Cassazione Penale, Sez. 4, 10 marzo 2023, n. 10143 - La responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato



Presidente Ferranti – Relatore Bruno

Nota a cura di Di Terlizzi Vincenzo, in Argomenti di diritto del lavoro, 5/2023, pp. 1042-1046 "Infortuni sul lavoro: per la Cassazione la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non sia stato identificato"
 

Fatto



1. Con ordinanza del 14/7/2022 la Corte di appello di Campobasso ha dichiarato inammissibile l'istanza di revisione, proposta ai sensi degli artt. 630,633 c.p.p. e del D.Lgs. n. 231 del 2001, 73, della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti n. 1406/18 resa dal Tribunale di Pescara in data 24 aprile 2018, divenuta irrevocabile in data 5 giugno 2018 nei confronti della società […] S.r.l. (all'epoca […] S.p.A.).

L'istanza veniva proposta dalla società ricorrente per la risoluzione del conflitto, ex art. 630, comma 1, lett. a) c.p.p., tra la sentenza di patteggiamento n. 1406/18 del Tribunale di Pescara, pronunciata nei confronti dell'ente e la sentenza n. 166/2021 pronunciata nei confronti degli imputati-persone fisiche, i quali erano mandati assolti dal reato di cui all'art. 590, comma 3, c.p. per insussistenza del fatto.

La Corte territoriale ha rigettato l'istanza, osservando la mancata ricorrenza dei presupposti applicativi dell'istituto della revisione. In proposito ha richiamato il consolidato principio stabilito in sede di legittimità, in base al quale, in caso di contrasto tra giudicati, è possibile la revisione soltanto ove vi sia inconciliabilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle due sentenze, negando tale requisito.

2. Ha proposto ricorso per Cassazione la "[…] s.r.l.", già "[…] s.p.a.", a mezzo del difensore, lamentando contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

La motivazione addotta dalla Corte d'appello, sostiene la difesa, è meritevole di essere censurata.

L'orientamento citato nella ordinanza è inconferente rispetto al thema decidendum, poiché esso si riferisce ad ipotesi di conflitto di giudicati risultanti da sentenze pronunciate nei confronti di persone fisiche.

L'impostazione ermeneutica richiamata dalla Corte d'appello di Campobasso può ritenersi consolidata solo rispetto alle ipotesi di sentenze pronunciate nei confronti delle persone fisiche.

Con riferimento alle ipotesi di revisione di sentenze pronunciate nei confronti dell'ente, invece, deve ritenersi ammissibile la richiesta di revisione della sentenza di patteggiamento a carico dell'ente collettivo a fronte di una pronuncia irrevocabile del giudice penale che escluda a sussistenza del reato presupposto (sentenza n. 3507/2013 della Corte d'Appello Brescia).

L'addebito all'ente collettivo andrebbe sicuramente escluso nel caso in cui la persona fisica autrice dell'illecito penale sia stata assolta "perché il fatto non sussiste", mancando in tal caso il presupposto del regime di responsabilità disciplinato dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

Le peculiarità della responsabilità dell'ente, diversamente da quanto proposto nell'impianto motivazionale dell'ordinanza, deve essere considerata in via autonoma rispetto agli arresti giurisprudenziali richiamati. L'accertamento della responsabilità amministrativa degli enti, infatti, si fonda su un modello di imputazione che, seppur mutuato da quello penalistico, è peculiare, prevedendo l'affermazione di responsabilità solo in caso di ricorrenza del presupposto della commissione di un fatto che costituisce reato.

Con la sentenza di assoluzione dei due imputati-persone fisiche, rispettivamente delegato dal datore di lavoro alla sicurezza e custode dello stabilimento, il Tribunale ha accertato che il reato di lesioni colpose -che costituirebbe, secondo il modello normativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, il c.d. reato presupposto della responsabilità della società -non sussiste.

Dal punto di vista sistematico, la struttura generale dell'illecito dell'ente tipizzata dalla legge insiste proprio sulla commissione di un reato presupposto da parte di un soggetto funzionalmente legato all'ente.

Deve, inoltre, rilevarsi come la responsabilità degli enti per i reati commessi dai "soggetti in posizione apicale" sia stata costruita dal legislatore secondo il meccanismo peculiare di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 6. Si tratta di una disposizione che esprime il principio per cui "il fondamento della responsabilità dell'ente è costituito dalla "colpa di organizzazione", essendo proprio il deficit organizzativo quello che consente la piena ed agevole imputazione all'ente dell'illecito penale" (così Sez. VI, 15/06/2022, n. 23401).

Il D.Lgs. n. 231 del 2001, nella prospettiva di indicare l'esimente della responsabilità, non prevede affatto la sanzionabilità dell'ente per aver meramente omesso di adottare un modello di organizzazione, gestione e controllo, ma prevede, invece, la punibilità dell'ente che abbia consentito la realizzazione del reato presupposto - elemento indefettibile e irrinunciabile della responsabilità degli enti -perché privo di un'organizzazione idonea a minimizzare il rischio del verificarsi di tali reati.

In mancanza del reato presupposto, pertanto, nessuna responsabilità può essere addebitata all'ente.

È evidente che l'assoluzione delle persone fisiche con la formula "perché il fatto non sussiste" esclude l'accertamento di quegli elementi oggettivi che dovrebbero caratterizzare il reato-presupposto. Si tratta, infatti, di una formula che statuisce l'assenza del reato-presupposto contestato.

Il contrasto attiene anche ai fatti, che sono stati diversamente ricostruiti nelle due sentenze: mentre nella sentenza di patteggiamento, incidentalmente, si è ritenuta posta in essere dagli imputati una condotta inosservante la regola cautelare e, dunque, il reato di cui all'art. 590 c.p., motivo per cui si è ritenuto integrato l'illecito di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-septies, nel giudizio a carico delle persone fisiche si è esclusa che fosse stata realizzata una condotta inosservante della regola cautelare da parte degli imputati-persone fisiche.

3. Il Procuratore Generale con requisitoria scritta ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.

 

Diritto



1. Il ricorso è inammissibile.

2. Il contrasto di giudicati, cui si riferisce l'art. 630 c.p.p., comma 1, lett. a), sussiste anche tra l'accertamento contenuto in una sentenza di patteggiamento e quello contenuto in una sentenza emessa a seguito di giudizio ordinario, in quanto l'art. 629 c.p.p., come modificato dalla L. 12 giugno 2003, n. 134, prevede espressamente la revisione "delle sentenze emesse ai sensi dell'art. 444, comma 2" (in questo senso, Cass., Sez. 4, 21/12/2010, n. 2635, Rv. 249621).

È ovvio che tale procedura possa essere attivata anche nell'ambito della responsabilità amministrativa degli enti, dovendosi estendere agli enti tutte le garanzie previste per il condannato in quanto compatibili (D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 35: "All'ente si applicano le disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili").

Ciò premesso, venendo al merito della regiudicanda, deve ritenersi come la decisione di cui al provvedimento impugnato sia corretta.

Per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il giudizio di revisione non può essere fondato sulla incompatibilità di due giudicati, a meno che non vi sia prova che tale incompatibilità riguardi il fatto storico. In tema di revisione, infatti, il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili di cui all'art. 630, comma 1, lett. a), c.p.p., deve essere inteso con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze, non alla contraddittorietà logica tra le valutazioni operate nelle due decisioni; ne consegue che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono essere, a pena di inammissibilità, tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve esser prosciolto e, pertanto, non possono consistere nel mero rilievo di un contrasto di principio tra due sentenze che abbiano a fondamento gli stessi fatti (Sez. 1, n. 8419 del 14110/2016, dep. 21/02/2017, Rv. 269757). Non è pertanto ammessa la revisione della sentenza di condanna fondata sugli stessi dati probatori utilizzati dalla sentenza di assoluzione, in quanto la revisione giova ad emendare l'errore sulla ricostruzione del fatto e non sulla valutazione del fatto (Sez. 6, n. 488 del 15/11/2016, dep.05/01/2017, Rv. 269232).

Nel caso in esame la "inconciliabilità" non si riferisce ai "fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna".

Nel caso di specie, invero, il fatto storico è rappresentato dalla esistenza di un infortunio occorso sul luogo di lavoro (stabilimento di […]) ad un dipendente della "[…] s.r.l.".

Nella sentenza di assoluzione non si è negato il fatto (caduta di un portone scorrevole, non correttamente assicurato alle guide, che aveva cagionato lesioni gravi al dipendente sul luogo di lavoro), ma si è escluso che i due imputati rivestissero una posizione di garanzia.

La difesa sostiene nel ricorso che la pronuncia assolutoria abbia accertato che il reato di lesioni colpose, che costituirebbe, secondo il modello normativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, il reato-presupposto della responsabilità della società, non sussiste. In realtà, la motivazione della sentenza ha affermato cosa diversa, ritenendo che i due imputati non rivestissero una posizione di garanzia e adoperando una formula assolutoria che non corrisponde a quanto argomentato in motivazione.

Il vulnus della ricostruzione offerta dalla difesa è insito nel prospettare che il giudice della sentenza abbia negato l'esistenza delle lesioni derivate dalla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.

La lettura della sentenza rivela tutt'altro: il giudice, sebbene in modo non pertinente rispetto alla formula assolutoria adottata, ha ritenuto che il fatto sussista, ma che non sia ascrivibile a responsabilità degli imputati.

Si rammenta come in tema di responsabilità da reato degli enti ex D.Lgs. n. 231 del 2001 la Suprema Corte abbia stabilito che all'assoluzione della persona fisica imputata del reato presupposto per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest'ultimo non consegua automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente per la sua commissione, poiché tale responsabilità, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 8, deve essere affermata anche nel caso in cui l'autore del suddetto reato non sia stato identificato (Sez. 5, n. 20060 del 04/04/2013, Rv. 255414 - 01).

Il condivisibile principio espresso nella citata pronuncia può essere esteso al caso in esame: l'accadimento dell'infortunio sul lavoro è stato accertato nella pronuncia assolutoria, rimanendo non individuate le figure dei responsabili dell'accaduto.

Sulla base di tali considerazioni, sebbene la responsabilità dell'ente disegnata dal D.Lgs. n. 231 del 2001, dipenda dal reato della persona fisica, funzionalmente legata all'ente, non si può addivenire alla revoca della sentenza di patteggiamento, perché difettano i presupposti dell'istituto.

Può trarsi dalla disamina del caso il seguente principio: "In caso di revisione della sentenza avente ad oggetto la responsabilità dell'ente ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001 per contrasto di giudicato - art. 630, comma 1, lett. a) c.p.p. ove in separato giudizio si sia pervenuti all'assoluzione della persona fisica per il reato presupposto, è sempre necessario verificare se la ricorrenza del fatto illecito sia stata accertata, discendendo la inconciliabilità del giudicato solo dalla negazione del fatto storico e non anche dalla mancata individuazione della persona fisica del suo autore. Ciò in quanto, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 8, la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato".

3. Consegue alla declaratoria d'inammissibilità del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, a norma dell'art. 616 c.p.p., al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2003).

 

P.Q.M.



Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.