Tribunale di Firenze, Sez. Lav., 04 marzo 2022, n. 155 - Illegittimo il rifiuto alla prestazione della lavoratrice in epoca anteriore all'obbligo del green pass


 

Sentenza n. 155/2022 pubbl. il 04/03/2022
RG n. 2024/2021
N. R.G. 2024/2021

 

Nota a cura di Sonnati Silvio, in Responsabilità civile e previdenza, 5/2022, pp. 1614-1631 "La legittimità della richiesta del datore di lavoro del tampone o del green pass in assenza di un obbligo di legge: due decisioni a confronto" Trib. Firenze 4.3.22, n. 155 e Trib. Bergamo, 8.2.22, n. 549




REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE
Sezione Lavoro

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Anita Maria Brigida Davia ha pronunciato la

seguente

SENTENZA


nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 2024/2021 promossa da:
AC (C.F. X ), Omissis
Parte ricorrente contro
V SPA (C.F. X ), con il patrocinio dell'avv. Omissis
Parte resistente


Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione



Con ricorso depositato in data 7 ottobre 2021 AC citava in giudizio davanti al Tribunale di Firenze in funzione di giudice del lavoro V spa allegando che:

- era stata assunta dalla convenuta in data 15 ottobre 2010 con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e part-time 50% , inquadramento quale impiegata di V livello, mansioni di addetto piscina e sede di lavoro presso il Omissis
- in data 7 agosto 2021 si era regolarmente presentata sul luogo di lavoro per rendere la sua prestazione ma ne era stata allontanata in quanto non in possesso di green pass;
analoga scena si era ripetuta in data 9 agosto 2021;
aveva contestato l'illegittimo allontanamento con lettera del 9 agosto, mettendosi contestualmente a disposizione della datrice;
in data 10 agosto 2021 V spa le aveva inviato una comunicazione, indirizzata peraltro a tutti i lavoratori, con la quale imponeva l' obbligo di green pass a tutti i dipendenti e collaboratori;
a partire da agosto 2021 non era stata più retribuita.
Ciò premesso in fatto, sosteneva in diritto l'illegittimità del rifiuto della prestazione da parte dell'azienda in assenza ( alla data dei fatti) di un obbligo di legge riguardo al possesso del green pass in capo ai lavoratori addetti agli impianti sportivi.
Sosteneva inoltre che l' obbligo non poteva nemmeno farsi discendere dall'art. 2087 cc in quanto la lavoratrice aveva sempre indossato i dispositivi di protezione individuale (mascherine) , nonché osservato le norme igienico sanitarie (frequente lavaggio delle mani e distanziamento) previsti dai protocolli aziendali e comunque nei mesi estivi la sua attività veniva svolta prevalentemente all'aperto.
Concludeva dunque chiedendo che accertata l'illegittimità della sospensione dal servizio e dalla retribuzione disposta dalla datrice, quest'ultima fosse condannata al risarcimento del danno patito corrispondente alle retribuzioni maturate dal 6 agosto 2021 fino all'effettiva ripresa del servizio, o, in subordine sino al 15 ottobre 2021 (data della entrata in vigore dell'obbligo di green pass per tutti i lavoratori) come da conteggi allegati al ricorso.
V spa si costituiva affermando di aver introdotto l' obbligo di green pass per tutto il personale addetto agli impianti sportivi da lei gestiti a partire dal 6 agosto 2021 quale misura ritenuta necessaria per rendere sicuro il luogo di lavoro, in ottemperanza agli obblighi sanciti dall'art 2087 cc e di aver comunicato la propria decisione a tutto il personale, compresa l'odierna ricorrente con lettera del 30 luglio 2021 .
Sosteneva dunque la legittimità dell' allontanamento della lavoratrice e concludeva per l'integrale rigetto del ricorso.
La causa , in assenza di attività istruttoria ritenuta non necessaria, è stata decisa con sentenza resa a seguito di discussione svoltasi in forma scritta.
I fatti allegati dalla lavoratrice (allontanamento del 7 e del 9 agosto 2021 e rifiuto della prestazione in assenza di esibizione di idoneo green pass) sono pacifici.
E' altrettanto pacifico che l'art 9 bis del DL 52/21 convertito con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87 vigente alla data dei fatti imponesse l'obbligo di green pass ai soli frequentatori di "piscine, centri natatori, palestre, sport di squadra, centri benessere, anche all'interno di strutture ricettive, di cui all'articolo 6, limitatamente alle attività al chiuso", mentre l' obbligo del possesso di green pass in capo ai lavoratori quali l'odierna ricorrente è stato introdotto solo a partire dal 15 ottobre 2021 in forza delle disposizioni contenute nel Decreto Legge n. 105 del 23 settembre 2021.
Su tale interpretazione delle norme citate le parti concordano.
La questione posta al giudicante è se, in assenza di un obbligo di legge il possesso di green pass in corso di validità potesse essere richiesto dal datore di lavoro al singolo lavoratore, quale misura necessaria al fine di preservare la salubrità del luogo di lavoro.
La risposta è sicuramente negativa.
Ai sensi dell'art 9 comma 2 DL 52/21 convertito con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87 il green pass attesta una delle seguenti condizioni:
a) avvenuta vaccinazione anti-SARS-CoV-2, al termine del prescritto ciclo;
b) avvenuta guarigione da COVID-19, con contestuale cessazione dell'isolamento prescritto in seguito ad infezione da SARS-CoV-2, disposta in ottemperanza ai criteri stabiliti con le circolari del Ministero della salute;
c) effettuazione di test antigenico rapido o molecolare con esito negativo al virus SARS-CoV-2. Essendo escluso ai sensi dell'art 32 Cost che il datore di lavoro possa imporre la vaccinazione , l'obbligo di possesso di green pass per i lavoratori che - come la ricorrente- non siano stati infettati dal virus., si concreta nell' obbligo di effettuazione di test molecolari o antigenici nelle 48 ore precedenti l'attività lavorativa.
L' art. 2087 c.c., invocato dalla convenuta , impone all' imprenditore di adottare "le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro" . Con specifico riferimento al rischio che qui interessa , l'art. 29-bis del dl. n. 23 /2020 , conv. in L. n. 40/2020 stabilisce che "ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni" .
Il protocollo del 24 aprile 2020 (prodotto da parte convenuta sub 2) consente ( per la parte che qui interessa) :
a) Il preventivo controllo della temperatura corporea, con allontanamento dei soggetti con temperatura superiore a 37,5°;
b) La preclusione dell'accesso a chi, negli ultimi 14 giorni, abbia avuto contatti con soggetti risultati positivi al COVID-19 o provenga da zone a rischio secondo le indicazioni dell'OMS,
c) La preclusione dell'accesso dei lavoratori già risultati positivi all'infezione da COVID 19 in assenza di una preventiva comunicazione avente ad oggetto la certificazione medica da cui risulti la "avvenuta negativizzazione" del tampone secondo le modalità previste e rilasciata dal dipartimento di prevenzione territoriale di competenza (cfr art 2)
Quanto ai tamponi il protocollo si limita a prevedere che "qualora, per prevenire l'attivazione di focolai epidemici, nelle aree maggiormente colpite dal virus, l'autorità sanitaria competente disponga misure aggiuntive specifiche, come ad esempio l'esecuzione del tampone per i lavoratori, il datore di lavoro fornirà la massima collaborazione", così chiarendo implicitamente che l'obbligo di tampone può derivare solo da un provvedimento dell'autorità sanitaria (cfr sempre art 2).
Il protocollo inoltre stabilisce che, solo a seguito di motivata ed esplicita richiesta del medico competente possono essere "suggeriti" particolari mezzi diagnostici, "il medico competente, in considerazione del suo ruolo nella valutazione dei rischi e nella sorveglia sanitaria, potrà suggerire l'adozione di eventuali mezzi diagnostici qualora ritenuti utili al fine del contenimento della diffusione del virus e della salute dei lavoratori" (cfr art 12).
Ne consegue che (secondo la normativa vigente all'epoca dei fatti) il possesso di tampone negativo poteva essere richiesto al lavoratore in adempimento degli obblighi di cui all'art 2087 cc gravanti sul datore di lavoro solo in presenza di un provvedimento dell'autorità sanitaria o di una motivata richiesta del medico competente, fattispecie che pacificamente esulano dal caso all' esame del giudice.
Ciò vale a rendere illegittimo il rifiuto della prestazione della ricorrente operato dal datore di lavoro.
La illegittimità è comunque cessata il 15 ottobre del 2021, data nella quale l'obbligo di possesso di green pass in capo a tutti i lavoratori è stato imposto dalla legge, rendendo doveroso il rifiuto datoriale.

La lavoratrice ha quindi diritto al ristoro del danno commisurato al pregiudizio economico derivante dal rifiuto di ricevere la prestazione da patte del datore di lavoro, nei cui confronti trovano applicazione le regole sulla mora del creditore e in particolare quella concernente l'obbligo risarcitorio, fissata nell'art. 1206, secondo comma cod. civ., con conseguente necessità di riconoscere alla C il diritto alla retribuzione per l'attività lavorativa ingiustificatamente impeditale (cfr tra le altre Cass. Sez. L, Sentenza n. 8851 del 11/04/2013; conf Cass Sez. 1 L, Sentenza n. 5518 del 18/03/2004).
Il suddetto danno corrispondente alle retribuzioni non percepite dal 6 di agosto 2021 al 15 ottobre 2021 è quantificabile in complessivi € 1912,81 come da conteggi allegati al ricorso, non oggetto di specifica contestazione.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo
 

 

P.Q.M.
 



Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così dispone:

condanna parte convenuta al pagamento in favore di AC della somma di€ 1912,81 oltre rivalutazione monetaria ed interessi dalla scadenza delle singole voci retributive al saldo. Condanna altresì la suddetta parte convenuta a rimborsare alla parte ricorrente le spese di lite, che si liquidano in €. 49 per C.U e complessivi € 1850 per competenze professionali, oltre i.v.a., c.p.a. e rimborso spese generali.
Sentenza resa a seguito di discussione svoltasi in forma scritta. Firenze, 3 marzo 2022