Tribunale di Cosenza, Sez. Lav., 06 giugno 2022, n. 609 - Risarcimento danno differenziale


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale Ordinario di Cosenza Sezione Lavoro
Il Giudice del Lavoro, Dott.ssa Silvana Domenica Ferrentino, ha pronunciato la seguente
SENTENZA


nella causa iscritta al n. 4781/2018 R.G.
TRA A.B. rappresentato e difeso dall’avv. G. C. TENUTA;
ricorrente
E
AZIENDA OSPEDALIERA DI COSENZA, in persona del l.r.p.t. rappresentata e difesa dall’avv. F. DIACOVO;
resistente


Oggetto: Risarcimento danno differenziale.


 

FattoDiritto


Con ricorso depositato in data 19.10.2018, il sig. A.B. conveniva in giudizio l’Azienda Ospedaliera (A.O.) di Cosenza, chiedendo che fosse accertata e dichiarata la responsabilità esclusiva o concorrente dell’A.O. nella causazione delle patologie del ricorrente o nel peggioramento delle sue condizioni di salute, e, per l’effetto, che fosse condannata al risarcimento dei danni da quest’ultimo patiti, patrimoniali e non patrimoniali e comunque tutti i danni differenziali non indennizzati dall’INAIL pari ad € 245.284,00 o altra somma maggiore o minore ritenuta di giustizia, oltre interessi e maggior danno ex art. 1224 c.c., con ulteriore condanna della resistente al pagamento delle spese e competenze del giudizio. Esponeva in punto di fatto:
- Di essere dipendente dell’A.O. di Cosenza e di aver svolto, dal 2006 al 2016, le mansioni di addetto al protocollo presso l’U.O. Affari Generali, poi quelle di addetto all’ufficio di protocollo S.O. Annunziata (centralino), e successivamente quelle di addetto all’archivio clinico e di supporto amministrativo presso il Ticket-Triage del Pronto Soccorso, con qualifica di coadiutore amministrativo;
- Che, a seguito di congedo del sig. C. avvenuto nel giugno 2015, il clima all’interno dell’U.O. Affari Generali, fino a quel momento appagante, era diventato insostenibile;
- Che il carico di lavoro presso l’U.O. Affari Generali era aumentato nel corso degli ultimi anni determinando una situazione di grave deficit organizzativo;
- Che, in considerazione di tale deficit, il ricorrente era stato costretto ad effettuare lavoro straordinario nelle giornate di lunedì, mercoledì e venerdì;
- Che il ricorrente subiva aggressioni verbali e minacce da parte del sig. P. Giampiero (collega di lavoro);
- Che, con varie note, il ricorrente lamentava le vessazioni e le aggressioni subite, chiedendo l’allontanamento del P., ovvero l’assegnazione dello stesso ricorrente ad altro ufficio (nella specie: U.O.C. Formazione e U.R.P.);
- Che, nonostante tali richieste, l’A.O. ordinava al ricorrente di prestare servizio, a far data dal 18.04.2016, presso l’istituendo ufficio di protocollo S.O. Annunziata (centralino);
- Che l’assegnazione a tale nuovo servizio veniva disposta senza che il ricorrente ricevesse l’adeguata formazione né che venisse informato dei relativi fattori di rischio;
- Che, in data 05.04.2016, il ricorrente veniva ricoverato con codice giallo presso il P.S. di Cosenza, ed i sanitari, all’esito degli accertamenti, gli diagnosticavano “ansia reattiva a problematiche sul posto di lavoro”;
- Che, con nota n. 7594 del 04.05.2016, il ricorrente chiedeva la revoca della nuova assegnazione, reiterando la richiesta di essere trasferito presso l’U.O.C. di Formazione – URP;
- Che, in data 18.05.2016, il ricorrente effettuava presso l’A.S.P. – Centro Salute Mentale di Cosenza, il test MMSE dal quale risultava un deficit medio;
- Che, con nota prot. n. 238 del 23.06.2016, il ricorrente veniva assegnato all’U.O.C. Servizi Amministrativi P.U. per svolgere le mansioni di archivista clinico, oltreché di supporto amministrativo per l’attività del Triage di Pronto Soccorso;
- Che i locali adibiti all’U.O.C. Servizi Amministrativi P.U., nonché la strumentazione tecnica, erano inadeguati allo svolgimento dell’attività lavorativa;
- Che anche presso l’U.O.C. Servizi Amministrativi P.U., sussisteva un deficit organizzativo;
- Che tale deficit veniva attestato dal Direttore dell’A.O. di Cosenza, il quale - con nota del 21.09.2016 - disponeva che il ricorrente dovesse effettuare 30 ore di straordinario mensile;
- Che, anche nel nuovo ufficio, il ricorrente veniva sottoposto ad aggressioni da parte dei clienti e pazienti, nonché a situazioni di stress e di usura psico-fisica;
- Che l’A.O. datoriale, nell’attribuire le nuove mansioni al ricorrente, ometteva di formarlo, oltre a non indicargli i relativi fattori di rischio;
- Che l’A.O. aveva anche omesso di sottoporlo alle visite mediche propedeutiche all’accertamento dell’idoneità allo svolgimento di tali mansioni;
- Che il Documento Unico di Valutazione dei Rischi Interferenti dell’anno 2013 (DUVRI), redatto dall’A.O. resistente, aveva individuato – negli uffici dove aveva svolto la prestazione lavorativa (Archivio Clinico, Centralino, Ufficio Ticket e Triage di P.S.) - i rischi di aggressione, di stress-lavoro correlato e di esposizione ai videoterminali;
- Che, in data 24.09.2016, il ricorrente veniva ricoverato all’Ospedale di Cosenza, con diagnosi di “infarto miocardico acuto”, e, pertanto, veniva sottoposto ad intervento chirurgico e se ne disponevano le dimissioni in data 28.09.2016 con diagnosi di uscita “STEM inferiore, angioplastica primaria con impianto di stent a rilascio di farmaco sulla C.D. coronaropatia monovasale, funzioni di pompa conservate”;
- Che, a seguito dell’intervento, il ricorrente è stato costretto a cambiare vita.

In data 04.02.2019 si costituiva in giudizio l’Azienda Ospedaliera di Cosenza chiedendo, in via pregiudiziale, l’inammissibilità od improcedibilità dell’avverso ricorso, nonché, nel merito, il rigetto in quanto infondato in fatto ed in diritto. In via subordinata, chiedeva l’esclusione di qualsivoglia responsabilità in capo all’A.O. di Cosenza nella causazione del danno patito dal ricorrente dovuto all’esclusivo comportamento colpevole dello stesso. Chiedeva, in via ulteriormente subordinata, la riqualificazione del danno biologico, il tutto, con vittorio di spese e competenze del giudizio.

Nel corso del giudizio venivano escussi i testimoni nonché disposta CTU medico-legale.

All’udienza del 22.10.2021, il giudizio veniva interrotto per morte del procuratore della parte convenuta.

Riassunto il giudizio dal ricorrente, si costituiva l’A.O. rappresentata e difesa dall’avv. Diacovo riportandosi integralmente a tutte le eccezioni, deduzioni, richieste e difese di cui alla memoria di costituzione.

All’udienza del 08.04.2022 celebrata con le modalità di cui all’art. 221, comma 4 del D.L. n. 34 del 2020, le parti – con note depositate telematicamente - insistevano nelle conclusioni rese.

Il procedimento veniva, quindi, definito con dispositivo fissandosi al contempo il termine di 60 giorni per il deposito della motivazione.

Il ricorso dev’essere accolto nei limiti di cui in motivazione.

In via preliminare dev’essere rigettata l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità/improcedibilità del ricorso sollevata da parte resistente.
Invero, per aversi nullità del ricorso introduttivo, non è sufficiente l’omessa indicazione in modo formale dell’oggetto della domanda e degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui la stessa si fonda, “essendo invece necessario che sia omesso o del tutto incerto il petitum sotto il profilo sostanziale e processuale, nel senso che non ne sia possibile l’individuazione attraverso l’esame complessivo dell’atto” (Cass. n. 7199/2018; Cass. n. 6610/2017).
Ebbene, nel caso di specie, il ricorso introduttivo del giudizio volto ad ottenere il risarcimento del danno, non risulta carente della esposizione dei necessari elementi di fatto su cui la domanda giudiziale si fonda, né delle ragioni di diritto poste alla base della richiesta di declaratoria di condanna del datore di lavoro.
Inoltre, per quanto riguarda la (supposta) omessa indicazione delle mansioni svolte dal ricorrente, giova evidenziare come – contrariamente a quanto sostenuto da parte convenuta - nel ricorso introduttivo sono espressamente indicate le suddette mansioni (addetto al protocollo presso l’U.O. Affari Generali; addetto all’ufficio di protocollo S.O. Annunziata (centralino); addetto all’archivio clinico presso l’U.O.C. Servizi Amministrativi P.U.; addetto al supporto amministrativo presso il Ticket-Triage del P.S.), nonché la qualifica del A.B. (coadiutore amministrativo).
Peraltro, le mansioni indicate in ricorso nonché la qualifica ricoperta dal A.B., trovano conferma anche nella documentazione posta a corredo del ricorso introduttivo.
Il ricorrente, inoltre, ha illustrato precisamente i singoli compiti afferenti alle mansioni svolte, sicché non possono esservi dubbi circa l’esatta indicazione (e delimitazione) delle mansioni da quest’ultimo svolte.
Per tali motivi, dunque, la sollevata eccezione pregiudiziale di inammissibilità/improcedibilità del ricorso introduttivo del giudizio dev’essere rigettata.

Nel merito, parte ricorrente - assumendo che la patogenesi della malattia cardiaca che lo ha colpito nel 2016, sia da rinvenire nella nocività dell’ambiente di lavoro – chiede la condanna dell’A.O. al risarcimento del danno differenziale, deducendo l’omissione, da parte della datrice di lavoro di provvedimenti volti ad impedire il compimento e/o la reiterazione degli atti intimidatori e persecutori perpetrati da colleghi e pazienti a danno del ricorrente, nonché della preventiva valutazione circa l’attitudine e l’idoneità del ricorrente a svolgere le mansioni ad egli affidate (in reparti dove esisteva un alto rischio di stress-lavoro correlato), oltreché dell’adozione delle necessarie misure antinfortunistiche (generali e di settore) atte a salvaguardare l’incolumità e l’integrità psico-fisica del ricorrente al fine di ridurre e/o eliminare lo stress-lavoro correlato. Si premette che non è controverso il rapporto di lavoro subordinato inter partes.
Inoltre, le mansioni del ricorrente trovano ampia conferma nella produzione documentale di parte ricorrente (ed anche di parte resistente) oltreché nelle dichiarazioni testimoniali rese dai testi sentiti.

Orbene, per come noto, l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro - in ragione della sua posizione di garante dell’incolumità fisica del lavoratore - di adottare tutte le misure atte a salvaguardare l’integrità fisica e la personalità morale di chi presta la propria attività lavorativa alle sue dipendenze. Ove il datore di lavoro non ottemperi a tali doveri, il lavoratore ben può agire in giudizio al fine di richiedere il risarcimento del danno subìto, secondo i principi generali in tema di riparto dell’onere della prova ex art. 2697 c.c.
In tema di tutela delle condizioni di lavoro, la Suprema Corte precisa che l’art. 2087 c.c. “non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti dalle norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi” (Cass. n. 24742/2018).
Sicché, al fine di accertare la responsabilità causale o concausale del datore di lavoro nella causazione del danno, il ricorrente ha l’onere di dimostrare in giudizio: a) la nocività dell’attività lavorativa in ragione dell’insopportabile intensità della prestazione richiesta; b) la consapevolezza in capo all’azienda della rischiosità dell’attività lavorativa e l’aumento di tale rischiosità per il ricorrente in ragione delle sue condizioni di salute; c) la colpevole omissione di qualsivoglia misura atta a ridurre o limitare i fattori di rischio e impedire l’evento.
Ove il lavoratore abbia dato dimostrazione di quanto suindicato, spetta al datore di lavoro provare di aver adottato tutte le misure necessarie atte ad impedire il danno, e che, dunque, quest’ultimo non è ricollegabile all’inosservanza degli obblighi su di esso incombenti.

Ebbene, dalla documentazione versata in atti, nonché dall’attività istruttoria espletata è emersa non solo la nocività degli ambienti di lavoro ove il A.B. ha svolto la sua attività lavorativa (e, dunque, la gravosità dell’attività lavorativa da egli svolta), ma anche la riferibilità di tale gravosità al datore di lavoro.

Per ciò che concerne la nocività degli ambienti lavorativi, ed in particolare del sovraccarico lavorativo e del deficit organizzativo (per carenza di organico dell’azienda) lamentati dal ricorrente nell’ufficio protocollo, essi sono ampiamente dimostrati dalle richieste e/o dalle autorizzazioni al lavoro straordinario (All.ti n. 1, 4, 5 del fasc. di parte ricorrente), nonché dalle dichiarazioni testimoniali rese dai testi di parte ricorrente.
In particolare, il sig. C. (collega di lavoro del ricorrente) ha dichiarato che “nel 2015 vi è stato un incremento eccessivo del lavoro dovuto allo sblocco dei concorsi e si è passati da una media di 12 mila protocolli annui a 25/30 mila in pochi mesi” e che “nel 2015 e nel 2016 e anche un po’ prima facevamo i rientri quasi tutti i giorni”. Inoltre, per ciò che concerne il sovraccarico lavorativo presso l’archivio clinico, esso trova conferma nella richiesta di autorizzazione allo straordinario (All. n. 14 del fasc. di parte ricorrente) nonché nelle dichiarazioni del teste C., il quale ha precisato che il A.B. “era pieno di scatoli di cartone contenenti i vari accessi cartacei al pronto soccorso che dovevano essere archiviati. Il A.B. mi riferiva che aveva trovato un arretrato notevole”. Peraltro, con riferimento a tale ultima circostanza, anche il teste M. (dipendente degli Istituti Riuniti di Vigilanza) ha dichiarato che vedeva il A.B. “con un carrello della spesa trasportare cartoni di cartelle cliniche, fascicoli […] io vedevo il ricorrente salire e scendere spesso”.
La documentazione fotografica prodotta (ove, peraltro, è nitidamente identificabile un carrello della spesa contenente scatoloni) corrobora le dichiarazioni rese dai testi, nonché le allegazioni di parte ricorrente circa le condizioni di sovraccarico lavorativo nonché di deficit organizzativo presso gli uffici ove il ricorrente ha svolto le sue mansioni. Con riferimento alla lamentata inadeguatezza dell’archivio clinico (anche con riferimento alle apparecchiature informative ivi presenti), essa trova conferma nella menzionata documentazione fotografica, oltreché nelle testimonianze rese dai testi sentiti di parte ricorrente, i quali hanno confermato la circostanza secondo cui l’ufficio archivio clinico era – in realtà – “un sottoscala” (teste G.), e/o una “stanza piccola” dove “vi era un lavandino, una scrivania: era un sotterraneo” (teste C.), “con una finestra chiusa” (teste G.) e “senza luce” (teste M.), e che la strumentazione informatica era del tutto inadeguata in quanto “vi era un solo computer che utilizzavano in due, non vi era una fotocopiatrice” (teste G.), e/o “vi era un solo pc e vi operavano due persone” (teste C.).

L’univocità delle dichiarazioni rese dai testi di parte ricorrente, rende non pienamente attendibile la deposizione resa dal teste CA. (di parte resistente) il quale ha precisato che “la stanza dove è stato trasferito il A.B. non era un sottoscala e non era neanche piccola ed è peraltro nella struttura nuova della DEA”. Il teste, ha comunque confermato che tale ufficio era dotato di un’unica finestra “fissa, e non ricordo se si apriva”.
Analogamente, risultano ampiamente dimostrate le aggressioni verbali da parte del personale dell’azienda (sig. P.) e dell’utenza del P.S. nei confronti del ricorrente.
Tutti i testi di parte ricorrente sentiti, infatti, hanno confermato la circostanza secondo cui il clima all’interno dell’ufficio protocollo “non era sereno, in particolare con un collega” (teste G.); che in varie occasioni si sono verificate “diatribe tra il A.B. ed il P.” (teste C.); che il P. “aveva problemi un po’ con tutti i dipendenti” dell’ufficio (teste A.); che soventi erano “le urla ed i rumori nell’ufficio” (teste M.), tanto che
- in occasione di una lite scoppiata fra il P. ed un altro impiegato - il A.B. è dovuto intervenire per sedare gli animi, ritrovandosi “sporco di sangue” (testi A. e M.). Il teste C., inoltre, ha precisato che gli addetti dell’ufficio “volevano che fosse il P. ad essere trasferito”. Ciò trova conferma nella nota prot. n. 4930 del 25.03.2016 (all. n. 6 fasc. di parte ricorrente) con la quale gli impiegati: A.B., A. e F. hanno richiesto alla direzione generale dell’A.O. l’adozione “dei provvedimenti diretti a tutelare la loro incolumità dalle aggressioni del P.”.
Tale nota, peraltro, smentisce la tesi difensiva di parte resistente, secondo cui l’indagine interane relativa alle aggressioni del sig. P. è stata archiviata in quanto “sussistevano solo le dichiarazioni del A.B. non correlate da altro”.
Peraltro, anche le note del 27 luglio 2015, del 31 luglio 2015 e del 01.04.2016 (all. n. 2c, 3 e 7 del fasc. di parte ricorrente) prodotte da parte ricorrente confermato le lamentate aggressioni da parte del P..
Con riferimento alle aggressioni subite dal ricorrente nell’archivio clinico da parte dell’utenza (pazienti o familiari), esse risultano confermate dalle dichiarazioni rese dal teste G., il quale ha precisato che, nell’archivio clinico, “il clima non era ottimale […] ed il contatto con il pubblico era continuo e le richieste erano incessanti e con toni accesi”. Il teste, inoltre, ha dichiarato che il 24 settembre 2016 “stavo andando a trovare il ricorrente nel nuovo ufficio ed ho sentito un trambusto e delle urla […] Il A.B. mi disse che era stato aggredito da un paziente. Anche prima avevo assistito a degli episodi in cui gli utenti richiedevano con arroganza della documentazione”.

Pertanto, l’ampia produzione documentale unitamente alle dichiarazioni dei testi sentiti rendono pienamente dimostrato il sovraccarico lavorativo ed il deficit organizzativo degli uffici in cui ha operato il ricorrente, nonché le aggressioni subìte dal ricorrente da parte del P. e dell’utenza.

Per quanto riguarda la consapevolezza in capo all’A.O. datrice di lavoro delle condizioni lavorative del ricorrente, sono in atti le note del ricorrente (oltreché degli altri impiegati), con le quali sono state denunciate le aggressioni del P. unitamente alle richieste circa l’adozione di provvedimenti atti a garantire la propria incolumità (e quella degli altri dipendenti).
Parimenti, è agli atti la nota prot. n. 7594 del 04.05.2016 (all. n. 11 fasc. di parte ricorrente) con cui il ricorrente – all’esito del ricovero in pronto soccorso (codice giallo) in cui gli veniva diagnosticata “ansia reattiva a problematiche sul posto di lavoro” - chiedendone la revoca dall’assegnazione al centralino “per motivi di salute, in quanto sofferente di diverticolosi e di ansia reattiva”.
Pertanto, l’A.O. datrice di lavoro era ben consapevole delle aggressioni subìte dal ricorrente oltreché delle sue condizioni di salute, quando - con nota prot. n. 238 del 23.06.2016 (all. n. 13 fasc. di parte ricorrente) – ha disposto la sua assegnazione presso l’archivio clinico con funzione anche di supporto all’attività di triage del P.S., ufficio nel quale - secondo quanto indicato dal Documento Unico di Valutazione dei Rischi Interferenti (DUVRI) – i rischi maggiori erano rappresentati dalle aggressioni e dallo stress da lavoro correlato (tali rischi, peraltro, erano indicati anche nell’ufficio centralino).
Sicché, la documentazione prodotta dimostra come il datore di lavoro fosse ben consapevole delle aggressioni subìte dal ricorrente e della sua patologia da “ansia reattiva”, e che
– ciononostante – ha deciso di assegnare il ricorrente ad uffici nei quali alti erano i rischi di aggressioni e stress da lavoro correlato, omettendo, quindi, di adottare le misure necessarie atte ad impedire il verificarsi del danno.
A ciò si aggiunga che – contrariamente a quanto sostenuto da parte convenuta – l’A.O. non ha dimostrato di aver sottoposto a visita preventiva il sig. A.B. prima di assegnarlo all’ufficio centralino ed all’archivio clinico con supporto al Ticket-Triage del P.S., in quanto la cartella sanitaria e di rischio redatta ai sensi dell’Allegato 3 A D. Lgs. n. 81/2008 (all n. 30b del fasc. di parte ricorrente) riporta la data (successiva agli eventi narrati) del 06.12.2017.

Il CTU nella sua relazione ha evidenziato che “condizioni di lavoro come quelle descritte, all’interno di un ambiente particolare come quello all’interno di un’Azienda Ospedaliera e in costanza di problematiche di natura strutturale e organizzativa, possano rappresentare un importante fattore stressogeno per il lavoratore. Tutto ciò sul piano patogenetico può tradursi nello sviluppo di una “sindrome generale di adattamento”, una risposta che l’organismo umano mette in atto per adattarsi a rilevanti stimoli stressogeni. Sono ormai numerosi gli studi reperibili nella Letteratura Scientifica che hanno individuato una correlazione tra stress e malattie cardiovascolari. A titolo di esempio si potrebbe citare il Lavoro pubblicato su una prestigiosa rivista come Lancet, secondo il quale l’amigdala, distretto anatomico deputato alla elaborazione delle emozioni, in condizioni particolarmente stressanti diventa iperattiva azionando difese immunitarie e reazioni infiammatorie dannosi proprio per il sistema cardiovascolare. Nel caso del sig. A.B., gli stimoli stressogeni descritti sono compatibili con l’insorgenza di un fenomeno come quello appena riportato. Pertanto, nel caso in discussione, è plausibile ritenere che l’attività svolta dal sig. A.B. presso l’A.O. di Cosenza abbia, con ogni verosimiglianza, determinato una grave condizione di stress lavoro correlato, da inquadrarsi come concausa nello sviluppo della malattia cardiaca e psichica. In altre parole, il complesso patologico da cui risulta affetto il ricorrente appare nessologicamente collegato con le mansioni svolte per l’Azienda Ospedaliera di Cosenza. In particolare, si ritiene che l’attività lavorativa svolta dal sig. A.B. debba essere inquadrata come concausa nella genesi delle malattie poste in diagnosi”.
Appare del tutto evidente, secondo l’id quot prelumque accidit e, quindi, sulla base di dati indiziari univoci, che le condizioni di lavoro siano all’origine della patologia denunciata in ricorso nonché la consapevolezza in capo all’azienda della rischiosità dell’attività lavorativa oltre alla colpevole omissione di qualsivoglia misura atta a ridurre o limitare i fattori di rischio e impedire l’evento.
Il datore di lavoro, infatti, non è riuscito in alcun modo ad assolvere l’onere della prova su di esso gravante di aver adottato misure idonee a prevenire rischi relativi all’integrità fisica del lavoratore.
Né può valere come esimente il riferimento allo stile di vita extralavorativo del ricorrente quale patogenesi esclusiva della lamentata malattia cardiaca del ricorrente (rectius: gli altri fattori di rischio non imputabili alla datrice di lavoro come il fumo attivo per oltre 20 anni del ricorrente), in quanto - per come precisato dal CTU – ciò non esclude la natura di concausa delle usuranti condizioni lavorative.

Venendo allora alla liquidazione del danno subìto dal ricorrente, si osserva come – con riferimento al danno biologico - il CTU abbia precisato che “è possibile affermare che gli esiti dell’infarto miocardico (Stemi inferiore) trattato con angioplastica primaria e impianto di stent sulla coronaria destra (classe NYHA IIIII) configurino dei postumi permanenti stimabili nella misura del 25% (venticinquepercento) di danno biologico”. Con riferimento al disturbo dell’adattamento, “si ritiene che esso determini un’invalidità permanente valutabile nella misura del 7% (settepercento) di danno biologico”, sicché “la menomazione dell’integrità psico-fisica del sig. A.B. è valutabile complessivamente nella misura del 30% (trentapercento)”.
Per ciò che concerne il periodo di invalidità temporanea, “dalle patologie indicate sono derivati: un periodo di invalidità temporanea assoluta della durata di giorni 10 (dieci); un periodo di invalidità temporanea parziale al 75% della durata di giorni 10 (dieci); un periodo di invalidità temporanea parziale al 50% della durata di giorni 20 (venti); un periodo di invalidità temporanea parziale al 25% della durata di giorni 30 (trenta)”.

Va osservato, peraltro, come oggetto del presente giudizio è il solo danno differenziale, rettamente inteso come quella parte di risarcimento che eccede l’importo dell’indennizzo dovuto in base all’assicurazione obbligatoria e che resta a carico del datore di lavoro. Esso è quello che rientra nel tipo già considerato dall’assicurazione obbligatoria, ma che, in ragione del carattere indennitario di questa, può presentare delle differenze dei valori monetari rispetto al danno civilistico, primariamente sia per la diversa valutazione del grado di inabilità in sede INAIL in confronto al diritto comune (dove il grado di invalidità permanente viene determinato con criteri non imposti dalla legge ma elaborati dalla scienza medico legale), sia per il diverso valore del punto di inabilità.
E il calcolo del danno differenziale va effettuato indipendentemente da una richiesta di parte in quanto si tratta dell’applicazione di norme di legge al cui rispetto il giudice è tenuto (in tal senso, circa i criteri di liquidazione del danno differenziale, si veda Cass. n. 20807/2016).
Occorre valutare, cioè, il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni e da esso detrarre quanto indennizzabile dall’INAIL, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale (Cass. n. 20807/2016). Tale operazione di scomputo va effettuata ex officio ed anche se l’INAIL non abbia in concreto provveduto all’indennizzo.
Depone per tale soluzione il tenore letterale dell’art. 10 del D.P.R. 1124/1965 compatibile anche col caso del difetto di un già intervenuto indennizzo. Infatti, i commi 6, 7 e 8 della disposizione citata parlano di indennità o rendita “liquidata a norma” del decreto. Dunque, non dicono “che è stata liquidata”, né “pagata”, ma parlano di mera “liquidazione”, che è operazione contabile astratta che qualsiasi interprete può eseguire ai fini del calcolo del differenziale. Di contro, l’art. 11 dello stesso decreto n. 1165/1965, in materia di regresso, usa la ben diversa espressione di “somme pagate”, certamente presupponendo il reale ed effettivo pagamento degli importi. Quindi, l’indennizzo può essere anche un termine di raffronto solo virtuale, cioè astrattamente liquidabile secondo un puro criterio tabellare. Altrimenti ragionando, il lavoratore locupleterebbe somme che il datore di lavoro comunque non sarebbe tenuto a pagare né al dipendente (perché il risarcimento al lavoratore, anche in casi di responsabilità penale, è dovuto solo per l’eccedenza), né all’INAIL (che può agire in regresso solo per le somme versate e, quindi, senza indennizzo non vi sarebbe regresso). Inoltre, la mancata liquidazione dell’indennizzo potrebbe essere dovuta allo stesso comportamento del lavoratore, che, ad esempio, non ha denunciato l’infortunio o la malattia ovvero ha lasciato prescrivere l’azione; detta condotta non può determinare una maggiore esposizione del datore ed il lavoratore non può incidere, con una sua scelta, sull’esonero parziale da responsabilità civile inderogabilmente prescritto dall’art. 10 D.P.R. n. 1124/1965.
Con riferimento al danno biologico differenziale, secondo i criteri usati dalla giurisprudenza di questo Tribunale in casi analoghi, alla luce dell’età del ricorrente, all’epoca del fatto, all’entità ed alla natura dei postumi permanenti, l’importo da liquidare è di € 100.396,00.
Ne consegue che al ricorrente spetta la somma di cui sopra (da cui va decurtato quanto a carico dell’INAIL) che, dunque, costituisce l’entità del risarcimento spettante al ricorrente per il danno non patrimoniale ascrivibile alla responsabilità del datore di lavoro.

Le spese di CTU e di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
 

P.Q.M.
 


Condanna parte convenuta a corrispondere al ricorrente, a titolo di risarcimento del danno biologico differenziale e invalidità temporanea, la somma di € 100.396,00 da cui va decurtato quanto a carico dell’INAIL, oltre interessi legali come per legge.
Condanna parte convenuta al pagamento delle spese di CTU, liquidate con separato decreto e alla refusione delle spese di lite che liquida in € 5.868,00, oltre IVA e CPA e rimborso spese forfettarie come per legge con distrazione.
Fissa il termine di 60 giorni per il deposito della motivazione.
Così deciso in Cosenza, 08/04/2022
Il giudice Dott.ssa Silvana Domenica Ferrentino