Cassazione Penale, Sez. 4, 22 aprile 2022, n. 15682 - Sfruttamento braccianti agricoli e stato di bisogno


Presidente: DOVERE SALVATORE
Relatore: ESPOSITO ALDO Data Udienza: 11/11/2021
 

Fatto




1. Con l'ordinanza in epigrafe il Tribunale di Cosenza, in funzione di giudice del riesame, ha accolto il ricorso proposto ai sensi dell'art. 325 cod. proc. pen. da G.G. avverso il decreto del G.I.P. del Tribunale di Castrovillari del 22 maggio 2020 di sequestro preventivo dell'azienda di proprietà del medesimo, in relazione ai reati di cui agli artt. 81, 110, 603 bis, commi primo, n. 2 e 3, n. 1), secondo, terzo e quarto, nn. 1) e 3), cod. pen.: utilizzazione, assunzione e impiego presso l'azienda agricola di molteplici braccianti, sottoponendoli a condizioni di sfruttamento, attesa la reiterata corresponsione di retribuzioni difformi dai contratti collettivi nazionali o territoriali e, comunque, sproporzionate rispetto alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria e alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro, la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza e a situazioni alloggiative degradanti - ed approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, i quali, invero, attese le precarie condizioni economiche ed avendo la necessità di provvedere ai loro bisogni, erano costretti ad accettare le prefate condizioni di lavoro - con l'aggravante di aver utilizzato i lavoratori in numero superiore a tre nonché dell'aver commesso il fatto, esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo per la loro incolumità, e tanto avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere, trattandosi di lavoro agricolo, e delle condizioni di lavoro, in particolare essendo i lavoratori impiegati sui campi senza dispositivi di protezione individuale e senza poter godere di periodo di riposo.
1.1. In base all'impostazione accusatoria, recepita dal G.I.P. nel decreto di sequestro, G.G. aveva impiegato alle proprie dipendenze alcuni braccianti italiani e stranieri, mediante l'attività di intermediazione di vari caporali e sottocaporali, sottoponendoli a condizioni di sfruttamento, attesa la reiterata corresponsione di retribuzioni difformi dai contratti collettivi nazionali o territoriali e, comunque, sproporzionate rispetto alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria e alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro, la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza e a situazioni alloggiative degradanti ed approfittando dello stato di bisogno.
Gli elementi indiziari erano stati acquisiti mediante intercettazioni telefoniche, documentazione sequestrata, servizi di osservazione e sommarie informazioni rese da alcuni braccianti.
Gli organi di P.G. avevano riscontrato un'attività di reclutamento di manodopera da parte dei caporali ed il trasporto dei braccianti nelle campagne di proprietà dell'azienda dell'indagato, dove era in corso la raccolta delle fragole. Molti altri controlli e sopralluoghi effettuati consentivano accertare la presenza dei braccianti e dei caporali, di volta in volta presenti.
I militari della G.D.F. accertavano che numerosi braccianti assunti dall'azienda in oggetto erano ospiti del Centro di Accoglienza Casi di Corigliano Calabro, per cui il G.I.P. riteneva in re ipsa lo stato di bisogno del quale i titolari dell'azienda stessa avrebbero approfittato.
1.2. Il Tribunale del riesame ha premesso che la fattispecie in esame non concerne l'ipotesi dei cd. caporali, bensì quella degli imprenditori e/o dei datori di lavoro, i quali abbiano occupato alle loro dipendenze lavoratori in condizioni di sfruttamento, a prescindere dall'esistenza o meno a monte di un'illecita intermediazione.
Il Tribunale del riesame ha poi illustrato poi le ragioni della ritenuta insussistenza degli indici di sfruttamento previsti dall'art. 603, comma 1, cod. pen.. Nell'ordinanza impugnata, tenuto conto della mancanza del fumus in ordine agli elementi costitutivi del reato, si è esclusa la necessità di approfondire il tema della sussistenza dell'elemento psicologico del reato contestato.

2. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza ricorre per Cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame, proponendo tre motivi di impugnazione.
2.1. Violazione dell'art. 603 bis cod. pen. e della contrattazione territoriale della provincia di Matera e di Cosenza per gli operai agricoli.
Si deduce che il reato in esame era stato introdotto dal legislatore, al fine di estendere l'ambito di applicazione alle aziende utilizzatrici, prima esenti da responsabilità penale. L'attuale disposizione punisce l'utilizzo, l'impiego o l'assunzione di manodopera in condizioni di sfruttamento ed approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori.
Il Tribunale del riesame ha erroneamente escluso la sussistenza di uno sfrutta­ mento penalmente rilevante, non valutando che la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti costituisce solo uno degli indici sintomatici di detto sfruttamento e che il reato è integrato dalla ricorrenza di uno soltanto tra loro (art. 603 bis, comma terzo, cod. pen.).
Nell'ordinanza impugnata è stata arbitrariamente disapplicata la fattispecie criminosa in questione, nella parte in cui punisce la condotta di utilizzazione di manodopera "anche mediante l'attività di intermediazione di cui al numero 1)" ed essendo sufficienti gli indici di sfruttamento e dello stato di bisogno di un solo lavoratore.
Il Giudice del gravame ha omesso qualsiasi vaglio giudiziale in ordine ai seguenti elementi:
A) Le conversazioni intercettate che evidenziavano l'utilizzazione da parte dell'indagato dei caporali Omissis, per reclutare manodopera presso la sua azienda, l'ausilio dello Omissis nel trasporto dei braccianti e nella predisposizione della documentazione necessaria alle assunzioni di questi ultimi presso l'azienda e del pagamento delle retribuzioni ai lavoratori; si trattava di dialoghi espliciti nell'attestare un'attività di manodopera bracciantile mediante il reclutamento altrui, il tutto in violazione dell'art. 603, comma primo, n. 2, cod. pen..
B) I plurimi servizi di o.c.p., che confermavano la condotta di utilizzazione di manodopera bracciantile mediante il reclutamento altrui: essi attestavano che i vari caporali accompagnavano i braccianti agricoli su terreni nella disponibilità del G.G. e che, dopo la raccolta, le cassette di fragole erano adagiate su camion di proprietà dell'indagato.
C) Nel corso di attività di controllo di vari veicoli condotti da caporali era identificata la bracciante agricola Omissis che confermava di lavorare per l'indagato.
D) La retribuzione giornaliera di trenta euro (vedi dichiarazione di Omissis) era inferiore a quella prevista dalla contrattazione territoriale vigente al mo­ mento del fatto nella provincia di Matera: di 41,378 euro e netta di 37,514 euro in Matera, con orario di lavoro di 7 ore, superiore a quello di sei ore e trenta minuti previsto dalla contrattazione collettiva. Plurime conversazioni attestavano le peculiari difficoltà insite nella raccolta delle fragole e, per tale via, della corresponsione di retribuzioni sproporzionate alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tenendo conto che la raccolta costringeva i lavoratori a restare piegati a 90°. La regolarità delle assunzioni dei lavoratori era irrilevante.
E) Vari braccianti e le conversazioni intercettate comprovavano che presso l'azienda dell'indagato i braccianti lavoravano tutti i giorni, anche di domenica e nei giorni festivi e non godevano di ferie o di riposi settimanali, per cui ricorrevano gli indici di sfruttamento di cui all'art. 603 bis, comma terzo, n. 2, cod. pen..
F) I braccianti lavoravano senza dispositivi di protezione individuale (ad eccezione dei guanti), in violazione dell'indice di sfruttamento previsto dall'art. 603 bis, comma terzo, n. 3, cod. pen. in tema di sicurezza ed igiene.
2.2. Violazione di legge per motivazione apparente.
Si osserva che il Tribunale del riesame, con motivazione apodittica ed assertiva, ha omesso di esaminare le risultanze investigative decisive per l'accertamento del fatto e valorizzate nel decreto del G.I.P..
Nell'ordinanza impugnata non sono stati spiegati: a) la natura dell'approfondimento che mancherebbe in ordine alla posizione dei lavoratori; b) gli interlocutori e le conversazioni ai quali si riferiva; c) la rilevanza di tali conversazioni rispetto alla decisione di ritenere insussistente il fumus; d) gli elementi in base ai quali è stata desunta l'inesistenza di condizioni degradanti o di significative alterazioni del rapporto sinallagmatico; e) le ragioni della asserita insussistenza di violazioni in punto di ferie e di riposi estivi; f) le ragioni per cui l'indice di sfruttamento di cui all'art. 603 bis, comma terzo, n. 2, cod. pen. doveva essere valutato in ragione dì un palese ed eclatante dìscostamento dall'orario di lavoro, tenuto conto che la disposizione richiede soltanto una violazione reiterata; g) i motivi per i quali era consentito ai lavoratori di operare senza dispositivi di protezione individuale nonostante la necessità del loro utilizzo anche nel settore dell'agricoltura; h) le ragioni per le quali non è stato considerato l'impiego di vari caporali per il reclutamento della manodopera e per le attività connesse.
Il Tribunale del riesame doveva confrontarsi con gli elementi indiziari in atti e avrebbe dovuto richiamare quelli di segno contrario a sostegno del suo assunto.
Peraltro, il Tribunale del riesame, nell'ammettere che l'indagato aveva fatto ricorso alla somministrazione di prestatori di lavoro da parte di caporali, avrebbe dovuto riconoscere il fumus del reato di cui all'art. 18, comma 2, D. Lgs. n. 276 del 2003.
2.3. Violazione degli artt. 321e 322 cod. proc. pen..
Si rileva che il Tribunale del riesame non ha valutato su un piano di astrattezza l'antigiuridicità dei fatti sostanzianti l'accusa, limitandosi alla verifica di compatibilità tra l'ipotesi accusatoria e le emergenze esistenti, ma aveva trasmodato le affermazioni che involgevano il merito del giudizio, in quanto estendevano il tema del decidere alla fondatezza della pretesa punitiva.
L'ordinanza impugnata si è risolta in un'indebita anticipazione del merito della vicenda, che invece è demandato al giudice della cognizione.

3. Con memoria del 1° novembre 2021, la difesa del G.G. chiede dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
Si deduce che correttamente il Tribunale del riesame ha rilevato che, ai fini dell'individuazione del fumus commissi delicti non è sufficiente la mera postulazione dell'esistenza di un reato, dovendosi dimostrare la congruenza della fattispecie criminosa prospettata rispetto ai fatti ai quali si riferisce la misura cautelare.
Contrariamente a quanto dedotto dalla Procura ricorrente, la decisione impugnata si è basata sull'esame del materiale probatorio prendendo in considerazione tutti gli elementi investigativi offerti, disattendendo, con motivazione compiuta ed ineccepibile, l'impianto accusatorio. Peraltro, le censure prospettate criticavano il merito della valutazione e non erano deducibili in sede di legittimità.
In ordine al periculum in mora, non emergevano i requisiti della concretezza e dell'attualità. Il bene sequestrato non rivestiva carattere strumentale rispetto all'aggravamento o alla protrazione delle conseguenze del reato.

 

Diritto



1. Il ricorso è inammissibile.


2. Con riferimento all'analisi dei motivi di impugnazione, per ragioni di ordine logico deve essere trattato anticipatamente il terzo motivo di ricorso, con cui la Procura ricorrente si duole della decisione del Tribunale per il riesame di non limitarsi al controllo di compatibilità fra la fattispecie concreta e quella legale, al fine di verificare la ricorrenza del fumus commissi delicti, bensì di aver esteso la propria valutazione alla sussistenza del quadro indiziario, benché la giurisprudenza di legittimità escluda che l'esame sulle condizioni di legittimità delle misure cautelari reali possa tradursi nell'anticipazione della decisione di merito sulla fondatezza delle accuse.
L'assunto si basa su un presupposto erroneo sui limiti del sindacato del giudice della cautela in ordine alla sussistenza del fumus commissi delìcti, rifacendosi ad un indirizzo delle Sezioni Unite espresso in epoca remota, secondo cui il controllo del giudice del riesame non può investire, in relazione alle misure cautelari reali, la con­ creta fondatezza di un'accusa, ma deve limitarsi all'astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato (Sez. U, n. 4 del 25/03/1993, Gifuni, Rv. 193118).
Tale impostazione, che circoscrive il giudizio sul presupposto dell'apparenza del reato alla sola compatibilità fra la fattispecie legale e quella ipotizzata, risulta superata da un orientamento che, pur senza tradurre l'esame del giudice in quella valutazione della gravità indiziaria della fondatezza dell'accusa nei confronti dell'indagato che connota le misure cautelari personali, valorizza l'effettività del controllo aldilà della mera postulazione dell'esistenza del reato da parte del P.M., imponendo al giudice di rappresentare nella motivazione dell'ordinanza, in modo puntuale e coerente, le concrete risultanze processuali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, dimostrando la congruenza dell'ipotesi di reato prospettata rispetto ai fatti cui si riferisce la misura cautelare reale sottoposta al suo esame (Sez. 3, n. 26007 del 05/04/2019, Pucci, Rv. 276015; Sez. 2, n. 18331 del 22/04/2016, Iommi, Rv. 266896; Sez. 6, n. 16153 del 06/02/2014, De Amicis, Rv. 259337).
L'esigenza di riscontrare il collegamento fra il reato e la res, che può appartenere ad un terzo, passa, infatti, attraverso la premessa della sussistenza di un reato a carico di taluno - non necessariamente il proprietario del bene oggetto di sequestro - che rende non indispensabile l'individuazione del responsabile dell'illecito, ma ineludibile il giudizio prognostico positivo sulla pronuncia di condanna per il reato perseguito, pur nei termini tipici del procedimento cautelare.
In detta differenza fra il collegamento della cosa sottoposta a sequestro ed il reato e l'individuazione di gravi indizi di reità nei confronti dell'autore di un illecito si rinviene la diversità di valutazione tra il sindacato del giudice in ipotesi di misura cautelare reale e di misura personale, occorrendo, nel primo caso, la constatazione che si sia effettivamente verificato un fatto avente natura di illecito penale e che la cosa sequestrata inerisca al reato, nel secondo, invece, essendo necessaria la sussistenza a carico di un preciso soggetto di un quadro di gravità indiziaria di colpevolezza.
Non è, dunque, sufficiente per comprimere la libera disponibilità della cosa sottoposta a sequestro preventivo la semplice ed astratta configurabilità di un reato, come rappresentata dall'accusa, dovendo invece la sua sussistenza risultare in concreto configurabile sulla base delle risultanze processuali e degli elementi eventualmente sottoposti dalle parti, perché, pur prescindendo dal profilo di colpevolezza dell'indagato, occorre stabilire il collegamento fra la cosa e l'illecito, che deve, pertanto, essere valutato nella sua esistenza materiale, pur avendo riguardo allo stato del procedimento ed alla sua natura cautelare; pur se non è necessario un quadro di probabile responsabilità, ai fini della valutazione del fumus è comunque necessario un quadro di effettivi indizi, ancorché non in termini di capacità di questi di fondare un giudizio di elevata probabilità della responsabilità (Sez. 6, n. 18183 del 23/11/2017, dep. 2018, Polifroni, Rv. 272927; Sez. 6, n. 49478 del 21/10/2015, Macchione, Rv. 265433).
Inoltre, ai sensi dell'art. 325 cod. proc. pen., contro le ordinanze emesse a norma dell'art. 324 cod. proc. pen. in materia di sequestro preventivo il ricorso è ammesso solo per violazione di legge, per censurare, cioè, errores in iudicando o errores in procedendo commessi dal giudice di merito, la cui decisione risulti di conseguenza radicalmente viziata e, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il difetto di motivazione integra gli estremi della violazione di legge solo quando l'apparato argomentativo che dovrebbe giustificare il provvedimento o manchi del tutto o risulti privo dei requisiti minimi di coerenza, di completezza e di ragionevolezza, in guisa da apparire assolutamente inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dall'organo investito del procedimento (Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Napoli, Rv. 269656).
Nella fattispecie in esame, a prescindere dal contenuto dell'apparato argomentativo non condiviso dal P.M., l'ordinanza impugnata contiene i requisiti minimi di coerenza e completezza, che consentono di rendere comprensibile la vicenda e l'itinerario logico seguito dall'organo giudicante.
3. Occorre ora procedere all'esame congiunto delle censure di cui al primo e al secondo motivo di ricorso, inerenti alla dedotta sussistenza degli elementi costitutivi del reato previsto dall'art. 603 bis cod. pen. e alle connesse carenze motivazionali, nelle quali sarebbe incorso il Tribunale del riesame.
Va premesso che, nella fattispecie, al G.G. è contestata la condotta di "utilizzatore". Ai sensi dell'art. 603 bis, comma primo, numero 2, cod. pen., è punito chiunque «utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l'attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno».
Al terzo comma di tale disposizione sono riportati gli indici di sfruttamento e, cioè, i parametri entro cui sono sussunte le modalità attraverso le quali si estrinsecano le inique e degradanti condizioni lavorative. Ai criteri di riferimento descritti nella norma vanno rapportate, di volta in volta, le concrete condotte del reclutatore o dell'utilizzatore, al fine di ravvisarvi gli eventuali estremi dello sfruttamento.
Il legislatore, pertanto, ha stabilito di non definire lo sfruttamento come condizione caratterizzante l'attività di reclutamento (art. 603 bis, comma primo, n. 1, cod. pen.) e quella di utilizzazione, assunzione o impiego della manodopera (art. 603 bis, comma primo, n. 2, cod. pen.), preferendo, in un'ottica di facilitazione della prova, riportare i seguenti indici: 1) reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palese­ mente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Il reato di cui all'art. 603 bis cod. pen. è caratterizzato dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio (Sez. 4, n. 27582 del 16/09/2020, Savoia, Rv. 279961, in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del "caporale" e del datore di lavoro, essendo lo sfruttamento evincibile dalla penosa situazione personale e abitativa degli extracomunitari, dalla durata oraria della prestazione, svolta senza dotazioni di sicurezza e corsi di formazione e senza fruizione del riposo settimanale, nonché dall'entità della retribuzione, decurtata sensibilmente per spese affrontate dal datore di lavoro; Sez. 4, n. 49781 del 09/10/2019, Kuts, Rv. 277424).

La ricorrenza di una sola delle circostanze sintomatiche integra gli estremi dello sfruttamento, mentre in relazione alla violazione dei contratti collettivi in tema di salario e delle disposizioni relative all'orario (di natura pattizia o normativa) occorre la reiterazione della condotta. Il mero ed isolato inadempimento, pertanto, non è penalmente rilevante. Per aversi reiterazione, la condotta deve essere posta in essere nei confronti del singolo lavoratore, non essendo tale l'isolata violazione nei confronti di una pluralità di lavoratori, che configura semplicemente una pluralità di singoli inadempimenti, nei confronti di molteplici soggetti. Ancora, il testo normativo sugge­ risce, non individuando il numero minimo dei lavoratori in relazione ai quali debbono realizzarsi i comportamenti integranti sfruttamento, che la condotta sia punibile ancorché riguardi un solo lavoratore.
L'indicazione di condizioni integranti lo sfruttamento non preclude la possibilità di individuare altre condotte integranti la condotta di abuso del lavoratore, in quanto esse costituiscono appunto indici del fatto tipico, cioè sintomi della sua sussistenza, che ben può risultare diversamente, purché si concreti la condizione di coartazione a condizioni di lavoro di cui si subisce l'imposizione.
Distinto dallo sfruttamento appare il concetto di approfittamento dello stato di bisogno, presupposto quest'ultimo che deve ricorrere affinché la condotta di sfruttamento sia punibile. Anche in tal caso il legislatore non definisce la nozione, pur richiedendo che lo sfruttamento derivi dallo stato di bisogno, il quale, quindi, deve essere noto ed oggetto del vantaggio che il reclutatore o l'utilizzatore tendono a realizzare proprio attraverso l'imposizione di quelle condizioni lavorative che indicano lo sfruttamento.
Con l'art. 603 bis cod. pen., il legislatore ha scelto di utilizzare la locuzione "stato di bisogno", già usata nel nostro ordinamento con riferimento ad istituti civilistici ed altri reati (quali, ad esempio, l'usura nell'originaria configurazione) e non quella "posizione di vulnerabilità" di matrice sovranazionale (cfr. art. 3 del Protocollo traffiking e la nota dei lavori preparatori; art. 2 direttiva 2011/36/EU), che, nell'art. 1 della decisione del Consiglio Cee 19 luglio 2002, n. 629, sulla lotta alla tratta degli esseri umani, è definita come la situazione in cui la persona non abbia altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all'abuso di cui è vittima.
Al contrario, nella formulazione dell'art. 600 cod. pen. (riduzione o mantenimento in schiavitù e servitù), si è fatto espressamente riferimento alla posizione di vulnerabilità della vittima. Tale scelta lessicale comporta che - nell'individuare lo stato di bisogno - non occorra "indagare sulla sussistenza di una posizione di vulnerabilità, da intendersi, secondo le indicazioni sovranazionali, come assenza di un'altra effettiva ed accettabile scelta, diversa dall'accettazione dell'abuso - indagine che, anche nella fattispecie di cui all'art. 600 cod. pen., è alternativa rispetto alla verifica di altre e diverse situazioni di debolezza della vittima, specificamente indicate dal legislatore. Lo stato di bisogno, infatti, non si identifica con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente as­ sillo e, cioè una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose (Sez. 4, n. 24441 del 16/03/2021, Sanitrasport soc. coop. Soc., Rv. 281405, con cui si è ritenuto immune da censure il provvedimento impugnato che aveva ravvisato lo stato di bisogno nella condizione di difficoltà economica delle vittime, capace di incidere sulla loro libertà di autodeterminazione, trattandosi, in quel caso, di persone non più giovani e non particolarmente specializzate, e quindi prive della possibilità di reperire facilmente un'occupazione lavorativa).
Alla luce di tali considerazioni, contrariamente a quanto affermato dalla Procura ricorrente, la condizione di sfruttamento che non si avvantaggi dello stato di bisogno non integra il reato di cui all'art. 603 bis cod. pen., avendo il legislatore scelto di punire non lo sfruttamento in sé ma solo l'approfittamento di una situazione di grave inferiorità del lavoratore, economica o di altro genere, che lo induca a svilire la sua volontà contrattuale sino ad accettare condizioni proposte dal reclutatore o dall'utilizzatore, cui altrimenti non avrebbe acconsentito.
Non è sufficiente, dunque, la ricorrenza dei sintomi dello sfruttamento, come indicati dall'art. 603 bis, comma 3, cod. pen., ma occorre l'abuso della condizione esistenziale della persona, che non coincide solo con la sua conoscenza, ma proprio con il vantaggio che da quella volontariamente si trae.
Nell'ordinanza impugnata la suesposta distinzione è stata illustrata in termini esaurienti e dettagliati, essendosi evidenziato che l'assunzione di una persona in stato di bisogno non è di per sé sintomatica di sfruttamento, laddove siano rispettate le prerogative retributive ed orarie del lavoratore e sia garantita la sua sicurezza sul luogo di lavoro. A ciò si potrebbe aggiungere - pur solo in via meramente astratta - che lo sfruttamento può non essere derivante dall'approfittamento dello stato di bisogno, quando quest'ultimo non sia configurabile in capo al lavoratore che accetta le condizioni di lavoro delineate dall'art. 603 bis, comma 3, cod. pen.. Si tratta, tuttavia, di un'ipotesi di scuola, o quantomeno residuale, avuto riguardo alla circostanza che lo sfruttamento lavorativo è normalmente accompagnato dalla grave difficoltà del lavoratore di autodeterminarsi in modo meno deprezzante. E' possibile, tuttavia, che lo sfruttamento non si accompagni all'approfittamento dello stato di bisogno, quando questo sia non sia conosciuto.

Il Tribunale del riesame ha comunque evidenziato l'assenza della condizione di sfruttamento, tenuto conto dell'insussistenza degli indici rivelatori di cui all'art. 603 bis, comma 3, cod. pen..
Come potrà rilevarsi dalla successiva analisi di tutti i fattori sintomatici del presunto sfruttamento del lavoratore, le relative doglianze con cui si fa valere l'apparenza della motivazione finiscono per risolversi in una richiesta di censura sulla valutazione del materiale indiziario, ponendosi al di fuori del perimetro assegnato dal legislatore assegna, con l'art. 325 cod. proc. pen., al controllo del giudice di legittimità.
4. Quanto alla contestazione sulla consistenza dell'indice di cui all'art. 603 bis, comma terzo, n. 1), cod. pen. relativo alla retribuzione, il Tribunale del riesame ha escluso che la paga quotidiana corrisposta ai dipendenti dell'indagato fosse significativamente difforme rispetto a quella prevista dai contratti collettivi (indicata dal P.M. in una retribuzione base pari ad euro 31,009/31,722 dalla contrattazione della Provincia di Matera).
Il Tribunale del riesame, pertanto, con valutazione immune da censure rilevabili in sede di legittimità, ha escluso che dalle poche e minime violazioni riscontrate ri­ spetto alla contrattazione collettiva derivasse una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, idonea ad integrare il presupposto dello sfruttamento.
La circostanza dedotta in ricorso, secondo cui vari lavoratori non risultavano regolarmente assunti dalla ditta di proprietà dell'indagato, è stata disattesa nell'ordinanza impugnata alla luce del contenuto delle conversazioni intercettate e di ulteriori acquisizioni istruttorie.
In considerazione dei predetti elementi indicativi dell'entità della paga effettivamente corrisposta e della decisione del G.G. di assumere regolarmente i lavoratori, appare priva di rilievo la circostanza indicata dalla Procura ricorrente della mancata conoscenza dell'esatto importo della stessa da parte di taluni dipendenti.

5. Con riferimento all'indice previsto dall'art. 603 bis, comma terzo, n. 2), cod. pen., dall'esame delle sommarie informazioni rese dai lavoratori non risultavano né la reiterata violazione della normativa sull'orario di lavoro, sui riposi e sulle ferie, né la reiterata violazione degli accordi sindacali inerenti alla retribuzione.
Le censure sul punto sono esclusivamente in fatto e perciò non deducibili in sede di legittimità.
Il Tribunale del riesame ha correttamente evidenziato che i lavoratori svolgevano l'attività di raccolta di fragole per otto ore al giorno, nella quale presumibilmente erano compresi i periodi di pausa, per una durata complessiva di poco superiore al tetto massimo di 6 ore e 30 (o 45) minuti al giorno. La differenza di entità rispetto al limite contrattuale non è stata ritenuta di entità tale da determinare una disparità di trattamento palese o eclatante nonché un'offesa alla dignità del lavoratore; in proposito, i giudici della cautela hanno escluso l'esistenza di risultanze istruttorie dirette a verificare l'eventuale mancanza di pause o una loro durata estremamente ridotta.
L'espletamento di attività lavorativa durante le giornate festive è stato giustificato in ragione della natura occasionale della stessa e dell'apposita previsione del contratto collettivo nazionale, che consente, stanti la veloce maturazione dei frutti e il breve periodo di attività, di far posticipare il godimento dei giorni festivi.

6. Si è altresì sottolineata l'insussistenza del profilo afferente dell'indice di cui all'art. 603 bis, comma terzo, n. 3), cod. pen., inerente alla violazione della normativa sulla sicurezza e sull'igiene dei luoghi di lavoro, ricorrendo nella fattispecie una mera attività di raccolta di fragole, per la quale non erano previsti particolari dispositivi di protezione ad eccezione dei guanti, i quali peraltro erano in dotazione ai lavoratori.
All'indicazione dell'ordinanza impugnata circa l'inesistenza di rischi che imponessero l'utilizzo di presidi con caratteristiche particolari, la Procura ricorrente, peraltro, non ha opposto l'enunciazione di diversi mezzi di tutela dell'incolumità dei braccianti a loro non distribuiti dal datore di lavoro né, tantomeno, ha spiegato il rischio (meccanico, fisico, chimico, termico ecc.) derivante dall'attività di raccolta di frutta; peraltro, manca ogni allegazione al riguardo, in violazione del principio di autosufficienza.

7. In ordine all'indice stabilito dall' art . 603 bis, comma terzo, n. 4), cod. pen., il Tribunale ha escluso che i lavoratori fossero sottoposti a condizioni di lavoro, a me­ todi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Lo svolgimento del lavoro in posizione a 90° è stato riconosciuto come un disagio strettamente connesso alla tipologia di prestazione in questione, la quale non conosce modalità alternative di esecuzione.
Inoltre, in relazione all'alloggio dei lavoratori presso il Centro di Accoglienza di Corigliano Calabro è stata esclusa ogni ingerenza del datore di lavoro. Contraria­ mente a quanto esposto dalla Procura ricorrente, la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'art. 603- bis cod. pen. caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore (Sez. 4, n. 27582 del 16/09/2020, Savoia, Rv. 279961).
E' manifestamente infondato anche l'ultimo profilo di censura sollevato dal ricorrente, con cui si sottolinea che il Tribunale ha riconosciuto che il datore di lavoro ha fatto ricorso a canali non istituzionali di somministrazione di manodopera, avvalen­ dosi dell'intermediazione altrui, così ritenendo integrato se non il fumus del delitto.. contestato, quantomeno quello del reato cui all'art. 18, comma 2,  D. Igs. n. 276 del 2003.
In proposito, tuttavia, va osservato che, a seguito della depenalizzazione intervenuta con il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, l'illecita utilizzazione di manodopera, per violazione delle norme in materia di agenzie di somministrazione di lavoro, di cui agli artt. 4, comma 1, lett. a), e 18, comma 1, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, non è più prevista dalla legge come reato (Sez. 3, n. 48015 del 31/05/2019, Bizzi, Rv. 277992). Tale illecito risulta tuttora di natura penale solo con riferimento alla diversa ipotesi di sfruttamento di lavoratori minorenni.

8. Per le ragioni che precedono, il ricorso va dichiarato inammissibile.


 

P. Q. M.




Dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma l'11 novembre 2021.