Cassazione Civile, Sez. Lav., 20 ottobre 2022, n. 31048 -  Mansioni usuranti e risarcimento del danno


 

 

Presidente: RAIMONDI GUIDO
Relatore: CINQUE GUGLIELMO
Data pubblicazione: 20/10/2022
 

Fatto


1. Il Tribunale di Frosinone, con la pronuncia n. 793 del 2015, accoglieva la domanda proposta da G.F. ( che aveva già ottenuto il riconoscimento dell'origine professionale in ambito INAIL della patologia di lombalgia cronica da spondilosi, discopatia e protrusioni discali, tendinosi diffusa con postumi pari al 17%) nei confronti dell'ENEL Distribuzione spa, di cui era stato dipendente dall'l.6.1980 al 31.12.2001, volta all'accertamento e alla declaratoria di responsabilità contrattuale e/o extracontrattuale della società nella causazione dei danni biologici, morali, patrimoniali e non, ed esistenziali a lui causati dall'essere stato addetto, quale Operaio addetto ai lavori di squadra e di Operaio mezzi speciali ( gruista), all'esecuzione di mansioni usuranti, comportanti le attività di costruzione, manutenzione e smantellamento di elettrodotti a bassa e media tensione (cd. palificazione) e, in particolare, dal 1988 al 2001 le attività di costruzione e manutenzione ordinaria e straordinaria di linee di Alta tensione, Media tensione e Bassa tensione, nella provincia di Frosinone; conseguentemente condannava l'Enel Distribuzione spa, a titolo di danno non patrimoniale differenziale, al pagamento della somma di euro 41.885,45, tenuto conto delle Tabelle Milanesi e della età del ricorrente, di una personalizzazione quantificabile in un incremento del 20% e detraendo dal dovuto quanto già riconosciuto dall'INAIL, rivalutato del valore capitale della rendita, per le medesime patologie.
2. Sul gravame della società la Corte di appello di Roma, con la sentenza n. 4758/2019, in parziale riforma della impugnata pronuncia, rideterminava l'importo del risarcimento del danno differenziale in euro 31.703,25, ritenendo che non erano stati allegati e dimostrati elementi idonei a giustificare la riconosciuta personalizzazione del danno, con il conseguente incremento percentuale.
3. A fondamento della decisione i giudici di seconde cure, in sintesi, evidenziavano che: a) 1alcuq rilievo poteva attribuirsi alla dichiarazione diµ rinuncia e transazione, rilasciata dal lavoratore nell'ambito della risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, non essendovi prova, a quella data, della consapevolezza al diritto risarcitorio maturato in suo favore a seguito della responsabilità datoriale per le patologie sofferte; b) stante la natura contrattuale della prospettata responsabilità datoriale, il termine di prescrizione applicabile era quello decennale; e) la copertura assicurativa garantita dall'INAIL non esonerava il datore di lavoro dal rispondere per i danni conseguiti dal lavoratore per la parte non indennizzata; e) dalle risultanze processuali era ravvisabile una responsabilità ex art. 2087 cc della società sotto il profilo dell'omessa sorveglianza sia in ordine al rischio ambientale cui era esposto il lavoratore, sia con riguardo agli adempimenti sanitari diretti ad evitare che i lavoratori fossero esposti, senza alcuna protezione, a fattori morbigeni susseguitisi tra loro senza soluzione di continuità, in quanto presenti in ciascuna fase lavorativa propedeutica e consequenziale alla elettrificazione; d) il danno differenziale, pari alla differenza tra quanto previsto nella tabella attuariale per il corrispondente danno e la somma liquidata dall'INAIL a titolo di indennizzo danno biologico, andava complessivamente quantificato in euro 31.703,25 oltre interessi e rivalutazione, dovendosi escludere l'importo determinato dal giudice di prime cure a titolo di personalizzazione quantificabile in un incremento del 20%.
4. Avverso la decisione di secondo grado proponeva ricorso per cassazione i-distribuzione spa (già ENEL Distribuzione spa) affidato a sei motivi, cui resisteva con controricorso G.F..
5. Il PG rassegnava conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
6. Le parti hanno presentato memorie.
 

 

Diritto

 


1. I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2113, 1362, 1363 e 1365 c.c. in relazione alla dichiarazione di rinunzia e transazione rilasciata dal G.F. in data 8.2.2002, ai sensi dell'art. 360 co.1 n. 3 c.p.c. Assume la società che era intervenuto tra le parti un accordo con il quale il dipendente aveva rinunciato a qualsivoglia rivendicazione retributiva legata al rapporto di lavoro intercorso, compresi risarcimenti a qualunque titolo. Da ciò la società faceva derivare l'erroneità della valutazione della Corte di merito circa la non interferenza del detto accordo sulla pretesa avanzata.
7. Il motivo è infondato.
8. Si osserva che l'accordo transattivo e la rinuncia ivi contenuta deve essere tale da esprimere con chiarezza l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva della parte rinunciante; a tal fine deve altresì essere evidente che la rinuncia sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi (in tal senso Cass. n. 18321/2016; Cass. n. 18405/2011).
9. Deve da ciò desumersi che può avere validità ed efficacia la transazione e rinuncia nell'ipotesi che si tratti di diritti noti e di cui il rinunciante abbia piena consapevolezza.
10. Nel caso in esame, con un accertamento di merito non sindacabile in questa sede perché adeguatamente motivato, siffatte circostanze non sono state ritenute sussistenti dai giudici di seconde cure in quanto effettivamente non possono considerarsi noti, determinati o determinabili, diritti sorti successivamente alla rinuncia a seguito dell'accertamento della patologia di origine professionale.
11. Si tratta evidentemente di situazione di fatto subentrata nel tempo da cui sorgono diritti che non esistevano all'epoca della rinuncia e in quanto tali non riferibili ad essa.
3. Con il secondo motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 10 dpr n. 1124/1965, ai sensi dell'art. 360 n. 3 cpc, quanto al mancato riconoscimento, da parte della Corte territoriale, della insussistenza dei presupposti di imputabilità penale per l'addebito del danno differenziale.
4. Il motivo non è meritevole di accoglimento.
5. La pronuncia resa dalla Corte di appello di Roma, infatti, accerta la responsabilità del datore con criteri di tipo civilistico, conformemente all'orientamento consolidato espresso da questa Suprema Corte (Cass. n. 9166/2017; Cass. n. 27699/2017; Cass. n. 12041/2020; Cass. n. 17655/2020).
6. Già con la sentenza n. 9817/2008, cui sono seguite pronunce di analogo tenore, si è affermato che "il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenzia/e da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell'art. 1218 c.c. sull'inadempimento delle obbligazioni ... ne consegue che il lavoratore deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno". Da una panoramica complessiva del sistema normativo vigente e della giurisprudenza costituzionale sul tema dei rapporti tra giudizio civile e penale emerge come l'attuale sistema si caratterizzi per la pressoché completa autonomia e separazione tra i due giudizi, per cui il giudizio civile inizia e procede senza essere condizionato da quello penale. Invero, le numerose pronunce del Giudice delle leggi che si sono susseguite nel corso degli ultimi anni hanno esteso la responsabilità del datore di lavoro, prima limitata agli eventi derivati da fatto imputabile ai soli incaricati della direzione o della sorveglianza dei lavoratori, anche a quelli commessi da qualunque altro dipendente di cui dovesse rispondere ex art. 2049 c.c. (sentenza n. 22 del 1967); hanno dichiarato l'incostituzionalità del quinto comma dell'art. 10, nella parte in cui consentiva al giudice civile di accertare incidentalmente il fatto-reato soltanto nell'ipotesi di estinzione dell'azione penale per morte dell'imputato e per amnistia, e non anche per prescrizione del reato. Con successive pronunce, unitamente a modifiche normative, si è sostanzialmente decretata la fine della pregiudizialità penale. Con la sentenza n. 102 del 1981 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma quinto dell'art. 10 cit., "nella parte in cui non consente che, ai fini dell'esercizio del diritto di regresso dell'INAIL, l'accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nei casi in cui il procedimento penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi sia provvedimento di archiviazione"; inoltre ha dichiarato illegittime le norme impugnate, "nella parte in cui precludono al giudice civile di valutare i fatti dinanzi a lui dedotti in maniera diversa da quella ritenuta in sede penale, anche nei confronti del datore di lavoro che non sia stato posto in condizioni di partecipare al relativo procedimento". La sentenza n. 118 del 1986 ha esteso la declaratoria di illegittimità in favore dell'infortunato nel caso in cui il procedimento penale, nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, si sia concluso con un provvedimento di archiviazione o proscioglimento in sede istruttoria. Con la sentenza n. 372 del 1988 la Corte costituzionale ha, poi, chiarito che pure il diritto di regresso dell'INAIL prescinde "dalla sorte contingente del procedimento penale" ed anche in sede di legittimità è pacifico che l'Istituto non debba necessariamente attendere l'instaurazione o l'esito del giudizio penale (Cass. n. 9601 del 2001; Cass. n. 5578 del 2003). Questo progressivo percorso di autonomizzazione del giudizio civile da quello penale è culminato con l'adozione del nuovo codice di procedura penale, che ha abbandonato il principio di unità della giurisdizione e di prevalenza del giudizio penale, in favore di quello della parità dei diversi ordini giurisdizionali e della loro reciproca indipendenza, soprattutto a seguito della modifica dell'art. 295 cod. proc. civ., che ha limitato casi di sospensione necessaria alle ipotesi previste dall'art. 75, co. 3, cod. proc. pen. da interpretarsi restrittivamente, stante il favore per la separazione dei giudizi con implicita accettazione del rischio di giudicati difformi. A seguito di questi mutamenti l'esonero non costituisce più una regola, bensì un elemento tendenzialmente recessivo rispetto all'esigenza prioritaria di assicurare alla vittima dell'infortunio, per i profili non coperti da indennizzo, una integrale riparazione del danno alla persona. Pertanto, la "condanna penale", che risulta ancora presente nella formulazione del secondo comma dell'art. 10 del D.P.R. n. 1124 del 1965, ha perduto del tutto la sua valenza prescrittiva, non solo perché sostituita dall'accertamento, in sede civile, del fatto che costituisce reato, ma anche perché non assolve più all'originaria funzione per cui era stata concepita, che era quella di disciplinare i rapporti di un pregiudiziale e prevalente procedimento penale rispetto ad un eventuale giudizio civile. In questo ambito la disciplina di cui agli artt. 10 ss. del d.P.R. 1124/1965 deve essere interpretata nel senso che l'accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in relazione all'elemento soggettivo della colpa e al nesso causale fra fatto ed evento dannoso. Dall'allegazione fornita dal lavoratore in ordine alla sussistenza di gravi infortuni o patologie professionali e alla presenza di condizioni di lavoro incompatibili con lo stato di salute, la Corte territoriale ha affermato la responsabilità datoriale per violazione quantomeno dell'art 2087 c.c. (posto che il lavoratore non deve essere mai posto ad operare in condizioni di lavoro nocive). Ciò vale ad integrare, ad un tempo, sia l'illiceità penale del fatto ex art.10 TU, sia l'esistenza dei requisiti occorrenti tanto per la liquidazione del danno differenziale. Infatti, laddove vi sia la violazione dell'art. 2087 c.c. è sempre astrattamente configurabile un fatto di reato.
7. Con il terzo articolato motivo, formulato in via gradata, si censura:
a) la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 cc; b) la violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 164 del 7 gennaio 1956; e) la violazione e falsa applicazione dell'art. 37 CCNL ENEL 20.5.1973, degli artt. 4, 24, 33, 34 e Tabella d.P.R. n. 303/1956 nonché degli artt. 4, 16, 21 e 22 d.lgs. n. 626/1994, in relazione alla imputata omissione della sorveglianza sanitaria; d) la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 d.lgs. n. 626/1994, 2087 cc e 11 d osizioni sulla legge in generale, in relazione al 4_
profilo della omessa considerazione della movimentazione manuale dei carichi da parte del DVR ENEL; e) l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che erano stati oggetto di discussione tra le parti; si sostiene che erroneamente la Corte di appello aveva dichiarato la sussistenza di un obbligo di sorveglianza sanitaria periodica predeterminata, rispetto al lavoratore in epigrafe, riconducendolo anche all'art. 37 CCNL ENEL 1973, al dpr 303/1956 e al d.lgs. n. 626/1994 i cui oneri non erano configurabili rispetto all'attività svolta dal lavoratore, anche per difetto di uso costante e prolungato di strumenti vibranti, nonché erroneamente aveva rilevato la mancata valutazione dei rischi specifici nel DVR predisposto nel 1996. Premessa, inoltre, la genericità delle allegazioni di controparte - come riconosciuto dal giudice di prime cure-, e la critica delle allegazioni da parte di ENEL, si contesta la decisione per avere ritenuto di imputare alla responsabilità dell'ENEL il "danno differenziale" in assenza di una specifica inadempienza o carenza prevenzionistica.
8. Il motivo non è fondato.
9. Dallo storico di lite della sentenza impugnata si evince che il G.F. quale fonte della responsabilità datoriale aveva dedotto: a) la omessa sorveglianza obbligatoria ex d.P.R. n. 303/1956 prevista annualmente per i rischi tabellati (movimentazione manuale dei carichi, sovraccarico biomeccanico degli arti, vibrazioni meccaniche al braccio intero e al rachide, microclima sfavorevole); b) la omessa sorveglianza sanitaria obbligatoria ex d.lgs. n. 626/1994 a fronte di siffatte attività; c) la omessa valutazione rischi prevista sia dal d.P.R. n 393/1956; d) l'omessa informazione e formazione dei lavoratori ai sensi degli artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 626/1994.
10. La Corte di merito ha ritenuto accertato lo svolgimento delle attività fonte degli obblighi datoriali come sopra dedotti (v. sentenza, pag. 5 e ss.) sulla base delle deposizioni testimoniali e delle altre risultanze istruttorie.
11. Tale accertamento non è validamente censurato dalla odierna ricorrente e non vi è spazio per ritenere il vizio di sussunzione sostanzialmente denunziato dalla società ricorrente, in relazione alle attività svolte dal G.F. in quanto questi ha subito una esposizione a molteplici fattori morbigeni susseguitisi tra loro senza soluzione di continuità, in quanto presenti in ciascuna fase lavorativa propedeutica e conseguenziale alla elettrificazione, senza che la società apprestasse sufficienti ed adeguate misure idonee ad evitare o a contenere i predetti rischi; quanto al documento di valutazione dei rischi il relativo apprezzamento sotto il profilo della completezza ed effettività della valutazione delle lavorazioni appartiene al merito ed è insindacabile con il ricorso per cassazione.
12. La Corte distrettuale ha accertato, con apprezzamento insindacabile in questa sede perché adeguatamente motivato, che le mansioni cui era adibito il lavoratore rientrassero nell'ipotesi prevista dalla lettera i) dell'art. 37 CCNL ENEL ("personale che presta la propria opera in condizione di particolare gravosità e disagio") e, quindi, il datore di lavoro fosse tenuto ad adottare delle tutele ulteriori e diversificate: in particolare, l'avvicendamento tra i lavoratori che prestassero la loro opera nelle predette condizioni e la loro sottoposizione a controlli medici necessari a prevenire il verificarsi di conseguenze dannose per la loro integrità.
13. L'esame delle concrete mansioni svolte dal lavoratore, così come l'ambiente in cui egli si trovava a prestare la propria attività hanno condotto i Giudici di seconde cure a ritenere che ricorressero i presupposti operativi richiesti dalla normativa speciale, che prevede degli obblighi di sorveglianza gravanti sul datore, aggiuntivi e ulteriori rispetto a quelli previsti in via generale, stante la natura particolarmente gravosa delle mansioni svolte.
Pertanto, non è ravvisabile il vizio di sussunzione invocati dalla ricorrente.
Gli ulteriori profili di censura attengono altresì al merito e aspirano ad ottenere una nuova valutazione delle risultanze istruttorie, già ampiamente esaminate dalla Corte territoriale. I Giudici di seconde cure, infatti, si sono conformati al consolidato orientamento di questa Suprema Corte che ha specificato che grava sul lavoratore l'onere di provare di aver subito un danno a causa dell'attività svolta, nonché il nesso di causalità tra l'uno e l'altra, mentre incombe sul datore l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie al fine di evitare il danno, ricomprendendosi in questa categoria anche quelle misure di sicurezza c.d. innominate, intendendosi quelle non espressamente contemplate dalla legge, ma comunque fondate su conoscenze tecnico-scientifiche o su altre fonti analoghe (Cass. 10319/2017; Cass. 29879/2019; Cass. n. 12041/2020).
14. Con il quarto motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 10 d.p.r. 1124/1965, 1223, 2087 e 2697 cc, in relazione al profilo della omessa sorveglianza sanitaria, ai sensi dell'art. 360 n. 3 cpc, per avere errato la Corte territoriale con riguardo alla ritenuta responsabilità per la omessa sorveglianza sanitaria, senza allegazione e prova oggettiva che una generica sorveglianza sanitaria avesse consentito di escludere le patologie in evoluzione.
15. Il motivo è inammissibile.
16. Invero, con il motivo in esame parte ricorrente pur formalmente denunziando violazione e falsa applicazione di norma di diritto contesta in realtà il concreto accertamento della esistenza del nesso di causalità tra condotta datoriale (v. pag. 5 e ss.), che costituisce un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito ed incrinabile solo ai sensi dell'art. 360, comma 1 n. 5 cod. proc. civ. solo dalla deduzione di omesso esame di un fatto decisivo e controverso neppure prospettata dall'odierna ricorrente.
17. Con il quinto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 d.lgs. n. 626/1994, 2087 cc e 11 Disp. sulla legge in generale (cd. Preleggi), in relazione al profilo dell'omessa considerazione della movimentazione manuale dei carichi da parte del DVR ENEL, ai sensi dell'art. 360 n. 3 cpc.; sostiene che erroneamente la Corte territoriale aveva imputato ad essa società un onere di valutazione di rischi specifici per attività non considerate dalle norme all'epoca vigenti.
18. Tale censura non è meritevole di accoglimento per le medesime ragioni di inammissibilità e di infondatezza delle doglianze, esplicitate relativamente ai motivi sub 3) e sub 4) (con particolare riguardo al riferimento operato in relazione all'art. 37 CCNL ENEL) che qui devono ritenersi integralmente riportate e trascritte.
19. Con il sesto motivo si obietta l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti; la nullità della sentenza per violazione degli artt. 116 cpc e dell'art. 132 n. 4 cpc, in relazione all'art. 360 n. 4 cpc; la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cc. 112, 113, 115, 132 co. 2 n. 4 cpc e 118 disp. att. cpc, in relazione alla mancata rinnovazione della CTU medico legale quanto al nesso eziologico fra le attività lavorative e l'insorgenza delle patologie.
20. Il motivo è infondato e presenta altresì profili di inammissibilità.
21. Esso censura in maniera piuttosto confusa sia la decisione della Corte di appello di non rinnovare la CTU, già disposta, sia la sua adesione alle risultanze peritali. Inoltre, la doglianza, sebbene prospettata ai sensi dell'art. 360 n. 5 cpc e, quindi, come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, non indica in maniera chiara e specifica quale sia il suddetto fatto storico di cui sia stato omesso l'esame. Devono, poi, essere disattesi integralmente tutti i profili di questo motivo, in quanto, in primo luogo, non è rinvenibile il vizio di motivazione invocato dalla ricorrente in ordine alla pedissequa adesione da parte della Corte territoriale alle conclusioni della CTU. Questa Suprema Corte, al riguardo, ha in più occasioni chiarito che il giudice di merito può legittimamente fare richiamo alle risultanze emergenti dalla CTU, non essendo necessario che vengano fornite ulteriori motivazioni in ordine all'adesione all'elaborato peritale (Cass. n. 282/2009; Cass. n. 1815/2015). Parimenti infondata la censura con cui si lamenta la mancata rinnovazione della CTU e l'assenza di motivazioni a sostegno di questa decisione. Infatti, in tema di consulenza tecnica d'ufficio, il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di un'esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova ctu, atteso che il rinnovo dell'indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito, sicché non è neppure necessaria una espressa pronunzia sul punto (Cass. n. 9379/2011; Cass. n. 17693/2013; Cass. 22799/2017).
22. Conseguentemente, non può, nel caso concreto, ravvisarsi un'ipotesi di motivazione solo apparente, non essendo la Corte territoriale tenuta a esplicitare le ragioni per le quali ha negato la rinnovazione della consulenza tecnica.
23. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.
24. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo, con distrazione.
25. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
 

PQM


La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dei difensori del controricorrente dichiaratisi antistatari. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.