Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 09 novembre 2022, n. 33080 - Domanda di risarcimento danni dell'infermiera malata di “cherato-uveite di origine virale” 


 

 

Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: SARRACINO ANTONELLA FILOMENA
Data pubblicazione: 09/11/2022

 

Rilevato che:

Con sentenza n. 220/2017, la Corte di Appello di Catania, per quanto ancora rileva, ha rigettato ogni domanda proposta dall’infermiera professionale G.F., di risarcimento dei danni non patrimoniali e di rimborso delle spese mediche sostenute a cagione della “cherato-uveite di origine virale” contratta nel gennaio del 1994 per causa di lavoro.
In riforma della sentenza di primo grado - che aveva, invece, disposto la condanna al risarcimento dei danni, rigettando la domanda di manleva proposta dal datore di lavoro nei confronti di Generali Italia s.p.a., in quanto la polizza assicurativa non copriva detti eventi - il giudice di appello, ha qualificato come istantaneo (e non come permanente) l’illecito perpetrato dal datore e, sulla base della documentazione medica in atti, ha datato l’insorgenza della patologia, al più tardi nel gennaio del 1994.
Sulla scorta di tale accertamento ha escluso la legittimazione passiva (sostanziale e processuale) del soggetto evocato in causa dalla lavoratrice, l’ARNAS - Azienda ospedaliera di rilievo nazionale e di alta specializzazione “Garibaldi di Catania (di seguito ARNAS), in ragione del rilievo che dei pregressi rapporti di debito/credito delle Usl (la G.F. aveva lavorato presso l’ambulatorio di chirurgia e senologia dell’ospedale S. Luigi Currò, facente capo all’Usl, poi soppressa ad opera del d.lgs. n. 502 del 1991, con istituzione dell’ Ausl) risponde la Regione per effetto dell’art. 6, comma 1, della l. n. 724 del 1994 e 2, comma 14, della l. n. 549 del 1995. In estrema sintesi, sulla scorta dei dati normativi innanzi richiamati, per il giudice di appello, in Sicilia le nuove Ausl sono succedute a titolo particolare nei rapporti contrattuali già in essere (e dunque anche in quelli con il personale dipendente), ma non nelle obbligazioni anteriori al dicembre 1994.
Ricorre per cassazione la lavoratrice con tre motivi.
Resiste l’ARNAS, proponendo ricorso incidentale condizionato.
Resiste altresì Generali Italia s.p.a.
Depositano memorie la lavoratrice e l’ARNAS.

Considerato che:

1. Con il primo mezzo la lavoratrice deduce la violazione e l’errata interpretazione dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 2935 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
Lamenta che l’illecito che viene in rilievo non è istantaneo, ma permanente e che la condotta illecita del datore era proseguita fino all’anno 2004, sicché l’individuazione del momento di realizzazione dell’evento va compiuta avuto riguardo alla cessazione della permanenza, a far tempo dal quale decorre indi il termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2935 c.c.
Insiste, quindi, sulla responsabilità anche della subentrata ARNAS, nella causazione dei danni di cui chiede il risarcimento, sottolineando che le emergenze probatorie, testimoniali e documentali, oltre che l’espletata CTU depongono nel senso della permanenza dell’illecito.
Richiama a fondamento del proprio percorso argomentativo Cass. Sez. U, n. 3560 del 2017, nonché Cass. n. 7272 del 2011.
1.1. Il primo motivo è infondato e va rigettato. In via preliminare va chiarito che il Collegio non intende in alcun modo discostarsi dagli insegnamenti di Sez. U, n. 3560/2017, che condivide e fa propri.
Resta fermo, quindi, il principio ivi affermato secondo cui l’illecito permanente è caratterizzato da una prolungata condotta lesiva (omissiva o commissiva) che cessa nel momento in cui il soggetto agente non ha più la possibilità di proseguirla o farla venir meno, con la conseguenza che, in caso di inadempimento contrattuale dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c., la permanenza viene meno con il cessare del rapporto di lavoro del danneggiato e ciò in ragione del fatto che è in tale momento che viene meno la possibilità, per il datore di lavoro, di cui si assume l’inadempienza, di provvedere a quelle cautele relative alla sicurezza del lavoro foriere del danno.
In alternativa la permanenza potrà cessare ove la parte datoriale metta in sicurezza i luoghi di lavoro, così facendo cessare l’inadempimento e, conseguentemente, anche la permanenza.
Tanto premesso, al fine di sgombrare il campo da ogni equivoco, va rilevato come la fattispecie all’attenzione del Collegio meriti una peculiare attenzione, atteso che il fulcro della questione a valutarsi non è la permanenza o meno della condotta datoriale inadempiente che, lo si anticipa, emerge ex actis come continuata fino (almeno) all’anno 2003 in cui è stato introdotto il giudizio di prime cure, quanto piuttosto l’efficienza causale di detta permanenza sulla patologia sofferta dalla lavoratrice.
Al riguardo va ricordato brevemente che la giurisprudenza penale nelle pronunzie più recenti (si vedano, tra le più note, Cass. pen. n. 24997/2012, Cass. pen. n. 11128/2015, Cass. pen. n. 32869/2021) ha affrontato il tema della rilevanza anche del fattore causale acceleratore in caso di prolungata esposizione a fattori di rischio e lo ha risolto in senso positivo.
Il tema centrale da esaminare ruota, quindi, attorno alla possibilità di considerare, successivamente alla contrazione della patologia da parte del lavoratore, causalmente rilevanti, quali fattori di accelerazione e/o di aggravamento della malattia, le successive esposizioni a fattori di rischio, nel perdurare dell’inadempimento datoriale di mancata adozione delle necessarie misure di prevenzione e sicurezza.
Ebbene, il giudice di legittimità con le pronunzie innanzi ricordate (cui può aggiungersi, sebbene con curvatura differente, anche Cass. pen. n. 44943/2021) opera il superamento - ai fini causali
- della tesi della dose cd. indipendente o trigger dose secondo la quale ai fini dell’accertamento della sussistenza del nesso causale va valorizzata la sola esposizione - la condotta inadempiente ex art. 2087 c.c. - sufficiente ad innescare la malattia, irrilevanti tutte quelle successive.
Viene sostenuto, dunque, l’apporto eziologico anche della dose cd. correlata ovvero del permanere della esposizione ai fattori di rischio (dunque della condotta inadempiente ex art. 2087 c.c.) successiva all’eziopatogenesi della malattia.
Non vi è dubbio che questo approccio meglio colga il complesso fenomeno causale, dando rilevanza anche alle condotte inadempienti rispetto agli obblighi di sicurezza di cui agli artt. 2087 c.c. successive alla genesi della patologia.
Tali condotte inadempienti degli obblighi di protezione verso i lavoratori, successive all’insorgenza della patologia, va chiarito, potranno essere valorizzate e ritenute causalmente efficienti, sempre che abbiano svolto un ruolo di accelerazione nella patologia o l’abbiano aggravata.
Sicché, pur aderendo il Collegio alla ricostruzione più recente del giudice di legittimità, innanzi ricordata, secondo la quale va verificata la rilevanza causale anche delle condotte datoriali inadempienti ex art. 2087 c.c., successive alla genesi della patologia (o all’infortunio), ne va comunque verificata l’incidenza eziologica come fattore di aggravamento o accelerazione.
Spostando il tema di indagine al caso in esame, incontestato che la condotta inadempiente del datore rispetto agli obblighi imposti dall’art. 2087 c.c. sia proseguita almeno fino all’anno 2003 in cui è stato proposto il ricorso ex art. 414 c.p.c., occorre quindi valutare la rilevanza della causalità cd. correlata, ovvero la rilevanza eziologica dell’esposizione della lavoratrice a fattori di rischio dopo l’insorgenza della malattia (avvenuta al più tardi nell’ottobre del 1994 - cfr. sentenza di appello i atti pag. 7).
Ebbene, nel caso di specie, con accertamento di merito incensurabile in questa sede, la Corte territoriale ha espressamente escluso che le esposizioni a fattori di rischio, dovute al permanere dell’inadempimento datoriale agli obblighi di protezione verso i lavoratori, pur dopo la genesi della patologia nel gennaio del 1994, abbiano svolto un ruolo di accelerazione e/o di aggravamento.
Scrive il giudice di appello “(…) una volta che la lavoratrice ha contratto il virus che ha innescato il processo morboso è da ritenersi che la condotta dell’azienda abbia esaurito la sua efficacia lesiva. Né d’altra parte la G.F. ha dimostrato o quanto meno allegato che il decorso della malattia che ha portato alla perdita del visus dell’occhio sinistro ed alla conseguente sindrome depressiva è stato influenzato causalmente dall’immutato mantenimento delle pregresse condizioni dell’ambiente di lavoro sì da poter con ragionevole probabilità affermare che in assenza della protratta omissione dei dispositivi di protezione (guanti e mascherine) l’infezione avrebbe avuto un excursus diverso e meno infausto. Quest’ultima evenienza è anzi da ritenersi esclusa sulla scorta delle osservazioni medico- legali contenute nell’elaborato peritale in atti in cui i ctu nominati dal tribunale configurano la compromissione del visus come una complicanza della riattivazione virale e quindi della manifestazione clinica della recidiva della malattia erpetica (…)” (cfr. sentenza pag. 7).
In estrema sintesi, sulla base dell’esame dei documenti e degli accertamenti compiuti nella fase di merito (peraltro non più rivisitabili in questa sede), si è esclusa la sussistenza di un aggravamento o di un fattore di accelerazione della patologia in conseguenza del perdurare della condotta illecita datoriale.
Ne consegue la correttezza della decisione di merito nel qualificare – nel caso di specie - l’illecito come istantaneo (risalente all’ottobre 1992) ad effetti permanenti.
2. Con la seconda doglianza si lamenta la violazione dell’art. 24, comma 21, della l.r. Sicilia n. 2 del 2007, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
Insiste parte ricorrente sulla legittimazione passiva dell’ARNAS evocata in giudizio.
Lamenta di aver richiesto, vista l’eccezione di carenza di legittimazione sollevata in memoria di costituzione dall’ARNAS, di essere autorizzata alla chiamata in causa dell’Asl n. 3 di Catania, sezione stralcio, istanza reiterata in corso di causa e rigettata. Rappresenta che il giudice di prime cure aveva accolto la domanda di risarcimento, rigettando l’eccezione di difetto di legittimazione sul rilievo che l’illecito andava qualificato come permanente e che la condotta datoriale in violazione dell’art. 2087 c.c. si era protratta almeno fino al 2003, data di proposizione del ricorso in primo grado.
Precisa che, sollevata nuovamente in appello l’eccezione di difetto di legittimazione passiva da parte dell’ARNAS, non aveva riproposto la richiesta di integrazione del contraddittorio, poiché, ex art. 24, comma 21, della l. r. Sicilia n. 2 del 2007, le gestioni liquidatorie costituite presso le aziende unità sanitarie locali erano cessate a decorrere dal 1.1.2007, sicché non poteva più evocarsi in giudizio un soggetto giuridicamente inesistente
Da quanto innanzi inferisce la sussistenza della legittimazione sostanziale e processuale dell’ARNAS.
2.1. Il mezzo è infondato e va rigettato.
La legittimazione passiva in materia compete alle Regioni, ai sensi dell’art. 6, comma 1, della l. n. 724 del 1994 e dell’art. 2, comma 14, della l. n. 549 del 1995.
In tal senso, peraltro, la giurisprudenza di legittimità si è già espressa con orientamento cui il Collegio intende dare continuità, affermando che “in seguito alla soppressione delle USL ad opera del D.Lgs. n. 502 del 1992, che ha istituito le A.U.S.L., e per effetto degli artt. 6, primo comma della legge n. 724 del 1994 n. 724 e 2, quattordicesimo comma della legge n.549 del 1995, che hanno individuato nelle Regioni i soggetti giuridici obbligati ad assumere a proprio carico i debiti degli organismi soppressi mediante apposite gestioni a stralcio (di pertinenza delle Regioni anche dopo la trasformazione in gestioni liquidatorie affidate ai direttori generali delle nuove aziende), si è verificata una successione "ex lege" delle Regioni nei rapporti di debito e credito già facenti capo alle vecchie USL, caratterizzata da una procedura di liquidazione; ne consegue che la legittimazione sostanziale e processuale concernente i pregressi rapporti creditori e debitori delle soppresse USL spetta alle Regioni. Quanto alla Regione Sicilia tale principio va tenuto fermo per le pretese creditorie maturate anteriormente al 10 luglio 1995, data di inizio del funzionamento delle Aziende unità sanitarie locali nel territorio della Regione Siciliana, come si desume anche dall'art. 1 del D.L. n. 630 del 1996 convertito in legge n. 1 del 1997, senza che in senso contrario siano desumibili argomenti dalla legislazione regionale della Regione Sicilia, dall'art. 1 comma trentacinquesimo, legge n. 662 del 1996; sussiste invece la legittimazione passiva delle Aziende per il periodo successivo alla data di inizio del funzionamento di esse” (cfr. in tal senso Cass. n. 11197/2002, Rv. 55636101 e successive conformi). Insomma, va qui precisato che non si è in presenza di un fenomeno rilevante ai sensi dell’art. 2112 c.c. e, pertanto, di un subentro del nuovo soggetto nei pregressi rapporti di credito e debito, essendo piuttosto la successione regolata espressamente dalla legge nei termini innanzi indicati. Conclusivamente il motivo va rigettato, senza che rilevi la mancata autorizzazione alla chiamata in causa dell’Asl da parte del giudice di primo grado: essa è sempre discrezionale e non suscettibile di censura né in appello né in sede di legittimità (v., ex aliis, Cass. n. 7406/2014).
3. Con il terzo motivo si lamenta, in tema di spese processuali, la violazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c.
Si sostiene che l’erroneità della sentenza di appello comporta il pagamento dell’ARNAS al pagamento delle spese del primo e del secondo grado di giudizio.
3.1. La censura va disattesa perché, in sostanza, si traduce non già in una vera e propria censura, ma nella mera (e inutile) sollecitazione ad applicare l’art. 336, comma 1, c.p.c. in caso di accoglimento dei precedenti motivi di ricorso, il che nel caso in oggetto non avviene alla stregua delle considerazioni sopra svolte.
4. Con ricorso incidentale condizionato l’ARNAS sottopone al giudice di legittimità il motivo di appello, assorbito stante il rigetto di ogni domanda proposta dalla lavoratrice nei suoi confronti, relativo alla ricomprensione nella polizza stipulata con Generali Assicurazioni s.p.a. anche del sinistro per cui è causa, sostenendo il diritto ad essere manlevata dalla compagnia di assicurazioni Generali Italia s.p.a.
4.1. Il rigetto del ricorso principale comporta evidentemente l’assorbimento di quello incidentale condizionato.
5. L’esito alternato dei giudizi in fase di merito, la complessità delle questioni trattate e la novità delle stesse consentono di compensare tra tutte le parti le spese del giudizio di legittimità.
6. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto, in capo alla ricorrente.
 

P.Q.M.
 

rigetta il ricorso principale, assorbito quello incidentale, e compensa le spese del giudizio di legittimità tra tutte le parti.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il relativo ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale del 23 settembre 2022.