Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 27 ottobre 2022, n. 31852 - Risarcimento del danno differenziale da malattia professionale dell'addetto alla palificazione/elettrificazione. Domanda di manleva


 

 

Presidente: ESPOSITO LUCIA
Relatore: PAGETTA ANTONELLA
Data pubblicazione: 27/10/2022
 


Fatto


1. N.P., premesso che in via giudiziale era stato accertato affetto da malattia professionale con riconoscimento del danno biologico pari al 18% , ha agito in giudizio per il risarcimento del danno differenziale oltre che morale e patrimoniale connesso all'attività di addetto alla palificazione /elettrificazione svolta alle dipendenze di Enel Distribuzione s.p.a.; ha allegato che tale attività comportava la movimentazione manuale dei carichi, l'esposizione a vibrazioni ed a posture incongrue nonché ad eventi climatici e dedotto la violazione da parte della datrice di lavoro delle norme poste a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
2. Il giudice di primo grado ha respinto la domanda.

3. La Corte di appello di Campobasso, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha condannato E -Distribuzione s.p.a. (già Enel Distribuzione s. p. a. ) a corrispondere al N.P., a titolo di risarcimento del danno differenziale da malattia professionale, la somma di €23.211,81 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla domanda al soddisfo, respingendo la domanda di manleva proposta dalla società datrice nei confronti Generali Italia s.p.a già Ina Assitalia s.p.a..
3.1. Ha ritenuto il giudice di appello: a) che il termine - decennale ex art. 2087 cod. civ. - di prescrizione, decorrente dall'anno 2002 in coincidenza con la cessazione all'adibizione del lavoratore alle mansioni morbigene, era stato utilmente interrotto dalla lettera di messa in mora del 30/11/2006; b) che gli elementi in atti avevano confermato lo svolgimento dell'attività dedotta ed il carattere morbigeno della stessa nonché il nesso causale con le patologie denunziate dal ricorrente; c) che la società datrice di lavoro, sulla quale ricadeva il relativo onere, non aveva dimostrato di avere adottato le cautele dirette ad eliminare o ridurre il rischio specifico connesso all'attività prestata, ed in particolare di avere attuato la sorveglianza sanitaria periodica annuale, di avere provveduto all'adeguamento dei mezzi speciali al numero effettivo dei lavoratori, di avere garantito la formazione/informazione dei lavoratori sui rischi specifici e le misure di prevenzione obbligatorie, di avere in concreto effettuato la valutazione dei rischi; d) che in ragione della condivisibile percentuale di invalidità accertata dal consulente tecnico d'ufficio di primo grado in misura pari al 16%, in assenza di elementi giustificativi di "personalizzazione" del danno, sulla base delle tabelle in uso presso il Tribunale di Milano, l'ammontare del danno biologico anelava quantificato in € 40.702,00, dal quale doveva essere detratta la somma corrisposta dall'INAIL a titolo di indennizzo per danno biologico, pari a€ 17.493,19, per cui spettava al lavoratore a titolo di risarcimento del danno differenziale la somma di € 23.211, 81, oltre accessori; e) che erano da escludere in base alle condizioni di polizza i presupposti per l'accoglimento della manleva a carico della società assicuratrice.
4. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso E- Distribuzione s.p.a. ( Già Enel Distribuzione s.p.a. ) sulla base di sei motivi; N.P. e e Generali Italia s.p.a. ( già Ina Assitalia s.p.a.) hanno ciascuna resistito con controricorso.
5. Tutte le parti hanno depositato memoria.

 

Diritto



1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 10 d.P.R. n. 1124/1965, censurando la sentenza impugnata per avere omesso di verificare la sussistenza del presupposto di applicabilità dell'art. 10 cit. rappresentato dalla esistenza di una condanna penale o comunque dalla configurabilità di una condotta penalmente rilevante a carico della parte datrice di lavoro.
2. Con il secondo motivo deduce, in via gradata rispetto al primo motivo: violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 cod. civ., violazione e falsa applicazione del d. P.R. n. 164/1956, dell'art. 37 c.c.n.l. 1973, degli artt. 4, 24, 33, 34 DPR n. 303/1956 e relativa Tabella nonché degli artt. 4, 16, 21 e 22 D.lgs. n. 626 del 1994 in relazione alla imputata omissione della sorveglianza sanitaria; violazione e falsa applicazione dell"art 4 d. lgs. n. 626/1994, dell'art. 2087 cod. civ. e dell'art. 11 Preleggi in relazione al profilo della omessa considerazione della movimentazione manuale dei carichi da parte del Documento valutazione dei rischi elaborato dalla società datrice di lavoro e omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti; critica la sentenza impugnata per avere affermato la sussistenza dell'obbligo di sorveglianza periodica sebbene l'art. 37 del c.c.n.l. di riferimento, il d. P.R. n. 303/1956 e il d.lgs. n. 626/1994 non contemplassero in relazione alle attività concretamente espletate un siffatto obbligo, stante anche il mancato protratto utilizzo di strumenti vibranti. Sostiene, quindi, che le mansioni espletate dall'originario ricorrente erano riconducibili all'ambito regolato dal d.P.R. n.164/1956, che non prevedeva alcun obbligo aggiuntivo di formazione, informazione o sorveglianza sanitaria. Contesta, in ogni caso, che le lavorazioni espletate non fossero contemplate nel documento valutazione rischi. Premessa inoltre la genericità delle allegazioni di controparte sulla quale non era stata ammessa la prova orale per la vaghezza e non decisività delle deduzioni a riguardo articolate - come riconosciuto dal giudice di prime cure- e la contestazione di tali allegazioni da parte di essa Enel, censura la decisione per avere ritenuto di poter procedere all'accertamento di situazioni lavorative sulla base delle risposte in sede di libero interrogatorio dell'appellante; ciò senza considerare che le dichiarazioni rese in tale sede hanno la medesima natura e valenza delle deduzioni di parte contenute negli atti difensivi per cui dovevano costituire oggetto di dimostrazione e che comunque le dichiarazioni rese dal lavoratore in sede di libero interrogatorio non risol:utive al fine della configurabilità dell'obbligo di sorveglianza sanitaria.
3. Con il terzo motivo viene denunziata la violazione e falsa applicazione dell'art. 10 del d.P.R. 1124/1965, degli artt. 1223, 2087 e 2697 cod. civ. per avere la Corte di appello ritenuto sussistente la responsabilità della ricorrente per omessa sorveglianza sanitaria, sebbene non fosse stata fornita alcuna allegazione e prova oggettiva del fatto che la suddetta sorveglianza consentisse di evitare le patologie in evoluzione; tali patologie peraltro avevano natura degenerativa legata per lo più all'età .
4. Con il quarto motivo parte ricorrente si duole dell'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio ai sensi dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. rappresentati, da un lato, dalla circostanza che il N.P. svolgeva mansioni di per sé faticose, all'aperto, per le quali gli era stato già riconosciuto un trattamento indennitario INAIL e, dall'altro, dall'assenza di deduzioni di carenza organizzativa riferibile all'Enel, essendo le patologie denunziate ricollegabili semmai alla natura intrinsecamente manuale delle mansioni svolte; denunzia inoltre violazione a falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ., degli artt. 115, 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ. e dell'art. 118 disp. att. cod. proc civ. in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., per avere la Corte ritenuto che l'Enel non avesse adottato tutte le cautele possibili per l'attenuazione dei rischi correlati all'attività lavorativa; viene eccepita, infine la nullità della sentenza ai sensi dell'art. 360 n. 4 cod. proc. civ. per avere i Giudici di seconde cure inspiegabilmente deciso di non ammettere le prove orali sui profili summenzionati.
5. Con il quinto motivo deduce omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti, violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e degli artt. 112, 113, 115, 132, comrna 2, n. 4 cod. proc. civ. e 118 disp att. cod. proc. civ. in relazione alla mancata rinnovazione della consulenza tecnica d'ufficio. L'omesso esame viene riferito all'avere la Corte territoriale trascurato di considerare le incertezze e le incongruità della conclusione della consulenza tecnica di ufficio espletata nel corso del giudizio di primo grado; viene, altresì, lamentata la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ.. ; la violazione di norme di diritto viene ravvisata nell'avere il giudice di appello negato il rinnovo della consulenza tecnica d'ufficio in ordine all'accertamento della sussistenza del nesso eziologico tra le attività lavorative e l'insorgenza delle patologie.
6. Con il sesto motivo parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1368 cod. civ. con riferimento alla polizza assicurativa stipulata da Enel, censurando il rigetto della domanda di manleva proposta dalla società nei confronti della Compagnia assicuratrice.


7. Il primo motivo di ricorso è infondato.
7.1. La pronuncia resa dalla Corte di appello di Campobasso ha accertato la responsabilità del datore con criteri di tipo civilistico, conformemente all'orientamento consolidato espresso da questa Suprema Corte (Cass. n. 9166/2017, Cass. n. 27699/2017, Cass. n. 12041/2020, Cass. n. 17655/2020). Già con la sentenza n. 9817/2008, cui sono seguite pronunce di analogo tenore, il giudice di legittimità ha affermato che "il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell'art. 1218 c.c. sull'inadempimento delle obbligazioni ... ne consegue che il lavoratore deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno". Da una panoramica complessiva del sistema normativo vigente e della giurisprudenza costituzionale sul tema dei rapporti tra giudizio civile e penale emerge come l'attuale sistema si caratterizzi per la pressoché completa autonomia e separazione tra i due giudizi, per cui il giudizio civile inizia e procede senza essere condizionato da quello penale. Invero, le numerose pronunce del Giudice delle leggi che si sono susseguite nel corso degli ultimi anni hanno esteso la responsabilità del datore di lavoro, prima limitata agli eventi derivati da fatto imputabile ai soli incaricati della direzione o della sorveglianza dei lavoratori, anche a quelli commessi da qualunque altro dipendente di cui dovesse rispondere ex art. 2049 cod. civ. (sentenza n. 22 del 1967); hanno dichiarato l'incostituzionalità del quinto comma dell'art. 10, nella parte in cui consentiva al giudice civile di accertare incidentalmente il fatto-reato soltanto nell'ipotesi di estinzione dell'azione penale per morte dell'imputato e per amnistia, e non anche per prescrizione del reato. Con successive pronunce, unitamente a modifiche normative, si è sostanzialmente decretata la fine della pregiudizialità penale. Con la sentenza n. 102 del 1981 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma quinto dell'art. 10 cit., "nella parte in cui non consente che, ai fini dell'esercizio del diritto di regresso dell'INAIL, l'accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nei casi in cui il procedimento penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi sia provvedimento di archiviazione"; inoltre ha dichiarato illegittime le norme impugnate, "nella parte in cui precludono al giudice civile di valutare i fatti dinanzi a lui dedotti in maniera diversa da quella ritenuta in sede penale, anche nei confronti del datore di lavoro che non sia stato posto in condizioni di partecipare al relativo procedimento". La sentenza n. 118 del 1986 ha esteso la declaratoria di illegittimità in favore dell'infortunato nel caso in cui il procedimento penale, nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, si sia concluso con un provvedimento di archiviazione o proscioglimento in sede istruttoria. Con la sentenza n. 372 del 1988 la Corte costituzionale ha, poi, chiarito che pure il diritto di regresso dell'INAIL prescinde "dalla sorte contingente del procxedimento penale" ed anche in sede di legittimità é pacifico che l'Istituto non debba necessariamente attendere l'instaurazione o l'esito del giudizio penale (Cass. n. 9601 del 2001; Cass. n. 5578 del 2003). Questo progressivo percorso di autonomizzazione del giudizio civile da quello penale é culminato con l'adozione del nuovo codice di procedura penale, che ha abbandonato il principio di unità: della giurisdizione e di prevalenza del giudizio penale, in favore di quello della parità dei diversi ordini giurisdizionali e della loro reciproca indipendenza, soprattutto a seguito della modifica dell'art. 295 cod. proc. civ., che ha limitato i casi di sospensione necessaria alle ipotesi previste dall'art. 75, co. 3, cod. proc. pen. da interpretarsi restrittivamente, stante il favore per la separazione dei giudizi con implicita accettazione del rischio di giudicati difformi. A seguito di questi mutamenti l'esonero non costituisce più una regola, bensì un elemento tendenzialmente recessivo rispetto all'esigenza prioritaria di assicurare alla vittima dell'infortunio, per i profili non coperti da indennizzo, una integrale riparazione del danno alla persona. Pertanto, la "condanna penale", che risulta ancora presente nella formulazione del secondo comma dell'art. 10 del D.P.R. n. 1124 del 1965, ha perduto del tutto la sua valenza prescrittiva, non solo perché sostituita dall'accertamento, in sede civile, del fatto che costituisce reato, ma anche perché non assolve più all'originaria funzione per cui era stata concepita, che era quella di disciplinare i rapporti di un pregiudiziale e prevalente procedimento penale rispetto ad un eventuale giudizio civile. In questo ambito la disciplina di cui agli artt. 10 ss. del dP.R. 1124/1965 deve essere interpretata nel senso che l'accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in relazione all'elemento soggettivo della colpa e al nesso causale fra fatto ed evento dannoso. Dall'allegazione fornita dal lavoratore in ordine alla sussistenza di gravi infortuni o patologie professionali e alla presenza di condizioni di lavoro incompatibili con lo stato di salute, la Corte territoriale ha affermato la responsabilità datoriale per violazione quantomeno dell'art 2087 cod. civ. (posto che il lavoratore non deve essere mai posto ad operare in condizioni di lavoro nocive). Ciò vale ad integrare, ad un tempo, sia l'illiceità penale del fatto ex art.10 TU, sia l'esistenza dei requisiti occorrenti tanto per la liquidazione del danno differenziale. Infatti, laddove vi sia la violazione dell'art. 2087 cod. civ. è sempre astrattamente configurabile un fatto di reato.
8. Il secondo motivo di ricorso deve essere respinto.
8.1. Dallo storico di lite della sentenza impugnata (v. sentenza, pag. 6 e sg.) si evince che il N.P. quale fonte della responsabilità datoriale ha dedotto:
a) la omessa sorveglianza obbligatoria ex d.P.R. n. 303/1956 b) la omessa sorveglianza sanitaria obbligatoria ex d. lgs. n. 626/1994, a fronte di attività implicanti la movimentazione manuale dei carichi, spinta e il traino; c) la violazione dell'art. 37 c.c.n.l. 1973 in relazione alla gestione del rischio intrinseco alla particolare gravosità delle lavorazioni; d) la carenza nel documento di valutazione dei rischi della effettiva valutazione connessa all'attività espletata; d) l'omissione degli obblighi di formazione e informazione prescritti dagli artt. 21 e 22 d. lgs n. 626/1994;
La Corte di merito ha ritenuto accertato lo svolgimento delle attività fonte degli obblighi datoriali come sopra dedotti sulla base delle dichiarazioni rese dal lavoratore nel corso del libero interrogatorio, quali suffragate dalla documentazione dallo stesso prodotta, documentazione non contestata nella sua essenza dalla società datrice di lavoro la quale si era limitata sostanzialmente ad affermare che le modalità di svolgimento dell'attività di movimentazione manuale dei sostegni e contropali era saltuaria, senza in realtà offrire elementi di valutazione utili a dimostrare tale assunto (v. sentenza, pag. 10).
Tale accertamento non è validamente censurato dalla odierna ricorrente; in primo luogo, la decisione non si pone in contrasto con il principio per cui le dichiarazioni rese nel libero interrogatorio costituiscono argomenti di prova ossia elementi sussidiari al libero convincimento del 9iudice, posto che il decisum di secondo grado non risulta fondato solo su tali dichiarazioni ma anche sulla produzione documentale del ricorrente e sul difetto di specifica contestazione della stessa da parte della società; né possono trovare ingresso in sede di legittimità le deduzioni relative al significato probatorio di tale documentazione in quanto, a prescindere dalla genericità della doglianza sul punto, tali documenti, in violazione del disposto dell'art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ., non sono specificamente individuati, né è trascritto il relativo contenuto e neppure indicata la sede di relativa produzione, come prescritto (Cass. n. 29093/2018, Cass. n. 195/ 2016 , Cass. n. 16900/ 2015, Cass. n. 26174/2014, Cass. n. 22607/2014, Cass. Sez. Un. n. 7161/ 2010); in secondo luogo, le censure che contrastano l'affermazione della sentenza impugnata in punto di difetto di valida contestazione delle allegazioni del ricorrente e della documentazione da questi prodotta sono inammissibili per non essere articolate in conformità dell'insegnamento della S.C. secondo il quale in virtù del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione con cui si deduca l'erronea applicazione del principio di non contestazione non può prescindere dalla trascrizione degli atti sulla cui base il giudice di merito ha ritenuto integrata la non contestazione che il ricorrente pretende di negare, atteso che l'onere di specifica contestazione, ad opera della parte costituita, presuppone, a monte, un'allegazione altrettanto puntuale a carico della parte onerata della prova (Cass.. n. 24062/2017, Cass. 20637/2016) ;
8.2. Alla luce dell'accertamento del giudice di merito in ordine al contenuto dei compiti in concreto svolti dal lavoratore, accertamento non incrinato dalle censure della odierna ricorrente, deve escludersi il denunziato vizio di sussunzione dell'attività espletata nell'ambito fondato sull'assunto che tale attività era soggetta alla disciplina dettata dal d. P.R. n. 164/1956 e non al d.P.R. n. 303/1956; è sufficiente a tal fine osservare che le attività svolte dal N.P. implicavano, tra l'altro, l'utilizzo di strumenti vibranti che in base alla tabella allegata al d.P.R. n. 303/1956, determinava l'obbligo per la società datrice della sorveglianza sanitaria; quanto al documento di valutazione dei rischi il relativo apprezzamento sotto il profilo della completezza ed effettività della valutazione appartiene al merito ed è insindacabile in sede di legittimità.
8.3 In relazione alla violazione riferita al contratto collettivo del 1973 si rileva che la Corte ha accertato, con apprezzamento insindacabile in questa sede perché adeguatamente motivato, che le mansioni cui era adibito il lavoratore rientravano nell'ipotesi prevista dalla lettera i dell'art. 37 c.c.n.l. ENEL ("personale che presta la propria opera in condizione di particolare gravosità e disagio") e che tanto comportava il dovere per la società datrice di adottare tutele ulteriori e diversificate quali, in particolare, l'avvicendamento tra i lavoratori che prestavano o la loro opera nelle predette condizioni e la sottoposizione a controlli medici necessari a prevenire il verificarsi di conseguenze dannose per la relativa integrità.
8.4. Non sussiste, infine, la denunziata violazione dell'art. 2697 cod. civ. in quanto la sentenza impugnata è conforme al consolidato orientamento di questa Suprema Corte che ha specificato che grava sul lavoratore l'onere di provare di aver subito un danno a causa dell'attività svolta, nonché il nesso di causalità tra l'uno e l'altra, mentre incombe sul datore l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie al fine di evitare il danno, ricomprendendosi in questa categoria anche quelle misure di sicurezza c.d. innominate, intendendosi quelle non espressamente contemplate dalla legge, ma comunque fondate su conoscenze tecnico-scientifiche o su altre fonti analoghe (Cass. 10319/2017; Cass. 29879/2019; Cass. n. 12041/2020).
9. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.

9.1. Invero, con il motivo in esame parte ricorrente, pur formalmente denunziando violazione e falsa applicazione di norma di diritto, contesta in realtà il concreto accertamento della esistenza del nesso di causalità tra condotta datoriale e patologia, nesso che è frutto di un tipico accertamento di fatto istituzionalmente riservato al giudice di merito ed incrinabile, ai sensi dell'art. 360, comma 1 n. 5 cod. proc. civ., solo dalla deduzione di omesso esame di un fatto decisivo e controverso, omissione neppure prospettata dall'odierna ricorrente.
10. Il quarto motivo di ricorso presenta plurimi profili di inammissibilità; in primo luogo la deduzione di vizio di motivazione non è coerente con la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale l'attuale configurazione dell'art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. richiede che il fatto del quale è denunziata l'omissione sia un fatto storico- fenomenico, di rilevanza decisiva, risultante dalla sentenza o dagli atti di causa ed evocato nel rispetto dell'art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ. (ex plurimis Cass. Sez. Un. n. 8053/2014); parte ricorrente si è infatti limitata a richiamare "fatti" che oltre a non essere evocati nel rispetto delle prescrizioni dettate dall'art. 366,. comma 1, n. 6 cod. proc. civ., sono privi di decisività, come il trattamento ind1ennitario riconosciuto dall'INAIL che non è preclusivo del diritto al risarcimento del danno differenziale azionato nel presente giudizio; in secondo luogo, la denunzia relativa alla mancata ammissione della prova orale non è formulata in termini idonei a dimostrare la decisività delle circostanze capitolate; ciò in quanto parte ricorrente, pur provvedendo alla trascrizione dei numerosi capitoli di prova articolati in prime cure, non li ha posti in relazione a specifiche allegazioni e deduzioni delle parti, allegazioni e deduzioni che costituivano la cornice indispensabile al controllo di decisività delle circostanze capitolate nel senso che le stesse, ove confermate, avrebbero, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, comportato il rigetto della domanda di controparte (Cass. n. 16214/2019, Cass. n. 5654/2017); in particolare, la censura difetta di autosufficienza in quanto il riferimento alle deduzioni formulate ( v. in particolare ricorso, pag. 29) non è sorretto dalla trascrizione o esposizione per riassunto degli atti di riferimento che avrebbero dovuto essere compiutamente individuati, come non avvenuto; in terzo luogo, la denunzia di apparenza di motivazione è formulata in termini apodittici e riferita non all'intrinseca "incomprensibilità" del percorso logico giuridico alla base del decisum quale esplicitato nella motivazione, ma solo al fatto della sostanziale mancanza " di agganci ad oggettive risultanze processuali" delle affermazioni del giudice di appello, deduzione intrinsecamente inidonea alla valida censura della decisione; è stato infatti chiarito che a fronte di una sentenza che manchi di indicare le fonti probatorie di un determinato accertamento, il ricorrente per cassazione non può limitarsi a lamentare il vizio di omessa motivazione, giacché altrimenti la censura postulerebbe la caducazione della decisione non per una concreta lesione sofferta dalla parte stessa, bensì solo per ragioni formali, ma ha l'onere di denunciare in maniera specifica che, contrariamente a quanto asserito dal giudice, nell'ambito degli elementi probatori non ne esistono di idonei a giustificare il convincimento espresso (Cass. n. 1593/2017), come in concreto non avvenuto.
11. Il quinto motivo di ricorso è infondato e presenta altresì profili di inammissibilità.
11.1. Esso censura in maniera piuttosto confusa sia la decisione della Corte di appello di non rinnovare la consulenza tecnica d'ufficio sia la sua adesione alle risultanze dell'elaborato peritale di primo grado. Quanto alla prima censura, la doglianza, sebbene prospettata ai sensi dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., quindi, come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, non indica in maniera chiara e specifica quale sia il suddetto fatto storico di cui assume l'omesso l'esame; né alcun vizio motivazionale è riferibile alla dichiarata adesione da parte della Corte territoriale alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio di primo grado. Come chiarito dalla S.C. il giudice di merito può legittimamente fare richiamo alle risultanze emergenti dalla consulenza tecnica d'ufficio, non essendo necessario che vengano fornite ulteriori motivazioni in ordine all'adesione all'elaborato peritale (Cass. n. 282/2009; Cass. n. 1815/2015). Parimenti infondata la censura con cui si lamenta la mancata rinnovazione della consulenza tecnica di ufficio e l'assenza di motivazioni a sostegno di questa decisione. Infatti, in tema di consulenza tecnica d'ufficio, il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di un'esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova consulenza tecnica d'ufficio, atteso che il rinnovo dell'indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito, sicché non è neppure necessaria una espressa pronunzia sul punto (Cass. n. 9379/2011; Cass. n. 17693/2013; Cass. n. 22799/2017).
Conseguentemente, non può nel caso concreto ravvisarsi un'ipotesi di motivazione solo apparente, non essendo la Corte territoriale tenuta a esplicitare le ragioni per le quali ha negato la rinnovazione della consulenza tecnica .
12. Il sesto motivo di ricorso è infondato.

12.1. La ricorrente non specifica in maniera chiara e precisa i vizi esegetici in cui è incorsa la Corte territoriale nell'interpretare il contratto di assicurazione e nel rigettare, in particolare, la domanda di manleva, non sussistendo, peraltro, alcuna contraddizione tra la mancata considerazione del rilievo penale della condotta datoriale e il rigetto della suddetta domanda di manleva. Invero, l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un'indagine di fatto, istituzionalmente affidata al giudice di merito e censurabile avanti al giudice di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. cod. civ. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità. (Cass. n. 27136/2017).
La censura, quindi, non può risolversi, come, viceversa, avvenuto nel caso di specie, nella mera contrapposizione tra l'interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest'ultima non deve essere l'unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni: sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l'altra. (Cass. n. 28319/2017,; Cass. n. 9461/2021).
13. In base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto e le spese di lite regolate secondo soccombenza.
14. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dell' art.13 d. P.R. 115/2002.
 

P.Q.M.
 


La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in favore di ciascuna parte controricorrente in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge. Con distrazione in favore del controricorrente N.P..
Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 22 giugno 2022