Cassazione Penale, Sez. 4, 05 luglio 2023, n. 28789 - Infortunio mortale occorso durante i lavori in quota: risponde del delitto di omicidio colposo il datore di lavoro che non adotti in via prioritaria i dispositivi di protezione collettiva


 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente -

Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere -

Dott. CENCI Daniele - Consigliere -

Dott. RICCI Anna Luisa - rel. Consigliere -

Dott. D’ANDREA Alessandro - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

A.A., nato a (Omissis);

avverso la sentenza del 20/06/2022 della CORTE APPELLO di ANCONA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ANNA LUISA ANGELA RICCI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. MARINELLI FELICETTA, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il difensore avvocato BIANCOFIORE PAOLO FILIPPO del foro di PESARO in difesa di:

A.A., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso.

 

Fatto


1. La Corte d'appello di Ancona ha confermato la sentenza di condanna del Tribunale di Urbino nei confronti di A.A., nella qualità di datore di lavoro, in ordine al reato di cui all'art. 589 c.p., comma 2 in danno del dipendente B.B., commesso in (Omissis).

1.1 Il processo ha ad oggetto un infortunio sul lavoro, descritto nelle sentenze di merito conformi,, nel modo seguente.

Alla data su indicata, nel corso di lavori di manutenzione straordinaria della copertura (tetto) dell'unità produttiva Marchegiani Rottami Srl da parte della ditta "Vi.Ma di C.C.", B.B. stava applicando sul tetto uno stato di impermeabilizzazione di gomma liquida contenuta in un barattolo da distribuire manualmente con un pennello, quando, a causa dello sfondamento di una lastra di copertura, era precipitato da un'altezza di circa cinque metri ed era così deceduto sul colpo.

1.2.Nei confronti dell'imputato, datore di lavoro, quali addebiti di colpa, sono stati individuati la negligenza, l'imprudenza e l'imperizia e la violazione dell'art. 96, comma 1, lett. g), D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 115 e art. 148, commi 1 e 2. In particolare A.A. aveva omesso di prevedere nel piano operativo di sicurezza gli apprestamenti necessari alla tutela dei lavoratori contro il rischio caduta e di provvedere, in relazione a lavoro temporaneo in quota da eseguir9 condizioni di sicurezza e ergonomiche non adeguate (con camminamento fra lastre di larghezza pari ciascuna a 16,18 cm.), ad installare sistemi di protezione idonei conformi alle norme tecniche, quali linee vita rigide o flessibili, imbracature ed altri sistemi previsti dalla legge, da assicurare a parti stabili dell'edificio.

3. Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso l'imputato, con il proprio difensore, formulando tre motivi.

3.1 Con il primo motivo, ha dedotto la violazione di legge ed in specie degli artt. 40, 41 e 42 c.p. e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del nesso di causa e alla esclusione della condotta abnorme del lavoratore. Il difensore lamenta che la Corte di appello, in continuità con la sentenza di primo grado, chiamata a valutare se la condotta del lavoratore fosse stata abnorme e avesse così interrotto il nesso di causa, avrebbe operato una ricostruzione dell'accaduto congetturale, in quanto fondata su dati non accertati. La Corte non avrebbe tenuto conto delle dichiarazioni dell'imputato, il quale aveva riferito che i lavori di impermeabilizzazione del tetto, fino al giorno dell'infortunio, erano stati effettuati da lui, con l'assistenza di B.B. che sosteneva e teneva le corde della sua imbracatura, e che egli gli aveva impartito l'ordine di non operare da solo. Tutti gli elementi valorizzati dalla Corte, per ritenere che B.B. quel giorno stesse effettuando mansioni a lui affidate, non erano in realtà dimostrativi. L'istruttoria - secondo il difensore - aveva fatto emergere, al contrario, che B.B. era salito sul tetto di sua iniziativa e per giunta da solo e si era, in tal modo, autonomamente esposto al pericolo, con una condotta imprevedibile da parte del datore di lavoro e, perciò, tale da escludere il nesso di causalità tra qualunque omissione del datore di lavoro e l'evento lesivo in cui era incorso il dipendente.

2.2. Con il secondo motivo, ha dedotto la violazione della legge ed in specie della legge extrapenale (D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 115 e 148) e vizio di motivazione in ordine alla asserita totale assenza di sistema di sicurezza e prevenzione e di dispositivi individuali. I giudici di merito non avrebbero verificato se - in relazione allo stato di fatto effettivo e alla tipologia di lavori da effettuare in quota- l'impiego di sistemi di sicurezza e prevenzione (sistema anticaduta, funi di ancoraggio, tasselli di protezione, imbracatura) e di dispositivi individuali (caschetto di protezione) fosse giustificato in relazione alla breve durata di utilizzo o rispetto alle caratteristiche del luogo. Il difensore, a tale fine, ricorda che per i lavori temporanei in quota le protezioni collettive vanno necessariamente adottate solo laddove quelle individuali risultino inadeguate, così come chiarito anche dalla sentenza della sez 4 n. 5477 del 14/12/20174 nel caso di specie era stata dimostrata l'effettiva disponibilità e idoneità dei dispositivi di protezione individuali in capo alla Vi.MA (imbracature, funi, cordini), trovati dal teste di polizia giudiziaria sull'autocarro del A.A. il giorno dell'infortunio mortale.

2.3. Con il terzo motivo, ha dedotto la violazione della legge penale e, in specie, degli artt. 163 e 164 c.p. e il vizio di motivazione quanto alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena. La Corte avrebbe, in tal senso, dato rilievo al precedente specifico a carico dell'imputato, ma non avrebbe tenuto conto che, in occasione della precedente condanna, A.A. non aveva beneficiato della sospensione condizionale e che il reato oggetto di tale condanna avrebbe potuto essere dichiarato estinto ai sensi dell'art. 445 c.p.p., comma 2 non avendo A.A. commesso ulteriori reati nel quinquennio successivo.

3. il Procuratore Generale, nella persona del sostituto Felicetta Marinelli, ha chiesto rigettarsi il ricorso.
 

 

Diritto


1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

2. Il primo motivo, attinente alla affermazione della responsabilità sotto il profilo della sussistenza del nesso di causa fra condotta ed evento, è manifestamente infondato.

Il difensore assume che l'infortunio si sarebbe verificato a causa di una condotta abnorme del lavoratore, che di sua iniziativa avrebbe deciso di salire sulla copertura del capannone ed effettuare lavori di impermeabilizzazione, nonostante l'espresso divieto del datore di lavoro: a tale conclusione il difensore giunge sulla base di una differente lettura dei dati processuali.

A tale fine si deve ricordare che nel caso in cui il giudice di appello confermi la sentenza di primo grado, le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, purchè la sentenza di appello si richiami alla sentenza di primo grado e adotti gli stessi criteri di valutazione della prova (sez. 2 n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218). Sono, inoltre, estranei alla natura del sindacato di legittimità l'apprezzamento e la valutazione del significato degli elementi probatori attinenti al merito, che non possono essere apprezzati dalla Corte di cassazione se non nei limiti in cui risulti viziato il percorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e che sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. sez. 6 n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482).

La Corte di Appello di Ancona, in continuità con la sentenza di primo grado, ha dato conto delle risultane fattuali emerse dall'istruttoria, evidenziando che:

- sul tetto, nella parte in cui aveva ceduto una lastra di copertura era visibile un foro ed era presente un giubbotto; le lastre di copertura erano ammalorate ed in diversi punti già fessurate;

- per terra vicino al corpo del lavoratore, indossante abiti da lavoro e privo di caschetto di protezione, era stato rinvenuto il secchio contenente la vernice, ovvero l'isolante bituminoso di colore rosso che B.B. stava utilizzando per impermeabilizzare il tetto;

- D.D., titolare di un'altra ditta che operava all'interno del capannone e testimone dell'infortunio, aveva riferito che l'operaio era caduto portandosi dietro il secchio di vernice e che non aveva indosso alcuna imbracatura;

- il teste E.E. aveva dichiarato di aver visto, il giorno dell'infortunio (così come il giorno prima), arrivare, verso le ore 8.30, B.B. e A.A., che avevano affermato di dover finire alcuni lavoretti: insieme i due erano saliti sul tetto per mettere "della colla oppure qualcosa tipo di... qualcosa per non fare filtrare l'acqua" e, poi, sul tetto era rimasto solo C.C..

Sulla base di tali circostanze i giudici hanno dedotto che il lavoratore si fosse trovato sul tetto a verniciare la copertura con il bitume nella più totale assenza di sistemi di scurezza e prevenzione e di dispositivi individuali. Se fosse vero quanto sostenuto dall'imputato- hanno proseguito i giudici- ovvero che egli si fosse allontanato in quanto il lavoro non poteva essere completato a causa dell'umidità e avesse impartito direttive di "fare altro", ovvero preparare la guaina liquida da miscelare con l'acqua e pulire i bidoni, non si spiegherebbe come mai C.C. avesse avuto con sè il secchio con il bitume da spennellare. Inoltre i giudici hanno rilevato l'illogicità della ricostruzione per cui un operaio, descritto come esperto e attento ad osservare le prescrizioni, avesse disatteso gli ordini del datore di lavoro e deciso di completare da solo l'impermeabilizzazione del tetto.

3.2. La motivazione adottata dalla Corte nella parte ricostruttiva dell'accaduto, dunque, appare immune da censure: lungi dal fondarsi su congetture, le affermazioni dei giudici, sono ancorate a circostanze di fatto debitamente provate, mentre le valutazioni compiute in ordine alla irragionevolezza della versione difensiva si fondano su inferenze non illogiche.

Non vi è spazio alcuno, dunque, per qualificare la condotta del lavoratore come abnorme e, quindi, tale da escludere il nesso di causalità, tanto è vero che il ricorrente fonda tale assunto sulla prospettazione di una diversa ricostruzione dell'infortunio, inammissibile in astratto, per le ragioni anzidette e, comunque, nel caso concreto smentita dalle evidenze richiamate.

4. Il secondo motivo è manifestamente infondato.

Il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 detta la disciplina della condotta che deve essere tenuta dal datore di lavoro al fine di garantire la sicurezza dei lavoratori che devono eseguire lavori in quota. L'art. 1117, comma 1, lett. a), prevede che debba essere data priorità alle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale: la ratio di tale indicazione risiede nel fatto che i dispositivi di protezione collettiva sono atti ad operare indipendentemente dal fatto, ed a dispetto del fatto, che il lavoratore abbia imprudentemente omesso di utilizzare il dispositivo di protezione individuale. Anche la successiva disposizione dettata dall'art. 111, comma 4 cit., secondo la quale il datore di lavoro può disporre l'impiego di sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi solamente nelle circostanze in cui risulti che l'impiego di un'altra attrezzatura di lavoro considerata più sicura non sia giustificato per la breve durata di utilizzo ovvero per caratteristiche del luogo non modificabili, rafforza l'indicazione iniziale circa la preferenza del legislatore per i sistemi di protezione collettiva in relazione ai lavori in quota. Dalla disposizione contenuta nell'art. 111, comma 6, si desume, altresì, che solo l'esecuzione di lavori di natura particolare può giustificare l'eliminazione temporanea di un dispositivo di protezione collettiva contro le cadute che, in ogni caso, dovrà essere immediatamente ripristinato una volta terminato il lavoro di natura particolare. L'intero corpo di regole cautelari individuate dal legislatore per i lavori in quota indica, dunque, che i dispositivi di protezione collettiva sono da considerare lo strumento di maggior tutela per la sicurezza dei lavoratori, in quanto vengono indicati come prioritari tra i criteri da seguire nella scelta delle attrezzature di lavoro (in tale senso, da ultimo, Sez.4, n. 24908 del 25/05/2021, Polini, Rv. 2816801; Sez. 4 n 5477 del 14/1272017, Rv che in motivazione precisa "il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 111 non impone, per i lavori temporanei in quota, che non possono essere eseguiti in condizioni di sicurezza e in condizioni ergonomiche adeguate a partire da un luogo adatto allo scopo, l'adozione di misure di protezione collettiva, sancendo solo il carattere prioritario e preferenziale delle prime rispetto a quelle individuali").

Nel caso in esame la sentenza impugnata ha dato atto che il lavoratore deceduto stava lavorando in quota in assenza di qualsivoglia dispositivo di protezione, collettivo o individuale: non erano state previste linee vita e al momento dell'infortunio il lavoratore non indossava alcuna imbracatura. Rispetto a tale evidenza, le circostanze segnalate dal ricorrente sono ininfluenti. L'adozione delle misure, invero, è obbligatoria, indipendentemente dalla durata della lavorazione da effettuare, posto che il rischio caduta, come è evidente, si concretizza per il solo fatto di raggiungere una quota in altezza. Ininfluente è, altresì, sulla base della ricostruzione su cui già ci si è soffermati supra (secondo la quale A.A. e B.B. insieme si erano messi a lavorare sul tetto), la circostanza per cui la "Vi.Ma" disponesse di imbracature, funi e cordini, giacchè tali dispositivi di protezione non erano stati consegnati al lavoratore deceduto.

3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.

La Corte di Appello ha valorizzato il precedente specifico come ostativo alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, in quanto significativo ai fini della prognosi di ricaduta nel reato ai sensi dell'art. 164 c.p., comma 1.

Sotto tale profilo, non ha rilievo la eventuale estinzione della precedente condanna, giacchè il rigetto della richiesta del beneficio, nel caso di specie, è stato motivatovi non già in forza della preclusione ex lege, bensì della valutazione discrezionale demandata al giudice e, nel caso concreto effettuata in maniera non illogica, in ordine alla prognosi di futura commissione di altri reati.

6. Alla inammissibilità del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende, a norma dell'art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).

 

P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2023.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2023