Cassazione Penale, Sez. 3, 07 giugno 2022, n. 21911 - Porto Marghera. Momento di innesco della malattia


 

Presidente: RAMACCI LUCA
Relatore: AMOROSO MARIA CRISTINA
Data Udienza: 09/11/2021
 

 

Fatto

 

1. Il ricorso si riferisce alla specifica posizione rivestita da P.G. nell'ambito della più articolata vicenda processuale relativa ai fatti di reato verificatisi nel Petrolchimico di Porto Marghera.
2.Con ordinanza del 16/10/2020, la Corte d'appello di Trento ha dichiarato inammissibile l'istanza di revisione proposta da P.G. avverso la sentenza emessa dalla Corte d'appello di Venezia, del 15/12/2004 n. 1817, nell'ambito del procedimento n. 3340/1996 (C. ed altri), avente ad oggetto la responsabilità penale per le lesioni e i decessi dei lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera, stabilimento Montedison, diventata irrevocabile in data 19/05/2006, a seguito della sentenza della Corte di Cassazione Sez. 4, n. 4675 del 15/05/2006, depositata in data 6/02/2017.
In particolare, la Corte d'appello di Venezia, in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, aveva condannato (fra gli altri) il P.G. per aver cagionato colposamente, nella sua qualità di dirigente della società Montedison, in conseguenza della omissione di cautele e di dispositivi diretti a prevenire il verificarsi di eventi lesivi esposti alla produzione del CVM - PVC, la morte di F.G., autoclavista presso lo stabilimento Montedison, deceduto per angiosarcoma epatico cagionato dalla prolungata esposizione a dosi elevate di cloruro di vinile monomero (CVME).
L'istanza di revisione veniva avanzata sotto due profili: l'esistenza di una prova scientifica nuova sopravvenuta al provvedimento definitivo e l'inconciliabilità di detto giudicato con quello riconducibile alla sentenza del Tribunale di Venezia del 11/7/2019, con la quale P.G. veniva assolto per l'omicidio colposo dell'autoclavista della Montedison B.E..
Quanto alla prova scientifica nuova, si deduceva, producendo la consulenza tecnica del prof. Angelo Mo., che i più recenti studi avrebbero dimostrato che la formazione della neoplasia è originata da una combinazione di eventi puntuali e casuali che possono avere maggiori probabilità di accadere in presenza di circostanze cancerogene; tale innovativa teoria, da un punto di vista penalistico, avrebbe determinato l'impossibilità di ricostruire "quale evento e in quale momento sia stato causato dall'agente cancerogeno", essendo ciascun periodo di esposizione "caratterizzato da una probabilità di aver causato un effetto chiave nell'evoluzione della neoplasia, che sarà proporzionale alla durata e all'intensità rispetto agli altri periodo di esposizione".
Dalla teoria esposta si traeva la conseguenza dell'impossibilità di attribuire l'insorgenza della malattia a specifiche condotte attive o omissive tenute dai soggetti succedutisi nella posizione di garanzia ognuno per un limitato periodo di tempo, con conseguente non dimostrabilità della avvenuta irreversibilità della patologia di F.G. durante il periodo di esposizione coincidente con quello nel quale P.G. aveva ricoperto il ruolo di vice capo divisione petrolchimica della Montedison, da maggio 1971 all'ottobre 1971 e di direttore generale della divisione petrolchimica dall'ottobre 1971 al gennaio 1973.
In relazione alla seconda ragione posta a sostegno dell'istanza di revisione, si evidenziava che il Tribunale di Venezia, con la decisione n. 1580 del 2019, aveva assolto P.G. dall'accusa di aver cagionato, per colpa, il decesso per angiosarcoma epatico di B.E., lavoratore presso la Montedison di porto Marghera con mansioni analoghe a quelle F.G., esposto anch'egli al CVM per lunghi anni.
L'assoluzione era stata fondata sulle nuove teorie illustrate dal Prof. Angelo M., reputate idonee a mettere in dubbio il nesso causale tra la condotta commissiva e omissiva del P.G. e il decesso del lavoratore.
La circostanza, ad avviso del ricorrente, avrebbe determinato un contrasto di giudicati tra le sentenze citate per inconciliabilità tra i fatti dalle stesse rispettivamente accertati trattandosi del medesimo contesto fattuale: entrambi i procedimenti vedevano il medesimo imputato per omicidio colposo per fatti commessi nel periodo compreso tra il 1971 e 1973 durante il quale l'odierno ricorrente aveva rivestito cariche direttive all'interno dello stabilimento Montedison; in entrambi i procedimenti gli addebiti a carico di costui facevano riferimento al decesso per angiosarcoma epatico da esposizione a CVM di lavoratori del medesimo stabilimento adibiti a mansioni analoghe e in periodi parzialmente coincidenti (il F.G. dal 1967 al 1985 e il B.E. dal 1956 al 1985) in reparti nei quali si era registrata la più elevata esposizione al CVM attestante fino al 1974 a dosi comprese tra i 3600 e i 9000 PM annui.
3. La Corte della revisione, attivato il contraddittorio camerale ex art. 127, cod. proc. pen., respingeva l'istanza.
In relazione alla prima doglianza osservava che la nuova teoria illustrata dalla difesa non contestava il nesso causale generale tra esposizione a CVM e l'angiosarcoma epatico mortale, ma si riferiva al diverso aspetto del nesso individuale.
Tale tema, ad avviso della Corte d'appello di Trento, avrebbe dovuto essere affrontato con i motivi d'impugnazione davanti alla Corte d'appello di Venezia.
A supporto di tale considerazione la Corte territoriale riportava ampi stralci della motivazione della Corte di Cassazione sulla censura mossa dal P.G. in ordine al nesso causale contenuta nel settimo motivo di ricorso.
Sul punto l'imputato aveva dedotto che, a fronte della certezza dell'azione cancerogena iniziante del CVM ad elevate esposizioni, non vi era alcuna sicurezza scientifica sulla sua efficacia promovente, e che era pertanto impossibile ritenere che l'innesco della malattia era avvenuto proprio nei periodi in cui il P.G. rivestiva posizioni dirigenziali.
La Corte d'appello trentina evidenziava in primo luogo che in dettagliati e specifici passaggi la decisione di legittimità aveva messo in luce la particolare attenzione riservata dal Tribunale di Venezia al tema della causalità generale, intesa come l'idoneità del cloruro di vinile a provocare le malattie ritenute conseguenza dell'esposizione a questa sostanza tra cui l'angiosarcoma epatico, e a quello della causalità individuate, spiegando te ragioni per le quali aveva ritenuto che tale esposizione avesse avuto efficienza causale nelle malattie che avevano afflitto numerosi lavoratori e cagionato la morte di altri.
La Corte d'appello di Trento aggiungeva, inoltre, che i giudici di legittimità avevano ben chiarito che su dette statuizioni non vi era stata sostanzialmente contestazione da parte degli imputati contro i quali erano stati proposti gli appelli da parte del pubblico ministero e delle parti civili, giacché essi si erano limitati a chiedere in via principale la conferma della sentenza impugnata, ragione per la quale i giudici d'appello di Venezia avevano comunque preso solo in minima considerazione tali aspetti facendo rinvio, per relationem, a quanto diffusamente trattato in primo grado.
Da tali osservazioni, precisavano ancora i giudici della revisione, la Suprema Corte aveva condivisibilmente considerato che si era formato un giudicato interno sull'esistenza del nesso di causalità tra l'esposizione al CVM i decessi e le patologie riscontrate.
Alla luce delle esposte considerazioni la Corte territoriale rigettava l'istanza. Quanto al primo dei profili prospettati osservava che le questioni relative al nesso causale avrebbero potuto e dovuto essere affrontate dall'odierno ricorrente in sede di motivi di appello attraverso la sentenza assolutoria, anche solo dal punto di vista strettamente giuridico, e a prescindere dalla conoscenze scientifiche dell'epoca e che la mancanza dell'esercizio di tale diritto precludeva, in sede di riesame la verifica del nesso di causalità individuale sulla base della perizia M., posto che con essa l'imputato avrebbe, di fatto, introdotto "un tema probatorio nuovo" su una questione non oggetto di impugnazione di merito e non già una "prova nuova".
In ogni caso, aggiungeva la Corte trentina, anche qualora la tesi del professor M. avesse potuto ritenersi "nuova", essendo fondata su criteri probabilistici, non possedeva, in ogni caso, la necessaria capacità demolitoria del giudicato.
Con riferimento al secondo profilo la Corte territoriale riteneva inammissibile l'istanza alla luce della considerazione che ì due giudicati, asseritamente confliggenti, riguardavano situazioni di fatto tra loro non assimilabili.
4. Avverso tale decisione, P.G., tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi.
5. Nel primo si lamenta l'illogicità e la violazione degli artt. 629 cod. proc. pen. e 630 co.l. lett c) cod. proc. pen., nella parte in cui la Corte d'appello afferma che «il tema del nesso causale individuale (in tutti gli aspetti sopra individuati) avrebbe dovuto essere affrontato dall'odierno ricorrente nei motivi d'appello avverso la sentenza assolutoria sull'elemento soggettivo del Tribunale di Venezia, anche solo dal punto di vista strettamente giuridico ed a prescindere dalle conoscenze scientifiche dell'epoca».
Ad avviso della difesa, la Corte territoriale così argomentando avrebbe erroneamente ritenuto l'esistenza stessa del giudicato sulla causalità fattore preclusivo all'istaurazione del giudizio di revisione, frustrando lo spirito dell'istituto che è invece proprio volto a consentire alla difesa una ricostruzione fattuale sulla quale non ha potuto esprimere in modo effettivo le proprie ragioni prima del giudicato, posto che quest'ultimo copre il dedotto il deducibile e "non ciò che non era deducibile prima che si formasse".
La difesa ribadisce che all'epoca nella quale fu pronunciata la condanna nei confronti di P.G. per il decesso di F.G., non erano disponibili le attuali conoscenze scientifiche sul tema della cancerogenesi, e che per questa sola ragione il giudizio di primo grado, anche in punto di causalità, venne ritenuto soddisfacente e non suscettibile di impugnazione.
Solo grazie all'evoluzione della ricerca e l'acquisizione di conoscenze più complete e approfondite, chiarisce la difesa, il preesistente quadro scientifico si è arricchito del nuovo approccio esposto dal Prof. M. che consentirebbe di intendere la cancerogenesi in termini di interazione e sovrapposizione di molteplici fattori causali che renderebbero impossibile l'individuazione del momento temporale in cui la cellula neoplastica si forma con autonoma capacità replicativa; tale nuova acquisizione del sapere scientifico, quindi, nella prospettazione difensiva, comporterebbe la negazione delle teorie poste a fondamento della decisione del tribunale di Venezia sulle vicende di porto Marghera, e imporrebbe di ritenere superata l'impostazione seguita dai giudici veneti secondo la quale il mero fatto dell'esposizione, anche per un periodo circoscritto, assume lo stesso valore causale rispetto alla malattia tumorale o in termini di insorgenza o in termini di incrementata progressione.
Nel medesimo motivo di ricorso si censura anche la conclusione della Corte d'appello di Trento nella parte in cui introduce la distinzione tra tema probatorio nuovo e prova nuova, censurando la parte della motivazione in cui i giudici della revisione affermano che: "il ricorrente non può oggi richiedere la verifica del nesso di causalità individuale sulla base della perizia di M. in quanto c'è introdurrebbe un tema probatorio nuovo su una questione non oggetto di impugnazione di merito e non già una prova nuova".
6. Nel secondo motivo di ricorso si lamenta la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità dell'ordinanza in relazione alla ritenuta incapacità della nuova prova a demolire l'accertamento condotto dalla sentenza oggetto di revisione. L'argomentazione resa dalla Corte d'appello viene considerata apodittica e carente nella parte in cui nega l'impatto di tale nuova prova sul nesso di causalità.

7. Nel terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione dell'art. 630, comma 1, poiché la Corte d'appello di Trento avrebbe erroneamente dichiarato inammissibile l'istanza anche in relazione al profilo concernente la sussistenza di un contrasto di giudicati, nonostante gli accadimenti rappresentati e le ricostruzioni operate nelle due distinte pronunce determinino una oggettiva incompatibilità tra fatti storici e una inconciliabile alternativa ricostruttiva rispetto alla determinazione della responsabilità del P.G. per i reati a lui contestati.
8. Il Procuratore generale ha inviato requisitoria scritta chiedendo il rigetto del ricorso.
9. Rispetto alla requisitoria il ricorrente ha proposto memoria di replica nella quale ha contestato le argomentazioni del pubblico ministero ribadendo quanto già prospettato in sede di ricorso.

 

Diritto



l. Limitando l'analisi agli aspetti strettamente necessari ai fini del presente ricorso giova ricordare che, nell'ambito del citato procedimento n. 3340/1996 (C. ed altri), a P.G., nella sua qualità di dirigente della società Montedison e in particolare di vice capo divisione petrolchimica della società Montedison dal maggio 1971 all'ottobre 1971 e di direttore generale della divisione petrolchimica dall'ottobre 1971 al 1973, venne contestato di aver cagionato, in conseguenza della omissione dolosa di cautele e di dispositivi diretti a prevenire il verificarsi di eventi lesivi esposti alla produzione del CVM - PVC, la morte di F.G., autoclavista presso lo stabilimento Montedison, per angiosarcoma epatico.
il Tribunale di Venezia ritenne provato il nesso causale tra l'esposizione a dosi elevate di cloruro di vinile monomero (CVME) e l'insorgenza di un angiosarcoma epatico nella persona del defunto F.G. sulla base, tra l'altro, delle indagini epidemiologiche svolte all'epoca, dalle quali era emersa la comparsa di neoplasie epatiche nei lavoratori esposti a forti concentrazioni di CVM negli anni'50 '60, per lo più con mansioni di addetti alle autoclavi.
Sulla base degli studi epidemiologici, e delle risultanze scientifiche in tema di cancerogenesi, si ritenne altresì dimostrata la relazione causale tra le condotte degli imputati le neoplasie riscontrate.
Ciò nonostante i giudici veneziani, ritennero non prevedibile l'evento fino al 1974 (momento della pubblicazione dello studio del professor Ma.), non esistendo un patrimonio scientifico consolidato che consentisse di qualificare il CVM quale sostanza capace di provocare effetti cancerogeni, e poiché il giudizio di responsabilità penale riguardò le sole condotte tenute fino a tutto il 1973, anno a partire dal quale si era proceduto nello stabilimento ad una drastica diminuzione delle esposizioni dannose, divenute, quindi, non idonee ad attivare il processo di cancerogenesi, e pertanto assolsero l'odierno ricorrente con la formula "perchè il fatto non costituisce reato".
La Corte d'appello di Venezia, invece, riformò la sentenza di assoluzione in punto di elemento soggettivo ritenendo innegabile la piena conoscenza, con copertura scientifica e legislativa, della natura epatotossicità del CVME della sua idoneità ad aggredire il fegato provocando gravi malattie fin dal 1969, e pertanto ritenne colpevole P.G. per l'omicidio colposo di F.G..
Tale pronuncia divenne definitiva all'esito del giudizio svoltosi di legittimità in cui la Sesta Sezione della Suprema Corte, con sentenza n. 4675 del 17/05/2006, ritenne incontestabile l'esistenza del rapporto di causalità in relazione ai reati di omicidio colposo e lesioni colpose per angiosarcoma epatico e rigettò il ricorso proposto dall'imputato.
2. Appare necessario delimitare l'ambito della questione devoluta a Questo Collegio.
Va ricordato, infatti, che l'art. 634 cod. proc. pen., modificando la disciplina previgente prevista dal codice di procedura penale abrogato, prevede una fase preliminare che si svolge dinanzi al giudice competente per la revisione, volta ad effettuare un vaglio di ammissibilità al fine di fermare le iniziative proposte fuori dalle ipotesi previste dalla legge o senza l'osservanza delle forme prescritte ovvero quando la richiesta "risulta manifestamente infondata".
Alla Corte d'appello, nella fase preliminare, prevista dal comma 1, cod. proc. pen., è quindi attribuito il compito di valutare l'oggettiva potenzialità degli elementi addotti dal richiedente, ancorché costituiti da "prove" formalmente qualificabili come "nuove", a dar luogo, attraverso la necessaria disamina del loro grado di affidabilità e di coerenza, ad una pronuncia di proscioglimento.
Di fronte alla mutata struttura del giudizio di revisione, la giurisprudenza di Questa Corte è concorde nell'affermare che, in detta fase preliminare di delibazione dell'ammissibilità, la verifica della potenzialità della nuova prova a pervenire ad una pronuncia di proscioglimento ex artt. 529, 530 e 531, cod. proc. pen., non può mai consistere in una penetrante anticipazione dell'apprezzamento di merito riservato al vero e proprio giudizio di revisione ma implica soltanto una sommaria delibazione degli elementi di prova o della inerenza del contrasto di giudicati su fatti che evocano una alternativa ed inconciliabile ricostruzione della vicenda oggetto della domanda di revisione.
La sommaria delibazione è quindi finalizzata alla rilevazione dell'eventuale sussistenza di una infondatezza che, in quanto definita "manifesta", deve essere rilevabile ictu oculi, senza necessità di approfonditi esami giacchè la preliminare delibazione dell'ammissibilità, integra, , la "fase rescindente", mentre nel solo di positiva valutazione della astratta capacità dimostrativa del novum dedotto si attiverà la successiva "fase rescissoria" in cui si svolge il gudizio di merito, con assunzione, nel contraddittorio delle parti, delle relative prove, e successiva valutazione.
Va insomma opportunamente ribadito che il giudice di merito, nel corso della fase preliminare, ha il limitato compito dì valutare in astratto, e non in concreto, la sola idoneità dei nuovi elementi dedotti a dimostrare - ove eventualmente accertati - che il condannato, attraverso il riesame di tutte le prove, unitamente a quella "noviter producta", debba essere prosciolto a norma degli artt. 529, 530 e 531 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 15402 del 20/01/2016, Dì Pressa, Rv. 266810 - 01; Sez. 1, n. 50460 del 25/05/2017, Sciumè, Rv. 271821 - 01).
3. Ciò osservato, il ricorso è inammissibile nei termini che seguono.
Quanto al primo motivo di ricorso, va censurato il ragionamento della Corte d'appello nella parte in cui nega il carattere di "novità" alla prova prodotta sulla base della mancata prospettazione della stessa in sede di impugnazione.
In proposito va evocato l'insegnamento delle Sezioni Unite secondo il quale «va pur ribadito che per prove nuove rilevanti a norma dell'art.630 lett. c) cod. proc. pen., ai fini dell'ammissibilità della relativa istanza, devono intendersi non solo le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non valutate neanche implicitamente, purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice, e indipendentemente dalla circostanza che l'omessa conoscenza da parte di quest'ultimo sia imputabile a comportamento processuale negligente o addirittura doloso del condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione dell'errore giudiziario (cfr., Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, dep. 2002, P.G. e P.C. in proc. Pisano, Rv. 220443 - 01 e da ultimo Sez. 2 n. 23928 del 14/07/2020, Trupia, Rv. 279488 - 01).
Quel che rileva, dunque, è la valutazione, giuridicamente corretta ed adeguatamente e logicamente motivata, circa l'effettiva "consistenza" delle prove "nuove", indipendentemente dalla loro "disponibilità" e dalla possibilità di farle valere nell'ambito del giudizio di merito; la circostanza secondo cui esse non vennero spese in quella fase, infatti, non ne preclude certo la deducibilità in sede di istanza di revisione e, tuttavia, ben può essere valutata - unitamente al loro effettivo "contenuto" - al fine di saggiarne la reale portata e la potenziale tenuta.
4. Alla luce di quanto chiarito va reputata non pertinente la affermata distinzione effettuata dai giudici della revisione, tra prova nuova e tema probatorio nuovo.

5. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Il ragionamento della Corte trentina nella parte in cui si è pronunciata in ordine all'oggettiva non potenzialità degli elementi addotti dal richiedente a dar luogo ad una necessaria pronuncia di proscioglimento, è tutto condivisibile, dovendosi concordare sul giudizio espresso in ordine alla verifica prognostica sul grado di affidabilità e di conferenza dei "nova".
La Corte territoriale, con motivazione sintetica ma congrua, ha affermato che gli esiti delle indagini scientifiche, dedotti come prove nuove dall'istante, non potevano offrire elementi decisivi per superare il giudicato, risolvendosi nella prospettazione di una tesi comunque basata su criteri probabilistici.
E' agevole rilevare che il Tribunale di primo grado ha ampiamente trattato le questioni relative alla cancerogenesi e al nesso di causalità.
Dalla disamina della motivazione è possibile osservare che la sussistenza del nesso di causalità tra esposizione all'agente cancerogeno e malattie e decessi rilevati è stato ricostruito facendo riferimento, in maniera combinata, alle evidenze degli studi epidemiologici e ai meccanismi della oncogenesi sebbene questi ultimi risentano "dei limiti delle conoscenze raggiunte nell'ambito di una scienza in continua evoluzione i cui risultati, messi in discussione in un procedere per ipotesi e falsificazioni, non paiono avere raggiunto quella validazione nella comunità scientifica da renderli idonei a un loro pieno utilizzo nell'accertamento probatorio del nesso di causalità".
La non esaustività di nessuno dei due criteri a fornire risposte inconfutabili in ordine al nesso di causalità individuale viene ben evidenziata nello specifico capitolo dedicato al nesso di causalità e negli specifici passaggi in cui si afferma la necessità della "fusione" tra le tipologie di saperi.
Si afferma che l'epidemiologia deve fare "due passi verso l'individuo", e dialogare con i risultati clinici, perché, pur essendo due mondi con metodologie e procedure diverse, hanno tuttavia finalità comuni e tale confronto, si aggiunge, deve avvenire, perché possa raggiungere lo scopo, "in termini critici e dialettici".
Si aggiunge che "il mondo della clinica può integrare il mondo della epidemiologia solo se riesce ad esplicare il caso singolo attraverso un'indagine anamnestica, diagnostica e eziopatologica approfondita e corretta e non si attesti invece su un giudizio di mera idoneità della sostanza a cui il soggetto è stato esposto. Non si faccia cioè solamente ricorso alla criteriologia della capacità lesiva, della continuità fenomenologica, della idoneità di sede", pur nella chiara consapevolezza che "neppure può bastare un ricorso acritico alla oncogenesi ritenendo di potere da essa avere risposte concludenti ed esaustive: innanzitutto perché - come riconosce il professar Colombatti, consulente dell'accusa, i dati non sono ancora sufficienti per suggerire che esista una modalità specifica che permetta di identificare l'azione del cloruro di vinile, in secondo luogo perché le modificazioni ai ritenuti biomarcatori (p 53 e Kras) non sono specifiche della esposizione al cloruro di vinile perché sono stati individuate anche in non esposti e neppure sono sempre state indotte da cause esogene".
Proprio per mettere in evidenza "gli approdi talora incompleti o inconclusi talora contraddittori" della oncogenesi i giudici hanno dettagliatamente ripercorso le divergenti posizioni assunte dal Pubblico ministero e dai difensori che rispecchiano le differenti opinioni presenti "all'interno della comunità scientifica sul livello dell'evidenza dei risultati delle ricerche o della loro coerenza rispetto ai modelli sperimentali assunti".
Nella decisione, in maniera consapevole, si è dato atto del dibattito esistente tra gli scienziati sulla genesi della malattia, affermando che è ancora incerto "se l'origine del cancro sia basata sulla instabilità genetica, e cioè sul venir meno dell'idoneità funzionale del sistema di riparazione del DNA danneggiato ovvero su alterazioni molecolari multiple che avvengono nelle fasi di iniziazione e/o promozione del processo tumorale".
Si chiarisce che le conoscenze acquisite negli ultimi cinque anni stanno cambiando l'impostazione originaria dell'oncogenesi: se sino a poco tempo fa l'ipotesi più accreditata era che il cancro si originasse da singoli geni per lo più coinvolti nella regolazione della crescita e sopravvivenza della cellula (per l'appunto P 53, k- ras), ipotesi più recenti suggerirebbero che alla base dell'insorgenza del cancro non vi siano singole mutazioni, ma piuttosto una più ampia instabilità genetica che coinvolgerebbe più geni allo stesso tempo e questa instabilità causerebbe alterazioni cumulative in strutture ben più grandi dei singoli geni e cioè nei cromosomi ed anche la trasposizione da un cromosoma all'altro di frammenti dello stesso DNA.
Da questa premessa conseguirebbe che la mutazione osservata nei geni oncogeni e oncosoppressori più volte citati non sarebbe che la conseguenza delle alterazioni grossolane della struttura del DNA e dei cromosomi causate a loro volta dalla iniziale instabilità genetica alla cui base vi sono alterazioni precoci del sistema di riparo del DNA.
L'impossibilità di individuare i meccanismi precisi dell'innesco tumorale, quindi è concetto che ha già, formato oggetto di diamina nel processo di primo grado, ed il concetto è stato, di fatto, veicolato nel processo proprio dalla difesa laddove, in contrapposizione a quanto reputato dalla pubblica accusa, ha negato l'esistenza di un nesso provato tra mutazioni specifiche di qualsiasi gene - inclusi il p 53 e il K­ ras - e l'insorgenza di qualsiasi tipo di tumore ne' per lo sviluppo di tumori dovuti ad esposizioni a CVM.

Tutto l'iter motivazionale della decisione, quindi, è sorretta dalla consapevolezza che "sulla base delle opinioni espresse dai consulenti delle parti e dell'ampia letteratura cui hanno fatto riferimento, il tribunale non può non rilevare come gli approdi scientifici siano ancora parziali e non sempre coerenti con le ipotesi assunte, sicché appare difficile potere affermare che si siano raggiunti risultati di conoscenza in base ai quali poter affermare che sussiste un meccanismo specifico di azione del CVM nella causazione dei tumori".
I giudici affermano che: «l' oncogenesi è una scienza in rapida evoluzione, come è messo in rilievo dai risultati degli studi sperimentali o osservazionali sopra riferiti, e non sempre i protocolli sperimentali sono basati su modelli comuni.
E' ancora in discussione il modello di cancerogenesi, e cioè se si tratta di un processo multistadio in cui un numero pur limitato di alterazioni genetiche sia alla base dell'insorgenza del tumore ovvero una più ampia instabilità genetica che determinerebbe la mutazione di una gran parte dei geni a seguito di un difetto dei sistemi di riparazione del DNA che favoriscono l'instabilità del genoma: già queste due contrapposte o divergenti teorie rendono problematico stabilire la rilevanza, pur osservata, di mutazioni ai geni p53 e k-ras ai fini della causazione del tumore, affermandosi da questa ultima teoria che la loro mutazione non sarebbe che la conseguenza delle alterazioni della struttura del DNA causate dalla instabilità genetica. Per quel che riguarda il cloruro di vinile la stessa esistenza di un meccanismo d'azione specifico di tale sostanza è affermato dai consulenti dell'accusa ma al tempo stesso dagli stessi viene ammesso che i dati non sono ancora sufficienti per suggerire che esista una modalità specifica che permetterebbe di identificare l'azione del cloruro di vinile».
Alla luce di quanto rappresentato è, dunque, evidente che la decisione del Tribunale sull'esistenza del nesso di causalità individuale non è stata basata su teorie affermatrici della possibilità di individuare un preciso e enucleabìle innesco della malattia, ma combinando i risultati delle teorie epidemiologiche con le teorie della oncogenesi, e tenendo conto che il limite di questi ultimi studi è che «non è ancora noto il ruolo di ogni singola mutazione nel processo di cancerogenesi perché non è stato ancora isolato alcun gene che riesca a trasformare cellule normali in cellule tumorali (Duesberg 1995; Hua-1997; Weitzman-1999). Come si legge nella relazione EPA 2000 (pagina 52 e seguenti): non è ancora possibile determinare se e quali prodotti aggiuntivi del DNA, individuati a seguito dell'esposizione al cloruro di vinile, possano essere ritenuti responsabili della riscontrata carcinogenicità di tale sostanza. La probabilità che un dato prodotto aggiuntivo del DNA conduca ad una trasformazione neoplastica dipende da molti fattori e, tra i quali, la sua persistenza e le conseguenze della sua saldatura o della impossibilità di saldarsi. La persistenza di un determinato prodotto aggiuntivo dipende sia dalla velocità con la quale si forma sia dalla velocità della saldatura».
il Tribunale di primo grado ha, pertanto, ritenuto sussistente il nesso causale tra le condotte degli imputati e gli eventi basandosi sugli studi epidemiologici e sulle teorie in tema di oncogenesi prescindendo dalla specifica conoscenza degli esatti meccanismi di innesco della malattia.
Eloquente in tal senso è la parte della decisione in cui si afferma che" non si può negare il dato di fatto che il cvm è cancerogeno, anche se non si conoscono i particolari del suo percorso genotossico di cui emergono sperimentalmente in via ipotetica alcuni tratti pur significativi : il cvm si metabolizza nel metabolita reattivo "presumibilmente il CEO" che "diversi indizi indicano come genotossico in quanto interagisce direttamente con il DNA" (in tal senso il citato rapporto EPA a pagg.48- 59)".
In particolare a pag. 125 della decisione si chiarisce che:«se ne trae la conclusione che le pur limitate conoscenze sul metabolismo del CVM sono comunque coerenti con il complesso dell'evidenza epidemiologica e clinica che dimostra come gli effetti tossici del CVM si manifestino solo a seguito di esposizioni assai elevate e per contro risultano ulteriormente indebolite le tesi dei consulenti d'accusa circa la possibilità di effetti cancerogeni legati a esposizioni molto basse. In maniera chiara più volte si evidenzia che: non è ancora noto il ruolo di ogni singola mutazione nel processo di cancerogenesi perché non è stato ancora isolato alcun gene che riesca a trasformare cellule normali in cellule tumorali multiple e che di conseguenza ciò che avviene nelle fasi di iniziazione e/o promozione del processo tumorale, è ancora incerto e dibattuto».
8. A fronte di tale contesto, va quindi affermato, condividendo l'assunto della Corte d'appello di Trento, che la prospettazione della teoria illustrata dalla difesa non è in grado di scardinare il giudizio di per il quale è stata avanzata istanza di revisione.
Non può non osservarsi che, di fatto, la teoria del Prof. M. non solo non contesta le evidenze epidemiologiche che, come evidenziato costituiscono un riferimento fondamentale nella ricostruzione del nesso di causalità, ma, in tema di oncogenesi, non offrono tesi idonee individuare il meccanismo di innesco della malattia tumorale per poter conseguentemente escludere che tale attivazione sia coincisa con il periodo in cui il P.G. ricopriva le più volte citate posizioni di garanzia.
In conclusione, la teoria, per quanto nuova rispetto a quelle illustrate nei gradi di merito, non apporta conclusioni in grado di scardina il ragionamento della Corte d'appello in cui già si era chiaramente tenuto conto dell'impossibilità di individuare con certezza i tempi di sviluppo della malattia, non reputando tale elemento dirimente ai fini della prova del nesso di causalità generale.
Diverso sarebbe stato se la decisione di primo grado avesse fondato il nesso di causalità non tenendo conto delle teorie epidemiologiche e basandosi su teorie in grado di individuare con precisione il momento di innesco della malattia, è evidente che in questo caso, e solo in questo caso, la prospettazione di una nuova teoria in grado mettere in discussione un dato certo posto a fondamento della pronuncia sarebbe stata assolutamente idonea a sovvertire il giudicato.
Ciò non è avvenuto nel caso di specie, poiché la difesa ha prospettato una tesi che non fornisce certezze ma che, di fatto, offre un dato, quello dell'incertezza del momento di innesco della malattia, già patrimonio dei giudici di primo grado e che comunque, ricorrendo all'ausilio delle teorie epidemiologiche non ha impedito di ritenere sussistente il nesso di causalità generale e individuale pur prescindendo dall'individuazione di un esatto momento di meccanismo di innesco della neoplasia.
9. Anche il terzo motivo di ricorso va considerato inammissibile.
Alla luce del tenore delle disposizioni normative, non può non riconoscersi come, in sede di revisione, il giudizio sull'ammissibilità o meno dell'istanza di revoca della sentenza, nel caso in cui venga proposta sotto il profilo del contrasto tra giudicati, non possa prescindere da una pur sommaria valutazione e comparazione fra le due sentenze che si assumono in contrasto, non potendosi il giudice limitare a verificare i due profili costituiti dalla verifica dell'irrevocabilità della sentenza che si vuole abbia introdotto il fatto antagonista e la mera pertinenza di tale decisione, in tesi, portatrice dell'inconciliabilità rispetto ai fatti oggetto del giudizio di condanna,
Tanto premesso, la Corte territoriale, nel provvedimento impugnato, con ragionamento immune dai vizi rilevati affermato che l'articolo 630, comma 1, lett. a) cod. proc. pen. impiega il termine "fatti" nel senso generico di "accadimenti", così come appare altrettanto chiaro che il "fatto previsto dalla legge come reato" di cui alla lettera dello stesso articolo sia il "fatto di reato in senso tecnico".
Il "fatto" di quella norma in esame, ad avviso della Corte territoriale, deve essere inteso in senso naturalistico restando salva l'autonomia della nozione di fatto così inteso da quella di reato «così che la diversità delle parti offese nei casi in oggetto è già un elemento di differenziazione dei due "accadimenti".
Si è altresì evidenziato che la stessa consulenza tecnica della difesa ha più volte sottolineato la complessità dei meccanismi di cancerogenesi proprio perché profondamente legati alla situazione individuale e, che nel caso di specie, diversa è stata la storia anamnestica dei due lavoratori, diversi i tempi di esposizione e differente la durata dei rispettivi periodi di latenza delle neoplasia, ragione per la quale «non è pertanto evidenziabile un fatto materiale sovrapponibile avente caratteristiche tipiche ed irripetibili che possa definirsi lo stesso fatto nel senso naturalistico richiesto dalla norma».
10. Per le considerazioni che precedono il ricorso devo essere dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali e della somma dì euro tremila a favore della cassa delle ammende.

 

P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 09/11/2021.