Cassazione Civile, Sez. 6, 11 novembre 2022, n. 33264 - Lesione psico-fisica in conseguenza del comportamento vessatorio della società datrice di lavoro. Ricorso inammissibile


 

 

Presidente: DORONZO ADRIANA Relatore: LEO GIUSEPPINA
Data pubblicazione: 11/11/2022
 

Rilevato che:
1. la Corte di Appello di Napoli, con sentenza pubblicata il 19.3.2020, ha accolto il gravame interposto dalla S.r.l. Presidio di Riabilitazione Diocleziano, nei confronti di R.B. e dell'Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro-INAIL, avverso la pronunzia del Tribunale della stessa sede n. 8403/2015, resa il 29.1.2019, con la quale era stata accertata la sussistenza di una lesione psico-fisica, valutata nella misura del 10%, in conseguenza del comportamento vessatorio mantenuto dalla società datrice di lavoro ed era stato condannato l'INAIL alla corresponsione di un indennizzo di Euro 11.033,93 a decorrere dalla domanda amministrativa del 18.6.2013, ed altresì la società datrice di lavoro al pagamento delle somme: di Euro 12.015,07 a titolo di danno biologico differenziale, di Euro 7.682,00 a titolo di danno morale, di Euro 4.608,00 a titolo di danno biologico temporaneo, di Euro 4. 741,67 a titolo di danno patrimoniale, di Euro 1.124,77 per differenze sul TFR; ed inoltre, era stata dichiarata inammissibile l'azione di regresso dell'INAIL in quanto non proposta nelle forme della domanda riconvenzionale;
2. la Corte di merito, pertanto, < <in accoglimento dell'appello e in parziale riforma della sentenza impugnata>>, ha rigettato <<le domande risarcitorie avanzate in primo grado da R.B.>> e, per quanto ancora di rilievo in questa sede, ha ritenuto che <<la ricostruzione operata dalla R.B. risulta contraddittoria, lacunosa e non sufficiente ad evidenziare quella volontà persecutoria che deve contraddistinguere la condotta del datore di lavoro o di soggetti ad esso riferibili per potersi ritenere integrata la fattispecie del mobbing. Infatti, si nota una palese incongruità tra quello che è definito come atteggiamento vessatorio e la circostanza che la R.B. si sia vista attribuire responsabilità via via crescenti all'interno della struttura sanitaria nella quale operava, fino ad essere nominata coordinatrice delle terapie>>;
3. per la cassazione della sentenza R.B. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi; la S.r.l. Presidio di Riabilitazione Diocleziano e l'INAIL hanno resistito con controricorso;
4. la proposta del relatore è stata comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza camerale, ai sensi dell'art. 380-bis del codice di rito.

Considerato che:
5. con il primo motivo articolato si deduce testualmente: <<La sentenza impugnata è errata perché omette di valutare la circostanza, dedotta dalla lavoratrice e decisiva ai fini del giudizio, della illiceità della pratica della c.d. banca ore imposta da parte datoriale (pratica mai disconosciuta dalla società convenuta nei precedenti gradi di giudizio), posta dallo stesso giudice a quo a motivo fondamentale dei contrasti insorti fra la ricorrente e la direzione aziendale>>;
6. con il secondo motivo si lamenta, testualmente, che <<la Corte di Appello di Napoli ha accolto l'appello proposto dalla s.r.l. Presidio di Riabilitazione Diocleziano - riformando integralmente la sentenza resa dal primo Giudice - perché non sarebbe stata raggiunta la prova del mobbing subito dalla lavoratrice "per carenza quantomeno dell'elemento soggettivo, costituto dall'intento persecutorio">>;
7. con il terzo motivo si denunzia, testualmente: <<il secondo Giudice ha errato pure laddove, pur riconoscendo la "incontestabile situazione di tensione esistente tra la R.B. e il personale di segreteria ...", ha apoditticamente ritenuto le vessazioni e mortificazioni poste in essere in danno della ricorrente come non ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro>>;
8. con il quarto motivo si deduce, testualmente: <<la sentenza impugnata argomenta inoltre che non vi sarebbe in atti certificazione medica comprovante l'origine lavorativa della malattia psichica, evidenziando la contraddizione a suo dire fra il certificato medico del 2006 e la circostanza dedotta dalla lavoratrice che nel periodo 2005-2009 la situazione lavorativa fosse migliorata, e osservando poi che i certificati medici del 2006 e del 2010 non fanno riferimento all'origine lavorativa della malattia. ... La Corte di merito ha palesemente omesso di valutare, come doveva in pedissequa applicazione dell'art. 115 c.p.c., l'ulteriore documentazione medica versata in atti, decisiva al fine che ne occupa, in particolare il certificato medico del 29 giugno 2012 rilasciato dal Dipartimento di salute mentale-Centro clinico per |’assistenza alle vittime di violenza sul lavoro della ASL Napoli 1, da cui risulta l'accertata origine lavorativa della malattia>>;
9. i quattro motivi — che possono essere trattati congiuntamente perché affetti dai medesimi vizi — sono tutti inammissibili sotto diversi e concorrenti profili; innanzitutto, perché articolati <<in forma libera>>: il giudizio di cassazione e, infatti, vincolato dai motivi del ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate nel codice di rito. Pertanto, il mezzo di impugnazione articolato deve possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 del codice di rito; sicché é inammissibile la critica generica delle sentenze impugnate (cfr., tra le molte, Cass. nn. 23797/2019; 19959/2014). Inoltre, la parte ricorrente neppure ha indicato tutte le norme che assume violate, né sotto quale profilo le stesse sarebbero state incise, né ha specificato, per ciascuna delle ragioni esposte nella sentenza sul punto oggetto della controversia, le contrarie ragioni, di fatto e di diritto, idonee a giustificare le censure; e ciò, in violazione della prescrizione di specificità di cui all’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c., che esige che il vizio della sentenza previsto dall'art. 360, primo comma, n. 3, del codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate, ma anche con specifiche argomentazioni intese motivatarnente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009). Per la qual cosa, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011).
Infine, i mezzi di impugnazione sono, all'evidenza, tesi ad ottenere un nuovo esame del merito, attraverso una diversa valutazione degli elementi probatori, non consentito in questa sede; ed attengono a censure di fatto, articolate mediante presunti errori di diritto, deducendosi, peraltro irritualmente, la violazione dell’art. 115 del codice di rito, dal momento che, in tema di valutazione delle risultanze probatorie, in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione della detta norma é apprezzabile, in sede di ricorso di legittimità, nei limiti del vizio di motivazione di cui al n. 5 de|l’art. 360 c.p.c. e <<deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non gia dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità>> (cfr., ex plurimis, Cass., ord. n. 8763/2019; sent. n. 24434/2016). Pertanto, la violazione dell’art. 115 c.p.c. non può essere dedotta nel ricorso per cassazione ove si lamenti che i giudici di merito, nel valutare le prove addotte dalle parti, abbiano attribuito <<maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre>> (v., tra le altre, Cass. n. 11892/2016);
10. per tutto quanto innanzi osservato, il ricorso va dichiarato inammissibile;
11. le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza, dovendosi sottolineare che quelle liquidate in favore del Presidio Riabilitazione Diocleziano S.r.l. sono da distrarre, ai sensi dell'art. 93 c.p.c., in favore dei difensori di quest'ultimo, avv.ti Andrea Ferraro e Vincenzo Mirra, dichiaratisi antistatari;
12. avuto riguardo all'esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui all'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall'art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, secondo quanto specificato in dispositivo.

 

P.Q.M.


La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge, in favore dell'INAIL, ed in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge, in favore del Presidio Riabilitazione Diocleziano S.r. I., da distrarre, ai sensi dell'art. 93 c.p.c., in favore dei difensori di quest'ultimo, avv.ti Andrea Ferrara e Vincenzo Mirra, dichiaratisi antistatari.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nell'adunanza camerale del 12 ottobre 2021