Cassazione Penale, Sez. 4, 08 febbraio 2023, n. 5412 - Caduta del lavoratore dal soppalco privo di idoneo parapetto


Presidente: FERRANTI DONATELLA Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 24/01/2023
 

Fatto


1. La Corte di Appello di Trento, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente C.E., con sentenza del 6/10/2021, concesso il beneficio della non menzione, confermava quanto all'affermazione di responsabilità la sentenza del Tribunale di Rovereto in composizione monocratica del 3/9/2020 che, all'esito di giudizio abbreviato, ritenute le circostanze attenuanti generiche e del danno risarcito equivalenti alle contestate aggravanti e operata la riduzione per il rito, lo aveva condannato alla pena condizionalmente sospesa di mesi uno di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, in quanto riconosciutolo colpevole del reato p. e p. dagli artt. 40 cpv, 590 co. 3 in relazione all'art. 583 co. 1 n. 1). c.p., per avere, nella qualità di Consigliere e Datore di lavoro della società "STELDO S.R.L." (C.F. 00649920220; N. Rea: TN- 124087), cagionato a T.M., dipendente della STELDO S.R.L., lesioni personali gravi consistite nella "Distorsione colonna cervicale. Policontusioni" dalle quali derivava una malattia nel corpo o comunque una incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni superiore a giorni quaranta, non impedendo tale evento che aveva l'obbligo giuridico di evitare in forza della posizione di garanzia che discendeva dalle attribuzioni sopra richiamate, per colpa consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia nonché nella violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, specificatamente l'art. 64, co. 1 lettera a) D.lgs. 81/2008 (con riferimento ai punti 1.7.2, 1.7.3 e relativi sottopunti dell'Allegato IV del D.lgs. 81/2008 richiamati all'art. 63 comma I D.lgs. 81/2008), per avere omesso di provvedere affinché i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti indicati nell'Allegato IV del D.lgs. 81/2008; condotta consistita, con il coefficiente psicologico sopra attribuito, nell'aver omesso di provvedere affinché il posto di lavoro sopraelevato quale il soppalco presente nel magazzino della ditta fosse provvisto, su tutti i lati aperti, di parapetti normali con arresto al piede o di difesa equivalenti; nello specifico il parapetto di detto posto di lavoro sopraelevato, ed in particolare il corrente superiore dello stesso, risultava posto ad una altezza utile dal piano di calpestio inferiore a quella prevista dalla norma e costruito o fissato in modo da non garantire la sua resistenza tenuto conto delle condizioni ambientali e della sua specifica funzione, facendo sì che il lavoratore T.M., intento a movimentare dei sacchi contenenti polistirolo macinato stoccati sul soppalco del magazzino da dove li prelevava passandoli al cliente posto sul sottostante piano del magazzino, appoggiandosi al parapetto di tale soppalco - e nella fattispecie al corrente superiore- a causa dello svincolarsi dalla sua sede di quest'ultimo, cadesse sul piano sottostante compiendo un dislivello di circa metri tre e procurandosi le lesioni sopra meglio specificate. In Riva del Garda (TN), il 19 gennaio 2018.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, C.E., deducendo i motivi di seguito enun­ ciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Nel ricorso si eccepisce, con un primo motivo, in via preliminare, la illegittimità costituzionale dell'art. 23 bis della legge 176/2020.
Per il ricorrente, la norma, così come formulata, sarebbe palesemente illegittima per violazione delle norme costituzionali di cui agli art. 3, 24 e 111, posto che, in materia penale, il diritto costituzionalmente garantito è a favore della partecipazione personale dell'imputato e del difensore, solamente in via residuale e con espressa adesione dell'imputato, la trattazione scritta. Inoltre, la stessa violerebbe palesemente anche il diritto di uguaglianza, posto che la medesima legge, all'art. 23, prevede che, nei giudizi di separazione consensuale e divorzio con­ giunto, ove, evidentemente i diritti e gli interessi in discussione sono ben diversi e sicuramente meno delicati di quelli oggetto di un procedimento penale, siano le parti a dover rinunciare espressamente alla trattazione orale e chiedere la trattazione scritta, mentre in assenza la trattazione in presenza è la regola. Pertanto, per il ricorrente, anche e soprattutto in ambito penale, dovrebbe essere l'imputato a rinunciare espressamente a partecipare all'udienza con comunicazione, deposi­ tata almeno quindici giorni prima dell'udienza, nella quale dichiara di essere a conoscenza delle norme processuali che prevedono la partecipazione all'udienza, di aver aderito liberamente alla possibilità di rinunciare alla partecipazione all'udienza, di confermare le conclusioni rassegnate, mentre in caso contrario dovrebbe essere celebrata udienza in presenza.
Da ultimo si rileva che, oltretutto, nessun richiamo alla normativa ed ai termini ivi previsti è contenuta nell'avviso della Corte di Appello di Trento della data dì udienza in camera di consiglio dd. 12 luglio 2021, mentre analoghi avvisi sono contenuti nei provvedimenti in sede civile ove, si ribadisce, i diritti e gli interessi in discussione sono ben diversi e sicuramente meno delicati di quelli oggetto di un procedimento penale.
Con un secondo motivo si censura, sotto il profilo della violazione di legge, la sentenza impugnata in relazione alla riduzione della lista testimoniale e al mancato accoglimento di integrazione dell'istruttoria dibattimentale.
Si tratta, come ricorda il ricorrente, di un motivo già proposto e disatteso avanti alla Corte di Appello di Trento.
Si ricorda che era stata operata una richiesta di rito abbreviato richiesto condizionatamente all'escussione dei testi contestualmente indicati, costituiti dai di­ pendenti che soccorsero" nell'immediato il T.M., ed ai quali lo stesso riferì cosa lamentava, e dai medici dell'Ospedale di Rovereto, che Io visitarono nell'immediatezza e che fecero prognosi decisamente, per fortuna, benevoli circa la durata dello stato patologico.
Ebbene, si lamenta che il giudice, per ammettere il rito richiesto, abbia "preteso di limitare a due i testi".
Si ricorda che, testualmente il quinto comma dell'art. 438 cod. proc. pen. stabilisce che "il giudice dispone il giudizio abbreviato se l'integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e compatibilmente con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzati".
Negli atti del procedimento di primo grado -si lamenta in ricorso- non appare sufficiente ed adeguata motivazione in merito alla riduzione della lista testimoniale; questo anche prescindendo dal fatto che il potere del giudice è limitato ad ammettere o non ammettere la richiesta, indicando nel caso di provvedimento negativo, i motivi ostativi.
Nel merito, per il ricorrente occorre sottolineare come l'attività istruttoria svolta dal Pubblico Ministero si sia limitata a raccogliere la documentazione medica dell'I.N.A.I.L. ed a basare unicamente sull'aspetto documentale la propria azione, senza ricercare altre prove che potessero far ritenere diversa la fattispecie.
L'attività integrativa -si sostiene- si basava essenzialmente sulla ricostruzione dell'incidente, sulle condizioni del lavoratore per tutta la giornata lavorativa, sulla documentazione medica che attestava conseguenze dell'infortunio di modestissima entità.
I testi indicati ed i capitoli avrebbero occupato pochissimo tempo e, assunti, avrebbero fornito al giudicante un quadro sufficiente a far ritenere insussistente la fattispecie contestata.
Questo in aggiunta al fatto che il lavoratore ha ottenuto il risarcimento del danno, di modesto importo proprio per le modeste conseguenze dell'accaduto, ed ha rimesso la querela.
Sarebbe stato, pertanto, punto essenziale assumere sia le prove testimoniali offerte sia una perizia affine di accertare se vi era nesso causale tra la caduta ed il lunghissimo periodo di assenza, per di più per una patologia non lamentata dal lavoratore.
La Corte di Appello di Trento -ci si duole- ha respinto il motivo, con ciò riproponendo gli stessi vizi in cui si ritiene incorso il giudice di primo grado, sul presupposto che l'istanza di rito abbreviato era stata respinta implicitamente dal giudice di Rovereto e che la difesa abbia riproposto la richiesta riducendo, su indicazione del giudice, a due i testi da escutere.

Si sostiene che la Corte tridentina abbia errato laddove non ha tenuto conto che mancava la motivazione esplicita e necessaria per valutare l'iter decisorio della reiezione del rito abbreviato richiesto con l'indicazione dei 7 testi. Il ricorrente si domanda perché lo abbia respinto, se perché l'integrazione probatoria richiesta non era necessaria oppure perché incompatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento. E il vizio del giudizio di primo grado si sarebbe riproposto anche in merito alla sentenza di appello laddove anziché fare buon uso del proprio potere, integrando le testimonianze escluse, ha 'tirato dritto" giungendo ad una conferma de piano della sentenza di primo grado.
Con un terzo motivo si denuncia mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione al giudizio di responsabilità dell'imputato e alla durata della malattia, alla mancata riqualificazione del fatto nella fattispecie di cui all'art. 590, co. 1, cod. pen., da ritenersi estinto per remissione della querela.
Evidenzia il ricorrente che il lavoratore aveva si presentato atto di querela, ma questo solo nella imminenza della scadenza del termine di legge, non si è costituito parte civile e, nelle more, ha pure definito in via transattiva ogni pretesa nei confronti dell'imputato C.E., ottenendo la modesta somma di 5.000 euro; contestualmente il T.M. ha rimesso la querela, che farebbe venir meno la condizione di procedibilità ove l'assenza conseguente alla caduta fosse ricondotta alla ben più logica durata temporale inferiore alla soglia dei 40 giorni.
Si evidenzia in ricorso che, al fine del decidere, il giudice di primo grado e la Corte di Appello di Trento in secondo grado, avevano a disposizione la certificazione medica decisamente contraddittoria, costituita dai referti dell'Ospedale di Rovereto, ove il T.M. si è recato la sera dell'infortunio ed a distanza di ben 10 giorni; in tale secondo accesso ha lamentato patologie completamente diverse rispetto al primo e per nulla collegate all'infortunio; tanto è vero che nulla è stato repertoriato del personale sanitario che pure, ove ritenuto collegato, avrebbe avuto l'obbligo giuridico di segnalare.
Si sottolinea come a giudizio dei medici di Rovereto, la conseguenza della caduta era con una prognosi di 5 giorni, malattia poi irragionevolmente proseguita fino a superare il termine dei 40 giorni. Ciò in quanto non vi sarebbe nulla a supporto di tale improvviso e non spiegato aggravamento, se non gli stereotipati certificati medici rilasciati dal personale sanitario dell'I.N.A.I.L., chiaramente contraddittori rispetto a quanto accertato dai medici dell'Ospedale di Rovereto.
Infine, con un quarto motivo si lamenta vizio motivazionale in relazione al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis cod. pen., argomento disatteso dalla Corte del merito con sole quattro righe, che prendono in considerazione solo la gravità delle lesioni, senza valutare la remissione di querela della persona offesa e l'incensuratezza dell'imputato.

Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.

3. Nei termini di legge ha rassegnato le proprie conclusioni scritte per l'udienza senza discussione orale ex art. 611 cd. 1 cod, proc. pen. -non essendo stata chiesta la trattazione in pubblica udienza ai sensi dell'art. 611 co. 2 cod. proc. pen. - il P.G., che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
 

Diritto


1. I motivi sopra illustrati sono manifestamente infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
Le censure del ricorrente, invero, si sostanziano nella riproposizione delle medesime doglianze già sollevate in appello, senza che vi sia un adeguato confronto critico con le risposte a quelle fornite dai giudici del gravame del merito.
L'impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità.

2. Quanto alla questione di illegittimità costituzionale dell'art. 23-bis della legge 176/2020, la stessa è manifestamente infondata la sentenza impugnata l'ha condivisibilmente ritenuta manifestamente infondata, posto che la norma in esame costituisce una scelta del legislatore che non viola, del tutto condivisibilmente, le disposizioni costituzionali richiamate.
La pronuncia è in linea con quanto più volte affermato da questa Corte di legittimità, che ha già affrontato le questioni dedotte, rilevando che la limitazione dei diritti di rango costituzionale e convenzionale posti a presidio delle garanzie procedurali dell'imputato è frutto di una scelta discrezionale del legislatore, non manifestamente irragionevole o arbitraria, ma giustificata dal bilanciamento con altri principi di pari rango, quali il diritto alla vita e alla salute (Sez. 5, n. 17781 del 7/3/2022, Rv. 283251 - 01; cfr., anche Sez. 3, n. 19431 del 03/02/2022, Rv. 283170). In una recente decisione (Sez. 3 n.. 42297/2022, non massimata) si è sottolineato che il meccanismo che è stato consegnato dal legislatore contempera le esigenze di tutela della salute con quelle di tutela del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio, prevedendo la necessità della richiesta - in deroga alla ordinaria previsione che, nei giudizi di merito, facoltizza l'imputato a presenziare e stabilisce che il difensore debba essere presente, eventualmente a mezzo sostituto processuale - di trattazione orale da esercitarsi nel termine decadenziale di gg. 15 ante­ cedenti l'udienza fissata, al fine di consentire la razionale organizzazione dei ruoli di udienza, consentendo nel contempo di contenere la presenza fisica di tutte le parti in periodo di emergenza pandemica al fine di evitare il rischio di contagio. Meccanismo, peraltro, che risulta essere assolutamente rispettoso dei diritti di difesa e del diritto al contraddittorio in particolare, in quanto l'accoglimento della richiesta di trattazione orale è subordinata al solo rispetto delle cadenze temporali, non potendo il giudice operare valutazioni discrezionali fondate su ragioni di tipo diverso, non previste per legge, il che comporta che ove tutte le parti facciano richiesta di trattazione orale nel termine di legge, il giudice è tenuto ad autorizzarle, ciò significando, in ultimo, che è lo stesso Legislatore ad aver previsto, nel bilanciamento tra le diverse esigenze, la prevalenza di quelle afferenti alla parte che ha fatto richiesta di trattazione orale, dunque la prevalenza del diritto di difesa ed al contraddittorio, donde l'assoluta compatibilità sia con l'art. 24 che con l'art. 111 Cost. (per una diffusa disanima delle questioni, si vedano Sez. 3, n. 19431 del 03/02/2022 - dep. 2022, Rv. 283170 nonché Sez. 5, n. 17781 del 07/03/2022 - dep. 2022, Rv. 283251 che hanno dichiarato manifestamente infondate analoghe questioni di costituzionalità).
Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha già condivisibilmente ritenuto che nel giudizio di appello, nel vigore della disciplina emergenziale pandemica, non è causa di nullità del decreto di citazione l'omesso avvertimento all'imputato della celebrazione del giudizio con rito camerale non partecipato ai sensi dell'art. 23-bis del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in quanto requisito non richiamato dall'art. 601, comma 6, cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 45188 del 14/10/2021, Rv. 282438).

3. Manifestamente infondato è il motivo riguardante la riduzione della lista testimoniale a fronte di una scelta consapevole dell'imputato di formulare una seconda richiesta di rito condizionato all'audizione di due testi, sia pure a seguito del rigetto della prima; la parte poteva tranquillamente esercitare il suo diritto di difendersi provando, accedendo al rito ordinario

4. Quanto al motivo in punto di responsabilità la Corte territoriale ha offerto ampia motivazione in ordine al giudizio di responsabilità del C.E. anche in ragione delle criticità sollevate dalla difesa dell'imputato, alle quali ha fornito adeguata risposta, con cui il ricorrente non si confronta, riproponendo integralmente in questa sede le proprie difese.

In particolare, il motivo riguardante la durata della malattia è manifestamente infondato e generico, alla luce della motivazione della sentenza impugnata, con la quale il ricorrente non si confronta.
La Corte di appello, infatti, chiarisce come le valutazioni dei medici dell'INAIL siano state consapevoli e soprattutto (vedasi pagina 11 della sentenza impugnata) che "non è vero che la persona offesa, dopo l'infortunio, abbia rifiutato l'intervento di un'ambulanza. Dalla deposizione del T.M., si apprende che era stato soccorso da un collega, che i titolari della ditta si erano limitati a fare una battuta di dubbio gusto, che, soprattutto, non era arrivato nessun sanitario e che, infine, frastornato, egli aveva chiamato la compagna, la quale lo aveva condotto al Pronto Soccorso". Ancora che non è vero che la dott.ssa Tolde abbia detto che la gonalgia era verosimilmente un fatto estraneo rispetto al trauma già indagato in occasione dell'infortunio, così come non risponde a verità che la stessa abbia posto a base della verosimile estraneità della gonalgia all'infortunio in questione le due circo­ stanze indicate nel medesimo capoverso dell'atto d'appello, riferite alle modalità della caduta e alla data di comparsa del dolore al ginocchio rispetto alla seèonda visita al Pronto Soccorso. "Tali collegamenti, in realtà, sono frutto delle deduzioni del difensore" (pagina 12 della sentenza impugnata). Invece la dott.ssa Tolde non ha escluso che la gonalgia possa essersi manifestata anche a distanza di 8 giorni e, soprattutto, il Tribunale (e la Corte) hanno ritenuto decisivo che i medici dell'INAIL abbiano riconosciuto una prima proroga di malattia già il 24 gennaio, cioè prima della visita al Pronto Soccorso ospedaliero del 29 gennaio, nella quale sarebbe emersa la presenza della gonalgia. Per cui "delle due l'una: o essi hanno certificato una durata complessiva di 70 giorni, ignorando il (cioè a prescindere dal) dolore al ginocchio, oppure hanno ritenuto che quest'ultimo fosse conseguenza anche dell'infortunio sul lavoro".
Tutte considerazioni con cui il ricorrente non si confronta.

5. Il motivo riguardante l'intervenuta estinzione per remissione di querela è manifestamente infondato, attesa la durata della malattia e parimente manifestamente infondata è la doglianza di mancata riconoscimento della particolare tenuità del fatto, esclusa in punto di fatto con motivazione non manifestamente illogica né contraddittoria, basta sulla gravità dell'evento dannoso in concreto.
La sentenza, dunque, si colloca nell'alveo del dictum delle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della con­ dotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo (Sez. Un. n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266590).

6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
 

P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 24 gennaio 2023