Cassazione Penale, Sez. 4, 12 luglio 2023, n. 30166 - Caduta mortale per la rottura del lucernaio. Inadeguatezza di misure di sicurezza sia collettive (ad es., reti anticaduta) sia individuali (ad es., cinture di sicurezza) 



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SERRAO Eugenia - Presidente -

Dott. BRUNO Mariarosaria - Consigliere -

Dott. CENCI Daniele - rel. Consigliere -

Dott. MARI Attilio - Consigliere -

Dott. NOCERA Andrea - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
 


sul ricorso proposto da:

A.A., nato a (Omissis);

avverso la sentenza del 14/02/2022 della CORTE APPELLO di VENEZIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. CENCI DANIELE;

sulle conclusioni del Pubblico Ministero.

 

 

Fatto


1. La Corte di appello di Venezia il 14 febbraio 2022 ha integralmente confermato la sentenza, appellata dall'imputato, con cui il Tribunale di Vicenza il 25 settembre 2019, all'esito del dibattimento, ha riconosciuto A.A. responsabile del reato di omicidio colposo, con violazione della disciplina antinfortunistica, e, con le attenuanti generiche ritenute equivalenti all'aggravante, lo ha condannato alla pena di giustizia, condizionalmente sospesa.

2. I fatti, in estrema sintesi, come concordemente ricostruiti dai giudici di merito.

2.1. Il (Omissis) B.B. è rimasto vittima di un incidente mortale dentro un cantiere ubicato all'interno di un deposito di autobus della Spa A.I.M., società che aveva appaltato alla Srl A.A. l'opera consistente nella rimozione delle lastre in cemento-amianto che costituivano la copertura del deposito e nella posa in opera di una nuova copertura, con successiva installazione di un impianto fotovoltaico. La soc. A.A. era stata autorizzata da A.I.M. a sub-appaltare i lavori a cinque lavoratori autonomi, tra cui C.C. e D.D..

In particolare, domenica mattina (Omissis) C.C. e D.D., alle ore 07.30 circa, avevano portato con loro dentro il cantiere, seduto sul sedile posteriore di un furgone, B.B., il quale non era titolare di un contratto di subappalto nè dipendente della soc. A.A. nè titolare di partita IVA. Quel giorno, dunque, B.B., salito sopra il tetto indossando vestiti da lavoro, verso le ore 10.00 ha sfondato un lucernaio in plastica, tipo plexiglass, collocato in una parte della copertura non interessata dai lavori ma vicina alla parte interessata ed è precipitato per sette metri sino a terra: le gravissime lesioni riportate ne hanno causato il decesso cinque giorni dopo.

Sotto l'area interessata dai lavori non erano presenti reti di protezione.

Il consulente del P.M. ha ritenuto che al momento dell'infortunio la vittima non fosse correttamente assicurata ai dispositivi retrattili o non fosse proprio assicurata. Non è stata rinvenuta alcuna imbracatura al momento del sopralluogo.

Inoltre, la zona della copertura da cui è precipitato B.B. è risultata non essere adeguatamente segregata.

2.2. L'odierno ricorrente è stato ritenuto responsabile, in qualità di amministratore e legale rappresentante della Srl A.A., impresa affidataria dei lavori, della violazione del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 97, per non avere vigilato sulle condizioni di sicurezza dei lavori affidati, anche a lavoratori autonomi, reclutati - si è ritenuto - in maniera superficiale, senza valutarne adeguatamente la professionalità, per non avere applicato le condizioni previste dal piano di sicurezza (il capo di imputazione nei suoi confronti è stato modificato dal Pubblico Ministero nel dibattimento di primo grado all'udienza del 15 marzo 2017, cfr. p. 9 della sentenza di appello e p. 1 di quella del Tribunale), in particolare non segregando le zone pericolose, cioè i lucernai, dovendo gli adempimenti finalizzati alla sicurezza essere rispettati anche ove ci si avvalga di lavoratori in regime di subappalto o di lavoratori autonomi che vengano inseriti nell'organizzazione aziendale, e per avere rimosso le reti di protezione senza assicurarsi che i lavoratori facessero corretto uso dei dispositivi di sicurezza individuali.

2.3. Nel corso del primo grado è stata revocata la costituzione di parte civile dei congiunti del deceduto.

3. Ricorre per la cassazione della sentenza l'imputato, tramite Difensore di fiducia, affidandosi a cinque motivi con i quali denunzia sia violazione di legge sia difetto di motivazione.

3.1. Ripercorsi, in sintesi, gli antefatti e richiamati i motivi di appello (pp. 8 dell'impugnazione), A.A. con il primo motivo (pp. 8-22) lamenta violazione di legge extra-penale (D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 97, commi 1 e 3) fondante la regola antinfortunistica.

Richiamata la nozione di posizione di garanzia e il senso della individuazione della stessa, si assume che l'attività di vigilanza sull'uso corretto ed effettivo dei dispositivi di protezione individuale da parte dei lavoratori sarebbe estranea al paradigma normativo di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 97.

Il ragionamento che si rinviene alle pp. 6-7 della sentenza impugnata circa la riconosciuta inadeguatezza nel caso di specie di misure di sicurezza sia collettive (ad es., reti anticaduta) sia individuali (ad es., cinture di sicurezza) rispetto al rischio di caduta, svolgendosi lavori in quota, sarebbe erroneo, in quanto il Tribunale di Vicenza, in realtà, ha accertato che il piano di lavoro originario è stato modificato, su proposta proprio della ditta affidataria Srl A.A. e che dispositivi di protezione anti-caduta sia di tipo collettivo che di tipo individuale (quali linee-vita, cordini retrattili ed imbracature) sono stati regolarmente installati, come confermato all'udienza del 26 settembre 2018 (il cui verbale si richiama) dal testimone del P.M. E.E..

Si rammenta al riguardo che un precedente di legittimità (Sez. 4, n. 5477 del 14/12/2017, dep. 2018, Cucchi, Rv. 271940), reso in fattispecie identica, in motivazione ha puntualizzato che il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 111 non impone, per i lavori temporanei in quota, la necessaria adozione di misure di sicurezza collettive, potendo essere sufficienti quelle individuali (par. n. 2 del "considerato in diritto" della decisione, p. 3, ove si legge che "il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 111 non impone, per i lavori temporanei in quota, che non possono essere eseguiti in condizioni di sicurezza e in condizioni ergonomiche adeguate a partire da un luogo adatto allo scopo, l'adozione di misure di protezione collettiva, sancendo solo il carattere prioritario e preferenziale delle prime rispetto a quelle individuali"). Peraltro, nel caso di specie la consulenza tecnica svolta nel corso delle indagini preliminari dall'ing. F.F. (il cui elaborato tecnico si richiama) ha accertato che l'uso di linee vita come riportato nel piano operativo di sicurezza (P.O.S.) della ditta A.A. è adeguato e non obbliga alla contemporanea presenza di altri sistemi quali reti anticadute e parapetti: sotto tale profilo, pertanto, ad avviso del ricorrente, sono da escludersi violazioni del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 97 da parte dell'imputato A.A..

Si sottopone, quindi, a censura la restante parte della motivazione della sentenza, ove (alle pp. 7-9) si sottolinea l'uso improprio dei dispo9tivi retrattili e si conclude nel senso della sussistente responsabilità dell'imputato per una pluralità di ragioni: a causa della omessa valutazione della professionalità dei soggetti qualificati formalmente come subappaltatori; in ragione della omessa informazione agli stessi circa i rischi da affrontare e circa le modalità per poter operare in sicurezza; per la eliminazione delle reti già presenti sotto i lucernai e per il mancato controllo che gli operai, così privati della "protezione collettiva", facessero corretto uso di quelle individuali; per averli fatti lavorare anche di domenica, peraltro lasciandoli andare sul tetto, che era privo delle necessarie segnalazioni circa le zone pericolose, in sostanza "abbandonandoli a se stessi, senza un minimo di sorveglianza" (testualmente, alla p. 9); così, in ultima analisi, provocando la morte di B.B., persona non adeguatamente formata e non convenientemente protetta dai rischi della lavorazione che gli era stata affidata.

L'imputato, invece, ad avviso della Difesa, non avrebbe violato la norma extra-penale e, anzi, avrebbe apprestato ogni cautela richiesta dalla legge, poichè: avrebbe, in effetti, verificato la regolarità documentazione dei lavoratori autonomi, tra i quali B.B., con la sola eccezione del documento unico di regolarità contributivo (D.U.R.C.) della ditta C.C., adempimento comunque con ogni evidenza privo di efficienza causale rispetto alla caduta letale di B.B.; non corrisponderebbe al vero che l'imputato abbia eliminato le reti anticaduta perchè dalla lettura del fax del 26 novembre 2010 si rinviene solo la proposta di A.A. di modifica del piano di lavoro con riferimento alla installazione delle linee-vita e l'utilizzo di imbracature ed arrotolatori retrattili da agganciare alle linee-vita, senza che sia rinvenibile alcun cenno quanto alla segregazione dei lucernai, scelta peraltro avallata dall'ing. G.G., coordinatore per la sicurezza, il quale a dibattimento ha confermato di avere dato disposizione di segregare le zone di lavorazione con catenelle mobili; quanto alla ragione della mancanza di reti sottostanti, l'istruttoria ha pacificamente fatto emergere che le reti avrebbero creato problemi al passaggio degli autobus sotto la copertura e che tale determinazione era stata adottata d'intesa tra la soc. A.I.M., che aveva commissionato i lavori, e la ditta A.A.; inoltre, non competerebbe all'impresa affidataria e al suo legale rappresentante vigilare sul concreto utilizzo dei dispositivi individuali da parte dei lavoratori autonomi, cui compete, invece, ai sensi del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 21, munirsi dei dispositivi di protezione e usare gli stessi; e ciò in applicazione del principio di autoresponsabilità, enunziato dalla S.C. - anche - nella sentenza n. 36715 del 22/02/2018, Locatelli, non mass.; erano stati installati parapetti sui quattro lati perimetrali dell'edificio; le linee-vita erano state correttamente installate; era presente in cantiere un congruo numero di cordini retrattili funzionanti, circostanza quest'ultima verificata nel corso delle indagini tramite la consulenza dell'ing. F.F.; ancora, perchè deve escludersi, ad avviso del ricorrente, la sussistenza di un onere di continua, quotidiana, verifica circa il corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale da parte del titolare dell'impresa affidataria; inoltre perchè A.A. non era il "datore di lavoro" di B.B. nè così era mai stato qualificato; infine poichè, stando al piano di sicurezza e coordinamento (P.S.C.) spettava al coordinatore per l'esecuzione dei lavori e non già al titolare dell'impresa affidataria verificare il corretto uso dei dispositivi di protezione individuale.

3.2. Con il secondo motivo (pp. 23-25 del ricorso) si duole di violazione di legge processuale (art. 63 c.p.p.), in quanto le dichiarazioni dell'ing. G.G., il professionista che ha predisposto il piano di sicurezza e coordinamento, sarebbero inutilizzabili perchè rese da persona che si sarebbe dovuta sentire come imputato e non già come testimone, essendo stato in tale veste ascoltato all'udienza del 30 maggio 2018. In realtà, emergerebbe documentalmente che proprio l'ing. G.G. era tenuto a verificare il corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e che lo stesso aveva dato l'assenso alla eliminazione delle reti anticaduta, addirittura avendo all'udienza del 30 maggio 2018 reso dichiarazioni auto-accusatorie affermando di avere concordato con A.A. che lo stesso non provvedesse a trasferire progressivamente le reti anticaduta già installate sotto altre falde della copertura man mano che avanzavano i lavori.

3.3. Con il terzo motivo (pp. 25-32 dell'impugnazione) si censura ulteriore violazione di legge processuale (art. 521 c.p.p.) sotto il profilo della correlazione tra accusa e sentenza: il ruolo di datore di lavoro dell'operaio deceduto, in realtà, sarebbe stato da contestare a C.C., il coimputato assolto all'esito del dibattimento di primo grado, non già al ricorrente A.A., titolare dell'impresa affidataria.

Si rammenta che il Tribunale aveva assolto il coimputato C.C. in considerazione della inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da questo agli ispettori del servizio prevenzione igiene sicurezza ambienti di lavoro (S.P.I.S.A.L) e della ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni del subappaltatore D.D., ritenuto persona non disinteressata; il Tribunale aveva affermato la penale responsabilità di A.A. esclusivamente sulla base della posizione di garanzia dallo stesso assunta ai sensi del combinato disposto del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 97 e 26, ritenendo sussistente il nesso di causalità in ragione della mancata installazione delle reti anticaduta.

La Corte di appello, invece, evidentemente prendendo atto che l'ing. E.E. ha affermato che le misure di protezione collettiva apprestata (parapetti e linee vita) sarebbero state sufficienti, ove i dispositivi di protezione individuale fossero stati correttamente utilizzati, "decide di "virare", discostandosi completamente dall'impianto motivazionale della sentenza di primo grado" (così alla p. 28 del ricorso) e argomenta la condanna in base alla - ritenuta - fittizietà dei contratti di subappalto dissimulanti rapporti di lavoro dipendente e per le censurabili modalità di scelta dei formali subappaltatori, comunque non adeguatamente informati dei rischi lavorativi, in assenza di adeguati dispositivi di protezione collettiva, senza curarsi di verificare che facessero corretto uso dei dispositivi individuali di protezione (p. 9 della sentenza).

Le sentenze, dunque, ad avviso del ricorrente, costituirebbero una "doppia conforme" soltanto per il dispositivo.

Si sottolinea l'ingiustizia derivante dal mancato coinvolgimento nel processo della società committente, dall'assoluzione del subappaltatore (C.C.) che aveva sicuramente contattato B.B. e condotto lo stesso nel cantiere, dalla circostanza che pacificamente A.A. non conosceva la vittima e non sapeva nemmeno che la stessa fosse entrata nel cantiere.

Oltre che ingiusta, la sentenza sarebbe illegittima, attribuendo al ricorrente la qualifica di datore di lavoro, con le correlative responsabilità, per condotte allo stesso mai contestate e che, in realtà, erano state addebitate a C.C., assolto, come si è già detto. Così agendo, si sarebbe gravemente leso il diritto di difesa dell'imputato, peraltro non essendosi svolta l'istruttoria sul tema della eventuale qualifica di datore di lavoro in capo all'odierno ricorrente, sicchè non potrebbe farsi ricorso alla - tralatizia - giurisprudenza in tema di modifica delle contestazioni.

3.4. Con il quarto motivo si denuncia travisamento delle risultanze istruttorie. Il reale datore di lavoro della vittima sarebbe stato C.C., assolto dal Tribunale, come emergente dall'istruttoria e dal verbale della Direzione provinciale del lavoro del 26 gennaio 2011, da stimarsi utilizzabile.

I Giudici di merito, ad avviso del ricorrente, sarebbero stati condizionati dal pregiudizio che avvalersi di lavoratori autonomi in subappalto nasconda situazioni di sfruttamento della manodopera; ciò che, però, sarebbe decisamente da escludersi nel caso di specie, in cui A.A., secondo quanto pacificamente emerso dall'istruttoria sia documentale che testimoniale, aveva pensato di integrare la propria forza-lavoro con lavoratori specialmente esperti per operare sopra un tetto ove erano posate lastre di amianto-cemento. Inoltre, mancherebbe la dimostrazione della riferibilità a A.A. della presenza di B.B. nel cantiere il (Omissis) e nei giorni precedenti, essendo quelli indicati dalla Corte di appello elementi del tutto insoddisfacenti e non probanti.

Era comunque C.C. - si afferma - ad impartire direttive a B.B.; il Servizio Spisal, all'esito delle proprie verifiche, aveva elevato un verbale, datato 20 settembre 2011, nei confronti di C.C., che era stato espressamente qualificato dal servizio ispettivo come datore di lavoro di fatto; e nel verbale della Direzione provinciale del lavoro del 26 gennaio 2011 si legge che è stato C.C. a condurre, il (Omissis), B.B. nel cantiere per farlo lavorare, avendo peraltro lo stesso C.C. dichiarato che il compenso non era stato sino a quel momento stabilito, con dichiarazioni che il ricorrente ritiene pienamente utilizzabili, richiamando al riguardo un precedente di legittimità che si stima pertinente.

In conseguenza, sarebbe gravemente erronea e frutto di grave travisamento l'affermazione, che si legge alla p. 10 della sentenza impugnata, secondo cui mancherebbe la prova che fosse C.C. a dovere pagare B.B..

La sentenza conterrebbe un travisamento anche ove trascura di considerare che C.C., come emerge documentalmente dagli allegati alla memoria difensiva di A.A., ha regolarizzato il rapporto di lavoro con B.B. (iscrizione Cassa edile, comunicazione Inail, pagamento della sanzione ridotta di cui al verbale di accertamento).

Dalle indicate emergenze istruttorie dovrebbe discendere l'obbligo in capo a C.C., e non già a A.A., di fornire a B.B. i dispositivi di protezione individuale e di assicurarsi circa il loro corretto utilizzo.

Non solo, dunque, la motivazione circa la ritenuta sussistenza di una simulazione di contratti di subappalto sarebbe frutto di un vero e proprio travisamento delle risultanze istruttorie ma la sentenza sarebbe vistosamente contraddittoria, in quanto "l'affermazione della sussistenza di contratti di subappalto simulati e, quindi, la ritenuta qualifica di lavoratori dipendenti di tutti i subappaltatori appare assolutamente inconciliabile con la contestuale affermazione di responsabilità penale per la violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 97" (così alla p. 39 del ricorso).

3.5. Con il quinto motivo la Difesa lamenta promiscuamente violazione di legge (artt. 40, 41 e 42 c.p.) e vizio di motivazione, che sarebbe mancante, apparente e illogica, in relazione alla sussistenza del nesso causale tra la condotta contestata alla ditta affidataria e l'evento-morte.

Ad avviso del ricorrente, infatti, l'imputato avrebbe apprestato ogni necessaria cautela, anche quanto al rischio dei lavori in quota, e la vittima è precipitata da un lucernaio sopra una falda (la num. 3) sulla quale, in realtà, non si doveva lavorare (come chiarito all'udienza del 20 gennaio 2016 dal teste E.E.), perchè le reti andavano progressivamente spostate sotto la sola falda del tetto dove in quel momento si stava lavorando; ciò, peraltro aderendo alle richieste della A.I.M., dovendo transitare nella zona sottostante la copertura gli autobus, e tanto spiega perchè non vi fosse la rete di protezione sotto il lucernaio dal quale è caduto l'operaio deceduto, lucernaio che non costituiva in realtà zona di lavoro; ed è emerso che la zona di lavoro era "segregata" con catenelle bianche e rosse che ne delimitavano il perimetro.

Sarebbe totalmente apodittica l'affermazione, che si rinviene alla p. 10 della sentenza impugnata, secondo cui A.A. avrebbe "messo in conto" l'arrivo in cantiere di una persona a lui sconosciuta sulle cui capacità professionali non avrebbe potuto effettuare alcuna verifica e alla quale non avrebbe potuto fornire alcuna informazione. E, anzi, i subappaltatori scelti erano tutti professionalmente attrezzati per lavorare in quota e per rimuovere lastre di amianto e la relativa professionalità era stata verificata dal coordinatore per la sicurezza.

La presenza all'interno del cantiere di B.B., non autorizzata, era stata preceduta da un accesso irregolare al cantiere che era recintato e gestito da una società cooperativa che svolgeva servizio di guardiania, la cui - emersa approssimazione nello svolgimento del servizio di controllo non si può addebitare all'odierno ricorrente, il quale legittimamente confidava nel rispetto da parte della società committente AIM, avente una precisa posizione di garanzia, di quanto previsto nel P.S.C..

Tanto premesso, la motivazione della sentenza impugnata pare non congrua ai fini della corretta applicazione dei disposti codicistici degli artt. 40-41-42 c.p., non giustificando adeguatamente la consapevolezza da parte di A.A. circa la presenza nel cantiere quella mattina di B.B. ovvero l'accettazione della presenza dello stesso. La - non consentita - presenza di B.B. quel giorno in cantiere, a ben vedere, dovrebbe equipararsi alla presenza arbitraria del ladro introdottosi furtivamente; con le stesse conseguenze.

Appare dunque inesigibile che l'imputato dovesse vigilare sulle condizioni di sicurezza in cantiere rispetto ad un soggetto che si è abusivamente introdotto all'interno dello stesso; e tale vigilanza, comunque, sarebbe stata da svolgersi da parte dell'originario coimputato C.C..

Si chiede, dunque, l'annullamento della sentenza impugnata.

4. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta del 17 marzo 2023, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.

5. Con memoria pervenuta il 30 marzo 2023 il ricorrente ha insistito nei motivi di ricorso.

 

Diritto


1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato, per le seguenti ragioni.

2. Quanto al primo motivo (pretesa violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 97), esso, come esattamente rilevato dal Procuratore Generale nella requisitoria scritta, non è stato proposto previamente in appello, con la conseguenza disciplinata dall'art. 606 c.p.p., comma 3, ultima parte.

Peraltro, quanto al tema della "alterità" tra misure di protezione collettive e misure di protezione individuali, la S.C. ha di recente - condivisibilmente puntualizzato che "In tema di sicurezza dei lavoratori che devono eseguire lavori in quota, il datore di lavoro, ai sensi del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 111, è tenuto ad adottare misure di protezione collettiva in via prioritaria rispetto a misure di protezione individuale, in quanto le prime sono atte ad operare anche in caso di omesso utilizzo da parte del lavoratore del dispositivo individuale, con la conseguenza che l'omessa adozione delle seconde non è sufficiente a determinarne la responsabilità per l'infortunio occorso a un lavoratore, ove siano state adottate adeguate misure di protezione collettiva" (così Sez. 4, n. 24908 del 25/05/2021, Polini, Rv. 281680-02).

3. Nemmeno il secondo motivo (lamentata violazione dell'art. 63 c.p.p. con riferimento alle dichiarazioni dell'ing. G.G.) è stato previamente proposto nell'impugnazione di merito. Donde, anche sotto tale profilo, la conseguenza prevista dall'art. 606 c.p.p., comma 3, ultima parte.

4. Diversa la situazione quanto al terzo ed al quarto motivo (con cui si denunzia, rispettivamente, la violazione dell'art. 521 c.p.p., per mancata corrispondenza tra accusa e sentenza, in ragione di una sostanziale "inversione" degli addebiti, ed il travisamento delle emergenze istruttorie, per non avere compreso che il reale datore di lavoro della vittima e l'effettivo responsabile dell'infortunio è da individuarsi in C.C.). Infatti, la tesi della (esclusiva) responsabilità in capo al coimputato C.C., irrevocabilmente assolto, era già stata sostenuta con il primo e con il quinto motivo di appello redatti dal Difensore ed anche nell'appello presentato personalmente dall'imputato ed era stata disattesa nella sentenza impugnata tramite il ragionamento che si rinviene alle pp. 8-10, rispetto al quale il ricorso non offre elementi di novità ma si risolve nella mera reiterazione di una tesi in effetti già presa in considerazione e già disattesa con motivazione non illogica e non incongrua.

Peraltro, sia la Corte di appello (p. 8) che il Tribunale (p. 17) hanno fatto applicazione del - pacifico - principio di diritto secondo il quale "In tema prevenzione degli infortuni sul lavoro, l'imprenditore che si avvalga di maestranze in regime di subappalto ovvero di lavoratori anche autonomi che provveda ad inserire nell'organizzazione aziendale, si identifica - in assenza di specifiche deleghe al titolare della ditta operante in subappalto - nel soggetto responsabile della sicurezza del cantiere" (Sez. 3, n. 28902 del 24/01/2003, Capelli, Rv. 255834).

5. Quanto al quinto motivo (con cui si denuncia la mancanza del nesso di causalità), esso non solo è stato già preso in considerazione e disatteso dalla Corte di appello, alle pp. 6 e ss. della sentenza impugnata con motivazione che risulta adeguata e non incongrua nè illogica, ma risulta costruito in fatto e su prospettazioni meramente avversative rispetto alla ricostruzione operata dai giudici di merito, che hanno accertato che i pericolosi lucernai non erano segregati, che mancavano idonee misure di sicurezza collettive, che quelle individuali, pur presenti, erano gestite scorrettamente, e che era assente qualsiasi forma di controllo sulle concrete condizioni di sicurezza in cui si svolgeva il lavoro. Nell'impugnazione si contrappone, in buona sostanza, a quella della Corte territoriale e del Tribunale una ricostruzione alternativa in termini di rispetto delle misure di sicurezza: ad avviso del ricorrente, sul lucernaio spaccatosi il lavoratore non sarebbe dovuto salire, vi sarebbero state sul tetto delle catenelle colorate a delimitare le zone di lavoro, i lavoratori autonomi, compresa la vittima, sarebbero stati professionalmente attrezzati, la superficialità nel controllo all'ingresso del cantiere non sarebbe addebitabile al ricorrente.

6. Consegue la statuizione in dispositivo.

 

P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 6 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2023