Cassazione Penale, Sez. 4, 24 ottobre 2022, n. 40073 - Mortale caduta dall'alto durante la pulizia della finestra dell'officina. Condotta certamente spericolata e rischiosa ma non abnorme poichè inserita nell'ambito dell'operazione richiesta al lavoratore


 

 

Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: PAVICH GIUSEPPE Data Udienza: 18/10/2022
 

 

Fatto




1. La Corte d'appello di Bari, in data 21 dicembre 2020, ha confermato - per quanto qui d'interesse - la condanna emessa dal Tribunale di Bari il 25 gennaio 2017 nei confronti di G.R., quale imputato del delitto di omicidio colposo, con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, in danno di R.B., conseguente ad incidente occorso il 5 giugno 2007 e con decesso del R.B. il 17 marzo 2008.
L'addebito viene mosso al G.R. nella sua qualità di socio amministratore della F.lli Robles s.n.c., di cui il R.B. era dipendente, con mansioni di autista. In tale veste si contesta al G.R., nell'editto imputativo, di non avere valutato i rischi di caduta dall'alto nel corso delle operazioni di pulizia di quei luoghi di lavoro e di non aver messo a disposizione dispositivi di protezione e attrezzature confacenti per l'esecuzione del lavoro in sicurezza.
L'infortunio oggetto dell'imputazione si verificò in Bitonto, allorquando il R.B., incaricato di effettuare lavori di pulitura dell'officina della ditta dell'imputato, stava lavorando sulla copertura di un box attiguo, che era realizzato con lamiere di metallo e vetroresina e non era perciò praticabile. Secondo la versione accolta dai giudici di merito, contestata in appello dalla difesa dell'imputato, il R.B. si sarebbe recato sul tetto del box perché incaricato dal G.R. delle operazioni di pulizia di una finestra posizionata a circa due metri di altezza; sennonché, mentre un compagno di lavoro (tale N.) si era recato a prendere le c.d. "mascelle" per fissare i palanconi da utilizzare per camminare sulla copertura del box, il R.B., salito sulla tettoia e portatosi sulla porzione di copertura in vetroresina, provocava il cedimento di tale copertura e cadeva al suolo da un'altezza di circa 2,50 mt., producendosi gravi lesioni traumatiche. Seguiva il ricovero in ospedale. Il decesso del R.B. - il quale, peraltro, era già affetto da patologie epatiche di una certa gravità - avveniva a distanza di alcuni mesi, a fronte delle cure praticate dai sanitari.
Le lagnanze difensive, che riguardavano anche il nesso causale tra l'addebito colposo mosso al G.R. e l'evento - morte, sono state respinte dal Collegio d'appello sulla base delle valutazioni del consulente tecnico del P.M., prof. Vinci, secondo il quale, pur tenendo conto del lungo periodo di degenza e delle condizioni patologiche del R.B., ha ritenuto che l'incidente fosse la causa - più che una semplice concausa - della morte della vittima, evidenziando fra l'altro che alcuni dei farmaci somministrati al paziente in relazione all'episodio traumatico avevano un impatto epatotossico sicuramente incidente sulla sua già alterata funzionalità epatica; viceversa sono state disattese le valutazioni del consulente tecnico della difesa, prof. Dell'Erba, che ha confutato le conclusioni del prof. Vinci in ordine al nesso di causalità tra l'incidente e la morte del R.B.. E' stato infine escluso che l'incidente occorso al R.B. fosse dovuto a un comportamento abnorme dello stesso, come tale idoneo a interrompere il nesso causale tra la condotta attribuita all'imputato e l'evento che ne seguì.

2. Avverso la prefata sentenza ricorre il G.R., con atto affidato a due motivi di lagnanza.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione anche per travisamento delle prove, nonché mancata assunzione di una prova decisiva, con riguardo al percorso causale che dall'incidente giunse al decesso del R.B., fatto proprio dalla Corte di merito; dopo avere riepilogato le argomentazioni rese sul punto sia nella sentenza di primo grado, sia in quella oggi impugnata, il deducente lamenta in particolare che, a fronte di valutazioni opposte e inconciliabili rese dai due consulenti di parte (quello del P.M. e quello della difesa), ben poteva e doveva essere disposta una perizia, come sollecitato dalla difesa dell'imputato e come del resto si ricava dalle indicazioni fornite al riguardo da taluni arresti della giurisprudenza di legittimità, richiamati per ampi stralci. Muovendo dal rilievo che il contrasto fra le due tesi peritali riguardava in particolare l'incidenza eziologica dei farmaci somministrati al R.B. in seguito alla caduta (che secondo la Corte distrettuale determinarono l'aggravamento della cirrosi da cui egli era affetto), il ricorrente contesta - sulla base di elementi emersi nel corso del dibattimento - quanto asserito nella sentenza impugnata circa il fatto che, prima dell'incidente, il R.B. conducesse una vita regolare e non manifestasse segni di sofferenza epatica, nonché a proposito dell'effetto epatotossico dei farmaci somministrati durante i periodi di ricovero; in aggiunta, il deducente censura la sentenza impugnata laddove non attribuisce il dovuto rilievo causale agli effetti delle intossicazioni da klebsiella e acinobacter contratte durante la degenza e combattute con antibiotici.. Per tali ragioni, conclude l'esponente, era necessario l'espletamento di un'indagine peritale che superasse i contrasti fra le tesi opposte dei consulenti di parte.
2.2. Con il secondo motivo di doglianza l'esponente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al fatto che non sia stata riconosciuta portata interruttiva alla condotta del R.B. (il quale, mentre il compagno di lavoro N. si era allontanato, invece di attenderlo era salito autonomamente sulla scala per montare sulla copertura del box): condotta che la stessa Corte di merito ammette essere stata imprudente e che invece il ricorrente reputa essere qualificabile come eccezionale, imprevedibile e come tale idonea a interrompere il nesso -di causalità.

 

Diritto



l. Il primo motivo di ricorso é caratterizzato da manifesta infondatezza e prospetta in buona parte questioni insuscettibili di essere sottoposte a sindacato di legittimità.
In primo luogo, avuto riguardo alla proposizione del motivo di ricorso in esame (anche) per mancata assunzione di una prova decisiva, deve osservarsi che, come chiarito dalla giurisprudenza apicale di legittimità, la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art.606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova "neutro", sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l'articolo citato, attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, cod.proc.pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. U, Sentenza n. 39746 del 23/03/2017, A. e altro, Rv. 270936). Nel caso di specie, fra l'altro, non può in alcun modo ritenersi che la perizia avrebbe colmato un vuoto probatorio, atteso che gli elementi valutativi - pur contrastanti - esposti dai consulenti di parte coprivano l'intero perimetro delle questioni da esplorare ai fini della ricostruzione della serie causale successiva all'incidente.
In secondo luogo, deve ricordarsi che costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, la scelta operata dal giudice, tra le diverse tesi dai consulenti delle parti, di quella che ritiene maggiormente condivisibile, pur in assenza di una perizia d'ufficio, purché la sentenza dia conto, con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni di tale scelta, del contenuto dell'opinione disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (Sez. 4, Sentenza n. 8527 del 13/02/2015, Sartori, Rv. 263435; Sez. 4, Sentenza n. 34747 del 17/05/2012, Parisi, Rv. 253512); e non vi é dubbio che, al di là delle contrarie affermazioni del ricorrente, tese a rivendicare la preferibilità delle ragioni esposte dal consulente prof. Dell'Erba, le considerazioni spese dalla Corte di merito per argomentare la scelta della tesi sostenuta dal prof. Vinci appaiono adeguatamente esposte, sorrette da un percorso valutativo non manifestamente illogico e basato su elementi coerentemente articolati, e si sottraggono perciò al vaglio di legittimità demandato a questa Corte. L'incidenza dei farmaci assunti dal R.B. durante i periodi di degenza successivi all'incidente sulle sue condizioni patologiche pregresse (in particolare a livello epatico) é stata ravvisata dai giudici dell'appello sulla base dell'ampio percorso argomentativo del prof. Vinci (vds. pp. 22-24 della sentenza), condiviso dal C.T. delle parti civili dott. Solarino (ibidem, p. 24); quanto alle considerazioni del prof. Dell'Erba, la stessa Corte di merito osserva che in realtà il C.T.D. aveva egli stesso sostanzialmente ammesso un ruolo "concausale" del trauma conseguente all'incidente nel decesso del R.B. (pag. 27 sentenza).

2. E', del pari, inammissibile il secondo motivo di ricorso .
E' stato ampiamente argomentato nella sentenza impugnata, in primo luogo, il fatto che fu il G.R. ( odierno ricorrente) ad impartire al R.B., al N. e al DL. l'ordine di pulire i vetri del capannone; in tale occasione era bensì disponibile un'impalcatura mobile, che venne usata dal DL., ma in ogni caso lo stesso G.R. non aveva vietato ai tre operai di salire sul lastrico del box attiguo (dalla cui copertura cadde la vittima); e certamente il R.B., che tra l'altro svolgeva mansioni di autista, al momento della caduta non indossava il casco né disponeva di strumenti di protezione per lavorare in quota, come del resto lo stesso N. che ha riferito in merito quale teste (pagg. 13-14). Perciò l'iniziativa del R.B., che correttamente la Corte di merito ha definito come gravemente imprudente, si collocava tuttavia nel contesto di una prestazione, richiesta espressamente dal G.R., costituita dall'esecuzione di lavori in quota per la pulitura di finestre poste a un'altezza di circa due metri; e non poteva pertanto dirsi caratterizzata da abnormità o eccentricità nel senso indicato dalla giurisprudenza di legittimità .
A tal fine, occorre richiamare il principio affermato dalla sentenza n. 38343/2014 (Espenhahn ed altri, c.d . sentenza Thyssenkrupp), in base al quale, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, é necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (negli stessi termini vds. anche Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016 - dep. 2017, Gerosa e altri, Rv. 269603; cfr . in termini sostanzialmente identici Sez. 4, n. 15174 del 13/12/2017 - dep. 2018, Spina e altro, Rv. 273247). Sulla scorta di questo principio si é altresì affermato che, in tema di causalità, la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv . 263386).

In tale quadro, il fatto che il R.B. avesse deciso di salire sulla tettoia del box (certamente inidonea a sopportare il peso di una persona) si collocava a sua volta nell'ambito di un'operazione concordata con il N., costituita dalla preventiva apposizione di due "palanconi" (tavole in legno che avrebbero dovuto formare una pedana per calpestare la tettoia), sebbene lo stesso R.B. avesse deciso di non attendere il collega che stava andando a prendere delle "mascelle" per fissare i "palanconi" ed avesse deciso di salire da solo sulla tettoia, che in conseguenza di ciò cedeva sotto il suo peso. Appare evidente che non può parlarsi di una condotta imprevedibile, eccezionale o abnorme, ma di una condotta che certamente risultava spericolata e rischiosa, eppure chiaramente inserita nell'ambito dell'operazione di pulitura che il G.R. aveva disposto, oltreché tutt'altro che imprevedibile, stante la possibilità (verificatasi) che alcuno dei lavoratori decidesse di avvicinarsi alle finestre da pulire non già utilizzando l'impalcatura mobile, ma salendo sul tetto del box, del tutto inadeguato alla bisogna. Vi é al riguardo un dato testuale che risulta di fondamentale importanza, costituito dalle disposizioni di cui al Titolo IV, capo II del D.Lgs. n. 81/2008, recante Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nei lavori in quota, ed in particolare da quanto stabilito dall'art. 148, in base al quale «Prima di procedere alla esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, deve essere accertato che questi abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali di impiego » ; e, «nel caso in cui sia dubbia tale resistenza, devono essere adottati i necessari apprestamenti atti a garantire la incolumità delle persone addette, disponendo, a seconda dei casi, tavole sopra le orditure, sottopalchi e facendo uso di idonei dispositivi di protezione individuale anticaduta». A ciò si soggiunge che l'art. 107 del Testo Unico del 2008 riferisce a lavori comportanti rischi di caduta da un'altezza superiore ai due metri, e che é nozione di applicazione generale, riguardando tutte le attività in quota che possano determinare cadute dall'alto dei lavoratori (cfr. Sez. 4, n. 21268 del 03/10/2012 - dep. 2013, Ciraci' e altri, Rv. 255277).
In tale quadro, risulta altresì evidente il ruolo causale della mancata valutazione, da parte del G.R. (nella sua qualità apicale) dei rischi connessi alle lavorazioni in quota, alla quale si associava la mancata distribuzione al personale di dispositivi di protezione adeguati a quelle lavorazioni, che, se usati, avrebbero verosimilmente scongiurato le conseguenze del sinistro o ne avrebbero comunque limitato la gravità.

3. Alla declaratoria d'inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», il ricorrente va condannato al pagamento di una somma che si stima equo determinare in € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

 

P.Q.M.
 



Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 18 ottobre 2022.