Cassazione Penale, Sez. 4, 11 aprile 2022, n. 13720 - Prassi "contra legem" diffusa nell'area di lavorazione denominata "paniere della colata continua" per la quale gli operai sforniti di apposito titolo abilitativo si pongono alla guida dei muletti


 

 

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: BRUNO MARIAROSARIA
Data Udienza: 02/02/2022
 

 

E' preciso compito del datore di lavoro controllare che i preposti, nell'esercizio dei compiti di vigilanza, si attengano alle disposizioni di legge; ne consegue che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi "contra legem", foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, debba rispondere dell'infortunio occorso (Sez. 4, Sentenza n. 26294 del 14/03/2018, Fassero Gamba, Rv. 272960).


 

Fatto




1. Con sentenza del 19 maggio 2021, la Corte d'appello di Lecce, in parziale riforma della pronuncia emessa dal Tribunale di Taranto, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, ha rideterminato la pena inflitta a C.S.R. e P.C. in quella di mesi uno di reclusione per il reato di lesioni colpose commesse con violazione delle norme antinfortunistiche .
Il C.S.R., nella qualità di procuratore speciale della "Semat Engineering s.r.l.", era ritenuto responsabile di avere tollerato la prassi, invalsa all'interno dello stabilimento Ilva di Taranto, nell'area di lavorazione denominata "paniere della colata continua", per la quale gli operai sforniti di apposito titolo abilitativo si ponevano alla guida di carrelli elevatori.
Nell'occorso il P.C., operaio alle dipendenze della "Semat Engineering", non in possesso di titolo abilitativo e sprovvisto di formazione sull'uso dei carrelli elevatori, in un momento di pausa della lavorazione, approfittando dell'assenza momentanea del carrellista, metteva in moto il muletto per spostarlo e, premendo inavvertitamente il pedale dell'accelleratore, colpiva il piede di M.M., fermo vicino al mezzo, cagionando a quest'ultimo lesioni gravissime.
La Corte d'appello condivideva la ricostruzione dei fatti offerta dal primo giudice, ritenendo integrata la violazione dell'art. 71, comma 7, d.lgs. 81/08.
2. Avverso la pronuncia di condanna, a mezzo del difensore, ha proposto ricorso per cassazione C.S.R., articolando i seguenti motivi di doglianza.
I) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 521 cod. proc. pen., 40 e 590 cod. pen.
Il C.S.R., imputato per avere adibito il P.C. alla conduzione di un carrello elevatore senza specifica formazione, è stato ritenuto responsabile dai giudici di merito di non avere adeguatamente vigilato sul comportamento dei lavoratori.
La modificazione del profilo di responsabilità originariamente individuato nel capo d'imputazione è significativa sul piano del diritto di difesa, poiché il ricorrente non ha avuto modo di difendersi dai nuovi profili di accusa individuati dai giudici di merito.
Nella motivazione si argomenta in modo contraddittorio e presuntivo in ordine alla responsabilità del ricorrente.
Si riconosce in sentenza come il C.S.R. fosse a capo di una struttura complessa, articolata in più cantieri, anche distanti tra loro. Si conviene che vi fossero anche altre persone deputate alla direzione e alla vigilanza e che nei turni a squadra vi fosse almeno un carrellista abilitato.
Ciononostante si afferma, in maniera apodittica e priva alcun riscontro probatorio, che vi fosse una prassi invalsa nell'azienda e che tale prassi venisse tollerata dalla dirigenza.
L'accertata perfetta osservanza delle norme antinfortunistiche e la presenza di figure intermedie qualificate preposte a vigilare avrebbe dovuto indurre la Corte di merito a giungere a diversa conclusione.
Non si è dato alcun rilievo alla circostanza che il P.C. fosse iscritto alla frequenza di un corso abilitante e che avesse ammesso di essersi posto alla guida del carrello senza l'ordine di nessuno.
La sentenza appare meritevole, quindi, di annullamento: risulta inosservante della correlazione tra accusa e condanna; inoltre, non fa corretta applicazione dell'articolo 590 cod. pen., in quanto la culpa in vigilando addebitata al ricorrente è motivata in maniera presuntiva e contraddittoria.
II) Violazione degli artt. 62, comma 1, n. 6) cod. pen. e 133 cod. pen.
Viene negato al ricorrente il riconoscimento dell'attenuante del risarcimento del danno sul presupposto del riconoscimento di una colpa non lieve. Il ragionamento espresso sul punto è tuttavia contraddittorio: la Corte di merito pur affermando l'esistenza di una colpa "non lieve", ha ridotto la pena inflitta nella sentenza di primo grado.
Non appare corretto negare la invocata attenuante. E' consolidato l'orientamento che riconosce l'attenuante de quo in capo al datore di lavoro, che abbia diligentemente provveduto a risarcire il lavoratore, indipendentemente dalla provenienza della somma elargita.

 

Diritto



1. Il ricorso è inammissibile.
2. La doglianza riguardante la mancata correlazione tra accusa e sentenza è carente di specificità.
Secondo consolidato orientamento, nei procedimenti per reati colposi, la sostituzione o l'aggiunta di un particolare profilo di colpa, sia pure specifica, al profilo di colpa originariamente contestato, non vale a realizzare diversità o immutazione del fatto ai fini dell'obbligo di contestazione suppletiva di cui all'art. 516 cod. proc. pen. e dell'eventuale ravvisabilità, in carenza di valida contestazione, del difetto di correlazione tra imputazione e sentenza ai sensi dell'art. 521 stesso codice (Sez. 4, Sentenza n. 18390 del 15/02/2018 Ud. (dep. 27/04/2018 ) Rv. 273265 - 01).
In argomento, si è anche precisato che il ricorso per cassazione con cui si deduca la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, ai fini della sua ammissibilità, non può limitarsi a segnalare la mancanza formale di coincidenza tra l'imputazione originaria e il fatto ritenuto in sentenza, dovendo altresì allegare il concreto pregiudizio che ne è derivato per l'esercizio del diritto di difesa, non sussistendo la violazione predetta ove, sulla ricostruzione del fatto operata dal giudice, le parti si siano confrontate nel processo (Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, PG e/Castaldo Mario, Rv. 281997).
Nella specie la difesa ha rappresentato che vi è stata mutazione dell'addebito di responsabilità, lamentando genericamente che è mancata la possibilità di contraddittorio sui profili rilevati dai giudici di merito, senza tuttavia indicare i dati processuali dai quali è possibile desumere tale circostanza.
Le ulteriori argomentazioni sono riproduttive di doglianze già attentamente vagliate dai giudici di merito e disattese con ragionamento logico e puntuale.
Non è apodittica l'affermazione della esistenza di una prassi tollerata dalla dirigenza: sono state richiamate in motivazione le testimonianze dei dipendenti che hanno riferito sul punto, desumendo dal loro contenuto il dato della esistenza della suddetta prassi.
E' preciso compito del datore di lavoro controllare che i preposti, nell'esercizio dei compiti di vigilanza, si attengano alle disposizioni di legge; ne consegue che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi "contra legem", foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, debba rispondere dell'infortunio occorso (Sez. 4, Sentenza n. 26294 del 14/03/2018, Fassero Gamba, Rv. 272960).
3. Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato: la Corte di appello, con rilievo di ordine dirimente, ha posto in evidenza che non è stata documentata la data dell'avvenuto risarcimento e l'ammontare della somma liquidata. Ai fini del riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 6) cod. pen., il risarcimento deve intervenire prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado e deve essere integrale (ex multis Sez. 3, n. 18937 del 19/01/2016, Rv. 266579; Sez. 3, n. 31250 del 10/01/2017, Rv. 270211).
4. Consegue alla declaratoria d'inammissibilità del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., al versamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000).

 

P.Q.M.
 


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
In Roma, così deciso il 2 febbraio 2022