentemente osservato che con l'art. 603 bis cod. pen. "il legislatore ha scelto di utilizzare la locuzione "stato di bisogno", già usata nel nostro ordinamento con riferimento ad istituti civilistici ed altri reati (quali, ad esempio, l'usura nell'originaria configurazione), e non quella "posizione di vulnerabilità", di matrice sovranazionale (cfr. art. 3 del Protocollo traffiking e la nota dei lavori preparatori; art. 2 direttiva 2011/36/EU), che, nell'art. 1 della decisione del Consiglio Cee 19 luglio 2002, n. 629, sulla lotta alla tratta degli esseri umani, viene definita come quella situazione in cui la persona non abbia altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all'abuso di cui è vittima. Al contrario, nella formulazione dell'art. 600 cod.pen. (riduzione o mantenimento in schiavitù e servitù), si è fatto espressamente riferimento alla "posizione di vulnerabilità" della vittima". Si tratta di una scelta lessicale non priva di conseguenze e che comporta che - nell'individuare lo stato di bisogno- non occorra "indagare sulla sussistenza di una posizione di vulnerabilità, da intendersi, secondo le indicazioni sovranazionali, come assenza di un'altra effettiva ed accettabile scelta, diversa dall'accettazione dell'abuso - indagine che, peraltro, anche nella fattispecie di cui all'art. 600 cod.pen. è alternativa rispetto alla verifica di altre e diverse situazioni di debolezza della vittima, specificamente indicate dal legislatore". Lo stato di bisogno, infatti non si identifica "con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo e, cioè una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose" (Sez. 4, Sentenza n. 24441 del 16/03/2021, Sanitrasport soc. coop. Soc., Rv. 281405, con cui si è ritenuto immune da censure il provvedimento impugnato che aveva ravvisato lo stato di bisogno nella condizione di difficoltà economica delle vittime, capace di incidere sulla loro libertà di autodeterminazione, trattandosi, in quel caso, di persone non più giovani e non particolarmente specializzate, e quindi prive della possibilità di reperire facilmente un'occupazione lavorativa).
11. Questa lunga premessa è necessaria per dare soluzione al primo quesito posto, perché, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, la condizione di sfruttamento che non si avvantaggi dello stato di bisogno non integra il reato di cui all'art. 603 bis cod. pen. avendo il legislatore scelto di punire non lo sfruttamento in sé ma solo l'approfittamento di una situazione di grave inferiorità del lavoratore, sia essa economica, che di altro genere, che lo induca a svilire la sua volontà contrattuale sino ad accettare condizioni proposte dal reclutatore o dall'utilizzatore, cui altrimenti non avrebbe acconsentito.
12. Non basta, dunque, che ricorrano i sintomi dello sfruttamento, come indicati dal terzo comma dell'art. 603 bis cod. pen., ma occorre l'abuso della condizione esistenziale della persona, che non coincide solo con la sua conoscenza, ma proprio con il vantaggio che da quella volontariamente si trae.
13. L'ordinanza impugnata mostra di conoscere la distinzione laddove chiarisce che l'assunzione di una persona in stato di bisogno non è di per sé sintomatica di sfruttamento, laddove siano rispettate le prerogative retributive ed orarie del lavoratore e sia garantita la sua sicurezza sul luogo di lavoro. A ciò si potrebbe aggiungere- pur solo in via meramente astratta- che lo sfruttamento può non essere derivante dall'approfittamento dello stato di bisogno, quando quest'ultimo non sia configurabile in capo al lavoratore che accetta le condizioni di lavoro delineate dal terzo comma dell'art. 603 bis cod. pen.. Si tratta, tuttavia, di un'ipotesi di scuola, o quantomeno residuale, avuto riguardo al fatto che lo sfruttamento lavorativo è normalmente accompagnato dalla grave difficoltà del lavoratore di autodeterminarsi in modo meno deprezzante. Ma certamente è possibile che lo sfruttamento non si accompagni all'approfittamento dello stato di bisogno, quando questo non sia conosciuto.
14. Conviene, a questo punto, per completare il percorso interpretativo della disposizione, affrontare la doglianza con la quale il ricorrente lamenta che il giudice non abbia compreso il significato del primo comma dell'art. 603 bis cod. pen. con il quale si punisce sia chi recluta la manodopera, che chi la utilizza, anche mediante attività di intermediazione. Secondo il pubblico ministero, infatti, si coglie nell'ordinanza una non consentita scissione fra la figura dell'utilizzatore e quella del reclutatore, benché con la novella del 2016, il legislatore abbia voluto estendere la fattispecie delittuosa -in precedenza riservata alla sola attività di intermediazione- all'utilizzo ed all'impiego di manodopera, individuando così una nuova condotta, che può realizzarsi anche attraverso l'intermediazione altrui.
Ebbene, non può che convenirsi sulla premessa secondo la quale il legislatore ha inteso dilatare lo spettro della repressione penale al datore di lavoro che sottoponga i lavoratori a sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno, introducendo una condotta tipica inerente alla sua specifica figura, laddove prima egli poteva, al più, concorrere con l'intermediatore. Nondimeno, non è corretto affermare che la figura del reclutatore e quella dell'utilizzatore siano sovrapponibili, come invece pretende il pubblico ministero, che ne fa derivare - nel modo che si vedrà fra poco- plurime conseguenze sul valore indiziario degli elementi raccolti a carico del primo, per derivarne l'integrazione della condotta del secondo.
15. Anche qui la lettera della legge consente di superare i dubbi.
16. Innanzitutto, va considerato che la novella introdotta con l'art. 1 della l. 29 settembre 2016 n. 199, sostituisce il precedente art. 603 bis, inserito nel codice penale dal d.l. 13 agosto 2011 n. 138, conv. con mod. nella I. 148/2011, dimostrando la volontà del legislatore della riforma di strutturare diversamente la fattispecie, non solo in relazione ai soggetti attivi, ma anche modificandone gli elementi costitutivi. Vengono, infatti, espunte dalla fattispecie base dell'art. 603 bis cod. pen. le condotte consistenti nella violenza, nella minaccia e nell'intimidazione, ora configurate, al secondo comma, come ipotesi aggravata dell'articolo. Mentre la condotta di intermediazione, di cui all'attuale n. 1) del primo comma viene definita diversamente come 'reclutamento di manodopera', essendo eliminato il riferimento alla sussistenza di attività organizzata. Infine, sempre in relazione all'attività dell'intermediatore è escluso il precedente riferimento all'approfittamento da parte dell'intermediatore dello 'stato di necessità', residuando solo l'ipotesi più ampia dell'approfittamento dello stato di bisogno.
A ciò si aggiunge, come si è detto, l'introduzione dell'autonoma condotta dal datore di lavoro, tesa a punire quella di colui che "utilizza, assume o impiega manodopera anche mediante l'attività di intermediazione di cui al n. 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno" [art. 603bis, comma 1 n. 2) cod. pen.].
In questo mutato quadro legislativo la domanda che il pubblico ministero ricorrente sembra porre è se la condotta di sfruttamento con approfittamento dello stato di bisogno posta in essere dall'intermediatore, di cui l'utilizzatore si sia avvalso al fine di utilizzare, assumere o impiegare il lavoratore, possa essere valutata al fine di integrare la fattispecie anche in relazione al datore di lavoro.
Il ricorrente si riferisce, in particolare, alla reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente inferiori a quelle previste dalla contrattazione nazionale e territoriale e comunque sproporzionate al lavoro prestato, essendo emerso che A.R. corrispondeva al reclutatore G.A. la somma di quaranta euro al giorno per ciascun singolo bracciante utilizzato nella raccolta della frutta, benché la somma effettivamente pagata da G.A. al singolo lavoratore fosse pari solo a ventotto-trenta euro giornalieri.
17. Ora, sia la struttura del primo comma dell'art. 603 bis -come articolata nelle ipotesi di cui ai nn. 1) e 2), riguardanti soggetti che svolgono attività diverse­ che l'intenzione manifestata dal legislatore della riforma consentono di affermare che il reclutatore, da un lato, e colui che utilizza, assume o impiega, dall'altro, sono figure differenti e non sovrapponibili.
E' vero che la scansione dei soggetti di cui al n. 2) -cioè chi utilizza, assume o impiega- può indurre il fraintendimento in cui sembra incorrere il ricorrente. E ciò, perché se è evidente che chi assume è il datore di lavoro, così come lo è chi impiega -dovendosi ritenere che il legislatore abbia voluto non lasciare spazi di equivoco, comprendendo sia la regolare (chi assume) che l'irregolare (chi impiega) instaurazione del rapporto di lavoro- più difficile è inquadrare 'l'utilizzatore', che è pur sempre un soggetto che si avvale della prestazione di un lavoratore.
Ma è proprio in relazione alla figura dell'utilizzatore che si svela la ratio dell'allargamento della penale responsabilità. Il legislatore, infatti, scrive, con il n. 2) del primo comma dell'art. 603 bis, una norma 'contenitore' allo scopo di comprendervi tutti i possibili soggetti che assumono, anche di fatto, la figura di dominus della forza lavoro, indipendentemente dalla modalità di reperimento o di assunzione, potendo il lavoratore essere assunto formalmente o informalmente dal datore di lavoro o da terzi. Ecco che, allora, ben si comprende che quel soggetto, il dominus, può assumere o impiegare direttamente il lavoratore, o può avvalersi dell'intermediazione di altri, cioè del reclutatore. Che, a sua volta, può essere anche colui che, dopo averlo reclutato, assume direttamente il lavoratore, consentendone, tuttavia, l'utilizzazione da parte di un altro soggetto.
Chiunque si avvalga del lavoro altrui sfruttandolo ed approfittandosi dello stato di bisogno del prestatore è punibile, ai sensi dell'art. 603 bis, comma 1 n. 2) cod. pen.. Questa appare la volontà legislativa, che intende farsi carico del mondo 'fluido' dello sfruttamento del lavoro con approfittamento del bisogno.
Letta in questo modo la norma permette di comprendere la non sovrapponibilità fra reclutatore, che reperisce e, comunque, anche quando assume direttamente, 'fornisce' la forza lavoro, ed utilizzatore che la impiega, o fra reclutatore e datore di lavoro che, avvalendosi dell'intermediazione, assume - regolarmente o no- il lavoratore. Diverso è, infatti, l'elemento soggettivo che caratterizza la condotta, da un lato, del reclutatore che reperisce 'allo scopo' di destinare a terzi la manodopera, nella consapevolezza e volontà di sfruttare lo stato di bisogno dei soggetti reclutati, avviandoli al lavoro, presso altro soggetto, dall'altro del datore di lavoro che, in quanto dominus del rapporto, utilizza la forza lavoro, nella consapevolezza e volontà di imporre condizioni di sfruttamento che approfittano dello stato di bisogno.
18. Alla luce di queste considerazioni non può ritenersi 'immotivata' la lamentata scissione fra la due figure di 'intermediario reclutatore' ed utilizzatore, che il ricorrente ascrive all'ordinanza come 'errore di diritto'.
19. E' chiaro, tuttavia, che a carico dell'utilizzatore, che si sia avvalso dell'intermediazione, il delitto può configurarsi anche quando la reiterata violazione di norme contrattuali sulla retribuzione sia realizzata in concreto dal soggetto che fornisce la forza lavoro e l'utilizzatore ne sia consapevole ed intenda avvalersene. Ciò accade quando colui che impiega in concreto il lavoratore non lo retribuisca direttamente, ma paghi chi lo procura, sapendo che questi corrisponderà al prestatore somme inferiori a quelle stabilite dagli accordi sindacali o comunque sproporzionate al lavoro prestato, ancorché quelle corrispostegli dall'utilizzatore fossero adeguate a quelle della contrattazione collettiva. Circostanza questa che si assume essere intervenuta nel caso di specie, in quanto sarebbe emerso che A.R. versava a G.A. la somma giornaliera di quaranta euro per bracciante (laddove il contratto collettivo territoriale vigente nella provincia di Matera prevede una retribuzione lorda di euro 41,378, ed una retribuzione netta di euro 37,514, per 6,30 ore di lavoro quotidiano), mentre questi ne corrispondeva a ciascun singolo lavoratore solo ventotto.
Nondimeno, affinché il reato sia integrato in capo all'utilizzatore, è richiesta la prova della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, ovverosia la consapevolezza e la volontà di realizzare tramite altri lo sfruttamento con approfittamento. Questo profilo però non è attaccato dal ricorso in esame, che si limita a constatare la differenza fra il compenso giornaliero corrisposto da A.R. ad G.A. e quello da questi pagato al singolo bracciante, senza soffermarsi sulla sussistenza effettiva del dolo in capo al primo, che ritiene sostanzialmente doversi dare per presunto.
20. Il motivo, dunque, è inammissibile.
21. Può, a questo punto, passarsi alla disamina delle ulteriori doglianze, più strettamente afferenti gli ulteriori indici di sfruttamento, proprii dell'azione dell'utilizzatore e ad esso ascritti nel caso di specie.
22. Viene, innanzitutto, contestato che il Tribunale per il riesame non abbia tenuto in considerazione, nel valutare il fumus del reato, la reiterata violazione delle disposizioni normative sull'orario di lavoro e sulla fruizione dei riposi e delle ferie, risultante, secondo il ricorrente, dai servizi di osservazione e dalle intercettazioni telefoniche.
Il giudice del gravame cautelare esclude che la condizione sintomatica di sfruttamento si sia concretamente realizzata. Pur dando atto che l'orario previsto dagli accordi collettivi è pari a 6,45 ore giornaliere e che è provato che l'attività si è protratta talvolta per 7-8 ore giornaliere, ha osservato che un simile prolungamento dell'orario non costituisce indice di sfruttamento, tanto più in l'assenza della prova della reiterazione. Così come ha rilevato, sottolineando che la contrattazione collettiva prevede la possibilità del lavoro domenicale con riposo infrasettimanale, che le intercettazioni non svelano affatto la mancata fruizione del riposo settimanale, ma solo l'occasionale programmazione del lavoro per una domenica, il che, tuttavia, non implicherebbe che i lavoratori interessati non abbiano potuto godere del riposo settimanale in altra giornata. Anche in questo caso, dunque, mancherebbe l'elemento della reiterazione previsto dall'art. 603 bis, comma 3 n. 2) cod. pen..
23. Si è, in precedenza, ricordato che in materia di misure cautelari reali il ricorso per cassazione è consentito, ai sensi dell'art. 325 cod. proc. pen., solo per violazione di legge, con la conseguenza che il vizio di motivazione può rilevare solo quando trasmodi nell'assenza o nella mera apparenza, così integrando la nullità di cui all'art. 125 cod. proc. pen., non essendo altrimenti consentito l'intervento del giudice di legittimità.
E' del tutto evidente, nondimeno, che l'ordinanza in esame non sia affatto priva dei requisiti minimi di completezza e coerenza che rendono intellegibile la vicenda ed il percorso argomentativo seguito dal giudicante, sicché il motivo, che finisce per richiedere un nuovo vaglio delle prove e del fatto, è inammissibile.
24. Neppure può trovare accoglimento la doglianza con la quale si censura il provvedimento nella parte in cui esclude l'integrazione dell'indice di cui al n. 3) del terzo comma dell'art. 603 bis cod. pen., non ritenendo che l'avere consentito ai braccianti di svolgere l'attività di raccolta con calzature da ginnastica, senza fornire loro adeguato presidio individuale, costituisca violazione delle norme in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro.
25. Al di là della vaghezza della contestazione introdotta dal ricorrente -che si limita a dolersi del fatto che il Tribunale per il riesame non si sia fatto carico di spiegare perché, nonostante il d.lgs 81/2008 si estenda anche ai lavori agricoli, possa ritenersi non necessario l'utilizzo dei presidi nelle operazioni di raccolta di frutta- vi è che i dispositivi di protezione individuali sono prescritti al fine di evitare rischi specifici derivanti dalla lavorazione, suscettibili di minare la salute del lavoratore.
26. Ed invero, l'art. 79 d.lgs. 81/2008 rimanda -per l'individuazione dei dispositivi necessari per le singole lavorazioni- all'Allegato VIII contenente le indicazioni generali relative a protezioni particolari, laddove si prevede che "Per la protezione dei piedi nelle lavorazioni in cui esistono specifici pericoli di ustioni, di causticazione, di punture o di schiacciamento, i lavoratori devono essere provvisti di calzature resistenti ed adatte alla particolare natura del rischio. Tali calzature devono potersi sfilare rapidamente" e che "Qualora sia necessario proteggere talune parti del corpo contro rischi particolari, i lavoratori devono avere a disposizione idonei mezzi di difesa, quali schermi adeguati, grembiuli, pettorali, gambali o uose". Nell'elenco indicativo contenuto nello stesso allegato si distinguono diversi tipi di protezioni dei piedi e delle gambe, a seconda del tipo di rischio da contenere, sia esso meccanico, chimico, fisico o biologico (punto 2), mentre nell'elenco indicativo delle attività (punto 3.2) si specifica quale caratteristica debba avere la calzatura (con o senza suola imperforabile, con o senza tacco ecc.) per ciascun tipo di attività, cui è connesso il rischio.
27. Ciò che l'ordinanza sostiene, pur senza fare cenno al contenuto delle disposizioni appena richiamate, così come peraltro il ricorrente, è che nella raccolta delle fragole, in serra o in campo, non sono presenti rischi che impongano l'utilizzo di calzature con caratteristiche particolari.
Rispetto a questa affermazione, con cui si esclude la presenza di un rischio specifico implicante la necessità dell'adozione di un determinato tipo di calzatura, il ricorrente non oppone l'identificazione del rischio che rende necessaria l'adozione del dispositivo individuale di protezione, ancorché per aversi violazione della normativa antinfortunistica sia necessario che esso sia individuato e che sia previsto uno specifico dispositivo di contenimento.
Manca, in buona sostanza, a fronte dell'assunto del giudice secondo cui non sussiste un rischio da proteggere, un'efficace contestazione sulla sua esistenza e natura, che consenta di valutare se non fornire calzature specifiche possa costituire violazione della normativa antinfortunistica, mentre non spetta a questa Corte valutare direttamente 'se' e 'quale ' tipo di rischio (meccanico, fisico, chimico, termico ecc.) comporti un certo genere di attività, quando nulla sia allegato in proposito.
La genericità della doglianza ne comporta l'inammissibilità.
28. Manifestamente infondato è, infine, il motivo con cui si censura l'ordinanza nella parte in cui nega la condizione dell'approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori coinvolti, benché alcuni di essi alloggiassero presso il Centro di accoglienza di Corigliano Calabro e la circostanza fosse nota ad A.R..
La deduzione è, invero, suggestiva, ma destituita di fondamento. Seppure non possa negarsi che soggiornare in un Centro di accoglienza manifesti una condizione di disagio, trattandosi di alloggiamenti che implicano condizioni di promiscuità dei servizi e l'assenza degli ordinari agi di un'abitazione, cionondimeno ciò non integra di per sé lo stato di bisogno, né tantomeno la conoscenza di siffatta condizione abitativa può rilevare quando, come nel caso di specie, sia negata la stessa sussistenza di condizioni di sfruttamento in capo all'utilizzatore. Ed è proprio in questo senso che motiva il giudice per il riesame.
29. Il ricorso deve, dunque, essere dichiarato inammissibile.



 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso. Così deciso il 11/11/2021