Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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Corte di Appello di L'Aquila, Sez. Civ., 05 maggio 2022, n. 71 - Rischi per la salute e rifiuto di recarsi al lavoro. Non ricorrono gli estremi per la giusta causa di licenziamento


Nota a cura di Scarano Lorenzo, in Il lavoro nella giurisprudenza, 4/2023, pp. 408-419 "Cosa ci insegna la pandemia: tutela della salute del lavoratore e sospensione della prestazione insicura"

Reg. Gen. N. 71/2022

 

Corte D'Appello di L'Aquila
Sezione per le Controversie di Lavoro e Previdenza

La Corte di Appello di L'Aquila, Sezione Lavoro e Previdenza, composta dai seguenti magistrati:
 

Dr. Luigi SANTINI Presidente
Dr. Ciro MARSELLA Consigliere relatore Dr.ssa Anna Maria TRACANNA Consigliere
nella camera di consiglio tenutasi in data 5 maggio 2022 secondo le modalità previste dall'art. 221, comma quarto, D.L. n. 34/2020, convertito con modificazioni nella L. n. 77/2020, lette le note scritte depositate dalle parti, ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA



nella causa civile di secondo grado, allibrata al n. 71/2022 R.G. e promossa con ricorso depositato in data 25 febbraio 2022, riservata a sentenza all'udienza in data 5 maggio 2022 e vertente
TRA
rappresentata e difesa, come da procura in atti, dall'avv. Valerio Speziale ed elettivamente domiciliata presso lo studio dello stesso in Pescara alla via dei Marrucini n. 21
RECLAMANTE
E

rappresentata e difesa, come da procura in atti, dagli avv.ti Carlo Scarpantoni, Luca Scarpantoni e Claudia Scarpantoni ed elettivamente domiciliata presso lo studio degli stessi in Teramo alla via Torre Bruciata nn. 17/21
RECLAMATA

OGGETTO: reclamo ex art. 1 comma 58 L. n. 92/2012 avverso la sentenza n° 27/2022 pubblicata dal Tribunale di Chieti, in funzione di giudice del lavoro, in data 27 gennaio 2022.


 

FattoDiritto


 


La reclamante

- alle dipendenze della , con la qualifica di impiegata d'ordine in forza di contratto ad orario ridotto di venti ore settimanali, nel periodo dal 1° luglio 2004 fino alla data del licenziamento con lettera del 27 luglio 2020 - ha interposto reclamo ex art. 1 comma 58 L. n. 92/2012 avverso la sentenza indicata in epigrafe la quale, confermando sul punto l'ordinanza emessa a conclusione della fase sommaria in data 6 maggio 2021 ed oggetto di opposizione da parte di essa , ha respinto l'impugnativa del licenziamento per giusta causa irrogatole nella data suddetta dalla datrice di lavoro per assenza ingiustificata dal posto di lavoro dal giorno 10 luglio 2020.
La medesima aveva addotto a sostegno il carattere ritorsivo del licenziamento, siccome intimato a seguito delle sue rivendicazioni relative all'orario di lavoro e alle mansioni svolte; aveva addotto, altresì, la carenza della giusta causa, assumendo di essersi assentata dal lavoro del tutto legittimamente, per non avere la datrice di lavoro rispettato, ai sensi dell'art. 2087 c.c., le norme poste a tutele dell'integrità fisica del prestatore di lavoro, comprese, in particolare, le disposizioni dettate per prevenire il contagio da Covid 19.
Pertanto, l'opponente aveva chiesto l'accoglimento delle seguenti conclusioni:
"b) nel merito, in via principale ed in riforma integrale dell'ordinanza resa inter partes in data 6.5.2021:

- dichiarare la nullità, ai sensi dell'art. 18, comma 1, stat. lav., del licenziamento comunicato alla ricorrente con lettera del 27 luglio 2020 e, per l'effetto, ordinare alla in persona del suo legale rappresentante pro tempore, di reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro precedentemente occupato;
- condannare la in persona del suo legale rappresentante pro tempore, al pagamento del risarcimento dei danni subiti dal lavoratore in conseguenza del recesso illegittimo, stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto, maturata dal giorno del licenziamento e fino al giorno della effettiva reintegrazione e comunque non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto nella misura che sarà accertata in corso di giudizio;
- condannare la a versare all'Inps ed all'Inail i contributi determinati in relazione agli accertamenti di cui sopra.
c) nel merito ed in via subordinata: a seguito dell'accertamento dell'illegittimità del licenziamento impugnato, dichiarare risolto il rapporto e condannare la società resistente al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale nella misura di sei mensilità o, in quell'altra, che sarà ritenuta di giustizia od alla riassunzione della ricorrente entro tre giorni dalla pubblicazione della sentenza".
In motivazione, la sentenza gravata ha argomentato quanto segue:
§A. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, per giustificare il rifiuto di svolgere la prestazione lavorativa non è sufficiente un qualunque inadempimento da parte del datore di lavoro, ma è necessario un inadempimento grave, tale da determinare un rischio concreto ed effettivo per la salute del lavoratore medesimo.
§B. Secondo la , essa lavoratrice avrebbe opposto legittimamente il proprio rifiuto a svolgere la propria attività presso la sede dell'associazione, siccome non idonea a garantire la condizioni minime di sicurezza, imposte dalla normativa anti Covid-19; l'inadempimento della datrice di lavoro sarebbe consistito anche nella mancata adozione del documento di valutazione dei rischi e nella inidoneità dei locali ad essere adibiti ad ufficio, siccome catastalmente classificati come deposito nonché privi di maniglione antipanico, di idonee finestre e di un bagno munito di sistema di areazione.
§C. Sennonché la non aveva neppure dedotto il verificarsi di episodi nell'ambito dei quali la sua salute e la sua sicurezza, secondo quanto previsto dal protocollo anti contagio, erano stati lesi o anche messi in pericolo per le specifiche modalità con cui aveva dovuto svolgere le prestazioni lavorative.
§D. In particolare, la messa a disposizione di un limitato numero di dispositivi di protezione individuale (le tre mascherine del tipo FFP2 e i due flaconi di detergente per le mani), la mancata installazione di "un parafiato da scrivania" o di "un divisore in plexiglas", in un contesto in cui la non aveva allegato le attività concretamente svolte durante il lavoro "in presenza", non integravano una situazione di inadempimento della datrice di lavoro correlata alla mancata adozione di misure di prevenzione e di sicurezza, con la conseguente lesione dell'integrità fisica della lavoratrice, siccome esposta ad un rischio grave, concreto ed effettivo per la sua salute della ricorrente, non essendo stato peraltro né allegato né provato il rischio da contagio derivante da una particolare affluenza di persone nell'ufficio o dalla presenza di altro personale, da escludere essendo pacifico che si trattasse dell'unica dipendente.
§E. Non rilevava, inoltre, la circostanza della presenza di grate davanti all'unica finestra, stante che la presenza delle grate non impediva l'apertura della finestra e l'areazione dell'ambiente, realizzabile peraltro anche attraverso l'apertura della porta; come pure non rilevava la mancanza del sistema di areazione del bagno, trattandosi di un ufficio non pubblico ma privato, per cui era presumibile un utilizzo limitato del bagno da parte di terzi estranei.
§F. Infondata era la deduzione relativa all'omessa sanificazione e pulizia dei locali dell'ufficio, dato che dalla documentazione prodotta dalla (doc. n. 5) emergeva che nel 2020 le operazioni di pulizia e sanificazione venivano effettuate ogni 15 giorni.
§G. Le precedenti considerazioni inducevano per un verso ad escludere che l'inadempimento della datrice di lavoro fosse di gravità tale da giustificare il rifiuto della di presentarsi al lavoro, per altro verso a ritenere che proprio il comportamento serbato dalla lavoratrice integrasse un grave inadempimento, siccome rivelatore di un sostanziale disinteresse per le esigenze della datrice di lavoro, ancor più censurabile per essere stato tenuto in un periodo di grande emergenza e di enorme difficoltà, soprattutto per i medici di medicina generale, assistiti dalla , che erano stati particolarmente gravati delle incombenze relative alla prima assistenza dei malati affetti da Covid-19.
§H. La , quindi, aveva deciso di assentarsi per più giorni dal lavoro proprio nel periodo in cui avrebbe dovuto dimostrare la massima collaborazione, considerato peraltro che vi era stato da poco il trasferimento nella nuova sede a Ripa Teatina.
§I. Conclusivamente, la sanzione del licenziamento era giustificata nonché proporzionata alla condotta tenuta dalla lavoratrice, mentre era irrilevante che nella contestazione disciplinare, in punto di assenza ingiustificata, fosse stata invocata la previsione di un contratto collettivo (l'art. 225 n. 5 del CCNL Commercio) diverso da quello pacificamente applicato fra le parti (il CCNL per gli studi professionali, non prevedente all'art. 140 il licenziamento in tronco per assenze ingiustificate, neppure se protrattesi oltre tre giorni), dato che secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, la tipizzazione delle cause di licenziamento contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, potendo il catalogo delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo essere esteso, in relazione a condotte comunque rispondenti al modello di giusta causa o giustificato motivo e non potendo il giudice limitarsi a verificare la riconducibilità del fatto contestato ad una previsione contrattuale, essendo comunque tenuto a valutare in concreto la condotta addebitata e la proporzionalità della sanzione.
§L. Da ultimo, l'accertata sussistenza di una giusta causa di licenziamento, pure alla luce della giurisprudenza degli Ermellini, escludeva il carattere ritorsivo del licenziamento irrogato dalla datrice di lavoro.
 

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Avverso tale sentenza ha interposto reclamo la , affidando il gravame ai seguenti motivi:
§1. La violazione dei principi in tema di giusta causa di licenziamento basato su fatti tipizzati dal contratto collettivo: l'orientamento giurisprudenziale utilizzato dal Tribunale non è applicabile al caso in cui, come quello de quo, il datore di lavoro prescinda dalla nozione legale di giusta causa ed assuma, quale ipotesi legittimante l'interruzione del rapporto, la esemplificazione prevista dal CCNL; sicché solo la ricorrenza o meno dell'ipotesi prevista dal CCNL medesimo può determinare la legittimità o meno del licenziamento: ricorrenza da escludere nella specie.
§2. L'assenza in ogni caso di una giusta causa di licenziamento ai sensi dell'art. 2119 c.c. o di qualsiasi CCNL disciplinante la materia; la mancata esecuzione della prestazione lavorativa come espressione di una eccezione di inadempimento legata alla violazione dell'art. 2087 c.c..
In particolare: 1) l'erronea applicazione dei principi in tema di onere probatorio sulla applicazione delle misure di tutela della salute e sicurezza del lavoro di cui all'art. 2087 c.c.; 2) la violazione, da parte della , dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c., per mancata applicazione dei protocolli in materia di Covid 19; 3) erronea interpretazione dei principi giurisprudenziali in tema di eccezione di inadempimento; 4) la mancata considerazione, da parte del Tribunale, del principio di non contestazione ai sensi dell'art. 115 c.p.c, in relazione a fatti importanti oggetto del giudizio.
§3. L'assenza di proporzionalità tra i fatti addebitati e la sanzione applicata.
§4. La nullità del licenziamento per il suo carattere ritorsivo, desumibile in via presuntiva dalla valutazione complessiva di tutti gli elementi di causa.
Pertanto, la reclamante ha chiesto - a riforma della sentenza gravata - l'accoglimento delle conclusioni già rassegnate in sede di opposizione, con vittoria delle spese dell'intero giudizio.
La reclamata ha contestato in modo diffuso ed analitico i vari motivi di gravame, chiedendone il rigetto, con la conferma della sentenza impugnata e la vittoria delle spese processuali.
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Col primo motivo, la reclamante adduce la violazione, da parte del primo giudice, dei principi in tema di giusta causa di licenziamento basato su fatti tipizzati dal contratto collettivo, assumendo la inapplicabilità dell'orientamento giurisprudenziale utilizzato dal Tribunale al caso in cui, come quello de quo, il datore di lavoro prescinda dalla nozione legale di giusta causa ed utilizzi, quale ipotesi legittimante l'interruzione del rapporto, la esemplificazione prevista dal CCNL; sicché solo la ricorrenza o meno dell'ipotesi prevista dal CCNL medesimo potrebbe determinare la legittimità o meno del licenziamento: ricorrenza da escludere nella specie.
Il motivo come proposto non appare assistito da giuridica fondatezza.
Va premesso che, in effetti, nella contestazione dell'addebito la datrice di lavoro, in ordine alla assenza ingiustificata dal lavoro, ha invocato la previsione di un contratto collettivo, l'art. 225 n. 5 del CCNL Commercio, diverso da quello pacificamente applicato fra le parti, cioè il CCNL per gli studi professionali, non prevedente all'art. 140 il licenziamento in tronco per assenze ingiustificate, neppure se protrattesi oltre tre giorni.
Sennonché, la contestazione di addebito è volta alla cristallizzazione del fatto, immutabile dal datore di lavoro, ma non certamente anche alla cristallizzazione della singola ipotesi di giusta causa, ritenuta sussistente dal datore medesimo.
In ogni caso, deve osservarsi, in linea con la sentenza gravata, che secondo consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, la tipizzazione delle cause di licenziamento contenuta nella contrattazione collettiva non è affatto vincolante per il giudice, potendo l'elenco delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo essere esteso a condotte comunque rispondenti al modello di giusta causa o giustificato motivo delineato dalla legge e, peraltro, non potendo il giudice limitarsi a verificare la riconducibilità del fatto contestato ad una previsione contrattuale, essendo comunque tenuto a valutare in concreto la condotta addebitata e la proporzionalità della sanzione (cfr. per tutte Cass. Sez. Lav. n. 3283/2020 e Cass. Sez. Lav. n. 16784/2020).
Insomma, deve farsi applicazione del noto brocardo "narra mihi factum, dabo tibi jus".
Opinandosi diversamente, d'altra parte, si perverrebbe all'assurda conseguenza di ritenere insussistente la giusta causa di licenziamento, in un rapporto di lavoro regolato dal CCNL per gli studi professionali, a prescindere dal numero anche molto rilevante delle assenze ingiustificate del dipendente.
Ne consegue il rigetto del motivo.
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Col secondo articolato motivo, la reclamante adduce l'assenza in ogni caso di una giusta causa di licenziamento ai sensi dell'art. 2119 c.c. o di qualsiasi CCNL disciplinante la materia ed assume che la mancata esecuzione della prestazione lavorativa costituisca espressione di una eccezione di inadempimento legata alla violazione dell'art. 2087 c.c..
Il motivo come proposto appare fondato in tutte le articolazioni in cui esso si dipana.
Va premesso che l'art. 2087 c.c., quale norma di chiusura del sistema di sicurezza del lavoro ed antinfortunistico, impone al datore di lavoro di adottare le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore, anche in mancanza di una specifica misura preventiva; tale norma, peraltro, non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro - di natura contrattuale - va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (cfr. per tutte Cass. n. 24742/2018).
Ciò posto, deve rilevarsi che il primo giudice ha valorizzato il fatto che la non avesse "dedotto il verificarsi di episodi nell'ambito dei quali
la sua salute e la sua sicurezza, in relazione a quanto previsto dal protocollo anti contagio, erano stati lesi o anche messi in pericolo per le specifiche modalità con cui ella era stata costretta a rendere la prestazione lavorativa"; inoltre, secondo il Tribunale, "la messa a disposizione di un limitato numero di dispositivi di protezione individuale (le tre mascherine del tipo FFP2 e i due flaconi di detergente per le mani), la mancata installazione nella sua postazione di lavoro di "un parafiato da scrivania" o di "un divisore in plexiglas", la mancata sanificazione degli ambienti di lavoro e la mancata valutazione tecnica finalizzata a determinare la necessità di sanificare gli impianti aeraulici, per quanto non irrilevanti . non descrivono una situazione di inadempimento del datore di lavoro di gravità tale da rendere evidente la necessità, per il datore di lavoro, di adottare misure in mancanza delle quali si sarebbe verificata una lesione dell'integrità fisica della lavoratrice effettivamente imputabile allo stesso, inducendo, viceversa, a ritenere meramente potenziali i rischi per la salute e la sicurezza della ricorrente. In altre parole . non è emerso che le presunte misure di sicurezza omesse abbiano creato un rischio grave, concreto ed effettivo di lesione della salute della ricorrente, soprattutto perché non è stato né allegato né provato il rischio da contagio derivante da una particolare affluenza di persone nell'ufficio o dalla presenza di altro personale . Non vi è alcuna prova, dunque, che le omissioni che si imputano al datore di lavoro fossero tali da creare un rischio concreto ed effettivo per la salute della ricorrente".
Tale percorso motivazionale non è condivisibile, dal momento che la non ha esperito una azione risarcitoria del danno cagionatole dall'inadempimento della datrice di lavoro agli obblighi sanciti dall'art. 2087 c.c., ma si è limitata a far valere una tipica eccezione di inadempimento, in relazione alla quale non era affatto tenuta - come invece vorrebbe il primo giudice - a dimostrare il verificarsi di episodi nell'ambito dei quali la sua salute e la sua sicurezza, in relazione a quanto previsto dal protocollo anti-contagio, erano stati lesi ovvero messi in pericolo per le specifiche modalità con cui ella era stata costretta a svolgere la prestazione lavorativa; né a dimostrare che le misure di sicurezza omesse avessero determinato un rischio grave, concreto ed effettivo di lesione della propria salute; né tampoco a dimostrare che vi fosse il rischio da contagio derivante da una particolare affluenza di persone nell'ufficio o dalla presenza di altro personale.
Invero, in tema di eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. - il debitore eccipiente può limitarsi ad allegare l'inadempimento della controparte, che deve essa dimostrare il proprio corretto adempimento, con relativa inversione dell'onere della prova (cfr. da ultimo Cass. n. 10634 del 10 giugno 2021, in conformità a SS.UU. n. 13533 del 30 ottobre 2001).
In ogni caso, la ha non solamente allegato, ma perfino dimostrato che la datrice di lavoro non aveva ottemperato, in generale, agli obblighi di legge in materia di sicurezza sul luogo di lavoro e, in particolare, alle misure previste dalla legge per contrastare la diffusione del virus Covid 19. Come si vedrà a breve, la ha fornito la prova relativa alla violazione degli obblighi anzidetti, per cui il Tribunale avrebbe dovuto valutare semplicemente se, alla luce delle mancanze della datrice di lavoro, fosse giustificato o meno il rifiuto della lavoratrice a prestare l'attività lavorativa presso la sede della di Ripa Teatina, senza pretendere la dimostrazione di fatti esulanti dalla eccezione di inadempimento ed integrante, peraltro, una quasi diabolica probatio.
Va premesso al riguardo che le disposizioni contenute nel Protocollo anti- Covid sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, lungi dal costituire mere indicazioni di massima non vincolanti per i datori di lavoro e valutabili di volta in volta a seconda delle realtà lavorative, integrano il contenuto precettivo della norma in bianco di cui all'art. 2087 c.c..
Invero, tale Protocollo, a partire dall'esplicito richiamo dell'art. 1, comma 3, del D.P.C.M. 22 marzo 2020, poi ribadito dai successivi provvedimenti legislativi e governativi, può dirsi assurto al rango di fonte dotata di efficacia normativa e richiamata espressamente, peraltro, nell'art. 29-bis del DL. n. 23/2020, convertito nella L. n. 40/2020, ai fini della identificazione dell'esatto adempimento dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. incombente sui datori di lavoro a fronte dell'emergenza Covid-19.
Difatti, l'art. 29-bis anzidetto ha stabilito chiaramente che, ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'art. 1, comma 14, del d.l. n. 33/2020, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste, rispondenti alle conoscenze scientifiche nonché all'esperienza" ed alla tecnica cui fa riferimento proprio l'art. 2087 c.c..
Peraltro, nella parte finale dell'art. 2, c. 6, del D.P.C.M. 26 aprile 2020 risulta stabilito che "la mancata attuazione dei protocolli che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell'attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza", a conferma della loro rilevanza ai fini della tutela della integrità fisica e morale del lavoratore.
Orbene, il pluricitato Protocollo prevede l'obbligatorietà delle misure di seguito specificate.
§1. In primo luogo, il datore di lavoro deve assicurare una pulizia giornaliera degli ambienti di lavoro, nonché la sanificazione periodica dei locali, degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni e di svago; deve garantire, altresì, la pulizia a fine turno e la sanificazione periodica di tastiere, schermi touch, mouse con adeguati detergenti, sia negli uffici, sia nei reparti produttivi.

Ciò posto, deve osservarsi come la sentenza gravata abbia ritenuto "priva di fondamento la deduzione relativa all'omessa sanificazione e pulizia dei locali dell'ufficio, posto che dalla documentazione prodotta dalla parte resistente, risulta che nel 2020 le operazioni di pulizia e sanificazione sono state eseguite ogni 15 giorni".
L'assunto del primo giudice non appare tuttavia condivisibile.
Invero, alla dichiarazione rilasciata dall'impresa di pulizia Diamante (doc. n. 5 prodotto dalla ), secondo cui il servizio di pulizia e disinfezione periodica dell'ambiente lavorativo aveva luogo nel corso del 2020 ogni 15 giorni nel rispetto delle disposizioni anti Covid, deve attribuirsi scarsissimo se non nullo valore probatorio, stante che essa è rivolta alla Cattolica Assicurazioni di Romano Massimo - proprietario dell'immobile in cui si trovava la sede della ; riguarda solamente il servizio di pulizia e disinfezione effettuato "presso gli uffici della Cattolica Assicurazioni" e non anche presso il locale occupato dalla odierna reclamata; reca come data quella del 31 dicembre 2020, di molto posteriore ai fatti di causa; non specifica affatto quando sarebbe iniziato il servizio di pulizia e disinfezione, ma solo che nel corso del 2020 tale servizio veniva effettuato ogni 15 giorni.
Pertanto, deve ritenersi insussistente la prova affermata al riguardo dal Tribunale.
§2. In secondo luogo, il Protocollo prevede che per "il personale esterno" il datore di lavoro è tenuto a "individuare/installare servizi igienici dedicati, prevedere il divieto di utilizzo di quelli del personale dipendente e garantire una adeguata pulizia giornaliera".
Ciò posto, deve osservarsi come la sentenza gravata abbia ritenuto irrilevante "la mancanza del sistema di areazione del bagno, posto che quello della ricorrente non era un ufficio pubblico bensì privato, per cui deve presumersi un utilizzo limitato del bagno da parte di terzi estranei".
L'assunto del primo giudice non appare tuttavia condivisibile.
Invero, nello stesso immobile adibito a sede della operava - com'è pacifico in causa - anche l'agenzia della Cattolica Assicurazioni, rimasta sempre aperta durante il periodo della pandemia (cfr. doc. n. 74 prodotto dalla ); in detto immobile, comune alle due attività, vi era un solo piccolo bagno "cieco" che misurava 1,65 m di lunghezza per 0,80 m di larghezza (cfr. planimetria doc. n. 10 prodotto dalla ), avendo al suo interno solo un water ed un piccolo lavandino e mancando - come pacifico - di acqua calda e di sistemi di aerazione: bagno che veniva condiviso abitualmente con coloro che lavoravano ovvero si recavano presso la Cattolica Assicurazioni (cfr. doc. n. 61 prodotto dalla ).
Deve dunque ritenersi, in proposito, che la non abbia dimostrato di aver adempiuto agli obblighi di cui all'art. 2087 c.c. ed a quelli specifici previsti dal Protocollo e che, anzi, la odierna reclamante abbia fornito la prova che le condizioni della sede lavorativa erano del tutto inadeguate a garantire gli standard minimi di igiene e pulizia (cfr. anche i docc. nn. 62, 63 e 68 ter prodotti dalla .
§3. In terzo luogo, il Protocollo prevede che il datore di lavoro debba fornire ai dipendenti i DPI costituiti dalle "mascherine chirurgiche".
Ciò posto, la ha dedotto che la le aveva fornito solamente re mascherine per tutto il periodo in cui aveva lavorato in sede in piena pandemia Covid (66 giorni).
Orbene, tale circostanza non solo è stata contestata in modo meramente generico dalla , ma è stata dimostrata dalla con la documentazione da lei prodotta, da cui si desume che tutte le mascherine regalate alla dalla ditta Confezioni sono state ripartite dalla stessa tra i medici di medicina generale della provincia di Chieti (cfr. doc. n. 73 bis e n. 73 ter prodotti dalla ).

§4. Il Protocollo prevede inoltre che "l'accesso agli spazi comuni .. è contingentato, con la previsione di una ventilazione continua dei locali, di un tempo ridotto di sosta all'interno di tali spazi e con il mantenimento della distanza di sicurezza di un metro tra le persone che li occupano". Orbene, nel locale in cui vi era la sede della vi era anche l'ufficio della Cattolica Assicurazioni, avente con la sede medesima l'entrata in comune; è pacifico che non era mai stata apposta alcuna segnaletica per contingentare gli ingressi; non vi era una porta di separazione tra l'ufficio in cui lavorava la e quello della Cattolica Assicurazioni, trattandosi di circostanza dedotta dalla lavoratrice, non contestata dalla e comunque provata dai docc. n. 39 e n. 68 ter prodotti dalla ... .

Inoltre, la superficie utilizzata come sede dalla (di circa 23 mq) aveva una sola finestra a vasistas molto piccola, posta in alto e bloccata all'esterno da una grata di ferro fissa (cfr. pag. 8 del doc. n. 9 prodotto dalla ), la quale non ne consentiva la completa apertura e rendeva quindi impossibile una adeguata areazione della stanza, al cui interno, peraltro, vi erano due postazioni di lavoro, contigue tra loro (cfr. doc. n. 9 prodotto dalla e il doc. n. 59 prodotto dalla ), oltre a due macchine fotocopiatrici (cfr. doc. n. 60 prodotto dalla ).
A fronte di tale situazione, la sentenza gravata ha ritenuto che la presenza delle grate non impedisse "l'apertura della finestra e l'areazione dell'ambiente, realizzabile peraltro anche attraverso l'apertura della porta, visto che il locale adibito ad ufficio si trovava al pian terreno".
Orbene, a parte che la semplice areazione non è quella ventilazione richiesta dal Protocollo, non sembra potersi pretendere che la , per consentire un ricambio di aria non ottenibile in altro modo, tenesse sempre aperta la porta dell'ufficio e permettesse così a chiunque di entrare, determinando rischi non solo alla propria incolumità ma anche per l'attività dell'ufficio.
§5. In quinto luogo, la stessa sentenza gravata riconosce come la avesse espletato le proprie prestazioni lavorative in assenza di alcuni presidi di sicurezza, pur molto utilizzati dai lavoratori nel periodo della pandemia e costituenti attuazione di quanto previsto dal Protocollo: si tratta, oltre che della ridotta messa a disposizione di dispositivi di protezione individuale (quali mascherine e flaconi per la detergenza delle mani), della mancata installazione nella postazione di lavoro di "un parafiato da scrivania" o di "un divisore in plexiglas" e dell'assenza di una valutazione tecnica finalizzata a determinare la necessità di sanificare gli impianti aeraulici (cfr. pag. 6 della sentenza gravata).
§6. In sesto luogo, è pacifico in causa che la ha omesso di provvedere all'adeguamento del Documento Unico di Valutazione dei Rischi in relazione all'avvento della pandemia, pur trattandosi di adeguamento indispensabile - alla luce del Protocollo anzidetto e comunque ex art. 2087 c.c. - in ragione dei rischi da contagio dovuti alla nuova patologia virale e collegati anche allo svolgimento dell'attività lavorativa.
 

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Deve dunque ritenersi che la odierna reclamata abbia ampiamente disatteso le anzidette normative poste a tutela della sicurezza dei lavoratori.
Ciò nonostante - secondo quanto esattamente rilevato nell'atto di reclamo - la ha assicurato la sua presenza fisica presso la sede della , come pacifico e risultante per tabulas, nel periodo dal 20 febbraio 2020 al 12 marzo 2020 (n. 21 giorni in piena emergenza Covid) e indi nel periodo dall'11 maggio al 10 luglio 2020 (n. 45 giorni sempre in emergenza Covid) e quindi complessivamente per n. 66 giorni.

In tutto questo periodo - come pure esattamente rilevato nell'atto di reclamo - risulta che la medesima ha mostrato sempre rispetto, se non dedizione, nei confronti del suo datore di lavoro - secondo quanto desumibile dalle chat in cui la risponde "obbedisco!" e da quella del 19.05.2020 (doc. n. 39, pag. 9 e 10) in cui la stessa, di fronte alla minaccia del legale rappresentante della di chiusura della sede e di licenziamento se lei "non abbozza", risponde che se lui glielo chiedesse lei andrebbe a lavorare anche su una panchina (doc. n. 39, pag. 11)).
Risulta altresì per tabulas ed è comunque incontestato, che durante questi n. 66 giorni di attività "in presenza" la ha invitato più volte il suo datore di lavoro, dapprima in modo informale (con telefonate e messaggi WhatsApp) e poi in modo formale (con le due diffide inviate in data 24.6.2020 e 10.07.2020) ad adempiere agli obblighi di sicurezza sul luogo di lavoro; che, non essendo stati raccolti tali inviti, gli ha comunicato con anticipo, la sera di venerdì 10.07.2020, che per tutelare la propria integrità psico-fisica non si sarebbe più recata presso la sede della a partire da lunedì 13.07.2020; e che dopo tale comunicazione ha continuato a lavorare regolarmente per la dalla propria casa.
 

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Sotto altro rilevante profilo del secondo motivo di reclamo, deve ritenersi che la sentenza gravata abbia erroneamente interpretato l'orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte in tema di eccezione di inadempimento.
Al riguardo, va premesso che il primo giudice ha ritenuto la infondatezza dell'eccezione di inadempimento formulata dalla argomentando che l'inadempimento imputato alla non sarebbe stato di gravità tale da giustificare il rifiuto di presentarsi al lavoro opposto dalla medesima, che non avrebbe corso alcun rischio concreto ed effettivo per la sua salute recandosi a lavorare presso la sede della .
A sostegno di quanto così argomentato, il Tribunale ha richiamato l'orientamento espresso dagli Ermellini in due sentenze, affermative dei seguenti principi: "Nei contratti con prestazioni corrispettive, qualora una delle parti adduca, a giustificazione della propria inadempienza, l'inadempimento dell'altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute rispetto alla funzione economico - sociale del contratto, accertando in primo luogo la gravità dell'inadempimento cronologicamente anteriore, atteso che il requisito della buona fede previsto dall'art. 1460 cod. civ. sussiste qualora il rifiuto sia stato determinato non solo da inadempimento grave ma anche da motivi corrispondenti agli obblighi di correttezza che l'art. 1175 cod. civ. impone alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità da questo perseguite" (Cass. Sez. Lav. n. 21479/2005). Inoltre, più in particolare: "Nel caso in cui il datore di lavoro non adotti, a norma dell'art. 2087 cod. civ., tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e le condizioni di salute dei prestatori di lavoro, il lavoratore ha - in linea di principio - la facoltà di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio alla sua salute; conseguentemente, se il lavoratore prova la sussistenza di tale presupposto, è illegittimo il licenziamento disciplinare intimato a causa del rifiuto del lavoratore di continuare a svolgere tali mansioni" (Cass. Sez. Lav. n. 11664/2006).
Sennonché, non sembra affatto che il Tribunale abbia fatto corretta applicazione dei principi espressi dalla Suprema Corte nelle sentenze da esso pur citate, dovendosi considerare per un verso che l'inadempimento cronologicamente anteriore era, appunto, quello ascrivibile alla datrice di lavoro la quale, sin dal trasferimento della sede a Ripa Teatina, non aveva adottato le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e le condizioni di salute della dipendente, come richiesto dall'art. 2087 c.c.: inadempimento, peraltro, dal quale la aveva chiesto bonariamente di recedere alla datrice di lavoro - come sopra rilevato - mettendo in sicurezza la postazione lavorativa; per altro verso, che la aveva violato, appunto, precisi obblighi di correttezza e buona fede nella gestione del rapporto con la , non dotandola dei fondamentali presidi di igiene e sicurezza necessari secondo la normativa anti Covid, nell'ambito di una situazione di emergenza sanitaria iniziata nel 2020 e che aveva reso ancora più stringente la questione della tutela della salute dei lavoratori dipendenti, dato che per contrarre il virus in questione potrebbe bastare un contatto anche di pochi secondi vicino ad una persona infetta: discorso cui, peraltro, dovrebbe essere particolarmente sensibile una qualificata come quella di medici di medicina generale, apparendo assurdo che si possa pretendere comprensione e collaborazione per la controparte dalla sola dipendente, come vorrebbe invece il primo giudice.
In ogni caso, non va sottaciuta la estrema particolarità del caso oggi al vaglio, dato che da una parte la datrice di lavoro (come detto) si era resa inadempiente in relazione alla gran parte delle misure anti Covid e, dall'altra, la lavoratrice (come pure detto) aveva correttamente segnalato alla datrice medesima, sia formalmente che informalmente, prima di assentarsi dal lavoro, la necessità di mettere in sicurezza la sua postazione lavorativa, dandole così la possibilità - purtroppo non colta - di rimediare alle tante inadempienze.
Ne consegue doversi ritenere - in accoglimento del secondo motivo di reclamo - la insussistenza della giusta causa di licenziamento addotta dalla datrice di lavoro.
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Il terzo motivo - attinente alla asserita carenza di proporzionalità fra i fatti addebitati e la massima sanzione applicata - rimane assorbito dall'accoglimento del secondo motivo.
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Il quarto motivo - attinente alla asserita nullità del licenziamento per il suo carattere ritorsivo - non appare assistito da adeguato fondamento.
Va premesso al riguardo che - secondo consolidata e condivisibile giurisprudenza della Corte di Vertice - "il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta - assimilabile a quello discriminatorio - costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (Cass. 8 agosto 2011, n. 17087); inoltre, "il divieto di licenziamento discriminatorio - sancito dalla L. n. 604 del 1966, art. 4, dalla L. n. 300 del 1970, art. 15, e dalla L. n. 108 del 1990, art. 3 - è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo (Cass. 18 marzo 2011, n. 6282, in senso analogo: Cass. 27 febbraio 2015, n. 3986)" (così Cass. Civ., Sez. Lav., 03/12/2015, n. 24648).
Ciò posto, deve ritenersi che nella specie difettino non solo elementi probatori diretti, ma anche presunzioni serie e concordanti, in ordine al lamentato carattere ritorsivo del licenziamento impugnato, che non sembra essere stato determinato, quale unico motivo, da quello di ritorsione a seguito delle rivendicazioni relative all'orario di lavoro e alle mansioni svolte.

Ne deriva il rigetto dell'ultimo motivo di reclamo.
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Le superiori considerazioni svolte inducono - in accoglimento dell'appello per quanto di ragione ed a parziale riforma della sentenza gravata, confermata nel resto (rigetto della domanda principale) - all'accoglimento della sola domanda subordinata proposta dalla odierna reclamante.
Invero, non ricorrendo gli estremi della giusta causa di licenziamento e trattandosi di datore di lavoro pacificamente non soggetto all'applicabilità della tutela reale di cui all'art. 18 L. n. 300/1970, la reclamata va condannata, ai sensi dell'art. 8 L. n. 604/1966 come sostituito dall'art. 2 comma terzo della L. n. 108/1990, a riassumere la entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a pagare alla medesima una indennità che stimasi equo stabilire, con particolare riguardo alla rilevante durata del rapporto (dal 1° luglio 2004), alle condizioni delle parti ed al comportamento da loro tenuto - contrario a buona fede quello della
- in una indennità (prossima al massimo di sei) di importo pari a cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
L'esito globale della causa induce, ex art. 92 comma secondo c.p.c., alla compensazione per un terzo delle spese processuali - liquidate nell'intero come da dispositivo in base ai parametri di legge - condannandosi la reclamata al pagamento degli altri due terzi.

 

P.Q.M.
 


La Corte di Appello di L'Aquila, Sezione Lavoro e Previdenza, definitivamente pronunciando sul reclamo proposto avverso la sentenza n° 27/2022 pubblicata dal Tribunale di Chieti, in funzione di giudice del lavoro, in data 27 gennaio 2022, contrariis reiectis, così decide:
- in accoglimento dell'appello per quanto di ragione ed a parziale riforma della sentenza gravata, confermata nel resto, accoglie la sola domanda subordinata proposta dalla reclamante e, per l'effetto, accertato che non ricorrono gli estremi della giusta causa di licenziamento, condanna la reclamata a riassumere la entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a pagare alla medesima una indennità di importo pari a cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto;
- condanna la reclamata alla rifusione dei due terzi delle spese processuali di entrambi i gradi - liquidate nell'intero quali compensi professionali per il primo grado in € 7.025,00 e per il secondo grado in € 6.620,00 oltre rimborso forfettario, IVA e CPA come per legge, nonché in € 647,50 per esborsi - disponendo la compensazione dell'altro terzo delle spese medesime.
Così deciso nella camera di consiglio telematica in data 5 maggio 2022
IL CONSIGLIERE EST. IL PRESIDENTE
Dr. Ciro Marsella Dr. Luigi Santini