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IL FONDO PER IL RISARCIMENTO DELLE VITTIME DELL’AMIANTO: OPPORTUNITA’, NECESSITA’, PROSPETTIVE



Tavola rotonda – Padova,  10 aprile 2009




1. L’istituzione di un fondo per le vittime dell’amianto induce a chiedersi non solo quali siano le finalità che si prefigge l’attuazione del fondo, ma anche quali siano stati finora i meccanismi risarcitori vigenti nel nostro Paese per coloro che hanno riportato danni dall’esposizione ad amianto.

Non vi è dubbio che sono diverse le considerazioni che occorre fare per la giustizia civile, da un lato, e per quella penale dall’altro.

Per la giustizia penale ogni considerazione approfondita è impedita dal fatto che la conoscenza del numero dei procedimenti in materia è quasi impossibile. Nessuno sa dire con sufficiente approssimazione quanti siano i processi penali per danni da amianto che ogni anno si celebrano in Italia. E’ difficile perfino sapere quanti procedimenti penali vengono iscritti per omicidio colposo verificatosi per mesotelioma o per tumore polmonare. Ho tentato personalmente di ricevere qualche notizia dai Procuratori della Repubblica e dai Presidenti del Tribunale sui procedimenti pendenti in materia di omicidio colposo o lesioni colpose derivanti da esposizione ad amianto e li ho visti sinceramente sorpresi che si potesse rivolgere loro una simile richiesta. Il fatto è che il reato da iscrivere è quello di cui agli artt. 589 e 590 C.P., cioè di omicidio colposo e di lesione colposa, che vengono iscritti senza specificare la causa (circolazione stradale, colpa medica, infortunio sul lavoro, malattia professionale ecc.). Questo stato di cose da un lato segnala la scarsa attenzione che la magistratura rivolge alle malattie professionali e, dall’altro, rende impossibile la conoscenza esatta del numero dei procedimenti penali.

Si può dire soltanto, in via molto generale, che i procedimenti penali in questa materia sono scarsissimi e certamente molto inferiori al numero dei mesoteliomi o dei tumori polmonari  che provocano la morte dei lavoratori. Noi sentiamo ogni tanto di qualche clamoroso processo che viene iniziato nei tribunali e a mala pena ne conosciamo l’esito. Ma non sappiamo esattamente quanti casi vengano denunziati al magistrato, in quali casi segua l’archiviazione della notizia di reato, in quali venga condotta l’inchiesta di malattia professionale e quanti ne vengano rinviati a giudizio.

In questa situazione il calcolo dei risarcimenti diventa impossibile. Sappiamo per esperienza che in taluni processi penali vi è la costituzione di parte civile, durante la quale viene liquidato il danno o comunque si rinvia il calcolo della somma al successivo giudizio civile. Altre volte l’azienda presso la quale i lavoratori deceduti hanno prestato la propria opera pensa di liberarsi della parte civile  attraverso il risarcimento extragiudiziale. Si tratta peraltro di casi numericamente molto limitati tutti caratterizzati dai tempi e dalle difficoltà che il processo penale presenta.

In sede penale è inevitabile che la dichiarazione di colpevolezza degli imputati e la conseguente condanna al risarcimento del danno sconti le difficoltà probatorie per l’accertamento del  delitto che viene contestato. Difficoltà che riguardano (come è noto) il nesso di causa, le modalità e l’intensità dell’esposizione e la possibilità di attribuire all’imputato la violazione di un obbligo di prevenzione contenuto nelle norme vigenti al tempo dell’esposizione. Sappiamo per esperienza che queste prove sono difficili a raggiungersi non solo per il rigore che i giudici pongono nella loro acquisizione, ma spesso anche per la totale ignoranza che i giudici manifestano in una materia assai complicata.

Le difficoltà di prova toccano vertici notevolissimi nei casi di mesotelioma di origine ambientale o familiare. Non solo, come è facile intuire, per individuare il nesso di causa, ma anche e soprattutto per individuare la colpa e cioè la violazione specifica dell’obbligo di prevenzione che, nel caso dell’origine ambientale, non si saprebbe a chi attribuire e che, nel caso di origine familiare, sarebbe più semplice attribuire al datore di lavoro che non ha provveduto a garantire l’igiene personale del lavoratore. Si tratta di casi che non costituiscono una rarità: ad esempio si ha notizia in Toscana di 17 casi di mesotelioma di persone decedute a seguito dell’esposizione lavorativa di un familiare.

Per queste e per altre difficoltà si può dire che il processo penale non è stato in generale il luogo attraverso il quale si è garantito il risarcimento di chi ha riportato danni dall’esposizione ad amianto.



2. Le cose non vanno meglio nell’ambito della giustizia civile. Occorre distinguere tra  il risarcimento del danno conseguente a infortunio per malattia professionale e l’attribuzione dei benefici previdenziali previsti dalla legge per i lavoratori esposti all’amianto, attribuzione che ha dato luogo a un’ infinita serie di contenziosi che, dopo 16 anni dalla legge 257 del ’92, non sono ancora chiaramente definiti nonostante l’emanazione di norme a carattere correttivo.

Il nodo fondamentale di questo fenomeno sta nella previsione, che fu fatta in sede di commissione parlamentare nel ’92, secondo cui il numero dei lavoratori esposti professionalmente all’amianto era dell’ordine di qualche migliaio. I calcoli fatti alla data del 1° ottobre 2003  ci dicono che le domande presentate all’INAIL erano 228.000 e alla data odierna superano abbondantemente il milione. Si tratta di una partita nella quale sono presenti molti elementi di confusione, molti elementi demagogici e molte carenze normative che hanno finito per creare aspettative più numerose di quanto una rigorosa ricognizione della realtà dovrebbe consentire. Sta di fatto che l’attribuzione dei benefici previdenziali per gli esposti ad amianto presenta cifre molto diverse da quelle che caratterizzano il riconoscimento delle malattie professionali causate da esposizione ad amianto. Dopo il D.P.R. 396 del ’94 sono riconosciute come malattie professionali tabellate le malattie neoplastiche causate dall’asbesto: mesotelioma pleurico, pericardico, peritoneale; carcinoma del polmone.

E’ chiaro che nel regime di assicurazione obbligatoria che caratterizza il nostro ordinamento, il riconoscimento della malattia professionale da parte dell’INAIL dà luogo al risarcimento del danno tutte le volte che la malattia sia da porre in relazione all’esposizione lavorativa. Tale risarcimento si riferisce alla nozione di danno biologico che fa il suo ingresso nel diritto del lavoro proprio attraverso una vicenda di infortunio sul lavoro.

I principi in base ai quali va accertata la responsabilità del datore di lavoro sono riconducibili all’ambito contrattuale e trovano fondamento negli artt. 1218 e 1176 del codice civile. Non bisogna dimenticare, inoltre, che l’art. 2087 del codice civile ha avuto nelle pronunzie della giurisprudenza un ruolo cruciale perché fornisce i parametri per misurare l’intensità dell’obbligazione del datore di lavoro (secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica) e anche per definire gli obiettivi che si propone il legislatore (tutela dell’integrità fisica e personale del lavoratore). Tuttavia l’art. 2087c.c. da solo non sarebbe sufficiente per giungere alla responsabilità del datore di lavoro, se in base all’art. 1218 e all’art. 1176 del codice civile non fosse possibile accertare che il datore di lavoro non ha usato la dovuta diligenza e il danno sia dovuto a una causa a lui imputabile. Va dunque valutata la condotta del datore di lavoro in relazione alla particolarità del lavoro, all’esperienza e alla tecnica, nel senso che l’art. 2087 gli impone di adottare misure specifiche di prevenzione oppure misure generiche di prudenza e diligenza. Quindi i doveri dell’imprenditore in materia di sicurezza sono molto intensi ma non sfociano in una sua responsabilità oggettiva, cioè in una responsabilità esente da colpa.

Non solo, occorre valutare anche il nesso eziologico tra la vicenda lavorativa e il danno riportato nel senso che il comportamento di colui che ha violato la norma deve costituire causa efficiente alla realizzazione delle conseguenze dannose. Su questo punto la giurisprudenza ha mostrato grande rigore escludendo il risarcimento quando l’evento non fosse prevedibile neppure con la dirigenza prevista nell’art. 1176 del codice civile.



3. Su questa base è stato finora liquidato  il danno biologico da parte dell’INAIL. Tuttavia ci si è chiesti, specie dopo l’intervento del decreto legislativo n. 38 del 2000, se sia possibile indennizzare un ulteriore danno che l’INAIL non corrisponde e che consiste nel cosiddetto “danno differenziale”. In primo luogo viene in evidenza il danno morale soggettivo: se sussistono i presupposti del reato il danneggiato potrà chiedere il risarcimento del danno morale previsto dall’art. 2059c.c. Ci si è chiesti se, una volta ottenuto il risarcimento dall’INAIL per il danno biologico, la parte offesa o i suoi eredi abbiano diritto ad una ulteriore porzione di danno biologico non risarcito. Finora per lo più si è ritenuto che il risarcimento non fosse possibile perché la somma liquidata dall’INAIL rispecchia la definizione di danno biologico fornita dal legislatore senza che sia consentito un ampliamento del concetto di danno biologico. Naturalmente, invece, vi è spazio per l’ulteriore risarcimento quando si debbano coprire il danno morale e altri danni non patrimoniali.

Il punto più controverso riguarda comunque l’onere della prova. La giurisprudenza, facendo leva sull’art. 2087, ha ritenuto che il datore di lavoro sia tenuto a dimostrare di aver adottato tutte le misure suggerite dalla scienza e dalla tecnica, ma ciò non significa che  si possa sovvertire il principio generale del nostro ordinamento secondo cui l’onere di far valere la violazione spetta al lavoratore che ha riportato la patologia. E infatti sul punto la giurisprudenza si è seriamente divisa, gli uni richiedendo che fosse il lavoratore a dimostrare il rapporto di casualità tra la mancata adozione delle misure di sicurezza e il danno, gli altri affermando che quando si verifichi un infortunio o una malattia professionale spetta al datore di lavoro l’onere di provare di avere adempiuto agli obblighi di sicurezza. Lo stesso contrasto anima la giurisprudenza in materia di prova della nocività dell’ambiente di lavoro, nel senso che, dimostrato il danno, spetta al lavoratore o, antiteticamente,  al datore di lavoro la dimostrazione che si sono consumate delle violazioni.

Forse è proprio la difficoltà di carattere probatorio che scoraggia il ricorso al giudice per ottenere il risarcimento dei danni provocati dall’esposizione ad amianto. Mentre sono tanti i ricorsi per ottenere i benefici previdenziali, sono infinitamente di meno le cause civili  per risarcimento dei danni. In ogni distretto giudiziario l’ordine è quello delle decine e non quello delle migliaia. Aggiungo che alcune sentenze civili sono sconcertanti perché negano alcuni criteri che invece sono stati affermati nell’accertamento della responsabilità penale. Vi è qui un singolare capovolgimento logico perché dovrebbe essere  più difficile ottenere una condanna penale che una condanna civile anche perché nel penale vige il principio di non colpevolezza.

4. Credo che si imponga un’altra considerazione che ci riporta al tema della istituzione del fondo. Negli ultimi tempi il concetto di danno, e anche il suo risarcimento, ha subito una decisa evoluzione attraverso la definizione del concetto di danno esistenziale e di danno alla qualità della vita. Abbiamo visto molte applicazioni del concetto di danno esistenziale esteso a ipotesi di perdite affettive o al disagio o allo stress procurato ecc. Al centro di tale danno vi è la persona, la qualità della sua vita e le limitazioni che essa subisce nella realizzazione della sua personalità. Sotto questo profilo il danno alla persona va risarcito indipendentemente dal fatto che vi sia un impoverimento economico o dal fatto che sia stata provata la malattia o la patologia. In questo senso ogni attentato alla salute o al benessere della persona merita risarcimento e dunque anche gli esposti all’amianto potrebbero vantare un diritto al risarcimento sotto il profilo esistenziale, per la lesione alla qualità della loro vita, perché è stata messa in pericolo la loro salute e perché subiscono pregiudizio psicologico per i controlli e le visite mediche o per la sola ansia di poter essere colpiti da malattie.

Sotto questo profilo l’istituzione del fondo potrebbe assicurare quella giustizia che finora i giudici non sono riusciti ad assicurare.



Beniamino Deidda


in Amianto e responsabilità sociale, a cura di Enzo Merler e Rosanna Tosato, Ediesse 2010;



 

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