Cassazione Civile, Sez. Lav., 08 aprile 2022, n. 11521 - Mobbing verticale. Difetto di prova


Rilevato che

La Corte di Appello di Catania, confermando integralmente la sentenza di primo grado, negava che nei fatti allegati dal lavoratore G.R., dipendente della USL n. 3 di Catania, fosse ravvisabile un’ipotesi di mobbing verticale (cd. bossing) posto in essere ai suoi danni dal suo diretto superiore, L.L.; conseguentemente, rigettava tutte le domande risarcitorie del G.

Osservava la Corte di appello, per quanto ancora qui rileva, che dall’istruttoria non era emersa alcuna dequalificazione, neppure per effetto dello spostamento del lavoratore tra settori di pari dignità (nello specifico, da quello “acque” a quello “farine”), trattandosi di mera redistribuzione di incarichi di analoga natura; né rilevava il fatto che il G. non redigesse le conclusioni dei processi di analisi, non costituendo detto compito proprium delle mansioni affidate, trattandosi piuttosto di un compito semplicemente delegato dal direttore al funzionario più anziano, in virtù di una prassi peraltro irregolare; né poteva ravvisarsi mobbing alcuno negli ordini di servizio rivolti a tutti i dipendenti (come il divieto di utilizzare il mezzo proprio per svolgere missioni all’estero) o in missive indirizzate dal direttore L. al Prefetto; né – infine – si potevano considerare vessatori i procedimenti disciplinari attivati nei confronti del ricorrente, derivati da comportamenti irriguardosi del funzionario nei confronti del direttore, suo superiore gerarchico – irrilevante essendo, infine, l’archiviazione di tre su cinque di essi, essendo gli altri due giunti a conclusione e uno di essi essendosi altresì tradotto in un processo penale, conclusosi con condanna del G.

In via più generale, condividendo la sentenza di prime cure la Corte territoriale ha escluso tanto condotte datoriali emulative, pretestuose, persecutorie o tendenti all’emarginazione del lavoratore quanto una “sudditanza/sottomissione” del lavoratore rispetto al direttore; anzi, dall’istruttoria era emerso che il conflitto personale tra il G. ed il suo superiore gerarchico in un’occasione era sfociato in un’aggressione del primo ai danni del secondo.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione, affidandolo a cinque motivi, il lavoratore.

Resiste con controricorso il direttore L., insistendo per il rigetto del ricorso.

Le altre parti sono rimaste intimate.

Ricorrente e controricorrente hanno depositato memorie.

 

Considerato che

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta – in relazione al comma 1, n. 3 dell’art. 360 c.p.c. – la violazione degli artt. 2103 c.c., 1218 c.c. e 2697 c.c., dell’art. 52 d. lgs. n. 165 del 2001, per mancato riconoscimento del demansionamento – e dei conseguenziali diritti risarcitori – a cagione di una non corretta lettura ed interpretazione del materiale probatorio.

2. Con il secondo mezzo viene dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, nonché la violazione degli artt. 111, comma 6, Cost., 2103 c.c., 52 d.lgs. n. 165 del 2001, 112, 115 e 116 c.p.c in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.

Viene nello specifico censurata l’irriducibile contraddittorietà della sentenza in relazione al dedotto svuotamento delle mansioni del ricorrente a seguito del trasferimento da un settore ad un altro.

3. Con il terzo motivo, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., si deduce la falsa applicazione degli artt. 32 Cost., 2087, 1218, 1228 e 2049 c.c.

Viene rappresentato che le norme innanzi indicate sarebbero state tutte falsamente applicate in quanto nelle condotte allegate fin dal ricorso introduttivo sarebbero state ravvisabili condotte datoriali vessatorie e consistenti in ipotesi di mobbing.

4. Con il quarto motivo si lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. con riferimento all’art. 2087 c.c., censurandosi errores in procedendo consistiti in omessa valutazione di prove documentali tempestivamente prodotte al fine di dimostrare le denunciate condotte mobbizzanti.

5. Con il quinto motivo, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., viene censurato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, con violazione degli artt. 112, 115, 116 c.p.c.e 111, comma 6, Cost. con riferimento all’art. 2087 c.c.

Con tale ultimo mezzo di gravame viene censurata sentenza, per essere solo apparentemente motivata in ordine all’interpretazione dei singoli episodi che, unitariamente considerati, avrebbero dimostrato il mobbing denunciato.

6. In via generale e avuto riguardo a tutti i motivi del ricorso, non può sottacersi come essi siano stati sviluppati sovrapponendo e confondendo in modo indistricabile questioni di fatto e profili giuridici, il che rende inammissibile il ricorso.

7. Più specificamente, quanto ai singoli motivi:

il primo è inammissibile perché, ad onta del richiamo all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., in realtà sollecita una rivalutazione di tutto il materiale probatorio, non consentita in sede di legittimità; né la ricostruzione della vicenda in punto di fatto è sindacabile mediante ricorso per cassazione, neppure attraverso il richiamo all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (cfr., da ultimo e per tutte, Cass. n. 20553/2021).

8. Anche il secondo mezzo è inammissibile.

In tema di ricorso per cassazione, infatti, come già in parte innanzi anticipato, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. può muoversi non già per una asserita erronea valutazione del materiale istruttorio da parte del Giudice di merito, ma solo ove si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., ex plurimis, la recentissima Cass. n. 6774/2022).

Nessuna deduzione del genere è contenuta nel motivo, di modo che va qui richiamato quanto innanzi già detto al punto 7) in ordine alle doglianze che ridondano tutte in richieste di rivalutazione del materiale probatorio.

È, poi, del tutto erroneo il richiamo all’art. 2103 c.c., atteso che in materia di pubblico impiego contrattualizzato si applicano l’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001 e il principio cd. della equivalenza formale delle mansioni, senza che possa essere valorizzata in alcun modo la professionalità in concreto acquisita dal dipendente ed il suo bagaglio professionale, intendendosi qui ribadire la via tracciata, sul punto, da questa S.C. (cfr., fra le tante, Cass. 7106/2014 e Cass. n. 18817/2018).

In breve, ai fini del dedotto demansionamento (lamentato come condotta mobbizzante), il ricorrente avrebbe dovuto dedurre – e non l’ha fatto – di essere stato adibito a compiti non equivalenti sul piano formale a quelli della qualifica di appartenenza.

A tanto si aggiunga che le condotte datoriali, per come apprezzate in sede di merito, nemmeno possono essere ricondotte al paradigma dello svuotamento delle mansioni, come pure viene prospettato, in quanto in realtà il lavoratore, secondo quanto allegato dallo stesso ricorrente, ha pur sempre lavorato nell’area “acque” e in quella “farine” (v. sopra).

9. Con il terzo motivo, proposto in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, ancora una volta, nella sostanza, si torna a chiedere una rivalutazione del materiale istruttorio e, nello specifico, si sostiene che il giudice territoriale avrebbe operato una valutazione atomistica degli episodi dai quali emergerebbe, invece, se congiuntamente valutati, la condotta vessatoria datoriale: valgano anche in proposito le considerazioni già svolte al punto 7 che precede.

Né la sentenza impugnata ha violato l’art. 2087 c.c. là dove ha affermato che “… per quanto riguarda lo spostamento (n.d.r. del lavoratore) dal settore acque al settore alimentare, come sopra evidenziato, non può ritenersi che vi sia stato un demansionamento e conseguentemente che abbia avuto una valenza vessatoria”: se è vero che in linea astratta, come sostiene il ricorrente, pure comportamenti leciti possono, se del caso, assumere connotati vessatori, nondimeno nel caso in oggetto i giudici di merito hanno positivamente escluso che via stato intento vessatorio, persecutorio od emulativo nelle condotte datoriali per cui è causa.

Nella pronunzia della Corte territoriale si è anzi escluso che le condotte datoriali siano state finalizzate alla mortificazione ed alla emarginazione del lavoratore (cfr. pag. 10, secondo capoverso).

Il motivo di ricorso, dunque, non si confronta con il decisum e con la ratio decidendi principale della sentenza, di modo che anch’esso non può essere accolto.

Ci si riporta alle osservazioni già innanzi esposte, quanto agli ulteriori argomenti spesi nel motivo, con riferimento alle condotte datoriali delle quali ancora una volta il ricorrente chiede una rivisitazione nel merito mediante rilettura del materiale istruttorio.

9. Con il quarto motivo, attraverso l’evocazione di un preteso error in procedendo, viene lamentata la mancata valutazione di prove documentali.

Anche tale motivo, lungi dal costituire una effettiva denuncia di error in procedendo ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., è inammissibile per i motivi già innanzi esposti, traducendosi in una richiesta di nuova valutazione del merito della controversia.

10. Con il quinto motivo, come innanzi esposto, si censura la sentenza in quanto recante motivazione solo apparente.

Al riguardo, precisato che ricorre il vizio di motivazione apparente, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. quando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (cfr. fra le più recenti Cass. n. 6774/2022), va da subito evidenziato come la sentenza di merito non sia affetta da detto vizio.

La decisione resa in appello – come già detto – esclude il mobbing sulla base dell’argomentato rilievo del difetto di prova di volontà o idoneità persecutoria nelle condotte datoriali.

A tal riguardo devesi evidenziare che è proprio l’elemento psicologico dell’intento persecutorio a segnare il tratto distintivo tra le ipotesi di mera dequalificazione e quelle di mobbing in cui, sul piano strutturale, la dequalificazione costituisce solo il momento oggettivo dell’illecito datoriale, che va corroborato, sul piano soggettivo, da una volontà datoriale persecutoria.

Tale passaggio argomentativo della pronunzia di appello, già da solo sufficiente a radicare le ragioni del rigetto, non è stato toccata da alcuna censura, sicché neppure il quinto motive di ricorso è meritevole di accoglimento.

11. Conclusivamente il ricorso è inammissibile.

12. Le spese di lite spettanti al controricorrente seguono la soccombenza del G.; non è dovuta pronuncia sulle spese riguardo alle altre parti, che non hanno svolto attività difensiva.

13. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

 

P.Q.M.
 


Dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente a pagare in favore del controricorrente le spese del giudizio di legittimità, spese che liquida in € 10.000,00 per compensi professionali e in € 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quarter, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.