Cassazione Civile, Sez. Lav., 11 ottobre 2022, n. 29608 - Maxi sanzione per l'impiego di lavoratori irregolari nell'autolavaggio


 

"Il D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 73 del 2002, come sostituito dal D.L. n. 223 del 2006, art. 36 bis, comma 7, lett. a), convertito, con modificazioni, in L. n. 248 del 2006, e prima delle sue successive modificazioni, era riferibile all'impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto sotteso a tale impiego".



Presidente Esposito – Relatore Caso

 

 

Fatto

 


1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale di Milano, Sezione distaccata di Legnano, n. 347/10, depositata il 15.10.2010, accoglieva l'opposizione che S.G. e l'Autolux s.a.s. di S.G. & C. avevano proposto avverso l'ordinanza-ingiunzione emessa dalla Direzione Provinciale del Lavoro di Milano nei loro confronti, compensando le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio.

2. La Corte d'appello - premettendo che la contestazione, da cui era scaturita la sanzione per Euro 81.606.00, riguardava la violazione, da parte dello S., della L. n. 73 del 2002, art. 3, comma 3, in relazione a quattro lavoratori di nazionalità pachistana rinvenuti intenti ad operazioni di pulizia in data (Omissis) a seguito di ispezione, presso la sede della suddetta società, esercente servizi di autolavaggio, eseguita da personale del Nucleo c.c. dell'Ispettorato del lavoro di Milano - in accoglimento dell'appello proposto dai due ingiunti, concludeva che i vizi nell'ordinanza-ingiunzione opposta messi in luce "non si risolvono in una carenza solo formale, ma le lacune e contraddizioni evidenziano la inidoneità/insufficienza del materiale probatorio richiamato dalla PA al fine di ricostruire la vicenda e circostanziare con chiarezza la condotta illecita ascritta al trasgressore, così che anche all'esito del giudizio di opposizione e alla luce della documentazione da questi prodotta residuano consistenti dubbi sulla natura del rapporto lavorativo (che benché desumibile di fatto dall'accertamento della presenza dei lavoratori nei locali dell'Autolux, necessità di conferma in diritto con il superamento delle deduzioni probatorie degli opponenti), sulla colpa del titolare dell'azienda, sulla effettiva estensione temporale della trasgressione, e dunque sugli elementi determinanti l'entità della sanzione".

3. Avverso tale decisione, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha proposto ricorso, affidato a cinque motivi. Gli intimati hanno resistito con unico controricorso.

Diritto



1. Con il primo motivo, il ricorrente denunzia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la "Violazione/falsa applicazione del D.L. n. 223 del 2006, art. 36-bis, comma 7, lett. a), conv. con mod. in L. n. 248 del 2006".

2. Con il secondo motivo, denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la "Violazione/falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., e dell'art. 23, comma 12, vigente ratione temporis, della L. n. 689 del 1981, in combinato disposto con il D.L. n. 223 del 2006, art. 36-bis, comma 7, lett. a), conv. con mod. in L. n. 248 del 2006".

3. Con il terzo motivo, si lamenta l'"Omesso esame di fatti decisivi, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)".

4. Con il quarto motivo, si denunzia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), la "Violazione/falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 23, comma 10, ratione temporis vigente, in combinato disposto con il D.L. n. 223 del 2006, art. 36 bis, comma 7, lett. a)".

5. Con il quinto motivo ci si duole di "Vizio di motivazione, per violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 4, e art. 61, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., dell'art. 111 Cost., comma 6, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)".

6. Occorre soffermarsi sul primo motivo, che, contrariamente a quanto eccepito dagli intimati circa l'intero ricorso, è anzitutto ammissibile in relazione all'art. 360 bis c.p.c., n. 1), (essendo assertivo il loro assunto che la sentenza impugnata sarebbe conforme alla giurisprudenza di questa Corte in base agli stessi richiami di precedenti di legittimità operati dagli intimati, non riferibili alla materia che ci occupa). Le doglianze ivi sviluppate sono inoltre fondate.

7. In particolare, dopo aver richiamato integralmente la parte motiva in senso stretto della decisione gravata (la quale si conclude nei termini innanzi qui riportati nella premessa in fatto), il ricorrente Ministero osserva che dalla stessa "possono ricavarsi due distinte rationes decidendi, fortemente intrecciate e quasi sovrapposte tra loro. In primo luogo, il giudice del gravame evidenzia l'assenza di prove sufficienti a dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivo dell'illecito amministrativo contestato alle odierne parti resistenti, con particolare riferimento alla natura del rapporto lavorativo in questione e all'elemento psicologico. Secondariamente, viene rilevata un'analoga carenza probatoria riguardo alla reale durata della trasgressione e, conseguentemente, alla quantificazione della sanzione pecuniaria inflitta.

Ambedue le individuate rationes risultano inidonee a sorreggere l'esito decisorio cui la sentenza d'appello che qui si censura è pervenuta,....

Quanto alla prima di dette ragioni, va rimarcato che l'individuazione dell'esatta natura del rapporto lavorativo intercorrente tra i soggetti ingiunti ed i lavoratori extracomunitari rinvenuti presso l'autolavaggio da essi gestito non assume rilevanza ai fini dell'applicazione della sanzione amministrativa che qui viene in considerazione.

Dall'ordinanza-ingiunzione oggetto dell'originario ricorso in opposizione si evince chiaramente che alle controparti private è stata comminata la c.d. "maxi sanzione" per impiego di lavoratori "in nero", ossia non risultanti dalle scritture che le imprese hanno l'obbligo di tenere, secondo la disciplina introdotta dal D.L. n. 223 del 2006, art. 36-bis:..."; norma che secondo il ricorrente era appunto applicabile ai fatti contestati.

Proposta, quindi, la propria interpretazione di tale "novella", si assume nella censura in esame che: "contrariamente a quanto argomentato nella decisione oggi gravata, non sembra potersi riconoscere alcuna rilevanza decisiva alla ritenuta incertezza circa l'esatta qualificazione giuridica del rapporto giuridico sussistente, al momento dell'ispezione, tra i soggetti ingiunti e i lavoratori irregolari rinvenuti presso la sede dell'impresa gestita dagli stessi ingiunti. Difatti affinché possa applicarsi il regime sanzionatorio di cui al summenzionato art. 36-bis, è sufficiente riscontrare la sussistenza di un qualsiasi rapporto lavorativo tra i soggetti sanzionati ed i lavoratori irregolari, rapporto la cui ricorrenza è stata riconosciuta, nel caso che qui ci occupa, dalla stessa sentenza d'appello, nella parte in cui essa ha affermato che il rapporto in discorso era "... desumibile di fatto dall'accertamento della presenza dei lavoratori nei locali della Autolux"".

8. Nell'esaminare tale censura occorre precisare che, per la verità, la Corte territoriale in nessun punto della sua decisione ha menzionato il D.L. n. 223 del 2006, art. 36-bis, comma 7, lett. a), conv. con mod. in L. n. 248 del 2006, ossia, la norma di cui il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione. Come già accennato in premessa, la stessa Corte, nell'ambito dello svolgimento del processo, aveva più genericamente esposto che: "Veniva contestata a S.G., legale rappr.te della Autolux, la violazione della L. n. 73 del 2002, art. 3, comma 3, e successive modifiche per aver impiegato lavoratori non risultanti dalle scritture obbligatorie, ed applicata la relativa sanzione pari ad Euro 81.606,00" (cfr. pag. 4 dell'impugnata sentenza).

Devesi, allora, porre in risalto che, siccome i fatti contestati riflettono un accertamento ispettivo eseguito il (Omissis), come è pacifico, all'epoca non era più in vigore l'originario testo dell'art. 3 (titolato "Modifiche alle disposizioni in materia di lavoro irregolare"), del D.L. 22 febbraio 2002, n. 12, comma 3, conv., con mod., in L. 12 aprile 2002, n. 73 (l'intero art. 3, era stato sostituito dalla legge di conversione), e neppure vigeva il suo testo attuale (risultante da modifiche ad opera della L. 4 novembre 2010, n. 183, successivo art. 4, comma 1, lett. a)).

Era, infatti, intervenuto appunto il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36 bis, conv., con mod., in L. 4 agosto 2006, n. 2006, che, sotto la rubrica "Modifiche urgenti per il contrasto del lavoro nero e per la promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro", al comma 7, lett. a), aveva significativamente modificato il precedente testo del D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3.

In particolare, detto comma 3, era stato sostituito come segue: "3. Ferma restando l'applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore, l'impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria è altresì punito con la sanzione amministrativa da Euro 1.500 a Euro 12.000 per ciascun lavoratore maggiorata di Euro 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo. L'importo delle sanzioni civili connesse all'omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore di cui al periodo precedente non può essere inferiore a Euro 3.000,00 indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata".

Successivamente, la Corte costituzionale, con sentenza 13.11.2014, n. 254, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale comma nella sua seconda parte, ossia, nell'ultimo periodo concernente le sanzioni civili, che non interessano in questa sede, in cui viene in considerazione una sanzione esclusivamente amministrativa.

9. Pertanto, all'epoca dei fatti oggetto di contestazione era vigente il testo su riportato dell'art. 3, comma 3, cit., che è quello cui correttamente fa capo la difesa erariale, e rispetto al quale a torto la difesa dei controricorrenti assume, invece, che la Corte di merito, nella ricostruzione logico-giuridica della sua sentenza, "abbia ritenuto di escludere l'applicazione,..., della c.d. "maxisanzione" D.L. n. 223 del 2006, ex art. 36 bis, comma 7, lett. a), conv. L. n. 248 del 2006, in quanto e per quanto non risultasse provato il rapporto di lavoro subordinato", perché la stessa Corte "alcuna rilevanza ha attribuito alla qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato" e perché "l'analisi condotta dal Giudice di Appello e', all'evidenza, volta squisitamente alla valutazione della prova, intesa, nel suo complesso e come acquisita".

Rispetto a queste ultime deduzioni degli intimati è agevole ribattere anzitutto che il D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, e successive modifiche, cui pure il giudice di secondo grado si è riferito, veniva in considerazione nella versione risultante dalla sua sostituzione ad opera del D.L. n. 223 del 2006, art. 36 bis, comma 7; versione che era quella in vigore all'atto dei fatti contestati e quindi da applicare, e suscettibile, perciò, di violazione appunto anche in termini di mancata applicazione.

Inoltre, se è vero che tutto il ragionamento esposto dal giudice di secondo grado si svolge sul filo dell'apprezzamento di un'insufficienza e/o di una contraddittorietà del quadro probatorio acquisito, è indiscutibile che, come già evidenziato, la conclusione di tale iter motivazionale è anzitutto nel senso che residuavano "consistenti dubbi sulla natura del rapporto lavorativo (che benché desumibile di fatto dall'accertamento della presenza dei lavoratori nei locali dell'Autolux, necessità di conferma in diritto con il superamento delle deduzioni probatorie degli opponenti)". Così come è incontrovertibile che il primo aspetto esaminato dalla Corte di merito - anche rispetto appunto alle deduzioni degli opponenti (reiterate in sede d'appello), i quali non contestavano l'esecuzione delle prestazioni dei lavoratori in questione presso l'esercizio di autolavaggio, ma assumevano che tanto fosse avvenuto in forza di apposito e lecito rapporto contrattuale con una società che aveva fornito all'Autolux detta manodopera - è stato appunto quello relativo alla natura giuridica del rapporto lavorativo che legava quei lavoratori extracomunitari all'Autolux s.a.s.. Infatti, la Corte aveva in limine rilevato "che la vicenda dedotta in giudizio presenta dei connotati del tutto peculiari e che la versione dei fatti fornita dagli opponenti in ordine alle circostanze per le quali i quattro soggetti di nazionalità pachistana si trovavano a prestare attività lavorativa nell'autolavaggio di (Omissis) si presta a differenti e non univoche valutazioni in ordine alla sua attendibilità", spiegando quindi diffusamente perché le risultanze probatorie in complesso fossero anche a riguardo contrastanti.

Va da sé, perciò, che, invece, nella prospettiva dell'indifferenza sul piano normativo dell'effettiva natura giuridica di prestazioni lavorative pacificamente eseguite presso la sede dell'autolavaggio, le conclusioni raggiunte dalla Corte territoriale in punto di prova (insufficiente e/o contraddittoria) risulterebbero scorrette, traducendosi in una violazione della norma di diritto da applicare ratione temporis.

Fondatamente, allora, in tale prospettiva il ricorrente osserva che la previsione, all'epoca nuova, "non richiede più che i lavoratori di cui si lamenti l'omessa registrazione siano "dipendenti" del soggetto sanzionato, come viceversa statuiva la succitata L. n. 73 del 2002, ma sanziona il mero impiego di "lavoratori", non meglio definiti e qualificati non risultanti dalle scritture e dalla documentazione obbligatorie dell'impresa presso la quale essi siano impiegati".

Invero, il testo originario e previgente del medesimo comma (c.d. storico, all'esito della conversione in legge) recitava: "3. Ferma restando l'applicazione delle sanzioni previste, l'impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dalle scritture o altra documentazione obbligatorie, è altresì punito con la sanzione amministrativa dal 200 al 400 per cento dell'importo, per ciascun lavoratore irregolare, del costo del lavoro calcolato sulla base dei vigenti contratti collettivi nazionali, per il periodo compreso tra l'inizio dell'anno e la data di constatazione della violazione".

Il tenore della norma, attraverso il duplice indice letterale, prima, ed in modo esplicito, a lavoratori "dipendenti", vale a dire, subordinati, e, poi, al meccanismo di calcolo della sanzione, ragguagliata ad un costo del lavoro calcolato sulla base dei vigenti CCNL, ossia, di fonti collettive parimenti applicabili solo a lavoratori subordinati, era oltremodo chiaro nel riferirsi esclusivamente all'impiego, sebbene irregolare nei termini sanzionati, di lavoratori subordinati. Così rendendo necessario anche in sede giudiziaria l'accertamento, anzitutto in punto di fatto, di tale specifica natura del rapporto con i lavoratori irregolari.

Condivisibilmente, perciò, il ricorrente osserva che "L'uso di termini generici, quali "impiego" e "lavoratori", nonché il confronto con il previgente disposto... portano a ritenere che la disposizione sanzionatoria che viene in considerazione nell'ambito del presente giudizio abbia inteso punire colui il quale, a qualsiasi titolo ed indipendentemente dalla qualificazione giuridica del rapporto instaurato con i prestatori di lavoro, si avvalga delle prestazioni lavorative di soggetti non registrati e quindi sconosciuti all'amministrazione".

Parimenti da condividere è il rilievo che tale "interpretazione appare pienamente coerente con la ratio che ha sorretto l'intervento riformatore del 2006, teso ad assicurare una più effettiva e rigorosa repressione del fenomeno, assai diffuso in Italia, del "lavoro nero", evitando possibili aggiramenti ed elusioni delle sanzioni in materia, attraverso il ricorso a forme di rapporto non riconducibili alle categorie del lavoro subordinato o parasubordinato".

Infatti, non può essere trascurato che la norma come novellata (per sostituzione) nel 2006 si colloca in seno al più volte cit. art. 36 bis, il quale già nella sua rubrica, che fa riferimento anzitutto a "Misure urgenti per il contrasto del lavoro nero", così rivela la finalità appunto di contrastare ciò che anche nel linguaggio comune è chiamato "lavoro nero"; una finalità perseguita attraverso l'eliminazione nella norma dell'aggettivo "dipendenti" e degli ulteriori riferimenti praticamente espressi al lavoro subordinato onde ricomprendere nelle condotte sanzionate, a scopo evidentemente antielusivo, varie forme di impiego di lavoratori, non registrati, rappresentate anche come non corrispondenti al lavoro subordinato, appunto per in ipotesi sottrarsi all'onere di registrazione di quei lavoratori nelle scritture obbligatorie dell'imprenditore che li impieghi. E la fattispecie in esame esemplifica appunto una situazione di questo genere nel senso che, a fronte della constatazione obiettiva e incontestata dell'"impiego" di quattro lavoratori presso l'esercizio dell'autolavaggio, non risultanti però nelle scritture della relativa impresa, l'incolpato legale rappresentante della società aveva sostenuto trattarsi di lavoratori, non già direttamente assunti dalla stessa quali dipendenti, bensì forniti lecitamente da apposita agenzia da lui indicata come "interinale".

Del resto, sul piano letterale e teleologico, non si vede quale differente portata annettere all'intervento novellatore del 2006 circa la mirata espunzione dei soli riferimenti espressi al lavoro subordinato in una norma rimasta per il resto praticamente immutata nella sua struttura, visto che il solo termine "impiego", invece mantenuto fermo (e all'evidenza non riferibile nella specie alla tradizionale distinzione tra impiegati e operai), è anodino, se non ulteriormente aggettivato e specificato, risulta di per sé inidoneo ad individuare una forma determinata di lavoro, e, non essendo certamente equivalente a quello di "assunzione", riferito a lavoratori, non altrimenti specificati, sta piuttosto a significare "occupazione" o "adibizione" degli stessi in forme tipologicamente non specificate.

In tal senso, inoltre, questa Corte aveva già considerato che la norma, come novellata nel 2006, trovava applicazione "a prescindere dalla natura del rapporto di lavoro", e quindi "per ciascun lavoratore, anche non subordinato" (cfr. nella motivazione Cass., sez. lav., ord. 9.11.2020, n. 25037; richiamata successivamente in Cass., sez. lav., n. 35978/2021, che riguardava, però, fattispecie cui non era applicabile ratione temporis la previsione in questione).

10. Resta, perciò, confermato che la norma vigente all'epoca dei fatti sanzionati nell'ordinanza opposta rendeva del tutto ininfluente la sussunzione del rapporto dei lavoratori "impiegati" dall'impresa, ma non registrati nelle scritture di rito, nell'ambito del genus del lavoro subordinato o di altra particolare forma di lavoro, essendo sufficiente, ai fini dell'integrarsi della violazione, il fatto del loro impiego, non accompagnato dalla loro registrazione in tali scritture.

11. L'accoglimento del primo e primordiale motivo comporta l'assorbimento del secondo mezzo, con il quale il ricorrente fa valere che il ragionamento seguito nella sentenza gravata determinerebbe "una illegittima inversione del criterio di distribuzione dell'onere della prova", anzitutto sugli elementi probatori valevoli circa la esatta qualificazione giuridica da dare al rapporto intercorso tra i soggetti ingiunti e i lavoratori irregolari, ove si pensi che ciò che contava era soltanto il fatto, in sé pacifico, dell'impiego come tale di quei lavoratori da parte dell'impresa di cui era legale rappresentante l'incolpato. Parimenti assorbito è il terzo motivo, in cui si lamenta la pretermissione di fatti asseritamente decisivi al fine di escludere la ricorrenza delle fattispecie negoziali, invocate dagli ingiunti, ossia, la sussistenza di un valido contratto di appalto di manodopera oppure di una somministrazione di lavoro tra la società esercente l'impresa di autolavaggio e soggetti terzi, avente ad oggetto proprio le prestazioni dei lavoratori di cui si lamenta l'omessa registrazione, in quanto, nella prospettiva ermeneutica sopra delineata, a tacer d'altro, tali fatti non sarebbero affatto decisivi sul piano giuridico.

12. E' da reputarsi assorbito anche il quarto motivo di ricorso, che attinge la seconda delle rationes decidendi individuata dal ricorrente nella sentenza impugnata, sia sotto il profilo motivazionale (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)) che dal punto di vista della violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ossia, dell'art. 23, comma 10 (n.d.r.: rectius, comma 11, dove è previsto il potere del giudice di modificare l'ordinanza opposta "anche limitatamente all'entità della sanzione"), in combinato disposto con il più volte D.L. n. 223 del 2006, cit. art. 36 bis, comma 7, lett. a)), ossia, come specificato nello sviluppo della censura, la parte della decisione che riguarda la ritenuta insufficienza probatoria (anche) quanto alla determinazione dell'esatta durata dell'illecito contestato e, di conseguenza, quanto alla determinazione dell'ammontare della sanzione pecuniaria comminata. E' ben vero, infatti, che, come specificato anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, in tema di sanzioni amministrative, l'esercizio da parte del giudice del potere di modificare l'ordinanza amministrativa anche limitatamente all'entità della sanzione dovuta (previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 23) non comporta la sostituzione dell'autorità giudiziaria nel potere sanzionatorio della p.a. e la conseguente emissione di un nuovo provvedimento amministrativo, bensì l'esercizio di un sindacato intrinseco circa la congruità dell'importo sanzionatorio rispetto alla fattispecie in contestazione (così Cass. civ., sez. un., 4.11.2009, n. 23318). Nel caso di specie, tuttavia, la globale opacità del quadro probatorio, intravista dal giudice di secondo grado, ha investito anzitutto l'aspetto della natura giuridica del rapporto che legava i lavoratori impiegati, ma non registrati, dall'impresa degli ingiunti alla medesima impresa, sebbene in violazione della norma vigente all'epoca dei fatti, secondo quanto ritenuto nell'accogliere il primo motivo di ricorso. Non è chi non veda, perciò, che il mancato accertamento degli illeciti oggetto di sanzione - accertamento che costituisce evidentemente il prius logico-giuridico rispetto a tutto ciò che può riguardare l'esatta quantificazione della sanzione - preclude di ulteriormente sindacare in questa sede di legittimità nei sensi specificati nel quarto motivo la decisione oggetto di ricorso.

13. Infine del pari è assorbito il quinto ed ultimo motivo, con il quale per dichiarato "mero tuziorismo difensivo" viene sostenuta la configurazione di "un chiaro esempio di apparenza motivazionale".

14. La sentenza impugnata, perciò, dev'essere cassata in relazione al primo motivo accolto, con rinvio alla Corte d'appello di Milano, che nel nuovo esame del caso si atterrà al seguente principio di diritto: "Il D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 73 del 2002, come sostituito dal D.L. n. 223 del 2006, art. 36 bis, comma 7, lett. a), convertito, con modificazioni, in L. n. 248 del 2006, e prima delle sue successive modificazioni, era riferibile all'impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto sotteso a tale impiego".

15. Lo stesso giudice di rinvio provvederà a regolare anche le spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.



Accoglie il primo motivo di ricorso, e dichiara assorbiti i restanti motivi. Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.