Cassazione Penale, Sez. 4, 12 luglio 2023, n. 30175 - Caduta mortale durante i rilievi funzionali all'installazione di pannelli fotovoltaici sul tetto di un capannone. D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente -

Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere -

Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere -

Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere -

Dott. RICCI Anna Luisa A. - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

dalle parti civili A.A., nata a (Omissis), B.B., nato a (Omissis), C.C., nato a (Omissis); D.D., nato a (Omissis);

nel procedimento a carico di:

E.E., nato a (Omissis);

avverso la sentenza del 03/02/2021 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa SERRAO EUGENIA;

udito il Procuratore generale, in persona del Sostituto Procuratore Dott.ssa ODELLO LUCIA, che ha concluso per il rigetto del ricorso dell'imputato; per l'annullamento con rinvio in accoglimento dei ricorsi delle parti civili;

udito il difensore Avv. GIORDANO ROSARIO in difesa delle parti civili ricorrenti B.B., C.C. e D.D., che ha concluso per l'accoglimento del ricorso delle parti civili;

udito il difensore Avv. GIORDANO ROSARIO in sostituzione dell'avvocato DI FEDE GIACOMO del foro di GELA in difesa della parte civile non ricorrente F.F., che ha concluso per il rigetto del ricorso dell'imputato;

udito il difensore Avv. GUARNERI CRISTINA nell'interesse della parte civile ricorrente A.A., che ha concluso per l'accoglimento del ricorso della parte civile;

udito il difensore Avv. FERRARA CARMELO FABRIZIO per l'imputato E.E., che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
 

 

Fatto


1. Con sentenza emessa il 26/01/2021, il Tribunale di Gela, dichiarate estinte per prescrizione le contravvenzioni contestate ai capi b) e c), ha dichiarato E.E. responsabile del reato di cui all'art. 589 c.p., commi 2 e 3, (capo a), condannandolo alla pena di un anno e sei mesi di reclusione, al risarcimento del danno nei confronti delle costituite parti civili e al pagamento di una provvisionale di complessivi Euro 30.000,00; con la medesima sentenza è stato escluso, per insussistenza del fatto, l'illecito amministrativo contestato ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 alla CIMET Srl. Avverso la sentenza di primo grado hanno proposto appello sia l'imputato, con doglianze afferenti l'affermazione di responsabilità e le statuizioni civili, che le parti civili A.A., B.B., C.C. e D.D. con distinti atti di contenuto sovrapponibile, con doglianze afferenti sia il punto della sentenza in cui è stato escluso l'illecito dell'ente sia il punto della sentenza concernente l'entità della provvisionale liquidata. La Corte di appello di Caltanissetta, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la pronuncia di primo grado.

2. E.E. era imputato del reato previsto dall'art. 589 c.p., commi 2 e 3, perchè, nella qualità di amministratore della ditta CIMET Srl e, in quanto tale datore di lavoro e responsabile della sicurezza dei lavoratori dipendenti che svolgevano le loro mansioni nell'ambito dei lavori di progettazione, fornitura e montaggio di un impianto fotovoltaico da realizzare sulle coperture di un capannone di proprietà della ditta Ecoplast Srl ubicata in (Omissis), per colpa consistita in imprudenza, negligenza e imperizia e, comunque, in violazione delle norme di sicurezza sul lavoro, tra cui quelle richiamate nei successivi capi b) e c) non vietando, e comunque, impedendo attraverso adeguata formazione e informazione sui relativi rischi, al dipendente G.G. (avente mansione di montatore di strutture in ferro) di salire su un tetto senza le necessarie imbracature e senza i necessari dispositivi di ancoraggio, aveva posto in essere una serie di antecedenti causali dell'infortunio occorso al dipendente; nello specifico, il dipendente, durante i rilievi funzionali alla successiva installazione di pannelli fotovoltaici sul tetto di un capannone della Ecoplast Srl , portatosi sul tetto, a causa della rottura di una lastra di fibrocemento posta a copertura del suddetto capannone, era precipitato nel vuoto da un'altezza di 5 metri, finendo contro un macchinario ivi collocato e, successivamente, a terra; caduta da cui era derivata la morte del lavoratore. In (Omissis) (capo a); della contravvenzione prevista dall'art. 55, comma 5 lett. a) in relazione al D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, artt. 36 e 37 perchè, in qualità di datore di lavoro di G.G., aveva omesso, pur avendone l'obbligo, di fornire adeguata e sufficiente formazione al lavoratore in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, nonchè sui rischi per la sicurezza cui era esposto in relazione all'attività svolta: segnatamente, sui rischi riferiti alle mansioni, ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici dei settori di appartenenza dell'azienda e, in particolare, su quelli connessi alle operazioni di caduta dall'alto (capo b); della contravvenzione prevista dall'art. 159 in relazione al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 111 perchè aveva omesso, pur avendone l'obbligo, di scegliere e di munire il lavoratore dei dispositivi di sicurezza e delle attrezzature di lavoro più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure ovvero imbracature per il corpo e dispositivi di ancoraggio (capo c).

Alla CIMET Srl era imputato l'illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, lett. a) e art. 25 septies, dipendente dal reato di omicidio colposo di cui al capo a) in quanto commesso da E.E. nella qualità di soggetto apicale, dotato di autonomia finanziaria e funzionale, nell'interesse e a vantaggio dell'ente; vantaggio di natura economica, costituito dalla necessità di non ritardare i lavori dell'impianto fotovoltaico commissionato dalla ditta Ecoplast Srl e dal risparmio di spesa conseguente alla mancata formazione e informazione del lavoratore, nonchè dalla predisposizione di misure di prevenzione individuale e collettive idonee a ridurre i rischi conseguenti a caduta dall'alto (capo d).

3. Il fatto è stato così ricostruito nelle conformi sentenze di merito: la mattina del 16 luglio 2015 l'operaio G.G. era stato incaricato dal datore di lavoro di salire sul tetto del capannone di proprietà della Ecoplast Srl in zona industriale di (Omissis), al fine di fare un sopralluogo in quanto l'impresa per la quale lavorava, ossia la CIMET Srl , doveva posizionare sul tetto del capannone alcuni pannelli fotovoltaici; il lavoratore aveva utilizzato una scala fissa e poi una scala mobile per accedervi; il tetto era costituito da travi il cui interasse era coperto da onduline in fibrocemento, pacificamente non calpestabili in quanto, anche secondo il consulente tecnico della difesa, pur essendo testate per resistere a circa 200 chilogrammi al metro quadrato, ciò non significava che fossero pedonabili e calpestabili, essendo sottoposte a intemperie e a deterioramento; l'agente di polizia giudiziaria intervenuto nell'immediatezza dei fatti aveva constatato la caduta dell'operaio in corrispondenza di un'apertura sul tetto di circa 90 centimetri; l'altezza del foro rispetto al punto di caduta era di circa 6 metri; gli ispettori della ASP avevano constatato l'assenza di linee vita, mentre il consulente della difesa aveva constatato la presenza di un numero di ganci, da due a quattro in ragione della lunghezza delle travi, che erano serviti per la messa in opera delle travi.

4. E.E. ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza per i seguenti motivi:

a) violazione e falsa applicazione dell'art. 521 c.p.p., motivazione contraddittoria e omessa. Il ricorrente assume che le ipotesi di responsabilità contestate all'imputato, attraverso la lettura integrata del capo a), in cui era descritto il reato principale, con i capi b) e c), dove erano richiamate le specifiche omissioni, consistevano nel non aver vietato o impedito attraverso adeguate formazione e informazione e nell'aver omesso di scegliere e di munire il lavoratore dei presidi di sicurezza ovvero imbracature e dispositivi di ancoraggio. Nella sentenza di primo grado gli è stata, invece, ascritta l'omessa segnalazione del pericolo costituito dall'impossibilità di camminamento diretto sul tetto, la mancata o superficiale valutazione del rischio di caduta dall'alto e la conseguente omessa adozione delle misure di sicurezza, la carenza e non corretta sorveglianza e organizzazione delle attività di lavorazione, a livello di supervisione. La difesa aveva lamentato con l'atto di appello di aver modulato la linea difensiva sui profili di responsabilità contestati, essendo derivata dalla violazione del principio di corrispondenza tra imputazione e sentenza una grave lesione del contraddittorio. Si duole del fatto che la Corte di appello abbia ritenuto insussistente la violazione denunciata sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale; tuttavia, a tale conclusione i giudici di appello sono pervenuti con motivazione contraddittoria in quanto, da un lato, hanno ammesso la sostanziale diversità tra il teorema accusatorio originario e quello accolto dal giudice mentre, dall'altro, hanno affermato che il fatto storico sarebbe rimasto immutato nel corso dell'iter dibattimentale. La Corte avrebbe dovuto, tuttavia, individuare il momento di emersione dibattimentale di tali ulteriori condotte onde valutare la possibilità per la difesa di articolare una linea per confutarle. Nel caso in esame i profili di responsabilità sono stati prospettati per la prima volta solo con il deposito della motivazione. La difesa contesta che nella vicenda vi sarebbe un capo di imputazione generico arricchito da evoluzioni dinamiche dibattimentali non produttive di pregiudizio difensivo. Aver contestato che il datore di lavoro non avesse impedito al lavoratore di salire sul terrazzo senza le necessarie imbracature non implicava violazione dell'obbligo di vigilanza, tanto più in quanto era stato contestato anche l'aver omesso adeguata formazione e informazione del lavoratore sui relativi rischi; inoltre, essendo stata contestata la violazione dell'obbligo di scegliere e munire il lavoratore dei presidi individuali, tale contestazione si pone in insanabile contrasto con l'obbligo di vigilanza, che presuppone che tali presidi siano stati forniti. La motivazione è del tutto assente su tale argomento;

b) violazione dell'art. 533 c.p.p. La difesa aveva segnalato con l'atto di appello che il giudice di primo grado, nel pretendere che fosse l'imputato a dover dimostrare di aver vigilato e di aver valutato il rischio di caduta dall'alto nonchè di aver adottato le misure volte a prevenire tale rischio, aveva invertito l'onere probatorio ma la Corte di appello, ritenendo insufficiente il materiale probatorio offerto dall'imputato, ha confermato la sentenza di primo grado proprio per il mancato assolvimento del predetto onere;

c) motivazione omessa risultante da atti del processo indicati nel gravame. La difesa aveva contestato l'affermazione relativa all'omessa valutazione del rischio di caduta dall'alto sulla base del DVR datato 17 gennaio 2013 acquisito agli atti, ma la Corte di appello ha trascurato di esaminare la questione;

d) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 36 e 37. La difesa contesta l'interpretazione delle norme in esame fornitane dalla Corte di merito, che ha ritenuto che l'obbligo di informazione del lavoratore si potesse ritenere assolto esclusivamente mediante consegna al lavoratore di un documento, ritenendo che sia invece sempre possibile dimostrare l'avvenuto assolvimento dell'obbligo di formazione e informazione con altra modalità;

e) motivazione contraddittoria e omessa risultante da atti del processo indicati nel gravame. La sentenza impugnata sarebbe contraddittoria laddove da un lato vi si afferma che "il G.G. era un lavoratore esperto e quindi perfettamente formato, non vi è prova che vi sia stato un risparmio di spesa afferente la formazione" mentre per altro verso si conferma il mancato assolvimento dell'obbligo di formazione e informazione del lavoratore. La Corte di appello ha ritenuto che l'esclusione della responsabilità dell'ente per la mancanza di prova di un risparmio di spesa correlato alla formazione del lavoratore non fosse in contrasto con la condanna del datore di lavoro per omessa formazione in quanto non sono previste esenzioni normative dell'obbligo di formazione, trascurando che la responsabilità dell'ente fosse stata esclusa proprio perchè il giudice di primo grado aveva accertato che il lavoratore fosse perfettamente formato; in ogni caso, i giudici di merito hanno omesso di valutare gli elementi probatori offerti con l'atto di impugnazione, segnatamente il verbale del 14 luglio 2015 e la trascrizione delle prove testimoniali volte a dimostrare l'effettiva somministrazione al lavoratore della formazione-informazione dovute;

f) violazione e falsa applicazione dell'art. 40 c.p.. La difesa si duole del fatto che il giudizio controfattuale si sia fondato sull'assenza di presidi di sicurezza concernenti l'intera copertura del capannone senza prendere in considerazione il punto specifico in cui era in atto la fase lavorativa. La presenza di punti di ancoraggio in aree non interessate dalla caduta sarebbe stato, ai fini del giudizio controfattuale, del tutto irrilevante, onde si deve ritenere errata la premessa fattuale sulla cui scorta i giudici di merito hanno ritenuto insufficiente la presenza di punti di ancoraggio nelle immediate vicinanze del luogo in cui si è verificata la rottura della copertura;

g) motivazione omessa risultante da atti del processo indicati nel gravame mancata assunzione di una prova decisiva. Avendo la difesa evidenziato come l'intervento del lavoratore avesse natura prettamente locale per prendere le misure ai fini della realizzazione delle staffe sulle quali appoggiare i pannelli fotovoltaici, dunque avendo provato che l'accesso alla copertura avrebbe riguardato una piccola e circoscritta area a ridosso della scala di accesso dove dovevano essere prese le misure per la realizzazione dei prototipi delle staffe, sarebbe stato necessario accertare mediante la prova tecnica se i ganci annegati nel cemento e utilizzati per il sollevamento delle travi, non visti dagli ispettori che non erano saliti sulla copertura, fossero idonei a consentire al lavoratore di agganciarsi a un punto fisso. Il giudice di primo grado aveva ritenuto incerta la data delle fotografie scattate dal consulente tecnico di parte ed era caduto in errore laddove aveva ritenuto insussistenti ganci distinti dai supporti delle onduline. Inoltre, per valutare se tali ganci potessero offrire un appiglio sicuro cui collegare la cintura di sicurezza, sarebbe stata necessaria una valutazione tecnica. La Corte di appello ha omesso di motivare sul punto relativo alla presenza o meno di punti di ancoraggio nelle immediate vicinanze del luogo della caduta, trascurando una prova decisiva;

h) motivazione contraddittoria risultante da atti del processo indicati nel gravame. La difesa aveva impugnato la sentenza di primo grado contestando la sussistenza del profilo di responsabilità per mancanza di prova che il datore di lavoro avesse consegnato al lavoratore la cintura di sicurezza, evidenziando come la motivazione fosse sul punto contraddittoria e contraddetta dalla prova testimoniale e dalla prova documentale, costituita dal verbale di consegna dei DPI in data 14 luglio 2015. La Corte di appello ha disconosciuto ogni rilevanza probatoria a tale documento. rilevando il mancato rinvenimento della cintura di sicurezza, così invertendo l'onere probatorio e ponendosi in conflitto con le risultanze dell'istruttoria dibattimentale, in particolare con le deposizioni dei testi H.H. e I.I., così fornendo motivazione contraddittoria;

i) si contesta, in conseguenza dei vizi in precedenza denunciati, la condanna alle conseguenze civili del reato.

5. A.A., con ricorso sottoscritto dall'avv. Guarneri Cristina, B.B., C.C. e D.D., con ricorso sottoscritto dall'avv. Giordano Rosario, hanno impugnato quali parti civili la sentenza di appello con argomentazioni sovrapponibili, deducendo, con il primo motivo, violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all'art. 530 c.p.p. e D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25 septies - motivazione carente contraddittoria e illogica - violazione di legge per la ritenuta mancanza del cosiddetto vantaggio dell'ente e per la ritenuta assenza di prova della c.d. colpa di organizzazione. I ricorrenti hanno svolto ampia disamina dei presupposti normativi funzionali alla condanna dell'ente ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, evidenziando le ragioni per le quali tali presupposti sussisterebbero nel caso concreto; con un secondo motivo hanno dedotto violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1 lett. e), - motivazione carente in ordine alla insufficienza della somma risarcitoria liquidata con la sentenza di primo grado a titolo di provvisionale e soprattutto alla richiesta di liquidazione di provvisionale congrua avanzata implicitamente e rigettata rispetto al danno-conseguenza accertato. Il difensore di A.A. ha, inoltre, dedotto l'omessa motivazione in relazione alla censura concernente il mancato riconoscimento in favore di tale parte delle spese legali relative alla fase svoltasi avanti al giudice dell'udienza preliminare, inspiegabilmente liquidate solo in favore delle altre parti civili.

6. All'udienza odierna, procedendosi a trattazione orale su istanza di parte, sono comparse le parti, che hanno rassegnato le conclusioni indicate in epigrafe.

 

 

Diritto


1. Il giudice di primo grado ha ritenuto che, indipendentemente dal fatto che i lavori fossero o meno iniziati, la posizione di garanzia del datore di lavoro fosse correlata all'area di rischio inerente alla predisposizione delle misure antinfortunistiche e alla sorveglianza circa la loro adozione da parte dei lavoratori e ha ritenuto accertato che l'operaio fosse salito sul tetto senza alcuna imbracatura, nell'atto di svolgere un compito autorizzato e programmato dal datore di lavoro, in assenza di divieti relativi all'accesso al tetto o di segnali di pericolo. Il datore di lavoro, essendo necessario salire sul tetto per installare i pannelli fotovoltaici, avrebbe dovuto valutare le problematiche di sicurezza connesse alla presenza di lastre di fibrocemento non calpestabili sul tetto di un capannone alto circa 6 metri dal pavimento. La condotta colposa del datore di lavoro si è sostanziata, si legge a pag. 10 della sentenza di primo grado, nel non avere tassativamente interdetto l'accesso al tetto in assenza di una idonea linea-vita; i ganci indicati come equivalenti dal consulente tecnico della difesa sono stati ritenuti non idonei a sostituire una linea-vita, costituita da un cavo di acciaio ritorto di grosse dimensioni non deteriorabile, saldato con precisi e fortissimi ancoraggi al tetto, spesso fissati con tasselli chimici, possibilmente sul colmo in orizzontale, con precisi moschettoni di aggancio delle imbracature. Secondo il giudice di primo grado, sarebbe stato possibile posizionare prima del lavoro una rete anticaduta sotto le lastre di ondulina. Il datore di lavoro è stato ritenuto responsabile per non avere segnalato l'impossibilità di camminare sul tetto e per non avere previsto opere provvisionali finalizzate alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, posto che l'assenza o la superficiale valutazione del rischio di caduta dall'alto e l'omessa adozione delle misure di sicurezza volte a prevenire tale rischio, oltre alla mancata formazione e informazione dei lavoratori in materia, determinavano una situazione di rischio che il datore di lavoro avrebbe dovuto gestire. La responsabilità da reato della CIMET Srl è stata esclusa per non essere stata raggiunta la piena prova, il cui onere incombeva sulla pubblica accusa, che la condotta del datore di lavoro si fosse svolta nell'interesse o a vantaggio dell'ente, non essendovi prova che vi fosse stato un risparmio di spesa afferente la formazione del lavoratore, trattandosi di lavoratore esperto; nè, secondo il giudice di primo grado, la pubblica accusa aveva fornito la prova della riconducibilità del reato a una colpa di organizzazione dell'ente.

2. Tanto premesso, si esamina ora il ricorso proposto da E.E..

2.1. Il primo motivo è infondato. E' errato l'assunto di partenza, in base al quale nel capo di imputazione sarebbe stato contestato al E.E. solo di non aver vietato o impedito, attraverso adeguata formazione e informazione, e di aver omesso di scegliere e di munire il lavoratore dei presidi di sicurezza. La lettera del capo di imputazione evidenzia, piuttosto, una contestazione di colpa generica, una contestazione di colpa specifica per violazione di norme di sicurezza sul lavoro "tra cui quelle richiamate nei successivi capi b) e c)", con locuzione che non esclude la violazione di altre norme antinfortunistiche, e in particolare la contestazione di non aver vietato al dipendente di salire su un tetto senza i necessari dispositivi individuali e collettivi per la prevenzione delle cadute dall'alto. Non è, peraltro, condivisibile l'assunto difensivo secondo il quale la colpa del datore di lavoro nel non aver vietato al lavoratore di salire sul tetto sarebbe correlata al dovere di formazione e informazione; al contrario, secondo il significato letterale e il senso compiuto di quanto si legge nel capo di imputazione, al E.E. è stato contestato di non aver vietato al dipendente di salire sul tetto in assenza dei necessari presidi antinfortunistici e comunque di non aver impedito ciò attraverso adeguata formazione e informazione sui relativi rischi. Inesatto è anche l'ulteriore assunto secondo il quale il giudice di primo grado avrebbe condannato l'imputato per condotte attive od omissive diverse da quelle contestategli; è evidente che il giudice di merito si sia strettamente attenuto all'ipotesi accusatoria, avendo accertato che l'accesso al tetto non fosse precluso nonostante fosse prevedibile che il lavoratore, in ragione dell'attività da compiere, vi sarebbe salito (pag.10) e avendo sottolineato come il datore di lavoro non avesse valutato le difficoltà di accesso al tetto e soprattutto le problematiche di sicurezza a questo accesso connesse per la presenza di lastre di fibrocemento non calpestabili e per l'assenza di linea-vita, considerata anche l'altezza di circa 6 metri del tetto dal pavimento del capannone. Correttamente, dunque, la Corte di appello ha escluso che fosse violato il principio dettato dall'art. 521 c.p.p. sotto il duplice profilo, da un lato della possibilità, ammessa da consolidato orientamento giurisprudenziale, che il giudice condanni per profili o specificazioni del comportamento colposo emersi nel corso del giudizio e, dall'altro, della concreta corrispondenza della colpa ascritta al E.E. alla condotta contestata. I due profili esaminati non implicano contraddittorietà della pronuncia, che ha rafforzato il ragionamento illustrando due percorsi motivazionali comunque volti ad evidenziare l'infondatezza della doglianza. In particolare, a pag.6 della sentenza la Corte ha sottolineato, con affermazione non manifestamente illogica, come la condotta contestata, consistente nel non aver impedito l'accesso al tetto senza le necessarie imbracature, comprendesse in sè una grave carenza di vigilanza e l'omesso svolgimento degli obblighi di controllo e supervisione sul rispetto delle misure antinfortunistiche. A ciò si aggiunga che non risultano allegate, nè in precedenza sottoposte al giudice di appello, le indicazioni specifiche dell'attività difensiva che sarebbe stata conculcata, posto che l'istruttoria si è incentrata sul fatto che il lavoratore fosse stato incaricato di svolgere un compito che comportava l'accesso al tetto senza la predisposizione di idonei presidi antinfortunistici, come dimostrano anche le argomentazioni difensive sviluppate nell'atto di appello e nel ricorso. Come correttamente osservato dal giudice di appello, il fatto storico è rimasto immutato nel corso dell'iter procedimentale (Sez. U n. 36551 del 15/07/2010, Carrelli, Rv. 24805101 in tema di mutamento del fatto) e il datore di lavoro aveva l'obbligo di predisporre tutte le misure antinfortunistiche correlate al rischio di caduta dall'alto. Essendo stato accertato che il lavoratore non indossava l'imbracatura, il richiamo al dovere del datore di lavoro di sorvegliare costantemente che i lavoratori si avvalgano delle misure antinfortunistiche è oltretutto conseguenza dell'assunto difensivo in base al quale il G.G. fosse stato dotato dei dispositivi di protezione individuale, senza che ciò abbia comportato il venir meno della contestazione principale risultante con evidenza dalla lettura delle sentenze di merito, ossia quella inerente al non aver impedito al lavoratore di accedere a una zona non dotata di idonei presidi antinfortunistici volti a evitare il rischio di caduta dall'alto.

2.2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto la difesa trascura di confrontarsi con il tenore delle sentenze di merito laddove l'intero corpo motivazionale illustra le prove fornite dall'accusa, senza alcuna inversione dell'onere probatorio.

2.3. Per quanto concerne il terzo motivo, si tratta di censura infondata. La redazione del documento di valutazione dei rischi, anche nei casi nei quali sia stata effettuata, esige poi l'adozione delle relative misure di prevenzione e, in ogni caso, ciò non esclude la responsabilità del datore di lavoro quando, per un errore nell'analisi dei rischi o nell'identificazione di misure adeguate, non sia stata adottata idonea misura di prevenzione (Sez. 4, n. 43350 del 05/10/2021, Mara, Rv. 282241 - 01). Occorre, in proposito, richiamare le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 111; tale norma illustra, secondo un preciso schema logico, quale sia la condotta del datore di lavoro che il legislatore ha ritenuto idonea a garantire la sicurezza dei lavoratori che devono eseguire lavori in quota. Di tali disposizioni si tratterà più specificamente al par. 2.8. Legittimamente nel caso concreto i giudici di appello si sono concentrati sull'elemento dirimente della totale omessa adozione di dispositivi di protezione atti a prevenire il rischio di caduta dall'alto, in violazione della normativa dettata dal D.Lgs. n. 81 del 2008.

2.4. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato in quanto presuppone una lettura della motivazione che il collegio non condivide. A pag.7 della sentenza impugnata i giudici di appello si sono limitati a osservare che, qualora il datore di lavoro intenda dimostrare di aver assolto l'obbligo di informazione mediante la consegna al lavoratore di un documento cartaceo, deve fornire la prova che il lavoratore lo abbia effettivamente ricevuto e che il contenuto del documento non sia generico. Tanto premesso, la Corte di appello ha evidenziato che nel caso concreto il documento non recava la sottoscrizione del lavoratore e che l'informazione fosse, in ogni caso, generica e afferente esclusivamente all'uso dei dispositivi di protezione individuale. In nessun passo della sentenza risulta affermato che la prova documentale sia l'unico mezzo attraverso il quale può essere assolto l'obbligo di informazione.

2.5. Il quinto motivo di ricorso ripropone una censura già sottoposta al giudice di appello e congruamente respinta sul presupposto che la divergenza tra gli argomenti sviluppati dal giudice di primo grado in merito alla formazione del lavoratore è del tutto apparente. L'affermazione secondo la quale il lavoratore G.G. fosse lavoratore esperto che non necessitava di formazione è stata estrapolata dal punto della decisione inerente alla responsabilità dell'ente, nel cui contesto essa deve essere letta. Premesso che il D.Lgs. n. 231 del 2001 non prevede l'automatica derivazione della responsabilità dell'ente dal fatto illecito del suo amministratore, il tribunale ha ritenuto che non vi fosse piena prova che la condotta si fosse svolta nell'interesse o a vantaggio dell'ente. A tale proposito i giudici hanno ritenuto non essere stato provato che l'ente avesse beneficiato di un risparmio di spesa da porre in correlazione con l'infortunio e, in tale contesto, hanno affermato che il G.G. fosse un lavoratore esperto e quindi perfettamente formato. Come correttamente evidenziato dalla Corte di appello, ciò non esimeva il datore di lavoro dal provvedere a formare e informare il lavoratore in merito al rischio specifico di caduta dall'alto che avrebbe affrontato. Non vi è dunque alcuna valutazione contraddittoria circa il fatto che costituisce il nucleo essenziale dell'omissione contestata, ossia che il lavoratore non fosse stato formato, diversa essendo la sola valutazione dell'onere economico che tale formazione avrebbe comportato in relazione a un lavoratore di esperienza. Anche sotto il profilo dell'omessa valutazione di prove fornite dalla difesa la censura risulta inidonea a destrutturare l'impianto argomentativo al punto da concretare il vizio denunciato, posto che il giudice di appello non è tenuto a esaminare ogni argomento difensivo inconciliabile con le valutazioni espresse nella sentenza, in tal modo da ritenersi implicitamente valutato non decisivo. A ciò deve aggiungersi che i giudici di appello hanno, in ogni caso, sottolineato l'inidoneità delle informazioni fornite al lavoratore in ragione della loro genericità.

2.6. Il sesto motivo di ricorso è inammissibile. Si tratta di censura che tende a sollecitare la Corte di legittimità ad accogliere una diversa valutazione del fatto, consistente nello stabilire quali tipi di ancoraggio fossero idonei a prevenire il rischio di caduta nel caso concreto. Tale valutazione è questione di fatto rimessa ai giudici di merito, i quali hanno, in primo luogo, ritenuto non dimostrato che il lavoratore dovesse fermarsi a lavorare nel punto da cui è caduto e che l'attività richiesta fosse circoscritta a quella porzione di tetto, atteso che la prova testimoniale aveva consegnato il dato secondo il quale un dipendente della CIMET Srl era stato incaricato, immediatamente dopo l'infortunio e prima dell'arrivo degli ispettori del lavoro, di portare via il materiale "che serviva per fare la struttura portante dei pannelli (barre, piastre)". I giudici hanno, quindi, sottolineato come, per stessa ammissione dell'imputato, le staffe dovessero essere montate su tutto il tetto, derivandone l'obbligo previsto dalla normativa di installare una linea-vita. Omettendo di confrontarsi con tale valutazione delle emergenze probatorie, la censura difetta di specificità.

2.7. Il settimo motivo di ricorso è inammissibile per le medesime ragioni di cui sopra, contenendo doglianze prive di adeguato confronto con il dato probatorio al quale i giudici di merito hanno dato rilievo quale premessa fattuale del debito di sicurezza attribuito al datore di lavoro. Giova precisare che, contrariamente a quanto asserito dalla difesa, sia il giudice di primo grado che il giudice di appello hanno esaminato la tesi difensiva inerente alla presenza di ganci "serviti per il sollevamento delle pesanti travi di cemento", logicamente ritenendo tale argomento non decisivo a fronte della radicale diversità dei presidi antinfortunistici prescritti dalla legge.

2.8. L'ottavo motivo è infondato. Quanto al vizio di contraddittorietà della motivazione, occorre ricordare che esso è interno al percorso giustificativo della decisione e ricorre quando non siano conciliabili tra loro le considerazioni logico-giuridiche in ordine a uno stesso fatto o a un complesso di fatti o vi sia disarmonia tra la parte motiva e la parte dispositiva della sentenza, ovvero nella stessa si manifestino dubbi che non consentano di determinare quale delle due o più ipotesi formulate dal giudice, conducenti ad esiti diversi, siano state poste a base del suo convincimento (Sez.5, n. 19318 del 20/01/2021, Cappella, Rv. 281105); deve, dunque, escludersi che il vizio di contraddittorietà della motivazione possa avere come termini di raffronto la sentenza e i dati istruttori sulla base della loro asserita erronea interpretazione.

Occorre, poi, rammentare che la gestione del rischio di caduta dall'alto è affidata dalla legge a due principali forme di presidio: collettivo e individuale. La prima disposizione prevede che debba essere data priorità alle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale (art. 111, comma 1, lett. a); la ratio di tale indicazione risiede nel fatto che i dispositivi di protezione collettiva sono atti a operare indipendentemente dal fatto, e a dispetto del fatto, che il lavoratore abbia imprudentemente omesso di utilizzare il dispositivo di protezione individuale. La seconda disposizione consente al datore di lavoro di scegliere il tipo più idoneo tra i sistemi di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota (art. 111, comma 2); è, quindi, valorizzata la possibilità per il datore di lavoro di optare, in relazione allo stato di fatto, per un sistema piuttosto che per un altro. Un'ulteriore disposizione prevede che il datore di lavoro possa disporre l'impiego di sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi solamente nelle circostanze in cui risulti che l'impiego di un'altra attrezzatura di lavoro considerata più sicura non sia giustificato per la breve durata di utilizzo ovvero per caratteristiche del luogo non modificabili (art. 111, comma 4); tale disposizione rafforza l'indicazione iniziale circa la preferenza del legislatore per i sistemi di protezione collettiva in relazione ai lavori in quota. L'obbligo di minimizzare i rischi insiti nelle attrezzature scelte è stato correlato dal legislatore al sistema prescelto dal datore di lavoro e l'installazione di dispositivi di protezione contro le cadute è stato correlato a tale scelta (art. 111, comma 5); nell'ambito del sistema prescelto dal datore di lavoro in ossequio alle disposizioni precedenti doveva, dunque, essere valutata la responsabilità colposa dell'imputato per l'omissione di cautele atte a minimizzare il rischio di caduta. Dalla disposizione contenuta nell'art. 111, comma 6, si desume, altresì, che solo l'esecuzione di lavori di natura particolare può giustificare l'eliminazione temporanea di un dispositivo di protezione collettiva contro le cadute che, in ogni caso, dovrà essere immediatamente ripristinato una volta terminato il lavoro di natura particolare. L'intero corpo di regole cautelari individuate dal legislatore per i lavori in quota indica, dunque, che i dispositivi di protezione collettiva sono da considerare lo strumento di maggior tutela per la sicurezza dei lavoratori, sia in quanto vengono indicati come prioritari tra i criteri da seguire nella scelta delle attrezzature di lavoro, sia in quanto l'adozione di attrezzature di protezione individuale o di sistemi di accesso e posizionamento mediante funi è indicata quale scelta subordinata nel caso in cui, per la durata dell'impiego e per le caratteristiche del luogo, non sia logico adottare un'attrezzatura di lavoro più sicura. Della ratio di tale principio si è detto. Seguendo il percorso indicato dal legislatore, compito del giudice di merito era, dunque, in primo luogo, stabilire quale fosse la misura di protezione scelta nel caso concreto dal datore di lavoro, onde verificare se in tale scelta il datore si fosse attenuto ai criteri indicati dalla normativa. In secondo luogo, era compito del giudice di merito verificare se, in relazione al tipo di sistema di protezione prescelto e alle attrezzature adottate, il datore avesse correttamente individuato e fornito gli strumenti idonei a minimizzare i rischi per i lavoratori contro le cadute. A pag.11 della sentenza di primo grado il Tribunale ha, correttamente, evidenziato che sarebbe stato possibile posizionare prima del lavoro sotto le lastre di ondulina una rete anticaduta, che avrebbe salvato la vita al lavoratore. Risulta, pertanto, ininfluente sulla decisione assunta dal giudice di merito ogni argomentazione inerente all'avvenuta consegna al lavoratore dei dispositivi di protezione individuale, posto che il nucleo della decisione è da ravvisare nella omessa predisposizione di presidi collettivi e individuali idonei a minimizzare il rischio di caduta dall'alto.

2.9. Il motivo inerente alle statuizioni civili risulta del tutto aspecifico, essendosi limitato il ricorrente a ritenere erronea la decisione sul punto in ragione dell'insussistenza del reato.

3. Il primo motivo dei ricorsi proposti dalle parti civili è inammissibile per carenza di interesse.

3.1. Occorre rammentare che per proporre ricorso occorre avervi un concreto interesse, determinato dagli effetti favorevoli che la parte ricorrente potrebbe ottenere dall'annullamento del provvedimento impugnato. Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in termini definitivi sulla natura della responsabilità da reato degli enti (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261115 - 01) affermando che si tratta di un tertium genus, diverso delle tradizionali categorie della responsabilità penale e amministrativa, in cui vengono coniugati elementi del sistema penale e amministrativo. Si è, inoltre, esclusa l'ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo penale nei confronti dell'ente, fatta salva l'ipotesi in cui l'ente sia citato come responsabile civile, ritenendosi che l'assenza di ogni riferimento espresso alla parte civile nel D.Lgs. n. 231 del 2001 sia frutto di una scelta consapevole del legislatore, che ha dunque operato intenzionalmente una deroga rispetto alla regolamentazione codicistica (Sez. 6, n. 2251 del 05/10/2010, dep.2011, Fenu, Rv. 248791 - 01).

3.2. Per il profilo di interesse nel caso in esame, uno degli argomenti a sostegno dell'inammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell'ente si fonda sul D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 27, che limita la responsabilità patrimoniale dell'ente all'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria senza fare alcuna menzione delle obbligazioni civili, nonchè sull'art. 54 del medesimo testo normativo che, derogando alle finalità del sequestro conservativo disciplinate dall'art. 316 c.p.p., limita tale forma di sequestro nei confronti dell'ente al solo scopo di assicurare il pagamento della sanzione pecuniaria, senza fare menzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato. Inoltre, gli artt. 12 e 17, che consentono all'ente di ottenere l'esclusione ovvero la riduzione delle sanzioni pecuniarie e interdittive in caso di avvenuto risarcimento dei danni patiti dalla vittima, nonchè l'art. 19, che prevede la riduzione della confisca per la parte di profitto che può essere restituita al danneggiato, fanno riferimento al danno derivante dal reato e non a quello determinato dall'illecito amministrativo commesso dall'ente, non potendosi sulla base di tali disposizioni configurare conseguenze dannose derivanti dall'illecito amministrativo. Ne discenderebbe, secondo alcuni, l'inutilità pratica dell'istituto della costituzione di parte civile in un procedimento volto all'accertamento di un illecito che, sul piano dogmatico, non pare comunque produttivo di danni diretti e immediati diversi e ulteriori rispetto a quelli che sono conseguenza del reato presupposto. Per altro verso, il fatto che in materia di responsabilità degli enti si sia costruito un sistema di riduzione sanzionatoria collegato a condotte di c.d. "ravvedimento operoso" è circostanza del tutto neutra rispetto al tema in esame.

3.3. Ne deriva che non si vede quale effetto favorevole le parti civili potrebbero lucrare dall'accoglimento del presente motivo di ricorso. A ciò si aggiunga che la circostanza che l'illecito dell'ente non si identifichi con il reato commesso dalla persona fisica esclude l'applicabilità dell'art. 185 c.p., che si riferisce al reato in senso tecnico. La circostanza che l'illecito dell'ente sia fonte di responsabilità civile ai sensi dell'art. 2043 c.c. consente al danneggiato di promuovere l'azione in sede civile. La stessa Corte Costituzionale, con sentenza n. 218 del 18 luglio 2014, ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 83 c.p.p. e di tutte le disposizioni del D.Lgs. n. 231 del 2001 nella parte in cui non prevedono espressamente e non permettono che le persone offese vittime del reato possano chiedere direttamente alle persone giuridiche e agli enti il risarcimento in via civile nel processo penale dei danni subiti; a tale conclusione la Consulta è pervenuta sul presupposto che l'illecito ascrivibile all'ente costituisca una fattispecie complessa e non si identifichi con il reato commesso dalla persona fisica, nonchè sull'ulteriore valutazione per cui la citazione dell'ente come responsabile civile non è preclusa dalla previsione dell'art. 83 c.p.p. in quanto, non coincidendo l'illecito amministrativo con il reato, l'ente e l'autore del reato non possono qualificarsi come coimputati essendo ad essi ascritti due illeciti strutturalmente diversi.

3.4. La citata sentenza n. 2251/2011, in cui si è precisato che la scelta del legislatore di non prevedere la costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti può trovare una ulteriore e ragionevole spiegazione sotto il profilo sostanziale, nel senso che non pare individuabile un danno derivante dall'illecito amministrativo diverso da quello prodotto dal reato, ha inaugurato un orientamento interpretativo che può ritenersi consolidato e che ha trovato conferma nella pronuncia Sez. 4, n. 3786 del 17/10/2014, dep. 2015, Li Causi e autorevole avallo dalla pronuncia della Corte Costituzionale. Ulteriore avallo è stato fornito dalla pronuncia della CGUE, sez. 2, Giovanardi C-79/11 del 12 luglio 2012, posto che in tale pronuncia la Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi su rinvio pregiudiziale del giudice italiano sul se le disposizioni del D.Lgs. n. 231 del 2001 relative alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, laddove non prevedono la possibilità che esse siano chiamate a rispondere, nell'ambito del processo penale, dei danni da esse cagionati alle vittime di un reato, siano compatibili con l'art. 9 della Decisione quadro 2001/220/GAI, ha asserito che, anche sposando la soluzione negativa in merito all'ammissibilità della costituzione di parte civile, il sistema normativo contenuto nel D.Lgs. n. 231 non sarebbe comunque in contrasto con l'obbligo di cui all'art. 9 p. 1 della Decisione quadro, posto che per il rispetto di tale prescrizione è sufficiente che l'ordinamento nazionale consenta alla vittima di costituirsi parte civile contro la persona fisica autrice del reato.

4. Il secondo motivo dei ricorsi proposti dalle parti civili è inammissibile.

E' principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione che la statuizione che assegna la provvisionale abbia tra le proprie caratteristiche quelle della precarietà (essendo destinata ad essere travolta o assorbita dalla decisione conclusiva del processo e quindi insuscettibile di passare in giudicato: ex multis Sez. 4, n. 36760 del 04/06/2004, Cattaneo, Rv. 230271); della discrezionalità nella determinazione dell'ammontare senza obbligo di specifica motivazione (Sez. 5,n. 32899 del 25/05/2011, Mapelli, Rv. 250934; Sez. 6, n. 49877 del 11/11/2009, Blancaflor, Rv. 245701; Sez. 5, n. 40410 del 18/03/2004, Farina, Rv. 230105); della non impugnabilità con il ricorso per cassazione (Sez. 4, n. 34791 del 23/06/2010, Mazzamurro, Rv. 248348; Sez. 4, n. 36760 del 04/06/2004, Cattaneo, Rv. 230271; Sez. 5, n. 40410 del 18/03/2004, Farina, Rv. 230105; Sez. U, n. 2246 del 19/12/1990, dep.1991, Capelli, Rv. 186722), da ciò desumendosi l'inidoneità di tale pronuncia a condizionare le statuizioni civili concernenti l'entità del danno definitivamente risarcibile.

5. Per quanto concerne l'omessa liquidazione delle spese sostenute dalla parte civile A.A. nel corso dell'udienza preliminare, osserva il Collegio che tale domanda era stata genericamente sottoposta al giudice di appello, che ha ritenuto congrue le somme liquidate dal giudice di primo grado. E, considerato che l'abrogazione delle tariffe professionali disposta dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 1, (conv. dalla L. 24 marzo 2012, n. 27) ha svincolato il giudice dai limiti tariffari minimi e massimi, obbligandolo per la determinazione del compenso a far riferimento ai parametri previsti dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 12, concernenti l'impegno profuso nelle diverse fasi processuali, la natura, la complessità e la gravità del procedimento e delle contestazioni, il pregio dell'opera prestata, il numero e l'importanza delle questioni trattate, l'eventuale urgenza della prestazione, nonchè i risultati e i vantaggi conseguiti dal cliente (Sez. 5, n. 29934 del 27/05/2014, D.M., Rv. 262385 - 01), la parte che intenda censurare il provvedimento è tenuta ad articolare specifiche doglianze volte a consentire alla Corte di verificare la lamentata illegittimità del provvedimento. In difetto di specifiche allegazioni, la censura deve ritenersi inammissibile, non essendo configurabile alcun onere di motivazione a carico del giudice che si sia attenuto, a norma dell'art. 12 del medesimo decreto ministeriale, ai valori medi; nè costituisce specifica allegazione in tal senso l'asserità disparità di trattamento rispetto ad altra parte civile, in difetto di puntuale allegazione dell'attività professionale posta in comparazione (Sez. 2, n. 47860 del 14/11/2019, Rizzelli, Rv. 277894 - 01; Sez. 5,n. 49007 del 14/06/2017, Perelli, Rv. 271443 - 01).

6. Conclusivamente, il ricorso proposto da E.E. deve essere rigettato; al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ai sensi dell'art. 616 c.p.p. nonchè alla rifusione delle spese in favore della parte civile non ricorrente F.F., liquidate come in dispositivo.

I ricorsi proposti dalle parti civili sono inammissibili; all'inammissibilità dei ricorsi segue la condanna delle parti civili al pagamento delle spese processuali ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", le parti civili ricorrenti vanno condannate al pagamento di una somma che si stima equo determinare in Euro 3.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.

 

P.Q.M.


Rigetta il ricorso di E.E., che condanna al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalla parte civile F.F., che liquida in Euro tremila, oltre accessori, come per legge.

Dichiara inammissibili i ricorsi di A.A., B.B., C.C., D.D., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuna in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2023.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2023