Cassazione Penale, Sez. 4, 07 ottobre 2022, n. 38029 - Esposizione a sostanze cancerogene negli stabilimenti del gruppo Pirelli


 

 

Presidente: SERRAO EUGENIA
Relatore: SERRAO EUGENIA Data Udienza: 23/09/2022
 

Fatto




1. La Corte di appello di Torino, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale riforma della sentenza emessa il 9/05/2017 dal Tribunale di Torino, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di T.M.A. per essere il reato a lui ascritto estinto per morte dell'imputato e, valutate in regime di prevalenza le già riconosciute circostanze attenuanti, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di P.L.,G.L., B.G., O.G.  e L.E. per essere i reati loro rispettivamente ascritti estinti per intervenuta prescrizione, con caducazione delle statuizioni civili in ragione dell'intervenuta revoca della costituzione di tutte le parti civili.

2. Il Tribunale di Torino, pronunciatosi in relazione a due capi di imputazione, relativi ai reati di omicidio e lesioni personali colpose in danno di lavoratori verificatisi in alcuni stabilimenti del gruppo Pirelli, a causa dell'esposizione a sostanze cancerogene, aveva dichiarate-, per quanto qui interessa:
-G.L. colpevole del reato di cui all'art.589 cod. pen. con riferimento alle pp.oo. Omissis e riconosciute le circostanze attenuanti generiche nonché quelle di cui all'art.62 n.6 cod. pen. equivalenti alla contestata aggravante e applicati gli aumenti di cui all'art . 589, comma 3, cod. pen., lo aveva condannato alla pena di anni due e mesi sei di reclusione;
- B.G. colpevole del reato di cui all'art.589 cod. pen. con riferimento alle pp.oo. Omissis e riconosciute le circostanze attenuanti generiche nonché quelle di cui all 'ar t .6 2 n.6 cod. pen. equivalenti alla contestata aggravante e applicati gli aumenti di cui all'art.589, comma 3, cod. pen., lo aveva condannato alla pena di anni due e mesi cinque di reclusione;
- P.L. colpevole del reato di cui all 'a rt .58 9 cod. pen. con riferimento alle pp.oo. Omissis e riconosciute le circostanze attenuanti generiche nonché quelle di cui all'art.62 n.6 cod. pen. equivalent i alla contestata aggravante e- applicat i gli aumenti di cui all'art . 589, comma 3, co d. pen.; lo aveva condannato alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione;
- O.G. colpevole del reato di cui all'art.589 cod. pen. con riferimento alle pp.oo. Omissis e riconosciute le circostanze attenuanti generiche nonché quelle di cui all'art.62 n.6 cod. pen. equivalenti alla contestata aggravante e applicati gli aumenti di cui all'art.589, comma 3, cod. pen., lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi nove di reclusione;
- L.E. colpevole del reato di cui all'art.589 cod. pen. con riferimento alle pp.oo. Omissis e riconosciute le circostanze attenuanti generiche nonché quelle di cui all'art.62 n.6 cod. pen. equivalenti alla contestata aggravante e applica t i gli aumenti di cui all'art.589, comma 3, cod. pen., lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi nove di reclusione.
Con la condanna di tutti al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, da liquidarsi in separato processo.

3. Le condotte contestate erano da collocarsi cronologicamente fra il 1979 e il 1993. Nello specifico, il capo A) dell 'imputazione contestava agli imputati il reato previsto dagli artt. 113, 81, comma 2, 589, commi 1, 2, 3, cod.pen. per aver cagionato per colpa la morte di 23 lavoratori a causa dell'omessa adozione di tutti i provvedimenti tecnici, organizzativi e procedurali necessari per contenere l'esposizione a sostanze altamente nocive (nello specifico: amianto, talco, IPA e ammine aromatiche), nonché di curare la fornitura e l'effettivo impiego di idonei mezzi personali di protezione, di sottoporre i lavoratori ad adeguato controllo sanitario, di informare i lavoratori stessi circa i rischi specifici dell'ambiente di lavoro. Reato commesso in tre stabilimenti del gruppo industriale Pirelli (nello specifico: lo stabilimento Vettura, lo stabilimento Accessori industriali e lo stabilimento Veicoli Industriali), siti in Settimo Torinese e appartenenti a diverse società del gruppo (come specificato nell'imputazione) nel corso del tempo. Reato aggravato dall'essere il fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e dall'essere stata cagionata la morte di più persone.

4. Gli imputati G.L. e B.G. avevano ricoperto incarichi apicali (consiglieri di amministrazione, direttori generali ed amministratori delegati) nelle società del gruppo, in successione cronologica fra loro, secondo quanto riportato nell'imputazione; gli imputati P.L., O.G. e L.E. avevano ricoperto incarichi dirigenziali (direttori e vicedirettori di stabilimento), nelle società del gruppo, in successione cronologica fra loro, secondo quanto riportato nell'imputazione.

5. Il reato contestato concerneva la morte di alcuni dipendenti deceduti per mesotelioma pleurico, per carcinoma polmonare e per carcinoma uroteliale della vescica. La conclusione alla quale il tribunale era pervenuto era quella di ritenere, in linea con i due precedenti processi «Pirelli» e in applicazione dell'art.238 bis cod. proc. pen. (il primo processo all'epoca definito con sentenza irrevocabile, il secondo definito il 23 gennaio 2019), ere all'interno degli stabilimenti Pirelli si fosse realizzata un'esposizione generalizzata a tutte e tre le noxae (amianto, IPA e ammine aromatièhe) e che tale esposizione avesse avuto rilievo causale nelle patologie oncologiche contratte da moltissimi lavoratori dipendenti. Le prove di tale esposizione erano state tratte dalla descrizione del ciclo produttivo della Pirelli, dal contenuto delle CT Pavan-Romanazzi, dalla relazione dei CC.TT. di parte civile dott. Mara e ing. Thieme, dalla relazione finale 'Progetto Pneumatici' del dott. Riggio con riguardo alla Relazione ARPA 2005- 2007, dalla relazione del CT della difesa ing. Nano, dalle testimonianze dei dipendenti e di loro familiari.


6. La consulenza d'accusa a firma Pavan-Romanazzi, secondo la tesi accolta dalla sentenza, aveva affermato in maniera argomentata e inequivoca la pericolosità degli IPA, da sempre utilizzati nell'industria della gomma e presenti in concentrazione cancerogena negli olii aromatici utilizzati negli stabilimenti Pirelli, delle ammine aromatiche (in particolare, della BNA quale impurezza della PBNA, la quale, dismessa in Pirelli nel 1974, venne utilizzato comunque fino al 1978 in miscela con altri componenti; nonché dell'orto-toluidina, presente nel Vulkanox 3100 in percentuale dello 0,1% ancora nel 1994) e dell'amianto, non utilizzato negli stabilimenti Pirelli come materia prima ma presente nelle coperture in eternit, nelle coibentazioni nella centrale termica, nelle tubazioni che trasportavano fluidi caldi o incanalavano il vapore, nonché per la protezione delle caldaie delle mescole, oltre a comporre numerosi materiali in amianto acquistati dalla Pirelli quantomeno fino agli anni 1988-1989 (corde, coperte, guarnizioni, piastre, pannelli, cartone amianto). Il giudice aveva riconosciuto l'attendibilità delle testimonianze dei dipende nti e dei loro familiari in merito alle condizioni di lavoro, dal momento che coincidevano tra loro e con gli esiti degli altri mezzi di prova. Il tribunale esponeva le ragioni della ritenuta inattendibilità della stima dei livelli di esposizione elaborata dal consulente della difesa ing. Nano nonché dello studio epidemiologico Pira-Negri, svolto in virtù di una Convenzione tra la Pirelli e l'Università degli Studi di Torino rei 2008 ed avente ad oggetto la coorte dei lavoratori maschi di SVE assunti fra il 1954 e il 2008 (ad eccezione di quelli impiegati per meno di 6 mesi). Nella sentenza di primo grado si sviluppavano, poi, in generale i temi del nesso di causalità nei reati colposi, della colpa specifica, delle singole posizioni di garanzia degli imputati nonché delle definizioni condivise in tema di cancerogenesi, del nesso di causa con riguardo al mesotelioma pleurico, per poi esaminarsi i casi dei singoli lavoratori, analogamente procedendo per i casi di carcinoma polmonare e BPCO e per i casi di carcinoma vescicale.

7. La Corte di appello, preso atto della revoca della costituzione di tutte le parti civili e ritenuto che la fattiva resipiscenza degli imputati, attestata dall'intervenuta transazione con le residue parti civili, la loro età avanzata e la notevole risalenza dell'epoca in cui avevano svolto incarichi apicali presso la Pirelli, militassero per un giudizio di prevalenza delle già concesse circostanze attenuanti sulla contestata aggravante, ha accolto la richiesta del Procuratore Generale di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Ripercorso il tracciato motivazionale della sentenza di primo grado, ha motivatamente escluso che dagli atti risultasse evidente l'innocenza degli appellanti, ritenendo che la stessa richiesta della difesa di un approfondimento istruttorio in merito alle patologie di alcune parti lese e in merito alle condizioni ambientali confermasse che la valutazione delle doglianze difensive non poteva limitarsi a una mera attività ricognitiva.

8. G.L., B.G., P.L.,  O.G. ed L.E. hanno proposto ricorso per cassazione, con unico atto, sviluppando tre motivi, più compiutamente illustrati nella parte del «Considerato in diritto»:
- nullità della sentenza ex art.606, comma 1, lett.b) cod. proc. pen. per erronea applicazione della legge penale e delle altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della leg9e penale, e se9natamente per la violazione dell'art.129, comma 2, cod. proc:. pen. con riferimento all'omessa ovvero all'errata applicazione dei criteri di valutazione della non colpevolezza degli imputati e della conseguente errata declaratoria di improcedibilità per intervenuta prescrizione dei reati contestati; e lett.e) per mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine all'accertamento del nesso causale tra esposizione all'amianto e morte per mesotelioma pleurico, risultante dal testo della sentenza impugnata;
- nullità della sentenza ex art.606, comma 1, lett.b) cod. proc. pen. per erronea applicazione della legge penale e delle altre norme, giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale, e segnatamente per la violazione dell'art.12 , comma 2, cod. proc. pen. con riferimento all'omessa ovvero all'errata applicazione dei criteri di valutazione della non colpevolezza degli imputati e della conseguente errata declaratoria di improcedibilità per intervenuta prescrizione dei reati contestati; e lett.e) per mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine all'accertamento del nesso causale tra esposizione all'amianto e altre patologie dell'apparato respiratorio diverse dal mesotelioma e, segnatamente, carcinoma polmonare nelle sue varie forme, nonché patologie dell'apparato urinario;
- nullità della sentenza impugnata ex art.606, comma 1, lett.b) cod. proc. pen. per erronea applicazione della legge penale sub specie ex art.41, comma 1, cod. pen.

9. La difesa ha depositato memoria, sviluppando ulteriormente gli argomenti posti a base delle suindicate censure.

 

Diritto




1. Il primo tema da esaminare concerne l'interesse dei ricorrenti a presentare la presente impugnazione, trattandosi di ricorso proposto avverso il punto della sentenza in cui la Corte di appello, ritenuta la responsabilità penale degli imputati in ordine ai reati loro ascritti al capo A), ha dichiarato non doversi procedere per sopravvenuta estinzione dei reati di omicidio colposo, revocando le statuizioni civili, con riferimento ai lavoratori OMISSIS.
1.2. In generale, si riconosce l'interesse dell'imputato a impugnare una sentenza che non lo proscioglie con la formula più favorevole. Ai fini dell'ammissibilità del ricorso secondo i canoni dell'art.568 cocl. proc. pen., l'atto d'impugnazione deve tuttavia indicare l'interesse concreto, correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare che, in quanto attualmente pregiudizievoli, il ricorrente chiede siano eliminati. Tale interesse può consistere sia nel conseguimento di effetti penali più vantaggiosi (quali ad esempio l'assoluzione o la mitigazione del trattamento sanzionatorio), sia nel perseguimento di conseguenze extrapenali più favorevoli, come quelle che l'ordinamento rispettivamente fa derivare dall'efficacia del giudicato delle sentenze di condanna o di assoluzione nel giudizio di danno (artt. 651 e 652 cod. proc. pen.), dal giudicato di assoluzione nel giudizio disciplinare (art. 653 cod. proc. pen.), e dal giudicato delle sentenze di condanna e di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi •(art. 654 cod. proc. -pen.). In altri termini, se una sentenza penale produce effetti giuridicamente rilevanti in altri campi dell'ordinamento, con pregiudizio delle situazioni giuridiche soggettive facenti capo all'imputato, questi ha interesse a impugnare la sentenza qualora dalla revisione di essa possa derivare in suo favore, in modo diretto e concreto, l'eliminazione di qualsiasi effetto giuridico extrapenale per lui pregiudizievole (Sez. 1, n. 7671 del 05/12/2000, dep. 2001, Patteri, Rv. 218311; Sez. 6, n. 8450 del 17/06/1998, Mazzilli, Rv. 212226). Tale principio interpretativo è stato in passato declinato con sentenza delle Sezioni Unite nel senso dell'insussistenza di un interesse concreto all'impugnazione della sentenza assolutoria ai sensi dell'art.530, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, dep.1996, Fachini, Rv. 203762), posto che in tal caso la formula del dispositivo non potrebbe mutare e che la motivazione che mostri perplessità sull'innocenza dell'imputato non lede posizioni soggettive giuridicamente rilevanti. Successivamente, pur confermandosi il criterio interpretatvo espresso nella sentenza Fachini, si è nel tempo precisato: che l'interesse dell'imputato a impugnare la sentenza di assoluzione emessa ai sensi dell'art. 530, comma 2, cod. proc. pen. va valutato in concreto (Sez. 5, n. 40826 del 21/09/2004, Belluomini, Rv. 230112, in un caso in cui era pendente l'accertamento del reato di calunnia contestato alla parte offesa); che sussiste l'interesse giuridico dell'imputato all'impugnazione della sentenza di assoluzione, pronunciata con la formula «perché il fatto non costituisce reato», al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria «perché il fatto non sussiste» (Sez. 4, n. 46849 del 03/11/2011, Di Carlantonio, Rv. 252150) in ragione dei diversi e più favorevoli effetti che gli artt. 652 e 653 cod. proc. pen., connettono al secondo tipo di dispositivi nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare (Sez. 5, n. 29377 del 29/05/2019, Mussari, Rv. 276524); che sussiste l'interesse dell'imputato all'impugnazione della sentenza di assoluzione, pronunciata con la formula «perché il fatto non costituisce reato», al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria «perché il fatto non sussiste», allorquando egli deduca che l'accertamento del fatto materiale oggetto del processo penale possa pregiudicare le situazioni giuridiche soggettive a lui facenti capo in giudizi civili e amministrativi, anche distinti rispetto a quelli di danno, ovvero disciplinari (Sez. 4, n. 49710 del 04/11/2014, Di Cuonzo, Rv. 261178).
1.3. Nel caso concreto, alla declaratoria di estinzione dei reati di omicidio colposo in danno dei lavoratori dipendenti del gruppo Pirelli, la Corte territoriale è pervenuta per effetto della concessione delle circostanze attenuanti di cui agli artt.62 n.6 e 62 bis cod. pen. con giudizio di prevalenza, dunque previo accertamento della sussistenza del fatto e della colpevolezza degli imputati. L'accertamento della responsabilità penale costituisce, infatti, l'indefettibile antecedente logico-giuridico per accedere al momento decisionale attinente all'irrogazione della pena e, in quest'ambito, alla verifica della sussistenza di eventuali circostanze attenuanti, determinando l'interesse dei ricorrenti nei termini sopra indicati.

2. Va precisato, tuttavia, che il principio in base al quale sussiste un interesse dei ricorrenti a ottenere una sentenza irrevocabile di assoluzione, qualora sia impugnata la sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, deve conciliarsi con il disposto dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., che consente al giudice di accedere alla pronuncia di proscioglimento nel merito esclusivamente qualora, pur ricorrendo la causa estintiva del reato, risulti «evidente» l'innocenza dell'imputato.
2.1. La prima conseguenza di tale disposizione è l'inapplicabilità della regola di cui all'art.530, comma 2, cod. proc. pen. (e del correlato princìpio dettato dall'art.533, comma 1, cod. proc, pen.) in presenza di una causa estintiva di reato. In tale situazione al giudice non è consentito equiparare la prova incompleta alla mancanza di prova, né compiere attività ulteriori rispetto alla mera constatazione (Sez. 6, n. 27725 del 22/03/2018, Princi, Rv. 273679), prevalendo la regola dettata dall'art. 129, comma 1, cod. proc. pen., che esprime il principio di economia processuale. E' stato, in proposito, argomentato che la «evidenza» richiesta dall'art. 129, comma 2, cit. presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara, manifesta e obiettiva da rendere superflua ogni altra dim ost razione , e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova, che richiede Jn apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (Sez. 1, n. 43853 del 24/09/2013, Giuffrida, Rv. 258441; Sez. 4, n. 23680 del 07/05/2013, Rizzo, Rv. 256202; Sez. 2, n. 9174 del 19/02/2008, Palladini, Rv. 239552). Tale regola cede il passo alla possibilità per il giudice di pervenire al proscioglimento nel merito, quindi al principio secondo il quale il processo penale deve tendere all'accertamento della verità, qualora il giudice dell'impugnazione sia comunque tenuto ad esaminare funditus il tema della responsabilità dell'imputato per la presenza nel processo della parte civile ovvero nel caso in cui il giudice di appello ritenga infondato nel merito l'appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado resa ai sensi dell'art. 530, comma 2, cod. proc. pen. (Sez.U, n. 35490 del 28/05/2009, Tett am ant i, Rv. 244275).
2.2. Ulteriore conseguenza della disposizione in esame, consacrata nella sentenza delle Sezioni Unite Tettamanti, è l'inammissibilità in sede di legittimità dei motivi di ricorso ch·e denuncino vizi di motivazione della sentenza impugnata tali da comportare un annullamento con rinvio, in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez.5, n.588 del 04/10/2013, dep. 2014, Zambonini, Rv. 258670).
2.3. In ogni caso, la tutela del diritto dell'imputato all'accertamento della sua innocenza è garantita, da un lato, dalla medesima disposizione dettata dall'art.129, comma 1, cod. proc. pen., che impone l'immediata pronuncia della sentenza non solo al ricorrere di una causa di non punibilità in senso stretto ma anche quando il giudice riconosca che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso e, dall'altro, dalla facoltà, riconosciutagli dall'art.157 cod. pen. come integrato dal Giudice delle leggi, di rinunciare alla causa estintiva (la Corte Costituzionale, con sent.n.275 del 23 maggio 1990, ha sottolineato come detta rinunciabilità debba considerarsi strumento efficace per l'esplicazione del diritto di difesa ai fini del perseguimento dell'interesse morale ad un'assoluzione con formula piena).

3. Si può, dunque, affermare che, qualora l'imputato, senza aver rinunciato alla prescrizione, proponga appello o ricorso per cassazione avverso la sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, è tenuto, a pena di inammissibilità, a dedurre specifici motivi a sostegno della ravvisabilità in atti, in modo evidente e non contestabile, di elementi idonei ad escludere la sussistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte sua e la configurabilità dell'elemento soggettivo del reato, affinché possa immediatamente pronunciarsi sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129, comma 2,, cod. proc. pen., ponendosi così rimedio all'errore circa il mancato riconoscimento di tale ipotesi in cui sia incorso il giudice della sentenza impugnata (Sez. 4, n. 8135 del 31/01/2019, Pintilie, Rv. 275219; con riguardo all'appello Se:z. 3, n. 46050 del 28/03/2018, M., Rv. 274200). La deduzione di specifici motivi nel senso indicato nelle massime è, in tal caso, anche funzionale ad evidenziare l'interesse dell'impugnante a conseguire l'unico possibile esito decisorio, più favorevole, consentito dalla legge.

4. In merito ai precedenti della Corte di legittimità richiamati nel primo motivo di ricorso a sostegno dell'evidenza della prova dell'insussistenza del fatto (omicidio colposo per mesotelioma) o della non attribuibilità di esso agli imputati, va premesso che «il riscontro singolare mai può essere affidato dai giudici di merito al richiamo dell'auctoritas delle sentenze del giudice di legittimità. Il precedente giurisprudenziale non costituisce il nomos in tema di sapere scientific0» (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, in motivazione). Si osserva, dunque, quanto segue.

4.1. Secondo i ricorrenti l'accertamento della causalità individuale per decessi da mesotelioma si trova confinato tra due 'colonne d'Ercole' costituite dalla necessità di individuare i termini (inizio e fine) dell'induzione, definendone l'ambito temporale. La necessità di una puntuale motivazione circa l'individuazione dell'inizio e della fine dell'induzione sarebbe, secondo i ricorrenti, desumibile da Sez.4, n.12175/2017. Ma va precisato che la sentenza Bordogna (Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017') risulta aver posto in discussione il fondamento scientifico della teoria del c.d. effetto acceleratore delle plurime esposizioni all'agente nocivo, mentre con specifico riguardo al l'individuazione dei termini di inizio e fine del periodo d'induzione ha indicato al giudice di appello l'obbligo di motivazione rafforzata in caso di riforma di una sentenza assolutoria di primo grado, affrontando il tema della motivazione sul presupposto che il giudice di appello avesse «creato» il dato scientifico, limitandosi ad affermare, con specifico riguardo al tema del periodo d'induzione, che il giudice avrebbe dovuto indicare su quali basi scientifiche avesse fatto coincidere l'inizio del periodo d'induzione con l'inizio dell'esposizione all'agente nocivo (pag.49) ovvero
il termine del periodo di induzione con l'inizio della latenza clinica stimata in dieci anni. Da tale pronuncia non è, dunque, desumibile un criterio interpretativo dal quale possa discendere, nel presente giudizio, l'evidenza dell'innocenza degli imputati, valendo piuttosto il diverso criterio, pur desumibile dalla sentenza citata, secondo il quale «il postulato della incidenza di ciascuna esposizione (ovvero dose inalata) non è sufficiente a risolvere il problerna causale quando durante il periodo di esposizione rilevante sia necessario distinguere sub-periodi in dipendenza dell'avvicendarsi di diversi garanti, perché in tal caso è necessario poter affermare che proprio nel sub-periodo in considerazione si è determinata (l'insorgenza o) la ulteriore evoluzione del processo morboso>,. L'ampio margine di tempo intercorso tra la cessazione dell'esposizione e la diaç1nosi, da un lato, e tra l'inizio e la fine dell'esposizione, dall'altro, nel caso di specie, per tutti i lavoratori deceduti per mesotelioma è infatti ampiamente sufficiente a render ragione dell'affermata correlazione causale tra la patologia e il sub-periodo di esposizione riconducibile agli imputati o, in ogni caso, ad escludere l'evidenza della prova che in ciascuno di tali sub-periodi la condotta ascritta agli imputati non abbia avuto efficienza causale sul decesso dei lavoratori.
4.2. Nel ricorso si sostiene, altresì, l'indefettibile esigenza della cronologia dell'evento, così da ritenere errata la valutazione della latenza clinica procedendo a ritroso dalla diagnosi, mediante l'improprio ricorso al termine temporale della latenza minima di dieci anni calcolato secondo i cc.dd. criteri di Helsinki senza indicazione della relativa base scientifica. Viene richiarnata la sentenza n.16715/2018. Tuttavia, il Collegio ritiene che dai principi enunciati nella pronuncia indicata (Sez. 4, n.16715 del 14/11/2017, dep.2018, Cirocco, Rv. 273095) non possa desumersi un criterio interpretativo idoneo a dimostrare l'evidenza della prova dell'innocenza degli imputati fondata sulla lacuna conoscitiva in ordine all'esatta identificabilità cronologica delle diverse fasi del processo oncogeno.
4.2.1. Deve, in primo luogo, sgombrarsi il campo dall'asserita sovrapposizione concettuale tra periodo di latenza vera e periodo di latenza minima; tale sovrapposizione, censurata nella sentenza Cirocco con riferimento alla sentenza ivi impugnata, è assente nel ragionamento dei giudici di merito nel presente processo. Secondo quanto si evince dalla motivazione offerta alle pagg.51 segg. della sentenza di primo grado , il giudice ha recepito la teoria c.d. multistadio in quanto maggiormente accreditata dalla comunità scientifica, correlata al rilievo secondo il quale vi è proporzione tra il periodo di esposizione all'asbesto e incidenza dei casi di mesotelioma pleurico; ha, poi, chiarito di accogliere la tesi espressa alla III Consensus Conference, secondo la quale non vi è dose cumulativa al di sotto della quale il rischio sia inesistente; ha ritenuto di valutare in 15 anni il periodo di latenza vera. Sebbene a pag.52 della sentenza si sia correlato quest'ultimo concetto di latenza all'«inizio dell'esposizione», è evidente che si tratti di un refuso, sia perché nella proposizione immediatamente precedente si è affermata l'insussistenza di una latenza minima, sia perché nell'esame dei singoli casi di mesotelioma (cfr. pagg.55,57) il periodo di 15 anni è stato riferito all'intervallo intercorrente tra la diagnosi e, a ritroso, il termine della fase d'induzione.
4.2.2. Con la sentenza Cirocco, la Corte di Cassazione, dopo aver richiamato l'attenzione sulla relazione esistente tra sapere scientifico veicolato nel processo dagli esperti, vaglio critico spettante al giudice di merito, controllo di razionalità della decisione spettante al giudice di legittimità nonché onere probatorio gravante sulle parti, ha in primo luogo rammentato che in una precedente decisione si era detto che la razionalità del giudizio di responsabilità penale fondato su una tesi scientifica si regge essenzialmente sul fatto «che la legge di copertura sulla quale è assisa l'impostazione accusatoria sia riconosciuta dalla comunità scientifica come quella maggiormente accreditata» (Sez. 4, n. 55005 del 10/11/2017, Pesenti, Rv. 271718). Con specifico riguardo alla causalità individuale, dopo aver ritenuto razionale la valutazione dei giudici di merito circa il consenso scientifico raggiunto dalla tesi della relazione tra dose e incidenza dei casi di mesotelioma, nella pronuncia si legge che «In questa sede non è in questione l'adozione da parte della Corte di appello della teoria della dose­ dipendenza, della cancerogenesi multistadiale e della natura dell'amianto di cancerogeno completo, perché assunti non investiti da specifiche censure da parte dei ricorrenti», essendo invece oggetto di valutazione l'applicazione da parte del giudice di appello della tesi del c.d. effetto acceleratore senza indicazione delle fonti dalle quali si possa desumere che si tratti di tesi maggiormente accreditata nella comunità scientifica. Sempre in merito all'applicabilità della tesi del c.d. effetto acceleratore nell'accertamento della causalità individuale, la pronuncia in esame ha affermato che «con specifico riferimento alle patologie asbesto-correlate, questa Corte ha precisato che anche quando non sia in discussione che l'amianto sia causa di mesotelioma, che esiste una correlazione tra l'entità dell'esposizione ed il rischio di ammalarsi e persino quando si assume che ogni esposizione ricadente nel periodo di induzione ha incidenza sul processo cancerogenetico, deve essere tenuto presente che il postulato della incidenza di ciascuna esposizione (ovvero dose inalata) non è sufficiente a risolvere il problema causale quando durante il periodo di esposizione rilevante sia necessario distinguere sub-periodi in dipendenza dell'avvicendarsi di diversi garanti, perché in tal caso è necessario poter affermare che proprio nel sub-periodo in considerazione si è determinata (l'insorgenza o) la ulteriore evoluzione del processo morboso. Tanto chiama in causa innanzitutto la natura - universale o probabilistica - della legge di spiegazione causale utilizzata. Ove si tratti di legge probabilistica, poiché l'effetto acceleratore non si verifica in tutti i casi, il giudice è tenuto ad individuare i segni fattuali che permettono di affermare che in ciascuno dei differenti periodi - definiti dall'avvicendarsi degli imputati nel ruolo di garante - si è prodotto l'effetto in via teorica possibile». Con la conclusione che la sentenza di merito non avesse fatto buon governo dei criteri interpretativi dettati dal giudice di legittimità, essendosi la Corte di appello «limitata a porre in relazione tra loro l'esistenza di un'esposizione all'amianto nel periodo di interesse per gli imputati ai quali è ascritto il delitto, il 'rispetto' della durata del periodo di latenza vera e la durata della latenza convenzionale» pur invocando l'operatività nel caso concreto dell'effetto acceleratore.
4.2.3. Nel caso degli stabilimenti Montedison, il tribunale aveva fondato il proprio giudizio sulla tesi scientifica secondo la quale la durata media della latenza convenzionale (periodo intercorrente tra inizio dell'esposizione in Montedison e manifestazione clinica della patologia) è nell'ordine di 35-40 anni, in un range che va da 20 a 70 anni, anche se sono riportati in alcuni lavori scientifici rari casi di mesotelioma con latenze inferiori (10-15 anni); mentre la latenza biologica (o latenza vera, che va dal completamento del processo patogenetico alla sua evidenza clinica) sarebbe di circa tre anni nei tipi più aggressivi e di circa 8-12 anni negli altri casi, ai quali riconduceva il mesotelioma.

4.2.4. Anche nel processo Cirocco ricorrenti avevano contestato l'affermazione per la quale il periodo di progressione (ovvero di latenza vera), quello che va dal completamento del processo patogenetico alla sua evidenza clinica, avrebbe una durata di dieci anni, ritenendo illogico stabilire la durata di un periodo di cui non si conosce l'inizio (ossia la data di completamento della cancerogenesi). Ma la Corte ha ritenuto corretta l'indicazione del periodo di latenza vera sulla base di osservazioni epidemiologiche, a fronte della mancata allegazione da parte della difesa della decisività della esatta definizione, per la posizione di uno o più degli imputati, del momento di cessazione della fase di induzione: «Infatti è chiaro che quando si danno tempi tra la fine dell'esposizione e il decesso ben superiori a quel termine, la questione ha rilievo solo astratto». Ed è proprio tale punto della pronuncia che occorre porre in evidenza, giacchè i quattro lavoratori deceduti per mesotelioma pleurico avevano cessato la loro attività alle dipendenze della Pirelli 29 anni (Omissis), 13 anni (Omissis), 24 anni (Omissis), 25 anni (Omissis) prima del decesso.
4.2.5. Ogni riferimento a tale pronuncia, per come esposta, risulta dunque ininfluente sul presente giudizio, sia perché nelle fasi di merito i giudici hanno indicato per quali ragioni l'indagine sull'inveramento nel caso concreto della legge di copertura statistica, in relazione alla posizione di garanzia degli imputati (G. per il periodo '79-'83, B.G. per il periodo '79-'84, P.L. per il periodo '79-'82, T.M.A. per il periodo '81-'86) avesse dato esito positivo, sia perchè il compito della difesa non era, nel presente giudizio, per quanto detto, quello di instillare il dubbio sulla fondatezza del giudizio di responsabilità penale, quanto piuttosto quello di mettere in luce l'evidenza della prova dell'innocenza dell'imputato.
4.3. Anche il richiamo alla sentenza resa dalla Corte di legittimità nel processo relativo a lavoratori dipendenti del Gruppo Olivetti di Ivrea (Sez.4 n.43665 del 8/10/2019, Alzati, non massimata), dalla quale si vorrebbe desumere il principio secondo il quale «la causalità del mesotelioma rispetto a condotte individuali che coprano solo una frazione dell'attività lavorativa segnata dall'esposizione non può essere accertata al di là di ogni ragionevole dubbio sulla scorta delle conoscenze scientifiche attualmente disponibili in tema di cancerogenesi» (pag.15 del ricorso), risulta inesatto. In quel procedimento, la Corte territoriale aveva ritenuto non raggiunta la prova, in ragione del contrasto esistente in ambito scientifico, circa il c.d. effetto acceleratore della protrazione dell'esposizione dopo la c.d. iniziazione del processo carcinogenetico, così rilevando le ricadute sulla causalità individuale di studi non pacificamente condivisi nella comunità scientifica a proposito dell'esatta tempistica con cui si susseguono gli eventi mutageni (teoria multistadio). La Corte di Cassazione si è, in quel contesto, limitata ad accertare la correttezza del percorso metodologico seguito dalla Corte territoriale, pervenuta all'assoluzione degli imputati sulla base della carenza di prove, valutata caso per caso, talora in merito alla stessa esposizione del lavoratore all'amianto, talora in merito all'incidenza causale di condotte del datore sopravvenute a lunghi periodi di esposizione presso il medesimo o presso altri luoghi di lavoro. Non è, pertanto, in alcun modo possibile desumere da tale pronuncia il principio secondo il quale deve essere esclusa, in ogni caso, la possibilità di accertare, sulla scorta delle conoscenze scientifiche attualmente disponibili, la causalità individuale 1·ispetto a condotte che coprano solo una frazione dell'attività lavorativa segnata dall'esposizione.
4.3.1. Con specifico riferimento al tema in esame, va in primo luogo ricordato come la giurisprudenza della Corte di legittimità (Sez.4, n.5273 del 21/09/2016, dep. 2017, Ferrentino, in motivazione; Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Bordogna, in motivazione) abbia via via delineato la distinzione concettuale tra la correlazione che esiste tra l'esposizione all'agente nocivo e la maggiore incidenza dei casi di mesotelioma (teoria della dose­ risposta), da un lato, e tra l'assenza di certa correlazione che esiste tra esposizione e durata del periodo di latenza clinica, dall'altro, ravvisando forti contrasti nella comunità scientifica circa la sostenibilità della tesi del c.d. effetto acceleratore. Con la conseguenza pratica, per il giudice di merito, di dover escludere il nesso di causalità per le condotte di quel datore di lavoro che abbia escluso o ridotto l'esposizione allorchè era ancora in corso il periodo di induzione, data la diretta incidenza dell'esposizione sulla possibilità di contrarre la malattia, e d'altro canto di dover escludere il rapporto di causalità per le condotte di quel datore di lavoro che abbia esposto il lavoratore in periodi ravvicinati alla diagnosi, sul presupposto che la maggiore esposizione non riduce il periodo di latenza clinica.
4.3.2. In un'altra pronuncia si è attribuita alla stima in dieci anni del periodo di latenza clinica la rilevanza di una legge di tipo statistico, con coefficiente elevato di probabilità, fatta propria da esperti i cui pareri, veicolati in differenti procedimenti, sono stati recepiti dai giudici in sentenze, le cui argomentazioni hanno ricevuto l'avallo del giudice di legittimità (Sez. 4, n.33311 del 24/05/2012, Ramacciotti, Rv. 255585 - 01).
4.3.3. Deve, poi, essere richiamata la sentenza pronunciata con riferimento ai lavoratori dipendenti della Italcantieri s.p.a. di Monfalcone (Sez. 4, n.22022 del 22/02/2018, Tupini, Rv. 273586 - 01) in replica alle deduzioni difensive secondo le quali, con specifico riferimento all'esistenza di una legge di copertura relativa alla durata del periodo di induzione, partendo dal dato incontestato che l'esposizione successiva a tale periodo non ha alcuna efficienza causale, era stata dedotta l'assenza di un legge scientifica che spieghi quando, per ogni singola persona, si sia concluso il periodo di induzione, contestando l'affermazione, priva di basi scientifiche, secondo la quale la latenza clinica avrebbe una durata media di dieci anni, cosicché tutte le esposizioni fino a dieci anni prima della diagnosi avrebbero sempre effetto. In questa pronuncia, la Corte di legittimità ha ribadito che l'epidemiologia in ambito biomedico fornisce di frequente informazioni inerenti «a leggi scientifiche che affermano relazioni causali a contenuto probabilistico, che non si manifestano cioè immancabilmente, essendoci solo un incremento della probabilità degli effetti. Come già affermato da questa sezione, l'epidemiologia è nata proprio per condurre con metodo scientifico la verifica critica in ordine alla fondatezza dell'ipotesi eziologica basata sul dato statistico costituito dall'incremento di probabilità. Il che, da un punto di vista epistemologico, ha sicuramente rilevanza, seppure a determinate condizioni. E' corretto affermare, sul piano della causalità generale, che un evento è causa di un altro se all'apparire del primo segue con un'alta probabilità l'apparire del secondo e non vi è un terzo elemento che annulla il significato causale della relazione probabilistica. In altri termini, l'enunciato scientifico generale sulle proprietà oncogene di una sostanza non è ancora sufficiente nel ragionamento probatorio, dovendo il giudice vagliare la pertinenza di tale informazione nel caso concreto sottoposto al suo vaglio, momento che segna il passaggio dalla causalità generale a quella individuale (cfr., in motivazione, Sez. 4 n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943). Peraltro, come ben evidenziato nella pronuncia richiamata, l'utilizzabilità di generalizzazioni probabilistiche era già stata riconosciuta dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Sez. U. n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese) che avevano considerato utopistico un modello di indagine affidato esclusivamente alla forza esplicativa di leggi universali o quasi». Tale richiamo appare essenziale per replicare all'argomento difensivo per cui, proprio a sostegno dell'evidenza della prova dell'innocenza dei ricorrenti, si pretenderebbe di escludere la validità di ogni giudizio riguardante la causalità individuale in quanto fondato sulle attuali conoscenze scientifiche in tema di cancerogenesi non concretantisi in leggi universali o quasi.
4.3.4. A ciò si aggiunga che nel ricorso non sono rinvenibili specifiche allegazioni tendenti al, pur necessario, dettagliato confronto con le argomentazioni svolte dai giudici di merito a proposito dei singoli casi nei quali i giudici hanno escluso l'evidenza dell 'estraneità delle posizioni degli indagati in correlazione al decesso di ciascun lavoratore. Va, in proposito, rammentato che l'individuazione del c.d. failure time, momento d'irreversibilità del processo carcinogenetico che rende irrilevanti le ulteriori esposizioni e, quindi, non produttive di responsabilità le condotte riconducibili alle posizioni coincidenti esclusivamente con tale periodo, soccorrerebbe per spiegare la sussistenza del nesso causale nei casi, diversi da quello in esame, nei quali il mancato controllo delle polveri velenose abbia riguardato un arco temporale non significativo e vi siano stati, in quel periodo, avvicendamenti nelle posizioni di garanzia. E proprio la sentenza Tupini ora richiamata ha precisato che «il fatto che non sia scientificamente possibile accertare l'inizio della c.d. latenza clinica non determina, come pure sostenuto dalle difese in appello e ribadito, con argomentazioni in fatto, anche in questa sede, l'impossibilità di radicare un giudizio sicuro di responsabilità penale: gli studi a base epidemiologica, i cui esiti sono stati veicolati nel processo da un team di consulenti, hanno infatti dimostrato che la durata media della latenza biologica non cambia a basse o alte esposizioni e che essa ha una durata di dieci anni (con possibilità di aumento di uno/due). Ma, nel caso in esame, la Corte di merito, evidentemente conscia delle conseguenze di un giudizio su base statistica, ha opportunamente precisato che, anche a voler aumentare il periodo della metà (raggiungendosi così un tempo di latenza biologica di quindici anni), ciò non avrebbe avuto alcuna influenza in ordine alla posizione di garanzia ricoperta da ciascun imputato, essa rimanendo ampiamente al di qua del tempo convenzionale individuato, con ciò fornendo una spiegazione del tutto logica e razionale del rigetto delle obiezioni difensive, coerente anche con il principio secondo cu i la spiegazione causale non deve riguardare tutti gli anelli del processo eziologico, ma solo accertare che la condotta umana considerata sia condizionante, cioè ineliminabile, ai fini della spiegazione dell'evento, in tutti gli ipotizzati e possibili processi causali [cfr. sez. 4 n. 988 del 2003, Macola, cit.; n. 22147 dell ' ll / 02/ 201 6, Rv. 266858; n. 22165 dell'11/04/2008, Rv. 240517; n. 40924 del 02/10/2008, Rv. 241335; n. 38991 del 10/06/2010, Quaglieri (stabilimento Montefibre dì Verbania-Pallanza), Rv. 248851; n. 24997 del 22/03/2012, Pittarello, Rv. 253303; n. 33311 del 24/05/2012, Ramacciotti (stabilimento di Porto Marghera, dopo il giugno 1984 gestito da Fincantieri Breda S.p.A.), Rv. 255585) ».

5. Esaminando, dunque, la motivazione offerta dai giudici di merito al fine di corroborare l'ipotesi della causalità individuale, dopo aver ritenuto accreditata l'opzione scientifica prudenziale che data il termine della fase di induzione calcolando «a ritroso» quindici anni dalla diagnosi, i giudici di primo grado hanno così ragionato:
- p.o. G.G., deceduta il 9 maggio 2010 con diagnosi certa del maggio 2008 dopo aver lavorato presso lo stabilimento Pirelli Vettura dal 1951 al 198-1, già esposta in precedenza presso Bergougnan/Superga dal 1946 al 1951, vittima di condotte causalmente ascrivibili a G.L. per il periodo dal 1979 al 1983, B.G. per il periodo dal 1979 al 1984 e P.L. per il periodo dal 1979 al 1982. Il tribunale ha ritenuto che, anche a voler attribuire valore di concausa alle esposizioni presso altro stabilimento, i 30 anni trascorsi alle dipendenze della Pirelli avessero avuto efficacia causale e che le condotte ascrivibili agli imputati nei periodi sopra indicati fossero inquadrabili tutte all'interno della fase di induzione;-
- p.o. N.P. deceduto il 23 marzo 2009 con diagnosi certa dell'11 aprile 2006 dopo aver lavorato presso lo stabilimento Pirelli Vettura dal 1969 al 1996, vittima di condotte causalmente ascrivibili a G.L. per il periodo dal 1979 al 1983, B.G. per il periodo dal 1979 al 1984 e Penne, per il periodo dal 1979 al 1982 (e T.M.A. per il periodo dal 1981 al 1986). Il tribunale ha ritenuto che i 27 anni trascorsi alle dipendenze della Pirelli avessero avuto efficacia causale e che le condotte ascrivibili agli imputati nei periodi sopra indicati fossero inquadrabili tutte all'interno della fase di induzione;
- p.o. R.D.L. deceduto il 21 settembre 2010 con diagnosi certa del 25 novembre 2009 dopo aver lavorato presso lo stabilimento Pirelli Azienda Torino poi Pirelli Articoli e Accessori Industriali e infine Pirelli Componenti Auto dal 1955 al 1986, vittima di condotte causalmente ascrivibili a O.G. per il periodo dal 1976 al 1979,G.L. per il periodo dal 1979 al 1983, B.G. per il periodo dal 1979 al 1984. Il tribunale ha ritenuto che, anche a voler valutare le concause per esposizioni subite in lavori precedenti tra il 1946 e il 1955, gli oltre 30 anni trascorsi alle dipendenze della Pirelli avessero avuto efficacia causale e che le condotte ascrivibili agli imputati nei periodi sopra indicati fossero inquadrabili tutte all'interno della fase di induzione;
- p.o. C.L. deceduto il 12 gennaio 2011 con diagnosi certa dell'ottobre 2009 dopo aver lavorato presso Pirelli Vettura dal 1969 al 1986 e presso Sicma dal 1962 al 1966 come operaio addetto alla rimozione e installazione di coibentazioni spesso operante presso Pirelli, vittima di condotte causalmente ascrivibili a G.L. per il periodo dal 1979 al 19:32, B.G. per il periodo dal 1979 al 1982, P.L. dal 1979 al 1982 (e T.M.A. dal 1981 al 1986). Il tribunale ha ritenuto che, anche a voler valutare le concause per esposizioni subite presso Sigma, l'estensione del periodo di esposizione alle dipendenze della Pirelli avesse avuto efficacia causale e che le condotte ascrivibili agli imputati nei periodi sopra indicati fossero inquadrabili tutte all'interno della fase di induzione.
Non essendo stati dedotti indici di falsificazione degli argomenti posti a sostegno della decisione tali da imporre al giudice di appello la pronuncia ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., in particolare non essendovi evidenza della fallacia dell'applicazione dei risultati epidemiologici alle occorrenze dei casi di specie, correttamente la Corte territoriale è pervenuta alla declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione, così che il primo motivo di ricorso deve ritenersi infondato e va rigettato.

6. Il secondo e il terzo motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente. Con tali doglianze le difese assumono l'avvenuta violazione dell'art.129, comma 2, cod. proc. pen. e dell'art.41, comma 1, cod. pen., nonchè il vizio di motivazione laddove il giudice di appello ha dichiarato l'improcedibilità dell'azione penale per intervenuta prescrizione dei reati inerenti al decesso dei lavoratori OMISSIS per patologie polmonari asbesto-correlate nonché dei lavoratori OMISSIS per patologie vescicali.
6.1. Trattandosi di patologie ad eziologia multifattoriale, secondo le difese i giudici avrebbero dovuto sviluppare l'indagine circa la causalità individuale per ciascun lavoratore, sia escludendo che ciascuna delle concause accertate non sarebbe stata da sola sufficiente a determinare l'evento, sia accertando quale fattore oncogeno avesse agito nel caso concreto sulla base delle prove disponibili. Nel ricorso si critica l'utilizzo del criterio della concausalità per nascondere l'impossibilità di discernere l'effettivo percorso causale in presenza di più fattori tutti egualmente capaci di per sé soli di determinare l'evento.
6.2. In particolare, con riguardo al tumore polmonare, fonti aperte del Ministero della Salute affermano che 8 o 9 casi di tale patologia su 10 sono dovuti al fumo di sigaretta; con riguardo al tumore vescicale, le cause si individuano nel fumo di sigaretta, nell'esposizione professionale e in numerose altre ipotesi causali; più in generale, anche per i lavoratori non fumatori (OMISSIS) è sempre necessaria la prova che, nel singolo caso, la coorte dei lavoratori esposti abbia manifestato un eccesso di casi rispetto alla popolazione in generale, laddove nel presente processo solo la difesa ha prodotto due indagini epidemiologiche che escludono detto eccesso. L'ipotesi dell'operatività sinergica dell'esposizione con altri fattori causali, in quanto fondata su leggi scientifiche di tipo probabilistico, non risolverebbe, secondo le difese, il tema della causalità individuale. Sarebbe errata in diritto la sentenza nella parte in cui ha anteposto le conseguenze giuridiche di un fatto all'accertamento nel caso concreto delle cause dell'evento.

7. Le censure si rivelano inammissibili laddove investono la razionalità del contesto giustificativo della decisione lamentando un omesso approfondimento istruttorio che, a fronte dell'intervenuta prescrizione dei reati, sarebbe stato comunque precluso al giudice di merito. Come già evidenziato dalla Corte territoriale a pag. 32, sono stati addotti dal giudice di primo grado plurimi elementi in ordine alle condizioni di diffusa dispersione di agenti nocivi nell'intero ambiente di lavoro e alla inadeguatezza o assenza dei presìdi necessari per evitare tale dispersione; avendo la stessa difesa addotto nell'atto di appello la necessità di un approfondimento peritale relativo alle patologie sofferte da alcune parti lese e l'acquisizione dei c.d. studi Boniol in merito alle condizioni ambientali, i giudici di merito hanno correttamente evidenziato la pacifica incompatibilità della necessità di approfondimenti istruttori con il concetto di evidenza della prova dell'innocenza degli imputati.

8. Il vizio di violazione di legge, dedotto sulla base della asserita evidente erroneità del giudizio inerente al nesso di causa tra le condotte dei ricorrenti e le patologie riportate dai lavoratori sopra indicati, merita tuttavia apposito esame per le ragioni già esposte al par. l e per il rilievo che le leggi di copertura scientifica da porre a base del ragionamento inferenziale per i casi di decesso da mesotelioma sono differenti da quelle che regolano l'ez iologia delle altre neoplasie, non essendo dubbio che i processi cancerogenetici siano ascrivibili anche a comportamenti individuali, quali il tabagismo. Giova anche ricordare che nel documento finale della Consensus Conference di Helsinki del 1997, si è riconosciuto che «a causa dell'elevata incidenza del tumore al polmone nella popolazione generale non è possibile dimostrare nel singolo individuo, in termini deterministici precisi, che l'asbesto sia il fattore causale, anche quando è presente un quadro di asbestosi».
Si tratta, tuttavia, di censura infondata.
8.1. Il giudice di primo grado aveva premesso il dato scientifico introdotto in giudizio dall'esperto dott. Calisti (consulente del pubblico ministero), che aveva attribuito autonoma efficienza causale in relazione al carcinoma bronchiale ovvero polmonare ad agenti nocivi quali l'amianto e gli IPA (idrocarburi policiclici aromatici), riferendo che i segni e i sintomi clinici dei cancri asbesto-correlati non differiscono da quelli dei cancri causati da altri fattori ma che l'incidenza sui casi di tumore polmonare aumenta proporzionalmente all'esposizione e che il nesso di causa deve correlarsi a tempi di latenza minimi di 10-15 anni, sempre che si tratti di lavoratori impiegati nell'industria estrattiva dell'amianto. Con riguardo ai lavoratori della gomma, era stato esaminato lo studio di Nutt (1983) che non evidenziava particolari rischi se non laddove fossero presenti fumi di gomma calda. Con riguardo agli IPA, era stata indicata una correlazione causale tra esposizione e neoplasie della laringe, del polmone, della cute, della vescica urinaria, a prescindere da soglie minime di esposizione; problematica era, tuttavia, la particolare incidenza dell'esposizione ad IPA dovuto al fumo di sigaretta. Pur avendo il consulente del pubblico ministero parlato di «effetto moltiplicativo» del fumo di sigaretta, il giudice aveva prudenzialmente escluso il nesso di causa laddove fosse emersa una consistente abitudine al fumo del lavoratore. Non era assente, in quella pronuncia, la valutazione della causalità individuale:
- p.o. DC.F., deceduto il 5 agosto 2008 per carcinoma polmonare, aveva lavorato presso Pirelli Veicoli Industriali dal 1984 al 1994 con esposizione certa ad amianto ed IPA sino al 1988 e con esposizione certa ad IPA nel periodo successivo; non trattandosi di fumatore e considerato il tempo di esposizione significativo secondo la letteratura scientifica, è stato ritenuto con elevato grado di credibilità razionale che il tumore fosse riconducibile causalmente all'esposizione professionale presso la Pirelli, valutata anche la risalenza nel tempo delle esposizioni presso altri stabilimenti in relazione ad una malattia che non ha tempi di latenza così lunghi;
- p.o. S.D., deceduto il 29 agosto 2008 per carcinoma polmonare, aveva lavorato presso Pirelli Articoli e Accessori Industriali dal 1970 al 1972 come addetto allo scarico delle mescole preparate e presso Pirelli Vettura dal 1972 al 1988 con esposizione certa in misura importante ad IPA e broncoirritanti e verosimile ad amianto; trattandosi di ex-fumatore dal 1975 al 1990 e considerati i tempi di induzione-latenza secondo la letteratura scientifica, è stato ritenuto con elevato grado di credibilità razionale che il tumore fosse riconducibile causalmente all'esposizione professionale presso la Pirelli, valutata la consistenza del periodo di astensione dal fumo e non escluso quest'ultimo quale concausa;
- p.o. S.M., deceduto in data 11 maggio 2011 per carcinoma polmonare con precedente diagnosi di BPCO, aveva lavorato presso Pirelli Articoli e Accessori Industriali dal 1977 al 2000 prevalentemente nel reparto dosatura con esposizione certa in misura importante ad IPA e broncoirritanti e verosimile ad amianto nel precedente lavoro presso CEAT dal 1969 al 1972 e con esposizione importante a IPA e broncoirritanti nonché probabile ad amianto presso Pirelli; trattandosi di ex-fumatore sino al 1990 e considerati i tempi di induzione-latenza secondo la letteratura scientifica, è stato ritenuto con elevato grado di credibilità razionale che il tumore fosse riconducibile causalmente all'esposizione professionale presso la Pirelli, valutata la risalenza delle altre esposizioni professionali e l'eccessiva distanza di tempo, pari a 15 anni, intercorso tra l'insorgenza della BPCO e la data in cui il lavoratore aveva smesso di fumare;
- p.o . T.V., deceduto il 4 febbraio 2010 per carcinoma polmonare, aveva lavorato presso Pirelli Vettura dal 1966 al 1995 con esposizione certa ad IPA e probabile ad amianto presso Pirelli; trattandosi di ex­ fumatore sino al 1993 e considerati i tempi di induzione-latenza secondo la letteratura scientifica, è stato ritenuto con elevato grado di credibilità razionale che il tumore fosse riconducibile causalmente all'esposizione professionale presso la Pirelli, valutata la risalenza della data in cui il lavoratore aveva smesso di fumare;
- p.o. V.V., deceduto il 28 settembre 2010 per carcinoma polmonare a partire da una BPCO diagnosticata nel 2003 e da un'interstiziopatia polmonare fibrotica diagnosticata a fine 2007, aveva lavorato presso Pirelli Vettura dal 1968 al 1999 con esposizione a broncoirritanti, IPA, amianto e quarzo tra il 1955 e il 1968 presso altri stabilimenti e con e:;posizione certa ad IPA e amine aromatiche e probabile ad amianto presso Pirelli; trattandosi di ex­ fumatore sino al 2009, il giudice aveva ritenuto che non potesse essere escluso l'apporto causale dell'esposizione professionale di 30 anni presso la Pirelli, pur essendo ad essa equivalenti le concause del fumo e delle esposizioni precedenti.
8.2. In relazione al carcinoma vescicale, il giudice aveva richiamato le indicazioni del consulente dott. Calisti circa l'autonoma capacità di agenti quali ammine aromatiche, IPA e N-nitrosammine a generare il carcinoma uroteliale, con la precisazione che nell'industria della gomma sino al 1984 si faceva uso dell'ammina aromatica PBNA, nonché in merito ai parametri da prendere in esame, quali il significativo contatto con mescole di gomma (fase di vulcanizzazione) o l'esposizione significativa a fumi e vapori di gomma calda, l'aver iniziato a lavorare in mansioni a rischio prima dei 30 anni di età, i tempi di induzione-latenza non inferiori a 10 anni, la manifestazione della malattia prima dei 55 anni, la natura multicentrica della neoplasia. Il fumo di tabacco era indicato come importante moltiplicatore d'effetto dei cancerogeni professionali, al punto da potersi ritenere che l'esposizione professionale e il concomitante fumo di tabacco portassero alla triplicazione del rischio. Riportava altresì le considerazioni del consulente della difesa a proposito della multifattorialità del carcinoma vescicale, dell'elevata percentuale di incidenza su tale tumore del fumo di tabacco, della minima dose di BNA stimata in Pirelli. Non era assente, anche per tali ipotesi, la valutazione della causalità individuale:
- p.o. C.M.M., deceduto il 20 ottobre 2007 per carcinoma papillare della vescica, aveva lavorato presso Pirelli Vettura dal 1967 al 1999 al reparto mescole, semilavorati, boiaccatura automatica e confezionamento; precedentemente aveva lavorato per un anno presso una fornace di mattoni e per due anni presso una vetreria, con esposizione certa e in misura importante presso Pirelli ad ammine aromatiche e ad IPA; trattandosi di fumatore che aveva smesso nel gennaio 2007, il giudice aveva evidenziato la morte precoce, a 67 anni, del lavoratore ed aveva ritenuto che l'esposizione anche per 32 anni ad IPA e ad ammine aromatiche avesse avuto un ruolo concausale, unitamente al fumo, nella eziopatogenesi della malattia;
- p.o. LG.P.A., deceduto il 26 giugno 2008 per carcinoma uroteliale della vescica, aveva lavorato dal 1984 al 1994 presso Pirelli Veicoli Industriali come operaio addetto al reparto semilavorati, con precedente attività presso CEAT Gomma dal 1966 al 1984, con esposizione certa ad ammine aromati he, IPA e N-nitrosamine sia presso Ceat che presso Pirelli; trattandosi di modesto fumatore, e considerate le precedenti significative esposizioni, il giudice aveva attribuito all'esposizione professionale nel suo insieme un ruolo determinante nell'insorgenza del tumore, ritenuta precoce dato lo stadio avanzato riscontrato all'età di 70 anni.
9. La tesi difensiva, secondo la quale si sarebbe operata un'acritica applicazione del principio del concorso di cause escludendo l'operatività della regola dettata dall'art.41, comma 2, cod. pen. sul mero presupposto che talune concause, quali il fumo di tabacco, non sarebbero causa sopravvenute, seppur suggestiva, non trova riscontro nel testo della sentenza impugnata.
9.1. In linea di principio, la regola dettata dall'art.41, comma 2, cod. pen. è pacificamente ritenuta operante anche per i fattori causali preesistenti o concomitanti, a condizione che si possa istituire tra tali fattori e l'evento una relazione «esclusiva» di un diverso processo causale. E risulta evidente come, nel caso concreto, i giudici abbiano motivatamente attribuito incidenza causale sulle cause di morte dei lavoratori alle condotte degli imputati desumendola dalle prove acquisite in merito alla durata e intensità dell'esposizione del singolo lavoratore ad agenti cancerogeni, nel rispetto dei criteri scientifici che presiedono, in base alle attuali conoscenze disponibili ., all'accertamento dell'eziopatogenesi dei tumori del polmone e della vescica, non essendovi evidenza dell'autonoma ed esclusiva efficacia causale di altri fattori.
9.2. Inoltre, una volta esaminate le caratteristiche del singolo caso, e riscontrata la significativa e intensa esposizione professionale del singolo lavoratore a uno o più agenti cancerogeni, il percorso seguito dal giudice di merito nel contesto della decisione risulta fedele al criterio dell'equivalenza delle cause senza che si possa riscontrare, come vorrebbe la difesa, una «confusione fra questioni di fatto e questioni di diritto». Si ricorda, in proposito, che nella giurisprudenza di legittimità in materia di patologie multifattoriali la c.d. «regola dell'esclusione» impone che la malattia possa essere attribuita alla causa indiziata solo dopo che sia stato escluso che abbia avuto un ruolo eziologico il fattore alternativo, a condizione che si tratti di fattore in grado di operare in assoluta autonomia, posto che la natura causale di un determinato antecedente non è esclusa dalla esistenza di una concausa (art. 41 cod. pen.). Non escludono il nesso di causa i fattori interferenti, che spiegano una efficienza sinergica, in corrispondenza dell'insorgenza della malattia e/o della sua ingravescenza, mentre lo escludono i fattori alternativi, ossia quelli in grado di operare in assoluta autonomia. Nel primo caso si parla di incidenza concausale, con applicazione del criterio giuridico dell'equivalenza delle cause previsto dall'art.41 cod. pen.; nel secondo caso, il fattore alternativo non può porsi in termini di concausa e trova applicazione la disciplina dettata dall'art.41, comma 2, cod. pen. (Sez. 4, n.44943 del 08/07/2021, Cirielli, in motivazione; Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2017, Cirocco, in motivazione; Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Bordogna, Rv. 270385 - 01; Sez. 4, n. 37762 del 21/06/2013, Battistella, Rv. 257113; Sez. 4, n. 11197 del 21/12/2011, dep. 2012, Chino, Rv. 252153).
9.3. E' vero che nei casi di patologie multifattoriali, per affermare la relazione causale tra esposizione professionale e malattia, la regola di giudizio dell'elevato grado di credibilità razionale introdotta dalla nota sentenza Franzese impone un'approfondita analisi del fatto, che tenga conto dei dati relativi all'entità dell'esposizione al rischio professionale. Ma nel caso concreto il percorso seguito dal giudice di merito, peraltro con riferimento a lavoratori per lungo tempo esposti ad agenti cancerogeni presso la Pirelli, era pienamente rispettoso di tale regola e nel ricorso non sono stati evidenziati indici del singolo caso che mettessero in chiaro che la malattia avesse avuto origine esclusivamente da un fattore alternativo (Sez. 4, n. 4489 del 17/10/2012, dep. 2013, Melucci, in motivazione), né che le valutazioni operate nella sentenza si discostassero dal «sapere condiviso ».
9.4. In definitiva, il percorso logico-giuridico seguito dal giudice di primo grado per collegare l'evento morte dei lavoratori a una patologia da esposizione professionale ad agenti cancerogeni, che non può essere intaccato in questa sede in ragione dei limiti del sindacato del giudice di legittimità sulla sentenza d'improcedibilità per prescrizione del reato, è stato fatto proprio dalla Corte territoriale laddove ha escluso l'evidenza della prova dell'insussistenza del nesso causale; tale percorso logico-giuridico non presenta il vizio denunciato. In esso si ravvisa l'indicazione ex ante delle leggi scientifiche applicabili, l'inferenza induttiva ex post dell'inscrivibilità del caso concreto, con razionale certezza, entro l'ambito di operatività di quelle leggi e l'insussistenza di valide ipotesi alternative. Seppur con l'insopprimibile margine di incertezza che caratterizza il giudizio regolato da leggi di copertura non universali, e con la complessità dei giudizi concernenti l'eziopatogenesi di malattie multifattoriali, il caso in esame è ben lungi dall'offrire quell'evidenza dell'assenza di prove circa il nesso causale tra condotte contestate ed evento o della presenza di prove positive dell'operatività autonoma di fattori alternativi tali da condurre all'esito assolutorio in questa sede richiesto.

10. Conclusivamente, i ricorsi non possono trovare accoglimento e devono essere rigettati; segue, a norma dell'art.616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.
 



Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 23 settembre 2022