Categoria: Giurisprudenza sul d.lgs.n. 231/2001
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Cassazione Penale, Sez. 4, 28 novembre 2022, n. 45131 - Sepolto vivo nella cava di pietra durante il brillamento di sei quintali di esplosivo. Colpa di organizzazione


 

Presidente: FERRANTI DONATELLA Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 09/11/2022
 

 

Fatto

 

1. P.A.R., con i coimputati G.G., S.M. e V.N. veniva rinviato a giudizio:
a) per il reato di cui agli artt. 113, 589 cod. pen., co. 1 e 2, perché, in cooperazione tra di loro e, comunque, con condotte individuali ciascuna idonea a cagionare l'evento; per negligenza, imprudenza ed imperizia e, in ogni caso, per violazione di norme di legge, cagionavano, per colpa, la morte del lavoratore DL.S., dipendente della COCEBIT s.r.l., il quale, avendo fatto accesso alla guida della sua automobile al fronte di cava gestito dalla Semes s.r.l. senza incontrare alcun ostacolo o impedimento o allarme e ciò nonostante fosse imminente il brillamento dì circa sei quintali di esplosivo, veniva attinto e sepolto vivo da migliaia di tonnellate di pietra distaccatesi dal fronte a seguito dell'esplosione. In particolare, cagionavano colposamente la morte del DL.S. osservando condotte attive ed omissive in violazione degli artt. 6, co. II, 7, comma I, lett. e), 305, 317, comma III, 341, 346, I, II, III e IV comma, del D.P.R. n. 128 del 9 aprile 1959, recante norme di polizia delle miniere e delle cave nonché in violazione dell'ordine di servizio per l'impiego degli esplosivi in cava n. 1 del 2011, approvato dal competente Servizio attività estrattive della Regione Puglia in data 4 febbraio 2011, nonché in violazione dell'art. 78 del Decreto Legislativo n. 624/96, commi I, II e III, e relative norme tecniche di attuazione, nonché, infine, in violazione dell'art. 9, comma 11, lett. b), del medesimo Decreto n. 624/96, condotte colpose consistite:


• per il P.A.R., nella sua qualità di amministratore unico della società a.r.l. SEMES, proprietario della cava di pietra calcarea sita in Brindisi in c.da Autigno, nonché nella qualità di direttore della cava medesima e datore di lavoro della SEMES medesima nonché, infine, nella qualità di amministratore unico della COCEBIT s.r.l. e di datore di lavoro alle cui dipendenze era impiegato il DL.S.:
a) nell'aver tollerato che quest'ultimo si recasse varie altre volte, prima dell'incidente, a prelevare pietre dal fronte di cava, senza alcuna autorizzazione né addestramento specifico per fronteggiare la pericolosità del luogo;
b) nell'aver omesso di predisporre un idoneo servizio di sospensione del transito verso il fronte di cava delle persone non autorizzate (in primis perché estranee alla compagine aziendale della SEMES s.r.l), da attuarsi con personale incaricato all'uopo e munito di bandiere rosse, in corrispondenza di tutti i punti di accesso al fronte di cava di cui aveva programmato il brillamento per la giornata del 4 luglio del 2011, anche e soprattutto in considerazione della promiscuità degli spazi destinati all'attività produttiva, utilizzati sia dal personale della SEMES che da quello della COCEBIT;
c) nell'essersi allontanato dalla cava di proprietà della SEMES s.r.l. il 4 luglio del 2011 e, cioè, in un giorno ed all'ora in cui era stato programmato il brillamento dell'esplosivo;
d) nell'aver omesso di dotare l'impianto di cava di un sistema di allarme dell'imminente brillamento di esplosivo a norma di Legge e, comunque, tecnica­ mente idoneo a favorire la propagazione e l'udibilità del segnale d'allarme in tutte le aree di cava e, comunque, in prossimità del fronte di cava fatto brillare il 4 luglio 2011, alle ore 11.50, anche in considerazione dell'estensione e delle caratteristiche orografiche del sito estrattivo, distante diverse centinaia di metri dal punto di diffusione del segnale d'allarme e caratterizzato da un dislivello, rispetto al piano sul quale era collocato il dispositivo, di quasi 47 metri;
e) nell'aver omesso di accertare, perché assente dalla cava il 4 luglio, prima del brillamento che il fronte di cava e, comunque, le aree ad esso limitrofe, potenzialmente interessate dall'esplosione e dai suoi effetti, fossero sgombre dalla presenza di persone nonché nell'aver omesso di impartire sia al sorvegliante che al minatore ordini e direttive in tal senso;
per aver omesso di differire il brillamento dell'esplosivo ad un altro giorno stante l'assenza in cava del sorvegliante per ferie concesse sin dal sabato precedente il giorno dell'esplosione;
g) nell'aver omesso il prescritto controllo sull'osservanza, da parte del minatore e del sorvegliante, delle norme di cui al D.P.R. n. 128 del 9 aprile 1959 e delle prescrizioni di cui all'ordine dì servizio della direzione di cava n. 1 del 2011 approvato in data 4 febbraio 2011, che impongono di dare corso all'accensione ed al brillamento dell' esplosivo solo quando le aree potenzialmente interessate dagli effetti dell'esplosone siano sgombre dalla presenza di persone;
h) nell'aver creato, mantenuto e, comunque, non adeguatamente valutato, nell'ottica di prevenire infortuni sul lavoro, il fattore di rischio correlato alla promiscuità delle aree di servizio delle società SEMES e COCEBIT, nelle quali circolavano indistintamente e liberamente sia i dipendenti dell'una che i dipendenti dell'altra società, non predisponendo un esaustivo documento di salute e sicurezza coordinato ai sensi dell'art. 9, comma II, lett. b), del Decreto n. 624 del 1996;
(per G.G. -omissis), (per S.M. -omissis)
(per V.N. - omissis)
- P.A.R., in concorso con B.P.. G.G., S.M. e V.N.:
b) per il reato di cui all'art. 686 del D.P.R. n. 128 del 9 aprile 1959, 110 ed 81 del c.p., perché, in unione e concorso tra di loro e con più azioni ed omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, serbando ciascuno condotte contra legem quali quelle analiticamente descritte al capo a), violavano le prescrizioni, a tutela della salute e della sicurezza delle persone, previste dalle norme del Decreto n. 128 del 159 e, comunque, quelle contenute negli ordini di servizio della direzione di cava nn. 1 e 2 del 2011.
In Brindisi, sino all'il novembre 2011.
 

SEMES s.r.l.
c) per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25, septies, comma 2°, del DL.vo n. 231/2001, in relazione agli arti. 113 del c.p., 589 del c.p., commi I e II, per non aver adottato, ex arti. 30 del Decreto n. 81 del 2008, un modello di organizzazione idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello contestato al capo a), reato commesso da P.A.R. che, al momento del fatto, rivestiva la qualità di amministratore unico nonché da persone (G.G., S.M. e V.N.) sottoposte alla direzione e vigilanza del mede­ simo; reato commesso nell'interesse ed a vantaggio della Società, interesse e vantaggio consistito nel risparmio dei costi dì gestione correlati alla definizione ed attuazione di una idonea ed efficace politica aziendale di prevenzione degli infortuni. In Brindisi, sino al 4 luglio 2011.
COCEBIT s.r.l. -omissis
 

P.A.R.:
e) per il reato di cui all'art. 104, comma III, lett. a), del Decreto Legislativo n. 624 del 1996, in relazione alla violazione di cui all'art. 78 del medesimo Decreto, 81 del c.p., perché, in qualità di amministratore unico, datore di lavoro e, comun­ que, di direttore responsabile della cava di proprietà della SEMES s.r.l., ometteva dì installare in essa un sistema idoneo e capace di dare l'allarme con segnali visivi ed acustici in ogni posto di lavoro occupato dai lavoratori. In Brindisi, sino al mese di maggio del 2012.
f) per il reato di cui all'art. 104, comma 11, lett. a), del Decreto Legislativo n. 624 del 1996, in relazione alla violazione di cui al comma Il, lett. b), dell'art. 9 del medesimo Decreto, nonché per il reato dì cui all'art. 55 del Decreto Legislativo n. 81 del 2008, perché, nelle qualità indicate al capo e) nonché in quella di ammini­ stratore unico e datore di lavoro della COCEBIT, creava, manteneva e, comunque, non adeguatamente valutava, nell'ottica di prevenire infortuni sul lavoro, il fattore di rischio, per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro, correlato alla promiscuità delle aree poste al servizio delle attività produttive delle società SEMES e COCE­ BIT, nelle quali circolavano indistintamente e liberamente sia i dipendenti dell'una che i dipendenti dell'altra società, non predisponendo, all'uopo, un esaustivo do­ cumento di salute e sicurezza coordinato ai sensi dcli 'art. 9, comma II, lett. b), del Decreto n. 624 del 1996.
In Brindisi, sino al mese di maggio del 2012.

g) per il reato di cui all'art. 104, comma I, del Decreto Legislativo n. 624 del 1996, in relazione alla violazione dell'art. 52, comma I, del medesimo decreto, per aver omesso, in qualità di amministratore unico, datore di lavoro e, comunque, di direttore responsabile della cava di proprietà della SEMES s.r.l, prima dell'inizio dei lavori di coltivazione della cava medesima, di predisporre una relazione sulla stabilità dei fronti che prendesse in considerazione i rischi di caduta dì massi e di franamento.
In Brindisi, sino al mese di maggio del 2012.
h) per il reato di cui all'art. 104, comma III, lett. b), del Decreto Legislativo n. 624 del 25 novembre del 1996, in relazione alla violazione del comma I dell'art. 80 del medesimo decreto, perché, in qualità di amministratore unico, datore di lavoro e, comunque, di direttore responsabile della cava di proprietà della SEMES s.r.l, ometteva, sui luoghi di lavoro, di esporre le istruzioni antincendio, in cui fossero specificate le misure previste per prevenire, individuare e combattere l'in­ nesco e la propagazione di incendi. In Brindisi, sino al mese di novembre 2011.
i) per il reato di cui all'art. 55, comma III, del Decreto Legislativo n. 81/08, in relazione all'art. 28, comma Il, lett. a), b) e e) del medesimo decreto, per aver omesso di valutare in modo specifico ed esaustivo il rischio incendio, esplosioni e fulmini sui luoghi di lavoro.
Il Tribunale di Brindisi, con sentenza emessa in data 1/2/2016, dichiarava P.A.R. colpevole dei reati ascrittigli ai capi A), B), G), H) ed I), V.N. e S.M., colpevoli dei reati loro ascritti, ed esclusa la contestata recidiva per il P.A.R. ed il S.M. nonché riconosciute a tutti gli imputati le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alla aggravante contestata al capo A), condannava P.A.R. alle pene di anni uno mesi sei di reclusione per il delitto ascritto al Capo A); Euro 5.000,00 di ammenda per il reato ascritto al Capo B); Euro 2.000,00 di ammenda per il reato ascritto al Capo G); Euro 1,500,00 di ammenda per il reato ascritto al Capo H) ; Euro 3.000,00 di ammenda per il reato ascritto al Capo I); V.N. Simone alle pene dì: anni uno di reclusione per il delitto ascritto al Capo A); Euro 3.000,00 di ammenda per il reato ascritto al Capo B); S.M. alle pene di: anni uno di reclusione per il delitto ascritto al Capo A); Euro 1. 500,00 di ammenda per il reato ascritto al Capo B).
Il giudice di primo grado dichiarava la società S.E.M.E.S, s.r.l. colpevole dell'illecito a lei ascritto e la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria di Euro 32.500,00.
Condannava i predetti imputati al pagamento delle spese processuali verso l'Erario. Ordinava che la pena inflitta a V.N. Simone restasse sospesa nel termine ed alle condizioni di legge.

Assolveva G.G. e B.P. da tutti i reati loro ascritti per non aver commesso il fatto.
Dichiarava non sussistente l'illecito amministrativo contestato alla CO.CE.BIT. s.r.l.
Dichiarava non doversi procedere nei confronti di P.A.R. in ordine alle contravvenzioni contestate ai Capi E) ed F) per essere le stesse estinte ai sensi dell'art. 24 D.Ivo 758/1994.
Revocava il sequestro conservativo sui beni degli imputati V.N. Simone, S.M., G.G. e S.E.M.E.S s.r.l. disposto con ordinanza del GIP in data 3.5.2013; rimette al Pubblico Ministero l'esecuzione del provvedimento e la cancellazione della trascrizione del sequestro, all'esito dell'irrevocabilità della sentenza.
La Corte d'Appello di Lecce, in riforma della sentenza di primo grado, appellata da P.A.R., S.M. e Semes srl, con sentenza del 25/5/2021 dichiarava non doversi procedere nei loro confronti in ordine ai reati contravvenzionali ritenuti, perché estinti per intervenuta prescrizione; concedeva al P.A.R. ed al S.M. il beneficio della sospensione condizionale della pena che riduceva, per il P.A.R., ad anni uno di reclusione e, per il S.M., a mesi otto di reclusione. Confermava nel resto l'impugnata sentenza.

2. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.

• P.A.R. (Avv. Angela Maria Rosaria Epifani del Foro di Brindisi e Avv. Egidio Albansese del Foro Di Taranto)
Con un primo motivo i ricorrenti lamentano nullità della sentenza per la mancata assunzione di una prova decisiva nonché illogica e contraddittoria motivazione in risposta allo specifico motivo di gravame della difesa che chiedeva l'assoluzione dell'imputato per l'omessa considerazione dell'accertamento delle cause della morte.
Si contesta il passaggio della motivazione della sentenza impugnata (pag. 5) ove si legge, in risposta alla specifica doglianza, che "l'assunto non po' essere condiviso" e dopo avere riportato la massima di Sez. 4 n. 30862/2011, continua " risulta evidente, invero che l'unico dato cui è ancorata l'ipotesi alternativa pro­ spettata dalla difesa è rappresentato dalla incontestata esistenza di una patologia cardiaca a carico della vittima, circostanza che- tuttavia- è del tutto insufficiente a fondare un ragionevole dubbio sulla solidità della ricostruzione della causalità sulla quale è imperniata l'ipotesi accusatoria". La sentenza alle pagine 5 e 6 riporta quanto ipotizzato dal giudice di prime cure a pagina 22 della sentenza, secondo il quale la doglianza difensiva non potevano essere accolte fondando il convinci­ mento sulla base di mere congetture ... (se il DL.S. avesse avvertito malessere non sarebbe sceso, escludendo che una eventuale crisi cardiaca di potesse essere verificata all' istante).
Ancora la sentenza della Corte di Appello sul punto testualmente riporta: "Pertanto, in assenza di qualsivoglia elemento che consenta anche solo di ipotizzare il rilievo della patologia del DL.S. (ad es. un malessere di poco precedente l'episodio infausto oppure un recente controllo medico che aveva sconsigliato sforzi), il percorso alternativo proposto dall' appellante si appalesa confinato nell'ambito della mera congettura.
Per il ricorrente l'assunzione della prova richiesta, a fronte degli elementi di fatto raccolti in primo grado (dichiarazioni del Sostituto Commissario di PS Leo e del teste Paladino, moglie del DL.S.) avrebbero determinato un esito diverso del giudizio.
La decisività della prova -si sostiene- è integrata dalla impossibilità di affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, che la cause del decesso è da attribuire allo schiacciamento provocato dalle pietre a seguito di deflagrazione.
Con un secondo motivo si denuncia nullità della sentenza per mancanza assoluta della motivazione in risposta allo specifico motivo di gravame della difesa che chiedeva l'assoluzione dell'imputato in quanto la condotta posta in essere dal DL.S. è causa unica e sufficiente a produrre l'evento ex art. 41, co. 2, cod. pen.
Nell'ambito di questo motivo di ricorso, richiamati i motivi specifici dell'appello su questo punto, il ricorrente si duole del vuoto motivazionale nonché della contraddittoria e illogica con cui la Corte territoriale ha respinto l'atto di appello sul punto, sottolineando come si fosse evidenziato che il DL.S. non era alle dipendenze della SEMES srl, e che solo dopo li decesso il P.A.R. aveva appreso che lo stesso prelevava materiale pietroso con il quale aveva realizzato opere nella villetta di campagna, circostanza non conosciuta dall' odierno imputato.
Il DL.S., in altri termini, era un terzo rispetto alla attività lavorativa svolta dalla SEMES srl ed era perfettamente a conoscenza del giorno e degli orari del brillamento.
Non si tratta, dunque, di infortunio sul lavoro.
Per il ricorrente la Corte di Appello ha omesso di motivare sulla condotta posta in essere dal DL.S. che rivestiva il carattere della eccezionalità, e quindi si poneva come causa sopravvenuta idonea ad assurgere a sola causa dell'evento morte.

Per il ricorrente la condotta posta in essere dal DL.S., sostanziatasi nell' essersi allontanato dal posto di lavoro, contravvenendo al dovere di prestare l'opera lavorativa (in favore della COGEBIT) per recarsi in cava (SEMES srl) non certamente per lo svolgimento di mansioni lavorative ma per un fine personale, oltretutto illecito e non autorizzato, deve essere considerata tale da recidere ogni responsabilità colposa del datore di lavoro. E in ogni caso la Corte territoriale non motiva in ordine alle doglianze della difesa in ordine all'assenza di qualsivoglia connessione tra la condotta ed il procedimento lavorativo ed in ordine alla volontaria scelta del DL.S. di contravvenire ad un esplicito divieto esistente di accedere in cava.
Pur a fronte di una posizione di garanzia, in presenza di altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva non potrebbe che condurre alla negazione dell' esistenza del nesso causale.
Ed invero, il ricorrente, pur ricordato che che le norme antinfortunistiche sono poste a tutela anche dei terzi che si trovano nel posto del lavoro, deve però "....sempre accertarsi che il soggetto passivo estraneo alla attività e all'ambiente di lavoro, ma presente nel luogo e nel momento dell' infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico" (Sez. 4 n. 32178/2020).
La condotta abnorme" posta in essere dal DL.S. imprevedibile da parte del datore di lavoro avrebbe indubbiamente reciso il nesso causale tra l'obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro e l'evento verificatosi.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.

• S.E.M.E.S. s.r.l. (Avv. Caterina Antonella Campanelli del Foro di Taranto quale sostituto dell'Avv. Angela Zaccaria, difensore di fiducia)
Con un primo motivo si deduce violazione degli artt. 25 septies co. 2 D.lvo n. 231/2001 in relazione agli artt. 113 cod. pen. e 589 co. 1 e 2 cod. pen. e vizio motivazionale in ordine alla corretta applicazione dell'art. 25 septies c. 2 DLVO 231/2001 con riferimento alla sussistenza dei presupposti per la configurabilità dell'illecito amministrativo.
L'errore secondo l'ente ricorrente sembra essere stato generato dal c.d. travisamento della prova, consistito nell'omissione della valutazione di prove testimoniali e documentali che avrebbero mutato la decisione nell'ambito dell'apparato motivazionale sottoposto a critica. In particolare, risulterebbe evidente l'arbitrarietà con cui i giudici del merito abbia fondato la loro decisione esclusivamente sulle dichiarazioni rese dai testi M. e L., trascurando del tutto le ulteriori risultanze dibattimentali, a cui corretta lettura e valutazione avrebbe consentito di rilevare l'insussistenza di ogni profilo di responsabilità a carico della SEMES srl, in considerazione dell'assenza di profili di "colpa di organizzazione" della società. Infatti, dal testo dell'impugnata sentenza emergerebbe con evidenza l'apodittica ed immotivata preferenza per la linea d'accusa tracciata dagli inquirenti, fondata su una sorta di responsabilità oggettiva della società, pur in presenza di elementi che avrebbero consentito di pervenire a risultanze diverse, in considerazione dei seguenti rilievi: 1. Il presunto legame soggettivo dell'autore del reato con l'ente non può essere da solo ritenuto sufficiente ad integrare l'illecito amministrativo di cui all'art. 25septies c.2 D.Ivo 231/2001, essendo necessario l'accertamento di una c.d. 'colpa di organìzzazione". 2. Sotto il profilo soggettivo, la Semes era regolarmente munita di DVR (Documento Valutazione Rischi) ex art. 17 D.vo 81/2008, puntualmente tenuto ed aggiornato. 3. La Semes srl, non era tenuta a predisporre il DUVRI (Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza) perché fra la predetta società e la COCEBIT srl, non sussisteva alcun rapporto di committenza, svolgendo le rispettive attività in piena autonomia; 4. Vi era sostanziale conformità del sistema di gestione della sicurezza all'art. 30 Dlgs 81/08, pur se il relativo modello era stato adottato successivamente al sequestro, come si evinceva dalla esistenza di un sistema disciplinare idoneo a sanzionare eventuali violazioni delle norme in tema di sicurezza, dalla individuazione di tutte le figure previste in materia dal decreto 81, dalla regolamentazione della procedura di ingresso per viabilità e carico, nonché della procedura di brillamento, concordata con tutti i soggetti aventi specifiche mansioni in merito ed approvata dall'ufficio Minerario competente. 5. La Semes era dotata di documento che regola le operazioni di brillamento. Tali elementi risultano sarebbero stati del tutto obliterati dalla Corte territoriale che avrebbe perseverato nell'erronea impostazione accusatoria, finendo così per snaturare la fattispecie normativa di cui trattasi, che avrebbe richiesto l'accertamento della commissione da parte di una persona fisica di un determinato reato quale presupposto necessario per la configurazione dell'illecito, ma non sufficiente, essendo indispensabile che il reato fosse ad esso riconducibile in base ad un profilo oggettivo e soggettivo.
Su questo punto si innesterebbe il vizio motivazionale del travisamento della prova, in considerazione del fatto che i giudici di merito hanno omesso di valutare il dato emerso già nella nota inviata dall'INAIL, in cui si legge espressamente che non spettava alcuna indennità nei confronti degli eredi del DL.S. in quanto l'infortunio non risultava avvenuto per rischio lavorativo bensì per il verificarsi di rischio generico incombente su tutti i cittadini. Da questo elemento sarebbe dovuta sorgere la necessità di valutare l'efficacia impeditiva delle presunte cautele omesse, nonostante l'infortunio non avesse riguardato un dipendente SEMES, ma un lavoratore che, allontanandosi dal proprio posto di lavoro, accedeva senza autorizzazione ad n'area a lui interdetta, per prelevare delle pietre utilizzate dallo stesso ad uso strettamente privato.
La tesi è che la condotta del P.A.R. si presentava immune da profili di responsabilità, ove si fosse considerato che DL.S. si era determinato a compiere un'attività (costituente reato) del tutto avulsa dalle sue mansioni e assolutamente imprevista, imprevedibile ed abnorme.
Nessun passaggio motivazionale dell'impugnata sentenza -ci si duole- risulta dedicato a questa doglianza, liquidata nell'assunto secondo cui: "Né è possibile pervenire a differenti conclusioni enfatizzando il fatto che la condotta del DL.S. si ponga al di fuori del perimetro della prestazione lavorativa (tante da escludere la stessa sussistenza di un infortunio sul lavoro)" (sentenza, p. 16). Invero, per l'ente ricorrente, è proprio su questo profilo che i giudici di appello avrebbero dovuto soffermarsi, accertando che il DL.S. si fosse determinato dietro impulso di carattere assolutamente personale, che nulla aveva a che fare con le mansioni ad esso assegnate, incorrendo pertanto in un cd. rischio elettivo, cui fece seguito un infortunio mortale non indennizzabile.
Non sarebbe stato valutato che non è sufficiente, ai fini della dichiarazione di responsabilità dell'ente, la sola condizione che il reato presupposto sia stato commesso da determinati soggetti, in virtù della posizione che questi rivestono in seno all'organizzazione dell'ente, essendo invece necessario considerare anche quali siano le conseguenze derivanti dall'illecito ed, in particolare, se tali conseguenze si risolvano in un beneficio per l'ente collettivo o siano invece indifferenti per l'ente stesso. In altri termini, l'art. 25 septies c. 2 Divo 231/01 richiede espressamente di accertare l'esistenza di un collegamento rilevante tra individuo-autore del reato presupposto ed ente centro d'interessi dell'ente stesso, come tale destinatario meritevole della sanzione amministrativa. A tal fine, il legislatore ha previsto, quale ulteriore presupposto perché possa rinvenirsi una responsabilità da reato della persona giuridica, che i soggetti autori del reato presupposto abbiano agito nell'interesse dell'ente, ovvero che questo abbia comunque tratto un vantaggio dall'illecito.
Il requisito - si ricorda in ricorso- può essere ravvisato nel risparmio economico connesso alla mancata adozione delle necessarie tutele infortunistiche o ambientali imposte dall'ordinamento. Trattasi di un principio ormai consolidato quello secondo cui, in materia di responsabilità amministrativa ex art. 25 septies d.lgs.231/01, l'interesse e/o il vantaggio vanno letti, nella prospettiva patrimoniale dell'ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all'aumento della produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto della normativa prevenzionale (Sez. 4, n. 31003/2015).
La giurisprudenza è comunque concorde nel ritenere che devono ritenersi imputabili agli enti solo quei comportamenti delle persone fisiche psicologicamente diretti a perseguire un interesse dell'ente; in quest'ottica restano fuori dal campo tutta una serie di violazioni derivanti dalla semplice imperizia, dalla sottovalutazione dei rischi o anche dall'imperfetta esecuzione delle misure preventive previste, in quanto non frutto di esplicite deliberazioni volitive finalisticamente orientate a soddisfare un interesse dell'ente.
Nel caso di specie l'istruttoria dibattimentale - si sostiene in ricorso- ha ampiamente dimostrato che la politica aziendale della SEMES era estremamente sensibile e attenta alle problematiche in materia di sicurezza sul lavoro.
Sembra sfuggito in sentenza che da oltre vent'anni la società si avvaleva della collaborazione di un consulente, il Dott. C., il quale sin dal 1993 si occupava della sicurezza dei cantieri. Di concerto con il datore di lavoro, quest'ultimo predisponeva tutte le verifiche necessarie, attraverso un attento esame dei luoghi di lavoro e delle mansioni specifiche, al fine di identificare tutti i rischi presenti nell'attività e procedere alla redazione del DVR, che veniva aggiornato con una periodicità sempre più frequente.
Tali elementi, del tutto sfuggiti in sentenza, avrebbero consentito di accertare che in tale contesto l'adozione del modello di organizzazione previsto dall'art. 30 d.lvo 81/08 non avrebbe comportato alcun costo aggiuntivo per la società se si considera che la stessa si avvaleva della collaborazione stabile di un consulente, specificamente incaricato di adottare tutte le cautele atte a prevenire infortuni sul lavoro.
Questa circostanza risulterebbe dimostrata dal semplice raffronto dei bilanci della SEMES antecedenti all'incidente del 4/7/2011 e quelli successivi, in cui la società, attenendosi pedissequamente alla direttive del Pubblico Ministero, aveva provveduto all'adozione del modello di organizzazione prevista dall'art. 30 del decreto 81: dal raffronto non si ravvisa una considerevole differenza di costi in materia di sicurezza del lavoro.
Né potrebbe ritenersi che la società abbia ricavato un qualche risparmio economico dalla mancata adozione di un sistema di allarme idoneo a consentire la propagazione del suono in tutta l'area di cava. L'installazione del nuovo dispositivo ha infatti comportato una spesa di circa 1.000 euro, che doveva considerarsi priva di qualsiasi incidenza economica, se si considera che all'epoca dell'incidente la società fatturava centinaia di migliaia di euro.
Con un secondo motivo si deducono violazione degli artt. 17, 28, 29 D.Leg. vo 81/2008 lamentando che l'impugnata sentenza risulterebbe altresì viziata per avere erroneamente ritenuto insufficiente il DVR ai fini dell'assolvimento degli obblighi previsti dalla legge in epigrafe, in quanto tenuta anche a predisporre il DUVRI (Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza) in considerazione della piena autonomia tra le società Semes e Cocebit.
Secondo i giudici di appello le dichiarazioni rese dai testi M. e L. avrebbero consentito di provare la situazione di "promiscuità" esistente fra la Semes srl e la Cocebit srl, tale da richiedere l'adozione del DUVRI (documento unico di valutazione dei rischi interferenziali). In particolare, si legge a pagina 16 della sentenza, che tale situazione di promiscuità tra le due società derivava dalla condivisione degli spazi usati dalla CO.CE.BIT. e dalla S.E.M.E.S. per lo svolgimento delle reciproche attività produttive; dall'accesso in comune all'impianto di betonaggio ed a quello di cava; dal fatto che la proprietà fosse in capo alla S.E.M.E.S. dei due impianti. utilizzati dalla CO.CE.BIT. per la produzione del conglomerato cementizio bituminoso, uno dei quali peraltro successivamente concesso in locazione ad una terza società (la ADRI.CAL.); dall'identità della proprietà delle stesse, in entrambi i casi in capo alla persona di P.A.R..
Da questi elementi sarebbe derivata l'assoluta insufficienza del DVR. ("mero" Documento di Valutazione del Rischio) adottato dalla Semes srl, tanto più al fine di escludere la responsabilità dell'ente in questione.
In maniera del tutto illogica e contraddittoria -si sostiene- la sentenza escludeva inoltre che potesse esservi sostanziale conformità del sistema di gestione della sicurezza all'art. 30 Dlgs 81/2008, nonostante il relativo modello fosse stato adottato successivamente al sequestro, come si evinceva non solo dall'appronta­ mento del DVR, ma anche dall'esistenza di un sistema disciplinare idoneo a sanzionare eventuali violazioni delle norme in tema di sicurezza, dalla individuazione di tutte te figure previste in materia dal decreto 81, dalla regolamentazione della procedura di ingresso per viabilità e carico, nonché della procedura di brillamento, concordata con tutti i soggetti aventi specifiche mansioni in merito ed approvata dall'Ufficio Minerario competente, così come la Semes era dotata del documento che regolava le operazioni di brillamento (OSE n. 1 del 4.2.2011, riportato anche del DVR).
Si sostiene che, dall'esame della corposa documentazione versata in atti e dall'istruttoria dibattimentale, doveva apparire evidente che non potesse muoversi alcun rimprovero in termini di inefficienza organizzativa alla SEMES, avendo adottato una strategia di impresa avveduta e finalizzata alla valutazione e prevenzione dei rischi specifici connessi all'attività svolta, in conformità a quanto previsto dagli artt. art. 28 e 29 del Testo unico sulla Sicurezza. La SEMES, infatti, era regolarmente dotata di un DVR in ottemperanza al disposto di cui all'art. 17 del D.Ivo 81/2008 al fine di valutare tutti i rischi presenti durante l'attività lavorativa e garantire il continuo miglioramento dei livelli di salute e sicurezza dei lavoratori.
Peraltro, la circostanza che la SEMES fosse particolarmente sensibile e attenta alle problematiche in materia di sicurezza sul lavoro, risulta provata dal fatto che i DVR della società venivano aggiornati con una certa frequenza, prima biennale, poi annuale, per diventare, infine quasi semestrale. Infatti, l'ultimo del 24.5.2011, precedente all'evento infortunistico del 4.7.2011, era alla sua settima revisione.
Dall'esame del D.V.R. -prosegue il ricorso- in dotazione della SEMES si evinceva chiaramente che erano stati individuati e valutati tutti i rischi presenti nell'attività lavorativa nonché tutte le misure di prevenzione e protezione da adottare relativamente agli specifichi rischi.
In particolare, oltre ai rischi di carattere generale erano stati specificamente valutati i rischi attinenti all'attività estrattiva e quindi il rischio incendio/esplosione, rischio caduta dall'alto che riguardava in modo particolare il fuochino, rischio allagamento della cava, rischio preparazione mina esplosiva, rischia brillamento e rischio abbattimento e rimozione del materiale con escavatori. Del pari, era stato valutato il rischio interferenza esterna, prevedendo tutta una serie di indicazioni alle quali i terzi erano tenuti ad attenersi.
Importanti al riguardo dovevano considerarsi le dichiarazioni rese dal Dott. C. - del tutto obliterate in sentenza - sulle modalità di redazione del D.V.R. all'udienza del 13.5.2015, dalle quali si evinceva lo scrupolo con il quale venivano effettuati tutti i controlli necessari per la redazione del D.V.R. (elaborato tenendo conto dei dati storici) e per identificare tutti i rischi possibili cui l'attività poteva dar luogo.
La conformità del DVR adottato dalla società alle previsioni normative risultava inoltre confermato anche dalla circostanza che l'Ispettore L., in servizio presso lo SPESAL, nell'acquisire il suddetto documento nel corso dell'attività d'indagine, non aveva sollevato alcun rilievo al riguardo.
L'Ente ricorrente ribadisce l'insussistenza dell'obbligo di redazione del DUVRI erroneamente ritenuto in sentenza. La SEMES e la COCEBIT, si sostiene, sono due società distinte che si occupano autonomamente di attività diverse, la prima prevalentemente della gestione della cava e della conseguente attività estrattiva, la seconda invece della produzione, commercializzazione e vendita di conglomerati cementiti e bituminosi. Deve ritenersi, pertanto errato l'assunto sostenuto dal Tribunale (e condiviso dalla Corte di Appello) secondo cui esistesse una diretta correlazione tra le due imprese al punto da potersi affermare che le stesse operassero nell'ambito del medesimo ciclo produttivo e contraddittorio nella parte in cui ha riconosciuto che non ricorressero i presupposti per affermare la responsabilità della società CO.GE.BIT, sulla base della ritenuta differente realtà giuridica tra la CO.GE.BIT. e la S.E.ME.S.
Risulterebbe evidente il vizio di travisamento della prova nella parte in cui la c.d. promiscuità è stata rilevata da indici irrilevanti, come la condivisione di alcuni spazi (si pensi al piazzale d'ingresso) ben diversi da quelli nei quali si svolgeva l'attività imprenditoriale delle due società. In particolare, il personale COCEBIT non era in alcun modo autorizzato a recarsi in cava in quanto, svolgendo un'attività lavorativa autonoma ed estranea all'attività estrattiva, era considerato alla stregua di un soggetto terzo, come si sarebbe potuto agevolmente evincere dalle dichiarazioni rese dai dipendenti COCEBIT.
Per quanto riguarda poi il personale SEMES il datore di lavoro aveva adottato cautele a monte, predisponendo che nelle giornate del lunedì la squadra degli operai che lavorava in cava avesse il giorno di riposo e che nelle altre giornate in cui si svolgevano le operazioni di caricamento e brillamento delle mine, il personale di cava dovesse abbandonare detta zona e portarsi nell'area di frantumazione. Inoltre, l'ordine di servizio prevedeva espressamente che tutti dovevano essere allontanati dall'area di brillamento e messi in sicurezza a circa 700 mt dal fulcro dell'esplosione.
Con un terzo motivo si lamenta violazione dell'art. 30 D.Ivo 81/08 e vizio motivazionale laddove si sarebbe trascurato che all'interno della SEMES era presente un sistema di gestione della sicurezza sostanziale come si può evincere anche dalla documentazione rinvenuta: DVR costantemente aggiornato, verbali di formazione, piano di emergenza interno con la registrazione di tutta la gestione relativa, dalle nomine alla formazione ai verbali di esercitazione. Del pari, conformemente a quanto previsto dal terzo comma dell'art. 30, il personale dia SEMES era articolato in modo da garantire l'attuazione dei processi di sicurezza ed era dotata di un sistema disciplinare idoneo a sanzionare eventuali mancanze da parte dei soggetti. In altri termini esistevano tutte le figure previste dal decreto 81 e in particolare: una precisa individuazione del datore di lavoro che all'epoca dei fatti assolveva anche le funzioni di Responsabile del servizio di prevenzione e protezione, un medico competente, una rappresentanza dei lavoratori, una squadra di emergenza nominata, incaricata e formata sia per quanto riguarda il primo soc­ corso sia per quanto riguarda l'antincendio.
Mentre il sistema disciplinare che prevedeva il sanzionamento del mancato rispetto delle regole comportamentali di sicurezza da parte dei lavoratori era quello rilevabile nel contratto nazionale di lavoro, applicato dalla società dall'inizio ella propria attività, sottoscritto dai lavoratori e consultabile in qualsiasi momento.
Per l'Ente ricorrente appare evidente il vizio eccepito, ove si consideri che l'adempimento degli obblighi previsti dagli artt. 28 e 29 del d.lvo 81/08 e l'esistenza di un OSE vigente al momento del verificarsi dell'incidente non consentono di muovere alcun rimprovero alla società in termini di inefficienza organizzativa essendosi la stessa adoperata per adottare tutte quelle misure precauzionali idonee a contenere le situazioni di pericolo che era prevedibile potessero verificarsi.
Ciò posto, apparirebbe impossibile ricondurre la morte del DL.S. ad eventuali carenze organizzative della società, se si considera che la vittima era dipendente di un'altra società, che non doveva e non poteva essere presente nell'area di cava e che soprattutto perdeva la vita durante lo svolgimento di un'attività illecita.
È vero -si sottolinea in ricorso- che le norme antinfortunistiche sono dettate anche a tutela dei terzi e non solo dei lavoratori, ma a condizione che siano legittimamente presenti sul luogo di lavoro. In altri termini, il dovere di sicurezza del datore di lavoro si estende sino a tutelare chiunque, per qualunque ragione, purchè lecita, si trovi a contatto con una fonte di pericolo sulla quale ha una posizione di controllo. E tale condizione di liceità indubbiamente non ricorre nei caso di specie.
Con un quarto motivo si lamenta violazione dell'art. 12 Dlgs 231/01 e vizio motivazionale rilevando che la sentenza impugnata sarebbe altresì viziata per omessa o insufficiente motivazione in ordine al dato sanzionatorio, nonostante le specifiche eccezioni sollevate con l'atto di gravame, nel quale veniva rilevata la mancata riduzione, da parte del primo giudice, della sanzione di due terzi, previo ricoroscimento dell'applicabilità al caso di specie della previsione normativa di cui al terzo comma dell'art. 12 D.LGS 231/2001 per l'avvenuto risarcimento danno e per l'adozione di un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della stessa specie.
Evidenzia il difensore ricorrente che a tale doglianza, esplicitata nell'atto di gravame nel merito, veniva data risposta in sentenza nel seguente modo: «non è eccessiva la pena inflitta alla Semes Sri in quanto il giudice di prime cure ha fornito ampia e dettagliata motivazione in ordine alle ragioni poste a base della sanzione, partendo dalla scelta della pena base e procedendo altresì alla riduzione prevista ex art. 12 D.lgs 23112001 (essendosi realizzate entrambe le condizioni previste di cui alla norma menzionata), nella misura della metà, opzione che - tenuto conto della pena finale (di fatto, contenuta) e dei limiti edittali - risulta del tutto congrua».
I giudici di appello, dunque, pur riconoscendo la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 12 D.lgs 231/01, non avrebbero operato nessun calcolo volto a rideterminare la sanzione inflitta.
 

Diritto

 


1. I proposti ricorsi sono inammissibili.
Ed invero, i ricorrenti, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si sono nella sostanza limitati a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello, e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata, senza in alcun modo sottoporle ad autonoma e argomentata confutazione. Ed è ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253849; sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; Sez. 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002, Palma, Rv. 221693). Successivamente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico deter­ minato (Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608).
Per contro, l'impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità.

2. I ricorsi, in concreto, non si confrontano adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e pertanto immune da vizi di legittimità.
La Corte territoriale aveva già chiaramente confutato, nel provvedimento impugnato tutte le tesi oggi riproposte, ivi compresi i temi oggi riproposti tout court dalle difesa del P.A.R., ovvero sia non stata raggiunta la prova che la causa della morte del DL.S. sia il seppellimento dai detriti in ragione del fatto che è emerso nel corso del processo che si trattava di un soggetto cardiopatico e poi che fatto che il DL.S. si fosse presentato alla cava, come aveva fatto in passato, evidentemente per prelevare delle pietre per il proprio uso personale, realizzasse un comportamento assolutamente eccentrico ed esuberante rispetto alle sue mansioni lavorative, che peraltro svolgeva altrove.
Orbene, si tratta di due aspetti su cui entrambi i giudici di merito hanno correttamente e logicamente motivato.
2.1. Quanto al primo, logico appare il rilievo che, a fronte di circostanze così eclatante (un soggetto che viene sepolto, all'interno della propria autovettura da una valanga di pietre), quella che potrebbe essere morto perché malato di cuore, in difetto di alcuna ulteriore allegazione significativa sul punto, rimane una mera congettura.
Correttamente, la Corte salentina ricorda che la condanna al là di ogni ragionevole dubbio implica, in caso di prospettazione di un'alternativa ricostruzione dei fatti, che siano individuati gli elementi di conferma dell'ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un'ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (così questa Sez. 4 n.30862/2011).
Con motivazione logica e congrua i giudici di appello evidenziano come risulti evidente, nel caso in esame, che l'unico dato cui è ancorata l'ipotesi alternativa prospettata dalla difesa è rappresentato dalla incontestata esistenza di una patologia cardiaca a carico della vittima, circostanza che - tuttavia - è del tutto insufficiente a fondare un ragionevole dubbio sulla solidità della ricostruzione della causalità sulla quale è imperniata l'ipotesi accusatoria.
In proposito la Corte territoriale richiama adesivamente quanto già evidenziato dal giudice di primo grado, secondo cui: "La tesi difensiva intesa ad adombrare la possibilità che l'operaio fosse deceduto "per infarto» prima di essere travolto dai materiali distaccatisi dopo il brillamento delle mine (il DL.S. era effetto da problemi cardiaci) non trova alcun riscontro ed appare alquanto suggestiva; al di là del fatto che chi è stato affetto da patologie cardiache si presume continui ad assumere farmaci idonei a prevenire o a ridurre il rischio del verificarsi ditale patologia, è sufficiente sul punto evidenziare che se il DL.S. quel giorno avesse avvertito un qualche malessere, non si sarebbe certo avviato a svolgere un'attività sicuramente faticosa, quale il prelievo di pietre, peraltro in condizioni climatiche non certo ottimali (si trattava di mezzogiorno di un giorno estivo, in un sito particolarmente soleggiato quale può essere il piazzale di una cava); tanto a meno di non voler ritenere, in termini invero assolutamente inverosimili, che l'ipotetica esiziale crisi cardiaca si fosse verificata all'istante -per di più proprio nel momento in cui la persona offesa era scesa dall'autovettura ed aveva avviato le ricerche dei materiali sotto il fronte di cava - e senza alcun segnale premonitore".
Logica appare, dunque, la conclusione che, in assenza di qualsivoglia elemento che consenta anche solo di ipotizzare il rilievo della patologia del DL.S. (ad es. un malessere di poco precedente l'episodio infausta oppure un recente controllo medico che aveva sconsigliato sforzi), il percorso alternativo proposto dalla Difesa del P.A.R. si appalesa confinato nell'ambito della mera congettura.
Peraltro, le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo chiarito che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art.606, co. 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova "neutro", sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l'articolo citato, attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. Un., n. 39746 del 23/3/2017, A. ed altro, Rv. 270936
2.2. La seconda doglianza, parimenti manifestamente infondata, finisce per trascurare la consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, per cui in tema di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell'ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa, di talché, ove in tali luoghi si verifichino a danno del terzo i reati di lesioni o di omicidio colposi, è ravvisabile la colpa per violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, purché sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi, e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento de/l'infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico (così, oltre alla richiamata e recente Sez. 4 n. n. 32178/2020, tra le tante, Sez. 4, n. 44142 del 19/7/2019, De Remigis, Rv. 277691 in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la condanna del titolare di una discoteca per le lesioni riportate da un avventore, caduto in conseguenza della presenza di liquidi sul pavimento, ravvisando la colpa dell'imputato nella violazione dell'art. 64, co. 1, lett. a) D.lgs 81/08, per la mancata nomina della persona preposta alla pulizia dei locali; conf. Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013, dep. 2014, S. Rv. 258436 in relazione ad una fattispecie in cui è stata affermata la colpevolezza sia del legale rappresentante della società gerente il "kartodromo" sia del responsabile della pista per il decesso di una cliente, alla quale era stato consentito di accedere al "kart" nonostante indossasse una sciarpa che le cingeva il collo, la quale, impigliandosi nei meccanismi del circuito, ne aveva provocato la morte per soffocamento). E ciò sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico (così Sez. 4, n. 32178 del 16/9/2020, Dentamaro, Rv. 280070 che ha ritenuto immune da censure la condanna di un lavoratore che, nello svolgimento di operazioni di scarico merci, in violazione dell'art. 20, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, aveva consentito che un terzo estraneo si intromettesse nello svolgimento della lavorazione riportando lesioni personali).
Non rileva, dunque, come correttamente evidenziano entrambi i giudici di merito nella loro doppia conforme affermazione di responsabilità, che non si sia trattato di un infortunio sul lavoro perché il DL.S. in quel luogo non stava svolgendo la propria prestazione lavorativa, ma c'era entrato per ragioni personali.
Quel soggetto andava tutelato dal garante della sicurezza come qualsiasi altro terzo, ed invece la riscontrata assenza di presidi e le plurime omissioni imputate al P.A.R. hanno fatto sì che egli potesse tranquillamente entrare con la propria auto nella cava al momento dell'esplosione.
La Corte territoriale, con motivazione logica e congrua, ha anche argomentatamente confutato la tesi di un'esclusione di responsabilità in ragione del carattere negligente della condotta della vittima, tale da recidere il nesso di causalità fra condotta omissiva del P.A.R. ed evento morte, tesi che si fondava: a. Sulla già cordata estraneità della condotta del DL.S. all'attività lavorativa, tale da escludere la stessa configurabilità di un infortunio sul lavoro; b. sull'essere stato il P.A.R. del tutto all'oscuro che il DL.S. (tenendo un comportamento illecito) fosse solito recarsi quasi quotidianamente presso la cava per sottrarre cascami di pietre da utilizzare per scopi personali; c. sulla possibilità di affermare, ricostruendo i movimenti del DL.S., che questi era al corrente che il giorno dei fatti ci sarebbe stato il brillamento delle mine e, addirittura, che - alla luce dell'orario in cui l'ultimo camion caricato dal DL.S. passò sulla pesa elettrica (11,40), il quale coincide con quello in cui fu effettuato il primo allarme sonoro - la vittima lo abbia udito;
d. sul fatto che il P.A.R. non era al corrente che anche il B.P. il giorno della esplosione fosse assente per ferie.
Come ricorda la sentenza impugnata, costituisce oramai ius receptum che, in tema di infortuni sul lavoro, perché possa ritenersi che il comportamento negligente, imprudente e imperito del lavoratore, pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate, costituisca concretizzazione di un "rischio eccentrico", con esclusione della responsabilità del garante, è necessario che questi abbia posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente, così che, solo in questo caso, l'evento verificatosi potrà essere ricondotto alla negligenza del lavoratore, piuttosto che al comportamento del garante (ex plurimis, Sez. 4 n. 27871/2019).
Il Giudice del gravame del merito richiama adesivamente l'ampia ed esaustiva motivazione del giudice di prime cure (con specifico riferimento alle pagg. 76-81 della sentenza di primo grado) laddove si era sottolineato essere evidenti i profili di colpa ravvisabili nella scelta del P.A.R. di allontanarsi dall'impianto in un giorno in cui era previsto il brillamento delle mine senza preventivamente accertarsi che le operazioni non sarebbero state dirette nemmeno dal Sorvegliante B.P.. Ciò in quanto vi era uno specifico ordine di servizio (il n. 1/2011), più volte richiamato nelle sentenze di merito, che affidava al direttore di cava o, in sua assenza, al sorvegliante, compiti di direzione sullo svolgimento delle operazioni di brillamento nonché di controllo sulla loro corretta esecuzione, derivandone conseguentemente che la contemporanea assenza di entrambe queste figure comportava la mancata attuazione di ogni vigilanza e, soprattutto, che l'intera operazione fosse affidata al solo V.N.,
Inoltre, sottolineano i giudici di merito come non risulti che il P.A.R. si fosse preventivamente informato dell'assenza del B.P. ed avesse comunque predisposto o dato incarico di predisporre - preso atto che il sorvegliante era in ferie - quei servizi che l'ordine 1/2011 gli imponeva di adottare. Derivandone che si tratta di omissioni talmente macroscopiche - tanto più se si pone mente all'obbligo del datore di lavoro di organizzare il lavoro in tutte le sue articolazioni (dallo stato dei luoghi, al personale) - che l'eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l'obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica.

3. Manifestamente infondati, oltreché ripropositivi di doglianze già argomentatamente confutate nella sentenza impugnata, sono anche i motivi proposti dalla Semes s.r.l.

3.1. Come ricorda la sentenza impugnata, secondo l'assunto della difesa dell'ente, riproposto in questa sede, l'illecito amministrativo contestato non sussisterebbe, non essendo sufficiente a tal fine - sotto il profilo oggettivo - la sola esistenza di un legame soggettivo dell'autore del reato con l'ente, ma essendo necessario anche l'accertamento di una c.d. "colpa di organizzazione", circostanza tanto più rilevante se si pone mente al fatto che l'INAIL ha escluso il verificarsi di un infortunio per rischio lavorativo, bensì per un rischio generico .
Tuttavia, rilevano i giudici del gravame del merito che già il giudice di primo grado, invero, ha correttamente ravvisato proprio una "colpa di organizzazione" a carico della Semes srl, conformemente a quanto stabilito sui punto da SSUU n. 38343/2014, ovvero che in tema di responsabilità da reato degli enti, la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli.
La decisione menzionata viene ritenuta perfettamente calzante alla fattispecie in esame nella quale il tribunale ha in modo del tutto aderente alle risultanze dibattimentali, ravvisato "sicuramente apprezzabile un «vantaggio» per la società S.E.M.E.S., in termini di risparmio di costi, derivante dal mancato adeguamento dell'impianto di segnalazione acustica e dalla mancata installazione di un adeguato presidio fisico di interdizione all'accesso nel letto di cava".
E per quanto contenuto- si rileva in sentenza- il vantaggio economico è comunque ravvisabile (e, peraltro, non negato, nella misura di circa 1000 euro).
Sul punto, la sentenza impugnata opera un buon governo della più recente giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui, in tema di responsabilità degli enti derivante da reati di lesioni personali colpose in violazione della disciplina antinfortunistica, il criterio di imputazione oggettiva del vantaggio di cui all'art. 5 d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231 è integrato anche da un esiguo, ma oggettivamente apprezzabile, risparmio di spesa, collegato all'inosservanza, pur non sistematica, delle cautele per la prevenzione degli infortuni riguardanti un'area rilevante di rischio aziendale (così Sez. 4, n. 33976 del 30/06/2022, Cantina Sociale Bartolomeo Da Breganze SCARL, Rv. 283556 in un caso di un infortunio occorso ad un lavoratore determinato dall'omessa predisposizione di una griglia metallica a protezione di una vasca contenente una coclea, con un risparmio di spesa per l'ente pari a 1.860,00 euro, percentualmente minimo rispetto all'investimento per l'adegua mento complessivo dei presidi antinfortunistici).,

Né rileva, secondo il logico argomentare dei giudici di appello, al fine di scalfire detta conclusione, l'esclusione del rischio lavorativo da parte dell'INAIL, operando il diritto all'indennizzo e la responsabilità penale su piani del tutto differenti, avendo avuto modo il tribunale, prima, e la Corte territoriale, in seguito, di precisare come l'insussistenza di un rapporto di dipendenza fra il DL.S. e la Semes srl, non costituisca un ostacolo alla operatività della posizione di garanzia in capo al P.A.R., in qualità di amministratore della predetta società.
3.2. Meramente ripropositivo di questioni già affrontate e risolte in modo del tutto esaustivo dai giudice di primo e secondo grado è il motivo secondo il quale era sufficiente che la Semes fosse regolarmente munita di DVR (Documento Valutazione Rischi) ex art. 17 D.vo 81/2008 - puntualmente tenuto ed aggiornato - mentre non era tenuta a predisporre il DUVRI (Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza) perché fra la predetta società e la COCEBIT srl, non sussisteva alcun rapporto di committenza, svolgendo le rispettive attività in piena autonomia.
Per entrambi i giudici di merito le risultanze dibattimentali, infatti, depongono in senso diametralmente opposto all'assunto difensivo.
Nella sentenza impugnata si rinvia, a tal fine, alle dichiarazioni dei testi M. e L. per dare conto della situazione - efficacemente definita dal tribunale di "promiscuità" - esistente fra la Semes srl e la Cocebit srl (il richiamo è alle pagg. 7-8 della sentenza di primo grado), con le quali si evidenziavano gli elementi sintomatici che imponevano, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell'ente, l'adozione del DUVRI (documento unico di valutazione dei rischi interferenziali), ovverossia: 1. la segnalata promiscuità degli spazi usati dalla CO.CE.BIT. e dalla S.E.M.E.S. per lo svolgimento delle reciproche attività produttive; 2. l'accesso in comune all'impianto di betonaggio ed a quello di cava; 3. la proprietà in capo alla S.E.M.E.S, dei due impianti utilizzati dalla CO.CE.BIT. per la produzione del conglomerato cementizio bituminoso, uno dei quali peraltro successivamente concesso in locazione ad una terza società (la ADRI.CAL.); 4. da ultimo, l'identità della proprietà delle stesse, in entrambi i casi in capo alla persona di P.A.R..
Da qui la ritenuta assoluta insufficienza del DVR ("mero" Documento di Valutazione del Rischio») adottato dalla Semes srl, tanto più al fine di escludere la responsabilità dell'ente in questione.
3.3. Già argomentatamente confutato era stato anche il rilievo circa la so­ stanziale conformità del sistema di gestione della sicurezza all'art. 30 Dlgs 81/2008, pur se il relativo modello è stato adottato successivamente al sequestro, come si evince non solo dal menzionato approntamento del DVR, ma anche dalla esistenza di un sistema disciplinare idoneo a sanzionare eventuali violazioni delle norme in tema di sicurezza, dalla individuazione di tutte le figure previste in materia dal decreto 81, dalla regolamentazione della procedura di ingresso per viabilità e carico, nonché della procedura di brillamento, concordata con tutti i soggetti aventi specifiche mansioni in merito ed approvata dall'Ufficio Minerario competente, così come la Semes era dotata del documento che regola le operazioni di brillamento (OSE n. i del 4.2.2011, riportato anche del OVR).
Anche sotto tale profilo la sentenza impugnata richiama adesivamente quanto compiutamente sostenuto dal giudice di primo grado, ovvero che: "La sussistenza della responsabilità della S.E.M.E.S. ai sensi del D.Ivo 231/01 discende anche dalla mancata adozione, prima della commissione del fatto, di un modello organizzativo ex art. 30 D.Ivo 81/08, idoneo a prevenire reati delle specie di quello verificatosi (tale modello risulta essere stato adottato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento); sul punto giova osservare che l'adozione di tale modello non costituisce un obbligo giuridico, bensì assolve unicamente ad una funzione esimente (ex art. 6, comma 1°, lett. A D.Ivo 231/01) nel caso della ricorrenza dei due citati requisiti previsti dall'art. 5.
Al riguardo i giudici di appello danno atto di non condividere l'osservazione del c.t.p. Genovese, su cui pure torna l'odierno ricorso, secondo cui, pur in assenza di un modello di organizzazione, la società aveva ugualmente «articolato le funzioni di gestione della sicurezza" attraverso l'individuazione di una serie di soggetti (RSPP, Medico competente, RSL) preposti a tale scopo.
Ciò perché, al di là del fatto che l'istituzione di determinate figure professionali (quali il RSPP) è prevista obbligatoriamente (cfr. artt. 31 e ss.gg. D.Ivo 81/08), gli istituti cui esse sono preposte (ossia il Servizio di Prevenzione e Protezione e la Sorveglianza sanitaria), assolvono alla funzione di prevenzione degli infortuni, mentre il modello organizzativo risponde alla necessità di mappare le aree di rischio e di predisporre un sistema di controlli diretti ad «assicurare l'adempimento» di una serie di obblighi giuridici in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro, ed a ridimensionare il rischio di commissione di reati in violazione della normativa antinfortunistica. Né, peraltro, prosegue la sentenza impugnata, la mappatura della rischiosità ex art. 30 D.Ivo 81/08 può farsi coincidere con la valutazione di rischi ai sensi degli artt. 15 e 28 dello stesso decreto legislativo perché, come già evidenziato dalla giurisprudenza di merito, mentre il DVR è diretto ai lavoratori ed assolve alla funzione di informarli dei rischi generici e specifici presenti nel luogo di lavoro, il modello organizzativo si rivolge anche a coloro che, all'interno della compagine aziendale, sono esposti al rischio di commettere reati colposi, sollecitandoli al rispetto degli obblighi giuridici in materia antinfortunistica, anche attraverso la previsione di un sistema di vigilanza sull'attuazione delle prescrizioni in esso contenute e che culmina nella previsione di sanzioni disciplinari in caso di inottemperanza. Ed infatti, l'art. 2, co. 1 lett. dd) del d.Ivo 81/08 definisce, in senso ampio, «modello di organizzazione e di gestione" il modello per la «definizione e l'attuazione di una politica aziendale per la salute e la sicurezza, idoneo a prevenire i reati di cui agli artt. 589 e 590, terzo comma c.p., commessi in violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela della salute sul lavoro"; in tal guisa, il modello organizzativo di cui all'art. 30 presenta un contenuto ed una pla­tea di destinatari più ampia rispetto al DVR, essendo finalizzato a prevenire ogni possibile condotta - ascrivibile anche agli organi dotati di poteri decisionali - determinativa o agevolativa di situazioni di rischio".
Pertanto, il modello organizzativo deficitario, si attagliava proprio al caso di evitare situazioni come quella di cui all'imputazione, realizzatesi nei confronti di un terzo.
3.4. Manifestamente infondato è anche il motivo in punto di trattamento sanzionatorio, dovendosi ritenere esaustiva la riposta sul punto laddove la Corte territoriale ha dato atto di ritenere non eccessiva la pena inflitta alla Semes s.r.l., in quanto il giudice di prime cure ha fornito ampia e dettagliata motivazione in ordine alle ragioni poste a base della sanzione, partendo dalla scelta della pena base e procedendo altresì alla riduzione prevista ex art. 12, Dlgs 23/2001 (essendosi realizzate entrambe le condizioni previste dalla norma menzionata), nella misura della metà, opzione che - tenuto conto della pena finale (di fatto, contenuta) e dei limiti edittali - risulta del tutto congrua.
Diversamente da quanto si opina in ricorso, dunque -com'è facilmente verificabile da pag. 96 della sentenza di primo grado la riduzione è stata operata e, nel pieno esercizio della discrezionalità prevista dalla norma (che per il caso che ci occupa prevede possibile una riduzione dalla metà ai due terzi), entrambi i giudici di merito hanno ritenuto congruo quantificarla nella metà.

4. Essendo i ricorsi inammissibili e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
 

P.Q.M.


Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della cassa delle ammende. Così deciso in Roma il 9 novembre 2022